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Archive for dicembre 2022


Attaccare il governo Meloni sul tema del fascismo significa rafforzare una leader che viene da dove viene, ma nega, rinnega e soprattutto sa che per i disperati vale un principio: “spes ultima dea“. Fratelli d’Italia e soprattutto Giorgia Meloni hanno avuto e hanno riferimenti indecenti, ma in due mesi sono stati capaci di competere persino con Harry Houdini. Oggi purtroppo si fa politica vendendo illusioni e vince chi riduce Agostino Depretis a un dilettante del trasformismo.
Per essere alternativi, a questo punto, occorre il coraggio di attaccare la NATO e chiedere di uscirne; bisogna accusare di tradimento chi affama la povera gente, dilapidando i pochi soldi che abbiamo per far guerra alla Russia; traditori tutti, Sergio Mattarella per primo; si deve puntare il dito sul minaccioso progetto del ministro Guido Crosetto, che prefigura apparati amministrativi ridotti a zerbini del governo; è necessario rispondere alla lotta di classe eversiva condotta dall’alto, ripagandola con la stessa moneta; non si può solo attaccare una politica che copre l’evasione fiscale, ma avere il coraggio di incitare allo sciopero fiscale chi non evade; è giusto ritenere sacrosanta la battaglia su lavoro. disoccupazione, precarietà e furto di salario, ma è giusto anche sapere che non si può vincere senza mettere al suo centro il tema della formazione, ridotta a fabbrica di soldatini del capitalismo, roccaforte del “pensiero unico”, al quale si formano i nuovi intellettuali.
Alternativo è oggi chi difende la libertà d’insegnamento in una scuola che restituisca a giovani intellettuali e lavoratori il significato profondo della parola diritto, perché chi non lo conosce bacia la mano al padrone che lo deruba.
E’ vero, c’è una crescente e pericolosa torsione autoritaria delle Istituzioni, ma essere alternativi non vuol dire strapparsi i capelli per un presunto, impalpabile fascismo, significa seguire la coraggiosa intuizione leninista e coinvolgere nella lotta non solo i lavoratori ancora consapevoli, ma anche i sinceri democratici.
Amen.

Agoravox, 2 gennaio 2023

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La mia giovane amica Adriana Pollice, valorosa giornalista, ha ricordato Antonio Amoretti sul “Manifesto”. E’ il miglior articolo che ho letto e sono certo che se potesse, il vecchio partigiano la ringrazierebbe.

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L’ho saputo presto, quasi in tempo reale e il respiro già corto per la polmonite, si è subito appesantito: Antonio Amoretti, l’ultimo partigiano combattente delle Quattro Giornate di Napoli ha raggiunto i compagni perduti negli anni. Non ho pensato di ricordarlo perché sono affaticato e soprattutto perché ho avuto la sensazione che la sua morte si inserisse quasi naturalmente nella traversata del deserto iniziata col Governo Meloni. Ho pensato che in fondo, portandolo con sé, la morte gli avesse fatto un dono. mi sono venuti in mente Valditara, le sue deliranti circolari e mi sono detto che il rischio c’era: partigiano e comunista, avrebbe potuto ancora raccontare ai giovani nelle scuole cosa fu il fascismo? Valditara sa quale debito ha la Repubblica con i comunisti come Amoretti?
Mi sono lasciato andare alla tristezza, ho provato una pena immensa per i tanti ragazzi che non potranno incontrarlo e per le grandi e semplici verità che non ascolteranno. Nel pomeriggio m’è venuto tra le mani un articolo di un quotidiano napoletano e qualcosa è scattata dentro di me. Non si possono scrivere tante sciocchezze di fronte alla scomparsa di un uomo di valore, che ha saputo farsi testimone dei grandi valori da cui – checché ne pensi Valditara – sono nate la Repubblica e la sua Costituzione. Quella sulla quale Valditara non s’è accorto che c’è la firma di Terracini.
Antonio Amoretti non ha mai avuto un “nome di battaglia”, ma era l’ultimo testimone vivente d’un verità sottaciuta, che ha sminuito il valore e il significato dell’insurrezione. Un silenzio ingiusto per una città medaglia d’oro della Resistenza, che ancora una volta si pensa di rapinare con l’Autonomia differenziata di Calderoli e dei suoi camerati: le Quattro Giornate di Napoli non furono né la rivolta degli scugnizzi, ne l’esplosione della rabbia “vesuviana”, di un popolo che si accende e si spegne come fuoco d’artificio. Amoretti fu figlio di antifascisti; il padre Francesco frequentava infatti le riunioni clandestine che si tenevano in casa di Francesco Lanza – dentista, ex confinato politico, anarchico, passato poi ai comunisti – e non scappò di casa per andare a fare l’eroe incosciente sulle barricate dell’insurrezione. Seppe dal padre che la città era pronta a sollevarsi e questo non è un dato marginale: significa che l’insurrezione non fu affatto spontanea ed era stata anzi “pensata” e organizzata.
Il padre non solo l’avvisò, ma gli consegnò la sua pistola di combattente della prima guerra mondiale. Il giovanissimo Antonio, un sedicenne di formazione antifascista, non ebbe dubbi e la mattina seguente prese posto tra i combattenti. Fece la sua parte, ma la partecipazione alla vita e alla vicenda storica della città, non si chiuse con il coraggioso intervento nella rivolta. Testimone oculare di una pagina importante della storia della città e del Paese, divenne “partigiano della pace”. Sangue ne aveva visto versare troppo, per non fare quella scelta. Attivo militante dell’ANPI, di cui divenne infine Presidente provinciale, portò in mille aule scolastiche il suo messaggio di antifascista, i suoi valori di democrazia, libertà e giustizia sociale e fu un autentico apostolo del pacifismo.
Lascia un vuoto che non sarà facile colmare, ma occorrerà pensarci e provare a riempirlo. Non avrebbe chiesto altro a noi compagni e amici che l’abbiamo amato e rispettato.

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Cinquantaquattro anni fa eravamo già insieme. Non potevamo esser certi di ritrovarci oggi come allora, ma ci siamo.
Non sempre è stato facile, però sei ancora la mia forza. Ti vedo vicina a me, quasi com’eri, gli occhi parlanti, preoccupati per l’apparecchio che misura l’ossigeno un po’ scarso nel mio sangue e spiega perché affanno. Ti vedo e finisce che faccio bilanci.
Non si tratta di soldi, no. Abbiamo lavorato e non c’è mancato il necessario, ma hai ragione: saremmo stati mille volte meglio, se non avessi rifiutato ogni occasione incompatibile con i miei principi. Pensi che ho esagerato, lo so, ci pensi per nostro figlio, ma tra noi questa non ne è stata mai una questione seria.
Da qualche tempo ti dico che non ho rimpianti e rifarei tutto quello che è stato. E’ che comincio a vacillare. Tu mi prendi in giro, ma lo sai che è vero.
Cinquantaquattro anni fa, quando ci siamo incontrati, decidemmo di fare io e te assieme il nostro viaggio e non sono pentito. Abbiamo vissuto come potevamo, ci siamo perdonati errori e incomprensioni e abbiamo tirato su assieme un figlio che vale un tesoro.
Questo penso, mentre sei indaffarata a preparare un’iniezione: non sempre è stata una passeggiata, ma sei stata e sei la luce dei miei occhi.

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Nasce a Torre Annunziata il 16 febbraio 1923. Figlio di proletari, eredita il soprannome di Paganiello dal padre, comunista e perseguitato politico, che muore quando il figlio ha quindici anni, sicché il ragazzo, pur continuando gli studi, deve lavorare. Nel 1939, espulso dalle scuole del Regno perché rifiuta di fare il saluto fascista, inizia un’attiva propaganda e conquista ai valori dell’antifascismo un manipolo di studenti e apprendisti.
L’incontro con Gennaro Fabbrocino, studente di medicina e figlio di un «sovversivo», avvicina i giovani ai testi di Marx e Lenin, che il nuovo compagno preleva dalla biblioteca paterna. Nasce così il gruppo clandestino «Karl Marx», guidato abilmente dai componenti del Comitato Esecutivo: Pagano, incaricato di procurare materiale tipografico, stampare volantini e badare alla propaganda, Paolo Longobardi, addetto ai rapporti col mondo operaio, e il Fabbrocino, che cura la formazione teorica dei compagni. Abile propagandista, Paganiello recluta subito nuovi soci poi, spinto dal successo, acquista a Napoli, dove non è conosciuto, caratteri di gomma per timbri e con essi forma il testo del primo volantino:

«Operai, fino a quando avrete la pazienza di sopportare le ingiustizie che vi vengono imposte? E’ ora di aprire gli occhi e mettere fine a questa situazione! Operai, svegliatevi e organizzatevi! Abbasso Mussolini! Viva la rivoluzione!».

Stampate 500 copie, il gruppo è pronto ad agire, ma un anziano comunista, informato del piano, osserva che quella propaganda farà arrestare i compagni adulti. I giovani bruciano i volantini, ma Ferdinando li invita a riflettere: è giusto tutelare i compagni, o occorre invece agire perché il «Patto d’acciaio», la retorica del «popolo guerriero» e la «cultura militare» inclusa nei programmi scolastici annunciano la guerra?
Convinto che solo spronando le coscienze si possa indurle a ribellarsi, il gruppo decide di agire, offrendo a giovani conoscenti libri proibiti dal regime. Chi propone un testo deve inserirvi una sintesi firmata e commenti su temi di attualità, che distrugge dopo aver convinto i compagni. A fine estate del 1939 Paganiello propone di far circolare un libro di Dumas intitolato «I quarantacinque», ma lascia incautamente nel testo commenti e sintesi firmata e la polizia lo arresta perché mette inspiegabilmente le mani sul testo. Uscito dopo due settimane – la polizia spera invano di scoprire i complici – Pagano propone un’audace attentato dimostrativo: incendiare la «Casa del Fascio», facendo cadere la colpa sui fascisti, scontenti per la sostituzione ai vertici del partito di Starace con Ettore Muti.
E’ sera e i piantoni stanno chiudendo, quando Pagano si infila nella «Casa del Fascio», incendia alcuni locali, brucia un ritratto di Muti, ma non tocca quello di Mussolini ed esce, calandosi lungo un palo della luce che fiancheggia l’edificio. L’OVRA, ingannata dal ritratto del Duce risparmiato, arresta due camerati sostenitori di Starace.
Ai primi del 1940, una prova di consegna di tessere annonarie per l’acquisto di generi alimentari e un’esercitazione  di oscuramento e mimetizzazione della città, spingono i giovani a dedicarsi alla propaganda contro la guerra imminente. Travestiti da fascisti, Pagano e i compagni entrano nei cortili dei palazzi, urlando frasi che discreditano il regime:

«Dio stramaledica inglesi e francesi! Dobbiamo distruggere questi due popoli, anche se ci dovrà costare la perdita di milioni di nostri soldati. Viva il Duce, abbasso Churchill! Viva la guerra, abbasso la pace!».

Andando via, cantano un truce inno fascista:

«Avanti arditi / le fiamme nere / son come simbolo / in folte schiere / […] pugnal fra i denti / le bombe in man!».

Essi mostrano così un regime fanatico, pronto a sacrificare migliaia di vite per gli interessi di chi si arricchisce con la guerra. Contemporaneamente parlano alle madri dei soldati, descrivendo stenti sofferenze e lutti causati da una guerra insensata alla quale occorre rispondere disertando:

«Madri, spose, convincete i vostri uomini a non dare una sola goccia di sangue per gli interessi dei capitalisti mercanti di armi, fomentatori e responsabili di carneficine. Nascondete i vostri uomini […]. Vadano in guerra i figli dei capitalisti criminali e sfruttatori».

Pagano non sogna diserzioni, ma crede che un’efficace informazione possa allontanare il popolo dal regime e smaschera perciò la retorica dell’amor patrio, foglia di fico sui turpi interessi per i quali si manda a morire una giovane generazione.
Intanto da gennaio 1940, Franco Berardi, a nome di alcuni liceali napoletani di idee monarchiche o repubblicane, contatta un giovane del «Karl Marx» e gli propone un lavoro comune a Napoli e Torre Annunziata. I comunisti lo ignorano, perché – si dicono – non può esserci intesa con borghesi estranei alla classe operaia; il confronto diventa inevitabile, quando uno studente, figlio di operai, pone il problema delle alleanze «che i comunisti avrebbero dovuto stabilire per perseguire l’abbattimento della borghesia». L’idea – spiega – l’ha trovata in un libro di Lenin nascosto in casa, L’estremismo malattia infantile del comunismo. La lezione del rivoluzionario diventa subito una bussola: lottare

«per il rovesciamento della borghesia internazionale […] e rinunziare in anticipo […] agli accordi e ai compromessi con eventuali alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionati) non è cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell’ardua scalata di un monte ancora inesplorato e inaccessibile, si rinunciasse […] a ritornare qualche volta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare direzioni diverse?».

Il gruppo comunista torna così sui propri passi. Il primo incontro avviene in un treno in sosta nella stazione della Circumvesuviana. Per il «Karl Marx» c’è Ferdinando Pagano, per i napoletani Adolfo Pansini, Franco Berardi e Gerosimo Typaldo. Divisi dalla fede politica, ma uniti dall’antifascismo, dopo un lungo confronto i giovani concordano

«lo scambio di materiale, la partecipazione congiunta alla diffusione di volantini, all’affissione di manifesti murali, […] agguati da tendere a noti e facinorosi fascisti e […] azioni […] di sabotaggio».

Giorni dopo, in un nuovo incontro, Pansini mostra a Pagano armi nascoste nei boschi dei Camaldoli rubate alla mostra della «Rivoluzione fascista» e decidono che Paganiello venga a Napoli tre volte alla settimana e contribuisca alla propaganda.
E’ così che i napoletani, stupiti, vedono autobus municipali circolare con strisce di carta e la scritta «A morte il Duce!» e tram dai cui predellini, all’apertura delle porte, volano via manifestini con scritte antifasciste che coprono i marciapiedi e spesso suscitano commenti positivi nei passanti incuriositi.
Mentre l’OVRA brancola nel buio, i gerarchi ricevono lettere minacciose, i militi fascisti, sorpresi in luoghi isolati, sono malmenati e a Piazza Garibaldi la fiduciaria dei Fasci femminili è ricoperta di escrementi. Dai rischi condivisi nascono profondi rapporti personali, sicché anni dopo il comunista Ferdinando Pagano ricorderà con ammirazione «i giovani napoletani […] per la temerarietà e i colpi di mano attuati» e di Pansini, caduto combattendo durante le Quattro Giornate, scriverà, che «era un giovane coraggioso, animato da profonda convinzione di lottare per una causa giusta».
Per mesi gli antifascisti sembrano inafferrabili, poi una cameriera trova una pistola e dei volantini in un cassetto di Pansini e lo denuncia. Il 25 maggio 1940 un’irruzione in casa del giovane consente il sequestro di armi e materiali usati per stampare. Le prove schiaccianti mettono fuori gioco il gruppo napoletano; di quello di Torre Annunziata, il 28 maggio 1940 è arrestato il solo Ferdinando Pagano che, condannato a otto mesi di reclusione in una casa di correzione e a 4 anni di sorveglianza speciale, finisce al Riformatorio di Catanzaro. Tornato libero, il 27 giugno 1941 giunge a Napoli, dov’è ammonito come persona pericolosa per l’ordinamento politico e sociale dello Stato e poi mandato a casa.
Assunto all’ASPERA, una fabbrica di spolette, si impegna in un rischioso lavoro di sabotaggio. Nel frattempo, grazie all’amicizia con Michele Prisco, giovane, ma già noto scrittore e figlio di un avvocato che cura gli interessi del Federale della città, la sera, accompagnato dallo scrittore, viola «i vincoli del monito» e prende contatto con i compagni del «Karl Marx».
L’11 settembre 1942, arruolato nel VI Reggimento Bersaglieri, di stanza a Bologna, vi resta fino all’8 settembre 1943. Giunta notizia dell’armistizio, convince alcuni militari a conservare le armi e stare uniti perché bisognerà lottare con fascisti e nazisti, ma presto il gruppo si sbanda e anche lui torna a casa.
Giunti gli Alleati a Torre Annunziata, Pagano e il gruppo del «Karl Marx» scovano e bastonano i fascisti. Si scontrano così con la linea della pacificazione scelta dal Comitato di Liberazione e dal PCI, che li definisce «squadristi rossi».
Assunto intanto dall’Ilva, Pagano scopre che, dei cinque membri della Commissione Interna, due sono ex fascisti e ne chiede le dimissioni, ma il 30 marzo 1945 il PCI prende duramente le distanze dal gruppo

«di giovinastri […] capitanato dal noto provocatore Pagano di Torre Annunziata, che non ha niente a che vedere col Partito Comunista e che anzi dal Partito Comunista già altra volta era stato denunciato come provocatore».

Benché il 90% degli operai firmi la richiesta di dimissioni, i due restano al loro posto e il 20 giugno l’Ufficio di Controllo Alleato fa arrestare il Pagano, che è l’anima della protesta. Il giovane resta in carcere quattro mesi e il PCI ne infanga la figura di antifascista e perseguitato politico, annunciando l’arresto del

«famigerato Pagano Ferdinando, capo della piccola banda di sobillatori che si è distinta in vari atti di provocazione a Torre Annunziata, Portici ed altrove e contro la quale noi avevamo messo in guardia l’opinione pubblica».

Per il momento, la repressione, la rottura col PCI e la crisi dei gruppi internazionalisti, non bastano ad allontanare il Pagano dalle lotte dei lavoratori. Nel 1952, assunto dalla Lepetit, una fabbrica di prodotti chimici, organizza la lotta per l’elezione di una Commissione Interna, ma è licenziato per ritorsione. Di lì a poco, pur vivendo di lavori saltuari, riprende gli studi e giunge prima al diploma, poi, nel 1960, alla laurea in Economia e Commercio; diventa così docente di ruolo di ragioneria e tecnica commerciale. Un lavoro che ama, perché lo aiuta a cogliere i cambiamenti di un Paese nato dalle lotte degli antifascisti, ma lontano da quello sognato negli anni tumultuosi della giovinezza, e lo mette a contatto diretto con i giovani, offrendogli l’opportunità di aiutarli a riflettere e valutare con senso critico e autonomia di pensiero.
Nel 1964, segretario della sezione del movimento comunista internazionalista di Torre Annunziata e corrispondente del giornale «Battaglia Rossa», tenta con alcuni compagni di attaccare uno striscione antifascista all’ingresso della locale sezione del Movimento Sociale Italiano, partito guidato di Giorgio Almirante, ex redattore della rivista razzista «Il Tevere», e membro del governo di Salò, diventato deputato della Repubblica dal 1948. Fermato da uomini del PCI che gli sbarrano la via, decide di stampare volantini con la scritta «Viva la dittatura del Proletariato […] che soltanto ha la capacità e la forza di distruggere il fascismo», ma è arrestato con l’accusa di aver

«effettuato la stampa di cinquemila volantini successivamente distribuiti in pubblico, con la quale si faceva propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura del proletariato sulle altre classi sociali, al fine di deprimere e distruggere il sentimento Nazionale».

Un’accusa aggravata da quella di violenza privata, ricevuta tempo addietro, per aver impedito a due impiegati della “Lepetit” di entrare nella fabbrica in sciopero. Dopo anni di battaglia legale, la stampa è costretta ad annunciare che l’amnistia ha salvato «un sobillatore». Pagano convinto ormai che antifascisti e democratici non siano diversi, scrive che

«gli uni e gli altri difendono il capitale: i fascisti a colpi di manganello, i democratici a colpi di maggioranza e minoranza, cioè macinando chiacchiere su chiacchiere al mulino del Parlamento».

Dopo le lotte del Sessantotto, si allontana dalla militanza attiva, ma pubblica notevoli articoli su «Battaglia Comunista» e segue le vicende degli internazionalisti. Nel 1985, quando sta forse scrivendo la sua autobiografia, la Questura rifiuta di fargli consultare il suo fascicolo personale, perché sugli atti che lo compongono «vige il segreto d’Ufficio».
Muore a Boscotrecase nell’ottobre del 2011.

Fonti e bibliografia

Archivio Centrale dello Stato, Roma (ACS), Casellario Politico Centrale (CPC), b. 168, f. «Aprile Alfredo», b. 1911, f. «Fabbrocino Pietro»; b. 2192, f. «Fuccio Aldo». EdoArdo Pansini, Goliardi e Scugnizzi nelle Quattro Giornate napoletane, Cimento, Napoli, 1946, passim; Ferdinando Pagano (Paganiello), Antifascismo e Antiantifascismo. Stessa storia anticapitalistica, due persecuzioni, La Femina, Torre Annunziata, 1988, passim; Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli, Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017, passim. In vista delle elezioni, «La Voce», 30-3-1945; Amnistia per l’insegnante comunista internazionale, «Roma», 10-12-1968.

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