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Archive for ottobre 2009

Testimoni
Liberale si definisce il nostro Parlamento nel suo insieme. Questo tornare al vecchio è segno distintivo dei nostri tempi nuovi. Fatta l’Italia, abbiamo finalmente gli italiani: cattolici, socialisti e comunisti all’ombra di Smith, del Fondo Monetario e delle guerre infinite e umanitarie. Imperando il mercato, non siamo più lavoratori produttori, ma clienti consumatori e, d’altro canto, come non esultare? Liberale fu Crispi con le sue leggi speciali, il suo colonialismo di retroguardia che ci condusse al disastro di Adua, e liberali, uno dopo l’altro, furono Rudinì e Pelloux con gli stati d’assedio e le leggi liberticide, liberale fu Bava Beccaris, decorato per il fuoco a mitraglia aperto su inermi morti di fame, liberali furono i giudici che seppellirono sotto secoli di galera e domicilio coatto socialisti e libertari. Liberale fu l’Italia delle stragi proletarie, l’Italia della Libia aggredita e della grande guerra, coi carabinieri che sparavano nella schiena ai combattenti e i centomila nostri soldati finiti in mano nemica e lasciati morire di stenti dal nostro governo perché la resa divenne diserzione. Tutti così moderati, borghesi e progressisiti, che val la pena ricordare ai neofiti del capitale la sorte dei dissidenti ai tempi dell’Italia liberale verso la quale stiamo ritornando.

Anarchica
Clotilde Peani nasce a Torino il 18 aprile del 18731, da una modesta famiglia di lavoratori, messa in ginocchio dalla crisi che investe l’economia europea, sconvolge il corso della moneta, frena bruscamente la “crescita” – araba fenice dei sacerdoti del “laissez faire” – ma non intacca l’incrollabile fede borghese nel mercato e nelle leggi del profitto. E’ in nome di questo credo che Marco Minghetti, deciso a colmare il disavanzo dello Stato senza rinunciare alle immancabili spese militari, come comanda la religione liberista, non trova di meglio che seppellire i lavoratori sotto una marea di tributi, esazioni e balzelli approvati da un Parlamento che ignota le imposte dirette, rappresenta esclusivamente se stesso e le classi agiate e si accinge a bocciare Scialoja e l’obbligo scolastico2.

Il destino ha leggi sue intangibili e, a rigor di logica, Clotilde, non ha scelta: figlia di povera gente, le tocca in sorte un futuro classista da sartina, che l’oleografia borghese vorrebbe “signorinella pallida,” rassegnata e persa nei ricordi di un vecchio “notaro”. A scuola dura poco, appena il tempo di imparare a leggere, scrivere e a far di conto, poi la miseria la conduce in fabbrica, dove cresce rapidamente. E’ poco più che adolescente, quando prende a frequentare i socialisti libertari e a diffondere volantini, giornali e opuscoli “sovversivi”, che legge avidamente, imparando ben presto a cogliere gli interessi nascosti dietro le belle parole dell’amor patrio3.

“L’era democratica non è a priori favorevole alle donne”, è stato scritto. E non a torto4. Mentre le utopie socialiste sembrano collocarsi ancora fuori della storia, “il lavoro delle donne è un luogo tanto di supersfruttamento quanto di emancipazione” e “la società politica uno di esclusione e di riconoscimento”5. Clotilde lo impara presto a sue spese. “Nubile, anarchica” e naturalmente “di cattiva condotta morale”, secondo le formule burocratiche e la concezione “reazionaria” della vita, tipica dei questurini nella “liberale” età di Giolitti, la giovane donna si sottrae, consapevolmente al cliché della “moglie fedele” e della “buona madre di figli”, ma anche in questo caso non ha scelta e fa “vita irregolare”: ha opinioni politiche che portano il segno del pensiero di Bakunin Merlino e Malatesta ed è fumo negli occhi per una società ingessata nei formalismi borghesi, che si proclama liberale, ma chiude in gabbia il dissenso e si lascia tentare dalle aberrazioni lombrosiane; un società che mostra di vivere la “Belle époque” con l’aria dissacrante del “café chantant”, ma diffida del sesso femminile, escluso dalla cosa pubblica e circoscritto nel limbo delle mura domestiche, e se ipocritamente ha per sante le madri e le sorelle, intimidisce le mogli e riduce le donne libere al rango di prostitute e cocottes. Né, d’altra parte, la libertà sessuale suscita entusiasmo tra i compagni di lotta: i rari casi di “amore libero” si sono risolti in maniera amara con le donne che si sono autoemarginate, “forse perché i compagni ne disprezzavano il corpo”, o hanno fatto scelte borghesi, sposando i loro compagni, sicché i libertari hanno trovato “nelle loro donne, che ne temono la perdizione, i primi avversari e sono perciò con esse sempre in contrasto”6.

Innamorata dell’anarchico romagnolo Dionigio Malagoli, va a vivere con lui “more uxorio”, come scrivono con aperto disprezzo i rapporti di polizia, poi lo lascia per il napoletano Giuseppe Di Domizio, un cartolaio anarchico conosciuto da tutte le questure del regno per le sue idee libertarie, e si stabilisce con lui a Londra7. Nella metropoli inglese, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento l’animo ribelle di Clotilde nasce a nuova vita tra i fermenti più avanzati dell’anarchismo internazionale, cui l’accostano la breve ma intensa amicizia che la unisce a Roberto D’Angiò e Giuseppe Ciancabilla, entrambi legati all’élite del movimento libertario francese e all’autorevole “Les Temps Nouveaux” diretto da Jean Grave8.

La donna che lascia la capitale inglese nel 1905 col falso nome di Angela Angeli ha intelligenza brillante e parola convincente, è una militante appassionata, una convinta antimilitarista e, soprattutto, è incompatibile con gli schemi della morale puritana e maschilista dell’Italia liberale e borghese. Passa abilmente tra le maglie strette del controllo poliziesco, fa giri di propaganda e si fa notare per le affollate conferenze, la passione libertaria e gli stretti rapporti che intrattiene col fior fiore del “sovversivismo” toscano. Fermata a Livorno e spedita con foglio di via a Napoli, dove l’attende Malagoli col quale s’è riconciliata, nel 1906 è già tornata alla militanza politica9. Coperta da un falso nome – ora si chiama Angiola Mallarini – è segnalata al circolo “Germinal” di Pisa, a Roma, Milano, Londra e Parigi, e ovunque prende contatti con nuovi compagni, ovunque contrasta sterili ribellismi, sostenendo la necessità di rispettare le decisioni adottate ai congressi, ovunque fa circolare stampa antimilitarista. “Come donna” – riferisce a Roma un questurino – “è pericolosa, perché suscita eccitamento tra la folla e con la sua audacia può trascinare i compagni”.

In realtà, non è facile fermarla, sicché a poco a poco la mancata sartina percorre per intero il cursus honorum dei più temuti compagni, sicché, a dicembre del 1910 si merita l’etichetta di sovversiva pericolosa.10.

I colpi prendono a giungerle ora violenti, uno dietro l’altro. Non ha ancora  cinquant’anni, quando, in rapida successione, la stretta repressiva causata dalla guerra e il fascismo, che allunga ormai la sua ombra implacabile e nera sul paese prostrato, la costringono a fare “vita ritirata”. Non è ancora una resa incondizionata se, nel 1925, tuttavia, il regime, che va perfezionando il sistema repressivo ereditato dallo stato “liberale”, è costretto a prendere atto: la donna, benché “tormentata da seri problemi di salute che spesso la tengono a letto”, non “dà segni di attività politica”, ma “resta fedele all’anarchia11. A quel punto, poiché l’oppressiva sorveglianza e le ripetute e intimidatorie perquisizioni domiciliari non bastano a piegarla, giungono “provvidenziali” – tra i sovversivi è ormai un’epidemia – i “segni di squilibrio mentale” che chiudono la dolorosa partita col fascismo e aprono a Clotilde le pesantissime porte dell’ospedale psichiatrico provinciale di Napoli12. Nel calvario inatteso che l’attende, la donna non sarà sola. Come per una misteriosa predisposizione, un inspiegabile legame tra pazzia e sovversione, la donna incontrerà compagni di fede e di sventura e qualche smarrito “oppositore occasionale”, sepolto a vita per una frase sfuggita nel vino e nell’ira. Teresa Ravanello, che giungerà anni dopo, è solo la tenutaria d’un bordello. Ascoltando Mussolini parlare alla radio e minacciare guerre, non ha saputo frenare l’invettiva: “Parla, lui parla, fa i discorsi ma siamo noi che paghiamo le tasse”. Un anno di confino fatto di ribellioni, prepotenze e un feroce repressione, poi, com’è accaduto a Clotilde, come accade a molti di quelli che non si piegano, l’ha presa una follia inopinata, “un delirio cronico d’interpretazione” che non si spiega con le nozioni della scienza medica; come talvolta accade, è una pazzia che cova proditoria nell’ombra, senza dar segno della sua esistenza e d’un tratto cresce ed esplode. Il passaggio obbligato, però, sta nelle pieghe buie d’un regime che non sopporta asimmetrie, non accetta “sbandati” e “irregolari”, non tollera dissensi e conduce fino all’estrema disperazione chi prova ad opporsi. In quei tragici corridoi si aggireranno con la Peani Tommaso Serino, un disoccupato sorpreso a far propaganda contro il regime e improvvisamente “impazzito”, e il sellaio Salvatore Masucci, socialista libertario, che ha affrontato armi in pugno i fascisti e non ha avuto scampo: dopo anni di confino, carcere e fughe all’estero, è finito al manicomio civile e ci ha trovato la morte civile. Assieme a loro l’anarchico Vincenzo Guerriero, un irriducibile, passato per Ustica, Tremiti, Ventotene, Pantelleria e Santo Stefano, uno che la polizia liberale ha sbattuto in galera e manicomio con Crispi, Rudinì e Giolitti, ma non s’è arreso finché stenti, fatica e solitudine non l’hanno schiantato e ormai – scrivono i questurini – non è “più in grado di concepire e manifestare qualsiasi idea e tanto meno di natura politica”13.

E’ il 1930: Parigi, Londra, le conferenze, la stampa libertaria, tutto per Clotilde Peani si è fatto incredibilmente lontano e a poco a poco si spengono l’intelligenza brillante e la passione militante. L’Italia è un paese guerriero e i liberali, passati in massa nelle file fasciste, hanno bisogno di libertà di manovra sicché, dove non sono bastati il manganello e l’olio di ricino, tornano utilissimi il manicomio, la camicia di forza e i farmaci convulsivanti.

L’ultima notizia certa su Clotilde Peani risale all’agosto del 1942: è ancora ricoverata e tutto lascia credere che abbia chiuso i suoi giorni in manicomio14. A Napoli, a Port’Alba, dove a lungo trascorse i suoi giorni, né un fiore né un marmo ricordano ai giovani che passano il suo nome e il suo impegno per un mondo migliore.

Note

1] Achivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, (d’ora in avanti ACS, CPC) busta (di questo momento b.) 3797, fascicolo (d’ora in poi f.) “Clotilde Peani”, cenno biografico al 24-3-1905.

2] Sulla politica economica di Minghetti e sul suo ruolo di uomo di governo della Destra, Raffaella Gherardi, L’arte del compromesso. La politica della mediazione nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna, 1993; Aldo Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Bologna, Il Mulino, 1997. Massimo M. Augello e Marco E. Laura Guidi, Gli economisti in Parlamento 1861-1922. Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale, Franco Angeli, Milano, 2003. Antonio Scjaloia ministro dell’Istruzione Pubblica nel governo Lanza dall’agosto del 1972, fu confermato nel secondo Ministero Minghetti, ma si dimise il 6 febbraio 1874 per la mancata approvazione del suo progetto sull’istruzione elementare obbligatoria. Costituì una commissione d’inchiesta sulla scuola che raccolse una preziosa mole di documenti, oggi conservati nel l’Archivio centrale dello Stato. In proposito si veda Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Fonti per la storia della scuola, IV, L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875), a cura di Luisa Montevecchi e Marino Raicchi, Roma 1995. Sulle politiche scolastiche dell’Italia postunitaria si veda Francesco Cormino e Giuseppe Aragno, Il giacimento in fondo allo stivale, Scuola e cultura nel Sud, Laterza, Roma-Bari, 1997.

3] ACS, CPC, b. 3797, f. “Clotilde Peani”, cenno biografico, cit.

4] Geneviève Fraisse e Micelle Perrot , Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, Economica Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 4.

5] Ivi.

6] Archivio di Stato di Napoli, Questura, Gabinetto, II Serie, 1881-1901, b. 128, f. “Associazioni sovversive”, nata n. 2887 del 15-6-1894.

7] ACS, CPC., b. 3797, f. “Clotilde Peani”, cenno biografico, cit.; ACS, CPC, b. 2946, f. “Malagoli Dionigio” e b. 1781, f. “Di Domizio Giuseppe”

8] Ivi, b. 3797, f. “Clotilde Peani”, cenno biografico, cit., b. 1612, f. “D’Angiò Roberto”. Su Giuseppe Ciancabilla e Roberto D’Angiò, si vedano Nunzio Dell’Erba, Giornali e gruppi anarchici in Italia 1892-1900, Franco Angeli, Torino, 1983, passim e le schede curate rispettivamente da Alessandro Luparini e Mario Mapelli per il Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Serantini, I, Pisa 2003, diretto da Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele, Pasquale Iuso, pp. 393-396 e 489-490.

9] ACS, CPC., b. 3797, f. “Clotilde Peani”, cenno biografico, cit.

10] Ivi, nota senza numero del 21-12-1910 da Prefetto di Napoli a MI.

11] Ibidem, nota senza numero del 4-12-1925, da Prefetto di Napoli a MI.

12] Ibidem, nota n. 12365 del 27-11-1930 da Prefetto di Napoli a MI.

13] Per la vicenda della Ravanello e di Masucci, Guerriero e Serino, si vedano Archivio di Stato di Napoli, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 48, f. “Relazioni mensili 1937”, sf “Relazione maggio”, nota 103319 del 26-5-1937 da Questore a Prefetto, e ACS, Confino Politico, Fascicoli Personali, b. 765; CPC, b. 2576, f. “Guerriero Vincenzo”, b. 3148, f. “Masucci Salvatore”; Rosa Spadafora, Il popolo al confino, La persecuzione fascista in Campania, I, Athena,  Napoli, 1989, pp. 317-318 e 376; Giuseppe Aragno, biografia di Guerriero Vincenzo in Maurizio Antonioli, Giampiero Berti, Pasquale Iuso e Santi Fedele, Dizionario biografico degli anarchici italiani, I, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003, p. 781, e Idem, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Manifestolibri, Roma, 2009, pp. 14-15 e 148-149.

14] ACS, CPC, b. 3797, f. “Clotilde Peani”, nota senza numero del 24-8-1942.

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Disarmato

tempdt[1]Com’era accaduto col manganello della celere, anche la spranga e il coltello mi sorpresero disarmato. Stavolta, però, la violenza subìta scatenò i mostri che ogni uomo si cova dentro dalla notte dei tempi e l’inattesa tempesta mi colse impreparato.
Accade spesso del resto: la prima volta che incontri una bufera sul mare aperto non la riconosci e ti pare solo un curioso gioco di luci ed ombre, un movimento anomalo sulla curva dell’orizzonte. A poco a poco, però, un gregge numeroso e compatto irrompe tra cielo e mare e ti corre velocemente incontro. E’ un momento: squarci di cielo livido si fanno rapidamente strada nell’azzurro rassicurante ed un vento salato, forte e tagliente ti prende d’infilata. Quando la luce del giorno si fa elettrica ed il mare, nero come l’inchiostro, ti si alza davanti minaccioso, cavalcato dalla schiuma bianca che fluttua sulla cresta delle onde, finalmente capisci: la prua ti spinge dentro la bufera e non c’è più rimedio. Se non governi, la barca cola a picco.
Governai allora, aggrappato al timone, nel vento del mare in burrasca, senza avere una rotta da seguire.
Governai d’istinto, e salii più volte su in alto superando montagne d’acqua con un grido di gioia, più volte vidi la prua precipitare in basso, verso l’abisso spalancato tra muraglie ribollenti e più volte il mare mi passò sopra la testa.
Governai, finché la breve storia d’un compagno non s’intrecciò con la mia e fu la stella che segnò la rotta.
Conoscevo da anni Luigi Capone, ma sapevamo poco l’uno dell’altro, sebbene il viso spigoloso sotto i lunghi capelli lisci e corvini, gli occhi neri perennemente accesi da lampi di passione e la figura ossuta e doppia che esprimeva una forza raccolta e soffocata mi fossero da tempo familiari. Avevamo frequentato insieme, tra topi e scafisti, un collettivo di studenti e lavoratori che teneva riunioni semiclandestine al Borgo Marinaro. A Cava dei Tirreni, in una bella villa umbertina, ci eravamo incontrati più volte con un torinese che arruolava soldati brigatisti, poi ci eravamo persi di vista.
La rivoluzione non si fa senza la gente – avevo ripetuto ostinatamente nel nostro ultimo incontro col torinese. Poi via.
Ognuno per la sua strada, mi ero detto.
La strada di Luigi s’era fermata tre mesi dopo. Un colpo di pistola d’un carabiniere poco fuori Roma.
Quando il telefono squillò, mia madre se ne andava avanti e indietro nel buio della camera da letto con l’eterna sigaretta in bocca, trascinando i piedi nelle vecchie pantofole di stoffa consumata. Da molti mesi il suo mondo era lì, in quella stanza perennemente scura e affumicata, e tutto quello che potevo fare per lei l’avevo già fatto.
Mentre lasciavo Nolte e i suoi “volti del fascismo”, per rispondere al telefono, non potevo saperlo, ma il prezzo che avrei pagato per quella tragedia scura che mi si agitava davanti in maniera ossessionante, era già tutto nella stretta violenta che avvertivo al diaframma.
Sì?
Sei Geppino? sentii urlare dall’altro lato del telefono. La voce mi colpì: l’avevo già sentita.
Sì, sono io, risposi. Ed aggrottai la fronte.
Ascoltami bene, e non fare troppe domande – cominciò lo sconosciuto senza smetterla di urlare – non c’è molto tempo…
Non c’è dubbio – pensai mentre ascoltavo – è il brigatista venuto da Torino.
Ricordi la villa di Capone a Cava dei Tirreni?
Certo, che mi ricordo, ma…
Niente ma – m’interruppe – sta zitto, sei in un casino. Poco fa – proseguì, ed ora non urlava – il tuo amico è morto. Gli hanno sparato… i carabinieri…
Morto – lo interruppi con la voce spezzata – ma che dici? Chi sei?
Proseguì, come non avessi parlato:
Nella sua villa c’è un’agenda. Prendeva appunti e ci sei dentro anche tu…
D’un tratto mi accorsi della violenta tensione che mi irrigidiva il diaframma. Poi, mentre la linea cadeva, le ultime parole aprirono ferite nella mia mente:
Prima di domani non ci arriva nessuno. Devi distruggere quell’agenda.
Come in un incubo, accesi la radio. Mia madre non camminava più nella sua stanza buia e mi guardava, piccola nella camicia da notte diventata enorme per il suo corpo rinsecchito. La conferma giunse come uno schiaffo:
Come abbiamo già detto nel precedente annunzio, un giovane non ancora identificato, che viaggiava con un’alfetta, è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri. Un compagno, che lo seguiva in motocicletta è riuscito a far perdere le sue tracce. Nessuna dichiarazione ufficiale, ma tutto lascia credere che si tratti di un terrorista.
Scagliai la radiolina contro il muro, mandandola in frantumi e mi trovai di fronte mia madre, uscita d’improvviso dalla stanza in cui da mesi aveva confinato se stessa e i fantasmi che le facevano guerra. Dritta, per quanto potesse drizzarsi con quella sua figurina smilza e nervosa, ferma, senza quel tremito feroce che da mesi non le dava più requie, mi si parò davanti e mi sembrò che tutto ciò che avesse di vivo si fosse concentrato in quegli occhi azzurri ch’erano stati d’una bellezza struggente ed avevano ora un che di diabolico che incuteva timore.
Hai visto se sono pazza? – domandò con la voce insinuante del suo eterno delirio – Hai visto? Io ti ho avvertito, te l’ho detto che è gente pericolosa – insistette sillabando – Pericolosa! Tutta colpa di tua padre. Ora può essere contento -concluse -e mi dispiace per te che non mi hai voluto ascoltare. Lo vedi che il pazzo vero è tuo padre?
Conoscevo a memoria il filo di quel ragionamento che riconduceva ogni avvenimento ad una banda di delinquenti messa su da mio padre per farle del male. Banda pericolosa, che tutto sapeva e di tutto reggeva i complicati fili. Banda sterminata, che cresceva di giorno in giorno e reclutava ancora, ovunque e sempre: il mondo intero ormai si affiliava e non bastava.
Mentre le lacrime mi bagnavano il viso e un tremito di febbre mi scuoteva e mi rimpiccioliva, le carezzai il viso pallido e sconvolto e, in un lamento ferito e sconvolto le sussurrai dolcemente: Hai ragione, mamma. Ma ora la facciamo finita.
No! – urlò disperata – non uscire! Sono troppo forti figlio mio! Non uscire!
Urlava ancora, quando mi tirai la porta alle spalle senza girarmi, mi strinsi nel giaccone rabbrividendo per il freddo umido che veniva dal bosco e affrontai le scale ignorando il tremito agitato che le indeboliva.
Capodimonte affondava in una nebbiolina notturna che rendeva spettrali le poche luci del castello di San Martino, mentre la mia vecchia Fiat Ottocentocinquanta, grigia e malandata, a malincuore si rassegnava a seguirmi sulla stretta e pericolosa via di Salerno: aveva sempre pagato con sofferenze terribili l’inconciliabile dissenso tra le mie scorribande notturne e la miopia che nessuna lente ha mai corretto bene.
La vecchia autostrada mi accolse senza particolare attenzione. Misi quanta benzina potei con i soldi che avevo, lasciandomi in tasca gli spiccioli, e pregai che bastasse, poi la lunghissima e scura curva della zona industriale mi colse impreparato, assorto in pensieri tumultuosi. Frenai nel peggior modo, immaginai preoccupato l’affanno doloroso dell’auto – tu cammina stasera! le ingiunsi perentorio – poi la strada sparì dalla mia testa.
Credere o non credere, pensavo, conta poco. Devo andare…
Ma non sapevo bene perché dovessi.
A Luigi non volevo pensare. Cosa sia la morte, quando coglie così improvvisa, non è facile sentire fino in fondo, soprattutto se chi muore non è ti è così caro da farti stare davvero molto male e, per il resto, spesso non sai se sogni, non sai se aver paura o essere felice, non sai cosa fare e ciò che fai non ha senso. L’intera nostra vita se ne va via così: cogli tardi il valore delle cose immense, sciupi la tua attenzione sui particolari. Non te ne accorgi – no, davvero non puoi – ma c’è sempre una lente deformante attraverso la quale passano le tue sensazioni immediate.
Di ciò che avvenne davvero a Waterloo oggi sappiamo molto meglio noi, che i disgraziati impegnati nella grigia giornata. E questo non vuol dire che chi fece la battaglia non la visse. Ognuno a suo modo, come ognuno a suo modo, tra chi sopravvisse, di certo raccontò la sua battaglia, sicché ci furono migliaia di Waterloo e forse nessuna.
Mentre correvo nel buio, la strada s’era fatta finalmente presente nei miei poveri occhi affaticati e nella testa che provava a stare assieme alle ruote: in qualche modo bisognava pure ritrovarla quella villa, della quale ricordavo gli orribili fronzoli, la curva non segnalata che si apriva sul viale d’ingresso non appena si entrava a Cava e l’inspiegabile scritta latina – parva sed apta mihi – che salutava gli ospiti e, date le dimensioni, celebrava il trionfo della relatività.
Più andavo avanti, più mi abituavo al buio della notte, più netta si faceva la sensazione di estraneità: non io correvo – così decisamente mi pareva – non io avevo paura di essere accusato di terrorismo, non io lottavo per evitare un naufragio, non io mi ponevo le mille domande sul destino degli uomini e sul corso della storia.
Accade tutto dopo. Dopo sai di te. Dopo trovi risposte. Dopo raggiungi la riva. Ma hai lasciato buona parte di te nella tempesta.

Uscito su “Fuoriregistro” il 27 marzo 2004

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Non ne parlo. Salto a piè pari il fosso dei temi dominanti: “escort“, calzini e bisogni sessuali di politici e giornalisti. Non faccio distinguo e non generalizzo. E’ su questa via che si tende a costringere la riflessione. Non so né voglio sapere se il caso sia diverso, se in fondo “questo è il mondo“, se il più bravo è chi lascia o è migliore chi resta.
Non è questo che conta.
Il tragico fango di Messina è povera cosa di fronte alla melma in cui stiamo affondando. Politica e sesso hanno avuto da sempre rapporti più o meno stretti. Per Cleopatra Marco Antonio perse tutto, l’onore, la gloria e la vita; le regine sopportarono “favorite” e “cocottes” e i sovrani ignorarono amanti e cicisbei. In America un Kennedy si giocò la presidenza, ma gli americani, per ritornare ad oggi, non hanno consentito a nessuno di seppellire sotto un letamaio la bandiera a stelle e strisce solo perché la “stagista” Monica Lewinski aveva avuto rapporti sessuali col presidente Clinton. Qui da noi, al contrario, c’è chi spinge il Paese nel fango e non ci ribelliamo.

La cronaca è breve e giova ricordare. Per un caso che è stato solo personale, la moglie del Presidente del Consiglio, tradita, delusa e nauseata, ci mette sull’avviso: attorno al marito ruota un meccanismo di scambio diffuso, efficiente, capillare e collaudato. Sesso in cambio di carriere politiche, spasso e scialo per un successo televisivo. Ed è stato subito chiaro: qui da noi, il cuore del problema non sono “stagiste” e prostitute, ma la prostituzione del Paese. Qui da noi, il Presidente del Consiglio non è solo un capopartito che guida la maggioranza, ma anche un fior d’imprenditore, un editore ingordo e straripante e l’imputato perenne in processi per corruzione. Il cuore del problema, qui da noi, sono le conseguenze di questa aberrazione.
Clinton, negli Usa, messo in croce, confessa la sua relazione, ma non azzarda la reazione. Non ci prova. Qui da noi, con una protervia senza precedenti, l’imperatore in un primo tempo prova a negare l’evidenza sconcia, poi decide di cambiare le carte in tavola e dimostare che lo sconcio è la norma. Se non si può negare, meglio allora esaltare. Un’armata di spie, velinari e maestri della disinformazione prende così a lavorare per costruire l’immagine d’un capo che è marcio solo perché la regola è il marciume. E’ l’ora del “big brother“, il fratello maggiore. Un “Grande Fratello” permanente esce così in edizione straordinaria, confonde dai teleschermi il virtuale e il reale e tutt’intero un Paese diventa protagonista d’una indecente rappresentazione. Giorno dopo giorno, impotente di fronte alla sperimentata capacità ipnotica di monitor e conduttori, il cittadino, ridotto a suddito telespettatore, assorbe il veleno che, in un’unica dose, potrebbe ammazzarlo e, goccia a goccia, invece l’immunizza.
Annichilita la coscienza critica dalla successione preordinata degli scandali quotidiani, non si salva nulla e presto ce n’è per tutti. Vecchie foto discinte della moglie del premier servono a screditare l’idea stessa della moralità, mentre sordide storie prendono a circolare in forma di minacciosa barzelletta. L’invisibile manganello si abbatte con violenza inaudita sulla capacità di ragionare. Tutto è confuso e tutto si confonde; per ogni regola sono pronti un’accusa e una dose devastante di olio di ricino virtuale. Si mesta nel fango e l’aria si appesta: se una donna non si vende è un prodotto scadente, il giudice che non si compra è una “toga rossa“, un uomo che pensa con la sua testa è il solito “moralista veterocomunista”. Il modello ideale è il neofascista di Piazza Navona. Va di moda Corona dopo la carcerazione e il terreno è infine spianato, quando sotto i riflettori fa rumore il primo caso esemplare: il direttore di un giornale d’opposizione fatto a pezzi pubblicamente sulla scorta di carte e documenti “compromettenti“. Lo scandalo, montato ad arte, turba qualche coscienza e accende discussioni, ma nei salotti buoni della televisione medici prezzolati, accorsi al capezzale della democrazia, spiegano ai sudditi spettatori la loro accativante terapia da talk show: “chi non ha peccato, scagli la prima pietra…“.
Il Paese si adagia, la coscienza critica vacilla e una doppia morale afferma i suoi diritti. “Sì, però…” è la formula ricorrente e, se qualcuno fa ancora resistenza, d’improvviso ecco in luce meridiana i magistrati. Si scava nelle amicizie, si pubblicano conversazioni private, si fanno illazioni su quelli pubblici, si passano al microscopio le frequentazioni. Tutto contribuisce a far crescere il fango che ci insozza e c’è chi fa notare: “ognuno ha i suoi vizi, vedete?“. Uno stuolo di professionisti della guerra psicologica e dello spionaggio ci tiene d’occhio, ci scandaglia, vigilia, scava, scarta, sorveglia, raccoglie documenti, conserva dossier. E se quattro cialtroni in divisa, manovrati da misteriosi pupari, possono mettere in scena il ricatto dei transessuali per pugnalare un avversario politico del “Grande fratello“, il corpo del Paese mitridatizzato non si rivolta. Assuefatto al veleno, l’uomo comune si congratula addirittura con se stesso, strizza l’occhio all’amico e gli batte la mano sulla spalla: “la politica è questo, io l’ho sempre saputo. Tutti uguali, tutti corrotti. E sai che ti dico? Fanno bene, si vive una volta sola e farei come loro“.
Sono tutti convinti: il meglio della vita sta nella corruzione a viso aperto, nell’orgia dichiarata, nel successo assicurato a chi passa dal banco degli accusati al Parlamento. Ormai è l’imputato a segnare il confine tra il lecito e l’illecito di fronte al giudice intimidito. E non sembra esserci scampo: la lotta è per la vita. Darwin, che se ne intendeva, ha osservato che “quando una specie, grazie a circostanze oltremodo favorevoli, aumenta disordinatamente di numero in un piccolo territorio, spesso sorgono epidemie“.

Uscito su “Report On Line” il 28 ottobre 2009 e su “Fuoriregistro” il 29 ottobre 2009

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Svelamento

Limitare del giorno.
Ombra è la sera, tutto tace intorno
e alone rosso cenere è il tramonto.
Il giorno fa alla notte il suo racconto:
nell’ordine perfetto del creato
c’è un bambino malato.
E’ un brivido, è il fremito d’un momento,
è un sole che s’è spento,
un buco nero là nel firmamento,
un batter d’ali, un flebile lamento.
La morte infine appare svelamento.
Di stella in stella, va, corre la voce,
vola il messaggio atroce.
Se canta il cielo la divina gloria,
urla per noi la storia
dall’ombra della terra con furore:
Dio creò l’uomo d’argilla e di dolore.

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Luigino Biliandi aveva avuto dalla natura il dono invidiabile e, in verità, meno raro di quanto si creda comunemente, d’una notevole propensione alla moderazione nel campo spinoso delle occupazioni redditizie, che i più sono soliti indicare, assai superficialmente, col nome ben più grave e serio di lavoro.
luigi1[1]
Era nato, è vero, in “terre di spopolamento – come aveva letto una volta in un libro del fratello che faceva l’università a Salerno – ma portava nel suo giovane cuore di uomo del Cilento un ottimismo “anomalo” che, per dirla in breve, stava tra il non ben meditato e il superficiale – almeno così pensavano i più – e che, in un modo o in un altro, la vinceva persino sulla dottorale sapienza di suo fratello. D’altro canto, perché mai avrebbe dovuto essere pessimista o nutrire sospetti uno come lui, che, sfuggendo a un destino grigio, che si sarebbe consumato tra case ridotte a pietraie, andava incontro a un lavoro sicuro e già “assegnato“, come gli aveva assicurato in una lettera un suo vecchio amico ormai “milanese“?
Eppure, a sentir le ciance di suo fratello, le cose stavano proprio così e c’era da star con tanto d’occhi aperti:
Ma ti pare che lassù aspettano te per un lavoro buono? Luì, chissà che sarà!luigi2[1]
E se Luigino a questo punto tirava in gioco la sua sostanziosa propensione ad ogni genere di lavoro sicuro – che nasceva probabilmente dal non averne potuto trovare mai nemmeno uno – e se poneva l’accento a suo modo su quel particolare, assai piccolo e però notevole, che lì, in paese, se la poteva solo fare con vecchie o donnette, ad aspettare l’abbacchiatura e far giusto il soldo per rischiare un colpo a bocce su un quartino, sicché tra l’alba e il tramonto stava sempre a cercare il modo di girare per sentirsi vivo, ecco, se lo faceva, il fratello sbottava e assumeva un tono alto, che alla fine sfociava immancabilmente in uno stridulo falsetto:
La libertà! Luì, chi emigra se la gioca, la libertà! Tu qua in un modo o in un altro non ci campi? E stacci, sta a sentire a me, che di sopra ti comprano la pelle.
Non fosse stato suo fratello – e se un certo rispetto per i libri che studiava non l’avessero tenuto – Luigi un bel calcio indietro gliel’avrebbe dato di gusto, magari per dispetto e per dirgli in un suo modo paziente:
Ma chi ti ha mai detto che a me così pare di stare libero?
Luigino aveva una sua precisa filosofia sul lavoro.
– Fatica – diceva spesso – è la nostra, quella che facciamo a schiena rotta e senza pace, senza un’ora buona o una festa che conti. Solo per rimanere in piedi e respirare, così poi torni a faticare. Lavoro è una parola diversa e complicata. Non lavora, questo è certo, non lavora chi pareggia coi soldi che prende quello che spende e non gli resta che ripetere la stessa storia tutti i giorni. Uno così fatica e muore. Se poi uno si trova una lira in più quando fa i conti, bene: così non è lavoro: è gioco. Uno così è felice. Lavoro – diceva Luigino – è una parola che non dice niente. Ci sono solo il gioco e la fatica. Che fai? Ti danni per una cosa che non ti dà quanto ti serve e lo chiami lavoro? Quella è disperazione…
Come molti di coloro che hanno la consapevolezza d’essere nati e cresciuti tra le incertezze di fatiche che non bastano a garantire la tranquillità e che non pagano per quanto vogliono, Franco, il fratello di Luigi che aveva studiato, sentiva un’assoluta diffidenza per ogni speranza e per ogni disperazione. Non era rassegnato, perché per esserlo occorre aver sperato, e non era vinto perché non aveva lottato. Era, diceva Luigino, un “teorico“, uno che non capiva la pace dell’animo di quel suo fratello contadino ignaro del sottosviluppo e dello sfruttamento, e non si spiegava come facesse a risolvere ogni questione con quella sua strampalata filosofia tutta “individualismo piccolo borghese” e “isolazionismo gretto e contadino“. Uno che finiva sempre con l’accontentarsi d’una “presa per il didietro” che gli assicurasse il minimo di sicurezza materiale. Tutto questo irritava Franco, specialmente quando s’accorgeva di quanto fossero insufficienti la sua “scienza” e la sua consapevolezza delle cose, quando si trovava ad imporle a quel cocciuto contadino. Per qualunque verso s’era mai provato a prenderla, quella faccenda gli era sempre sfuggita di mano. Non aveva null’altro da opporre che chiacchiere a quella sorta d’antica fame di stabilità che c’era nel petto, per tutte le altre cose tranquillo, di Luigino.
Aveva un bel dirgli, quand’era a corto d’argomenti:
Ma tu non ti trovi costretto! Avessi almeno famiglia o che so io…
Benché ci fosse in lui anche la speranza segreta d’insinuare non so che tarlo moralistico in seno al contendente, era troppo intelligente per non capire da sé che aveva un gran bel torto. Torto marcio. Luigi se ne andava e faceva bene. In momenti così Franco si chiedeva se tutto non accadesse davvero per una sorta di condanna ineluttabile, si sentiva impossibilitato a reagire e talora, in squarci di luce sinistra, gli si apriva dinanzi la visione dalla secolare malformazione sociale della sua gente.
Come gli altri, Luigi dimostrava di non possedere quella che Franco, con tono grave, chiamava “coscienza di classe“.
A sentire Franco, quell’assenza garantiva la sopravvivenza dell’ingiustizia e, con essa, degli uomini stessi. Franco, insomma, osservando il fratello, avvertiva il beffardo dominio dello “squilibrio che – come spesso diceva – si muta in assurda garanzia d’ordine“.
luigi3[1]Venne finalmente per Luigi il giorno della partenza e, come tutte le cose di quel “maledetto paese” – com’ebbe a definirlo per l’occasione Franco – anche la sua partenza si trasformò in un avvenimento destinato al commento dei crocchi nei successivi sette giorni.
Il Cilento è terra bella e capace d’ispirare amore profondo. Però, forse per la noia che vi aveva coltivato assieme alle rare piante riarse, forse per la durezza d’animo comune ai giovani di un tempo singolarmente freddo, una cosa è certa: a Luigi partire non faceva venire alcuna particolare passione per il suo paese. Per di più, sapendo che il mostrarsi indifferente in un momento come quello avrebbe scandalizzato le brave persone accorse in piazza per salutarlo, Luigi si sentiva notevolmente imbarazzato, mentre si rigirava a stringer mani nella piazza assolata, tanto più che il fratello se ne stava in disparte, con negli occhi un’accusa fiera per quel suo agire che doveva sembrargli un vero e proprio tradimento. Non c’è dunque da meravigliarsi se il giovane contadino si sorprese a provare sollievo per l’apparizione improvvisa, e solitamente malaugurata, di un personaggio tutto azzimato e tronfio, che compariva dal fondo della piazza, andando dritto verso di lui con l’aria consuetamente goffa, resa ancor più evidente dal contrasto tra il lampo d’orgoglio che aveva negli occhi e la figura sua stramba, che mostrava, su due gambe tozze, un ventre come un otre e le braccia forti e corte.
Don Tito era fatto così. Se poteva fare un favore e mostrar di poter muovere pedine importanti per un suo gioco, lo faceva volentieri. Aveva – di ciò Luigi era certo – qualche buon santo, tanto più che in paese c’era addirittura chi sussurrava che poteva giungere sino a Roma per faccende grosse. Per Luigino l’aveva fatto, riuscendo a “sistemarlo” senza batter ciglio. Gongolante, mentre discreti sguardi lo indicavano e berretti di velluto salutavano ossequiosi, veniva a raccogliere l’omaggio col faccione rubizzo atteggiato a compiacimento. Cercava Luigi, che a sua volta gli si affrettava incontro e l’apostrofava con vivacità: – Oh Don Tito!
A Franco il disgusto pareva salisse alla gola. E non, come si può pensare, per l’uomo grosso e per il fratello sfuggente, ma perché, con tutta la sua stizza, non riusciva a immaginare che potesse esserci un altro mondo attorno a lui o che potessero cambiare i rapporti tra quegli uomini, senza che sparisse per sempre anche la sua gente e lui con essa.
E allora a che servirà? Si chiese amaro.
Servì. Almeno così sembrava.
luigi4[1]Vero è che a Milano Luigino cui si era trovato né più né meno che come all’inferno, con la gente che non lo capiva e lui che non capiva la gente.
Per di più – e gli pareva incredibile – il “gioco” d’un tratto prese a deprimerlo e a mandargli all’aria tutte le convinte filosofie. In quel mondo lì che non capiva, anche la sicurezza del lavoro gli era sembrata estranea e aspra e se il principio del “devi lavorare per mangiare” al paese gli pareva così naturalmente ostile, ora gli sembrava che ci fosse anche un che di più duro ad aggravarlo: che gli si desse da mangiare perché lavorasse.
Era una sensazione dolorosa che non trovava modo di sopportare, che da solo, con l’animo suo schietto, non avrebbe mai saputo immaginare. Allora perse l’appetito, cominciò a pensare che Franco avesse ragione e provò una qualche passione per il suo paese.
Ora il lavoro era lavoro ed esisteva. Riguardava non lui da solo, ma gli altri come lui, lo legava a nuovi lacci, conosceva attese più brevi ma reiterate e perciò, alla lunga, più snervanti. Insomma non era un gioco da sfruttare, come l’aveva sognato, ma, per quanto capiva, un oggetto di contesa.
D’altro canto, se ai problemi del lavoro non voleva pensarci, ci pensavano gli altri a tormentarlo. C’era sempre qualcuno ad aspettarlo. E volantini e richieste erano compagni di sempre. Spesso cose giuste, altro che parole di Franco, ma ancora più spesso incomprensibili e indisponenti. Era una sola monotona canzone, sempre uguale e cantata con tono diverso.
Tutto prese a sembrargli così una grande bestemmia, tutto gli divenne ferocemente estraneo: un lavoro che c’era e quasi sicuro, gli si presentava manomesso, come corrotto e snaturato. Si ribellava, certo, ma più si divincolava e lottava, più gli pareva che tutto fosse condannato a snaturarsi infinitamente.
C’era, dietro tutto quanto vedeva e sentiva, qualcosa che non capiva, come un’entità oscura che dominava dall’esterno la scena furiosa nella quale si trovava ed a cui sentiva d’essere assai estraneo e non capiva perché.
Il capitale era il mostro responsabile di ciò che accadeva. Gliene parlavano in tanti, gliene parlavano sempre da quando era giunto a Milano, ma tutto quello che aveva capito era solo che il mostro che gli offriva il lavoro glielo distruggeva tra le mani e gli rendeva estraneo e inutile il solo valore che conosceva: la sicurezza.
Qui si fermava, e tuttavia, giacché non era stupido e vanesio, sentiva che in seno a tutto quel gran dibattere e discettare c’era anche una qualche ansia di giustizia, sebbene distorta e resa utile a fini oscuri da figuri oscuri che a tutto quel mondo erano in fondo estranei, e avvertiva come un senso di colpa assieme ad un profondo anelito a quella tranquillità che aveva sperato inutilmente di trovare con un trapianto radicale e, tutto sommato, assalito ben presto da una crisi di rigetto.
Era per lui, facendo un paragone antico, come per quel pastore montanaro che, tra pecore e balzi scoscesi, avverte ad un tratto il desiderio di dire una parola ad un amico, però è solo e può appena cantare e giocare col cane; quello, sebbene gli sia amico, non bada che al gioco, né sa né può avvertire la malinconia che lo suscita: è un cane inutile. Così fra i compagni di lavoro stava Luigi, con tristezza schiva e simulata pace. E come il pastore poi la sera, al fuoco, sente che forse, se scendesse al piano, non troverebbe più la parola da dire e resterebbe zitto, capiva di essere fuori posto e, insieme, di aver perduto, coi sogni, anche la voglia d’un ritorno.
luigi5[1]Aveva sopportato la sua terra perché era certo di partirne ma a Milano non sarebbe restato. Era come in un limbo.
Né bene né male, né odio né amore.
E tutto gl’infuriava intorno in una lotta feroce.
L’oggetto della contesa, santo demonio, come finì per sembrargli, era il capitale, visto nelle categorie dell’uso, del possesso, della suddivisione.
La sua moderna filiazione era la lotta del lavoro, visto nelle categorie del molto, del poco, del nocivo: avesse avuto il tempo, avrebbe preso a tirare per l’uno o por l’altro contendente.
Tornò invece al paese in una sera di pioggia. Invalido, un occhio cieco e la pensione.
Era saltato sui suoi risparmi in una banca a Piazza Fontana.
C’erano stati tanti morti o tanti feriti.
Quella triste sventura in un clima d’odio gli marchiò l’animo per sempre.
Passò il resto dei suoi anni a ripetere al fratello affranto, con ostinata frequenza:
Franco, non gli dare retta. Non dar retta a nessuno. Non lo fanno mai per noi. Mai. Noi perdiamo sempre.

9 marzo 1975

 Uscito su “Fuoriregistro” il 24 settembre 2003.

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A inizio secolo – il “primo del nuovo millennio” ricorda la retorica dei pennivendoli – la terribile risposta del capitalismo ha spento sul nascere una voglia di cambiamento attraversata dai brividi di un’autentica ribellione. Sorpresa dalla luce di un’alba livida, la fragile impalcatura dei sogni, tuttavia, s’è sfasciata e il risveglio è stato doloroso.
Sono passati anni e, a ben vedere, tra i nostri giorni bui e le speranze di Genova 2001, non ci sono solo i “democratici” alla Fini installati nella cabina di regia della repressione, il colpo mortale tirato a Carlo Giuliani – ma il bersaglio vero qual era? – la Diaz, Bolzaneto e l’intoccabile De Gennaro. C’è, quantomeno, l’insanguinato stillicidio dei “testimoni scomodi”, i giornalisti e quei fotografi che, per dirla con Josef Koudelka, le foto le “fanno coi piedi”, perché camminano per chilometri tra mille rischi, e fissano in uno scatto o in una frase le rare verità che giungono ormai nelle nostre case assediate da menzogne di Stato. Chi ricorda Maria Grazia Cutuli? Chi conserva memoria di Baldoni o di Raffaele Ciriello freddato dal mitra d’un carro israeliano?
C’è dell’altro. E di peggio: un sonno pericoloso della ragione.
Se Tremonti, folgorato con Saulo sulla via di Damasco, si riscopre socialista e carezza con la mano destra i 130.000 precari della scuola che con la sinistra va decimando, non ci sono dubbi: questo decennio di secolo presenta finalmente la sua natura vera, doppia e schizofrenica nei tratti dominanti: la costruzione artificiosa del consenso su base mediatica e puramente virtuale e la manipolazione del reale, per cui tutto è vero, ma vero è anche il contrario di tutto.
La distruzione del sistema formativo, che giunge alla fine del decennio, si incarna metaforicamente in un San Precario che illumina il Tremonti tornato “socialista”, ma non sa e non può parlare al Tremonti ministro e non lo induce a rompere col “terrorismo psicologico” di quella Confindustria che di Genova s’è servita cinicamente per annientare la resistenza dei lavoratori. Non facciamoci illusioni. Non c’è spazio per la speranza e non ci sono dubbi: il lavoro non verrà da questo miserabile “gioco delle tre carte”. Non verrà, perché è chiaro che il precariato e la critica al precariato sono i due rovesci della stessa medaglia: il capitale “buono”, che cerca consensi alimentando i sogni che la politica di classe si incarica di soffocare con l’inaudita violenza scatenata a Genova. E’ meglio dirselo: il miliardo di analfabeti che popolano il pianeta, l’infinita sequela di disperati e morti per fame sono un’umanità di scarto, una merce avariata che non ha mercato. Merce, spiegava non a torto Marx, sono per il capitale i lavoratori, i poveri e gli emarginati. E merce sono i precari d’ogni specie, i clandestini, i lavoratori al nero, i disoccupati che formano l’esercito sterminato dei crumiri. Merce e null’altro, che si vende e si compra a tanto al chilo, come gli studenti rapinati della scuola, gli immigrati respinti in un rinnovato Medio Evo, i cristiani lanciati strumentalmente contro i musulmani, mentre i bianchi tornano “padroni dei neri” e i neri sono costretti a una nuova servitù.
Il dramma dei precari della scuola è una piccola e dolorosa goccia di sangue nell’emorragia provocata nel corpo sociale dalla sconfitta epocale del socialismo e dall’effimera vittoria d’un capitalismo stretto alla gola dalle sue stesse contraddizioni. E’ parte della svalutazione dei diritti elementari – persino quello di vivere – della marginalizzazione e della repressione spietata d’ogni forma di dissenso e di qualsivoglia volontà di riscatto. Il sogno di una nuova “narrazione del mondo” è morto a Genova, ucciso da una brutalità che pretende il silenzio su ogni vergogna del mercato, anche sui milioni di bambini che lavorano o muoiono di fame, comprati e venduti, merce tra merci, in nome del profitto. D’altra parte è innegabile: abbiamo le nostre colpe. Nuova democrazia, sussidiarietà, sostenibilità ecologica, eredità comune, diritti umani, lavoro, cibo sufficiente e sicuro, equità e diversità, le tante parole d’ordine del nostro “nuovo mondo” sono state dall’inizio un sogno affascinante che non si è mai tradotto in un programma. E’ mancata la consapevolezza. Se un nemico ti affronta con la forza, devi approntare macchine da guerra; noi marciamo invece in ordine sparso e ognuno contratta per la sua parrocchia. Contro la guerra preventiva dichiarata dal capitale siamo divisi e disarmati e questo ci condanna alla sconfitta. Per costruire un mondo nuovo occorrono buone penne, ma anche lettori avvertiti, armi taglienti, ma in mano a buoni soldati. Occorre che sia sveglio l’istinto vitale della legittima difesa. A Tremonti che riscopre l’anima socialista, timoroso delle conseguenze del malgoverno liberista, Robespierre chiederebbe “come può il tiranno invocare il patto sociale, se egli stesso l’ha distrutto” [1]. E non avrebbe torto: il patto è stato violato.

1) Maximilien Francois Marie Isidore de Robespierre, Sul processo del re. 3-12-1792, in Opere complete, IX, Discuors, (quatriéme partie, Septembre 1792-27 Julliet 1793 Phenix, Ivry, 2000.

Uscito su “Fuoriregistro” il 22 ottobre del 2009 e su “Report on line” il 24 ottobre 2009

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Rendetemi conto

Non venite a raccontarmi la storia
feroce dell’onore,
ma rendetemi conto del dolore
d’un uomo finito senza clamore,
uno dei tanti, solo e disperato,
nato dal nulla una sera ghiacciata
e morto solo in un’alba gelata.
Non m’inganna la storia della gloria.
L’ho imparata a memoria
la barbara menzogna del valore
e della patria col suo sacro amore.
Spiegatemi la morte senza gloria,
la vicenda senza voce e memoria
d’un uomo disperato,
morto da solo in un’alba gelata,
ch’ebbe compagno un cane,
un cappello e la sua sciarpa di lana.
Un uomo senza patria,
un barbone senza onore né gloria,
uno che avete ucciso e cancellato,
con la legge omicida del mercato.
Dov’è stato per anni
col suo cane e i suoi panni,
vecchi amici fedeli dei suoi affanni,
una macchia di fumo sul muro
non sa parlare al vostro cuore duro.
Non venite a raccontarmi la storia
feroce dell’onore.

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clip_image001Succede a Napoli e, poiché ci vivo, non faccio fatica a capire: è l’incipit di un’offensiva destinata a durare. I neofascisti di “Casa Pound” occupano un vecchio monastero per farne un sedicente “centro sociale”. Grazie a Bassolino e soci, la sinistra s’è sciolta da tempo come neve al sole e, incontrastato, spira un vento fortissimo di destra. Com’è costume italico, i soliti “intellettuali” in cerca di “collocazione“, fanno sponda e aprono la breccia: “è necessario dialogare“, sostiene su “Repubblica” Marco Rossi Doria, seguendo il manuale del revisionismo e l’arte antica dei “gattopardi“. Il personaggio è noto, ma è bene ricordare: rivoluzionario ai tempi di Potop, poi “maestro di strada” a costi esorbitanti e risultato zero, sindaco mancato alla testa di un’insalata russa riunita sotto le bandiere d’una lista civica fatalmente “trasversale“, è passato dalla strada al palazzo col ministro Fioroni e ha contribuito allo smantellamento della scuola statale.
Il “dialogo” offerto dà frutti immediati. Forte di tanto appoggio, “Casa Pound si scatena. La prima, prevedibile risposta è un agguato squadrista a uno studente antifascista. Indignato, reagisco all’indecente proposta che legittima di fatto il neofascismo e falsifica la cronaca e la storia in nome di malintese e presunte ragioni d’una sedicente “cultura della democrazia“, chiedo un po’ di spazio a “Repubblica“, e denuncio la manovra.
Rossi Doria si tace, timoroso che addosso gli piombi una valanga. Il 9 ottobre, però, puntualmente ospitato da “Repubblica Napoli“, torna alla carica, inventandosi fantomatici centri sociali di destra, in una città inesistente, fatta solo di “esclusi” e di “protetti”, e così salta il fosso: il sindaco, scrive, faccia da mediatore tra i centri sociali. Finalmente le cose sono chiare: dopo i ragazzi di Salò, occorre benedire quelli di “Casa Pound“, nonostante la caccia ai gay e agli extracomunitari e i frequenti agguati agli studenti di sinistra.
Che dire? La partita non sarebbe chiusa, se “Repubblica”, eccessivamente timorosa di alimentare una polemica che molto impropriamente giudica personale, mi nega la facoltà di replicare. Non è certamente una censura, ma se penso alle recenti, sacrosante battaglie, mi domando se libertà di stampa, non sia anche diritto di replica e “par conditio“. Sia come sia, rimane in vita la minacciata libertà del web cui affido la replica destinata al giornale e una richiesta: chi condivide, faccia poi “girare“.

Il “dialogo” colpito a tradimento

La Napoli di Rossi Doria è una mela divisa in due. Un taglio netto e dai confini oscuri: di qua i protetti, dall’altra parte gli esclusi. Un po’ schematico, ma funzionale. A rigor di logica mancano i protettori e, se vuoi esser preciso, provi a capire chi è che va escludendo. Se ci pensi poi bene, una domanda non la puoi evitare: dove metti, in questo disegno lineare e semplice, una scuola aggredita come il “Margherita di Savoia“? In quale delle due città? E dove si colloca Francesco Traetta, un ragazzo mandato all’ospedale con una costola rotta, solo perché ha portato a scuola un partigiano? Chi è Francesco? Un “protetto, un “escluso o più semplicemente e drammaticamente l’idea stessa di “dialogo” ferita a tradimento nella città in cui Rossi Doria offre al fascismo la legittimità che la Costituzione gli nega?
Lo so. Siamo tutti contro il revisionismo e tutti democratici. Di democrazia si riempie la bocca chiunque ne ha bisogno per non sai quali scopi. Ne parla spesso persino Berlusconi. Difficile è capire come si fa ad essere davvero democratici e ancora più difficile saper dire verità impopolari, nel nome e per conto della democrazia. Se la smettessimo di fare delle parole un’arma impropria, per sostenere tesi avventate e demagogiche, se cercassimo soluzioni reali e leali a problemi nelle cui pieghe si cela l’agguato di Francesco, se la piantassimo finalmente di andare per la tangente e cercare l’applauso, diremmo che il ragazzo è una vittima e non ci sfiorerebbe nemmeno il pensiero che a dirlo si può spingere all’odio.
Se Francesco è una vittima, è chiaro che ci sono dei carnefici e non so per quale singolare follia dovremmo mettere insieme il giovane antifascista e chi l’ha massacrato. La dico tutta e fuori dai denti, perché mi pare chiaro che la questione riguardi, a questo punto, il senso stesso della convivenza civile. Con la storiella comoda e strumentale degli steccati da saltare, si fa di ogni erba un fascio e si protegge oggettivamente gente che predica da sempre la violenza. A me non importa da che parte venga e di che colore sia. Nella risibile società degli esclusi e dei protetti, il confine che separa chi colpisce da chi è colpito dev’essere visibile e ben definito. E non c’è dubbio, la domanda è una: per saltare non so bene quali suoi steccati, chi sosterrebbe a cuor leggero che, per risolvere il caso Saviano, il sindaco dovrebbe mettersi a un tavolo e fare da mediatore tra il giovane scrittore e i casalesi?
E torno a Napoli. Sempre più sventurata, devo dire. La guardo sconcertato, così come mi viene dipinta, e non la riconosco. Mi ci perdo. Una sola divisione: esclusi e protetti. I confini, tirati con la squadra e con la riga, sono incomprensibili e irreali, ma il quadro è suggestivo: due città che non si parlano e quasi non si conoscono. Ma quali città? E di che mondo parliamo? Se solo ti guardi attorno attentamente, il conto non ti torna. Nello stesso quartiere, nello stesso vicolo,Immag004 spesso nella stessa famiglia, c’è tutta la complessità della vita. La gente parla e non c’è mai silenzio. La gente si incontra, si scontra, tratta, contratta, si conosce e trova modo di riconoscersi. Non ci sono due città, esiste solo un insieme di diversità, un’articolata molteplicità e la realtà non è riconducibile a una sorta di inverosimile binomio. Napoli è una metropoli che si legge a “strati” e non puoi chiuderla nell’antico stereotipo della città borbonica quasi per vocazione. Certo, se la guardi in superficie, ci trovi l’eterno malcostume politico e il ricatto clientelare che invischiano tutti i ceti nell’ideologia subalterna d’un popolo quasi indifferenziato. Ma se ti fermi a guardare, se stai per strada e vivi tra la gente, scopri che la salute è sorprendente, ti accorgi che la vita pulsa, che le tensioni sociali non erompono più fatalmente in protesta plebea e non soffocano malamente in un rigurgito sanfedista. Se vai più a fondo, e devi saperci andare, immediato giunge l’impatto con la borghesia e, se vuoi capire Napoli, tu devi farci i conti. Non puoi fermarti a Viviani e nemmeno conoscere solo Eduardo De Filippo. Il mondo cambia e, se tu non lo vedi, inganni te stesso o, peggio ancora, stai ingannando gli altri. Dov’è questa nuova “Berlino” col suo muro e i protetti da un lato, gli esclusi dall’altro? A meno di non esser ciechi – questo forse è il problema – la città è un inestricabile intreccio. Assieme all’economia del vicolo e a nuclei di plebe, per i quali il tempo non passa, la maturità non giunge, la coscienza civile non si forma, trovi una borghesia articolata che guarda in alto, ma ha frange che si proletarizzano; trovi, se guardi, un proletariato che ha avuto una gran storia. Gente che ha ancora un’anima e resiste al richiamo del vicolo, portandosi dentro l’identità di classe, sebbene sia ormai perennemente terrorizzata dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione e appaia piegata sotto i colpi di un’offensiva padronale così disgregante, che non ha precedenti nella storia della repubblica. E non basta. Quanto di militanza giovanile non sanno più raccogliere i partiti storici dei lavoratori, vive nei centri sociali “rossi“. Solo in quelli, perché centri sociali la destra non ne ha. Quale che possa essere la parte politica, nessuno onestamente può negarlo: nonostante limiti e insufficienze, negli ultimi anni questi ragazzi hanno costruito forme di democrazia “dal basso” che meritano rispetto. Sono stati protagonisti di una battaglia coraggiosa, civilissima e non ancora del tutto conclusa, quando la città è diventata un’enorme e vergognosa discarica a cielo aperto e hanno marciato con padre Zanottelli002 6 febbraio 2009 Chiaiano Intervista a Zanottelli; svolgono ruoli attivi e propositivi nei “Comitati di quartiere” e nelle rare iniziative in cui la città mostra di essere ancora politicamente e socialmente viva. Chi li ha visti all’opera a Bagnoli, accanto a genitori, insegnanti e bambini in lotta per la scuola nella lunga ed esemplare vicenda del “Madonna Assunta“, chi li vede impegnati a fianco agli immigrati, chi ha la fortuna di stare con loro nelle assemblee universitarie e nelle manifestazioni in piazza, non può che togliersi il cappello. Ci sono limiti, errori e contraddizioni e sarebbe strano che non fosse così, ma c’è una passione civile che non è facile trovare.
La democrazia è partecipazione e Rossi Doria in piazza non si vede mai, ma lo ricordo negli anni della giovinezza, quando tutti eravamo autonomi e rivoluzionari. Il suo “potere” era allora tutto operaio. Non so di dove tragga fuori i suoi giudizi e i malaccorti e velenosi suggerimenti che regala al sindaco Iervolino. So che questo suo insistere nel paragonare i ragazzi dei centri sociali agli squadristi che hanno massacrato di botte Francesco Traetta, un loro compagno, uno di loro, non è solo una bestemmia. Somiglia molto a una sorta di provocazione, a qualcosa che sta la speranza e l’istigazione che mi auguro inconsapevole. Che si vuole davvero: evitare o scatenare la rissa? Protetti o esclusi: non sta in cielo né in terra. Tutto nasce semplicemente da una micidiale distorsione dei fatti? Può darsi. Ma questo è davvero il revisionismo. E sono sinceramente preoccupato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2009, su “Report on Line” il 13 ottobre 2009 e su “il Manifesto” il 15 ottobre 2009.

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D’accordo. Ognuno si sceglie il poeta che meglio risponde alla sua sensibilità, ma mi pare difficile negarlo: non si legge correttamente la storia facendo ricorso agli strumenti del letterato, alle emozioni del “lettore” e alle suggestioni della psicopatologia. Non entro qui nel merito delle “case” e delle cose di Ezra Pound e nemmeno di quella sconosciuta nebulosa che si cela dietro la formula generica dell’infermità mentale. Pazzo mi dicono fosse Adolfo Hitler e sarebbe stato da curare. E, tuttavia, se pazzi siano stati dal primo all’ultimo soci, complici e camerati, è difficile da credere e, in ogni caso, nessun dialogo con una così infame e criminale follia fu mai realmente possibile: il racconto dei fatti è solo raccapriccio. Lascio a chi le ama le riflessioni sulla poesia di Pound, che Rossi Doria ha consegnato a “Repubblica” giorni fa. Per quanto mi riguarda, se la misura delle “cose fatte” si ricava dalla “intenzioni”, se il gioco delle cause e degli effetti si colloca impropriamente sull’incerto confine della pazzia, se ci si muove tra sensazioni e filosofia, finisce che può essere vero tutto e il contrario di tutto. E’ questione di metodo e di punto di vista e, per carità, mi guardo bene dal sostenere la pura e semplice verità del fatto. Tuttavia, fuori dal campo dell’estetica, dalla soggettività del lettore, dall’interpretazione del “messaggio poetico” e del valore che ognuno è libero di assegnare alle parole, sono i fatti a parlarci degli uomini e dell’agire loro. I fatti soprattutto e le risposte che essi – testimoni muti del loro tempo – danno alle nostre domande.

Rossi Doria, del resto, anche questo ha il suo peso, giunge buon ultimo a dichiarare la sua passione poundiana, subordinando al valore del poeta il sistema di valori di cui si fece espressione. Prima di lui ci hanno provato, infatti, la cultura filosofica e la storiografia di destra. Giulio Giorello s’è spinto sino all’ “elogio libertario di Ezra Pound”, diventato addirittura un “nemico dei tiranni”; di Pound si sono innamorati Giano Accame, per il quale nemmeno Giovanni Preziosi fu razzista, e Luca Gallesi, che s’è sforzato – come se tanto bastasse a giustificarne le scelte – di vedere una matrice anglosassone e laburista nelle soluzioni economiche mussoliniane, nella “follia” nazifascista del poeta dell’Idaho e in un antisemitismo che, negli anni Venti, sarebbe stato totalmente ignoto al pensiero del duce. Buon ultimo, quindi, Marco Rossi Doria s’è assunto la complicata e inutile difesa d’ufficio di un Ezra Pound collocato soprattutto nell’empireo degli intellettuali e dei poeti. E l’ha fatto lasciando ai margini, come un incidente che riguardi solo la sua salute mentale e un dato secondario della sua vicenda umana, quel feroce schierarsi col nazifascismo, quella sua ostinata e mai apertamente sconfessata difesa della miseria materiale e morale di Salò che, val la pena di ricordarlo, segna il punto basso, la vergogna estrema cui è giunto finora questo nostro Paese sventurato. I fatti, però, quelli che ci raccontano la storia quando poniamo le domando giuste, i fatti sono ben altri. Gli affari di casa innanzi tutto. Occorrerà pur dirlo: nessun antisemitismo britannico o statunitense degli anni Venti ha prodotto leggi razziali come quelle che il fascismo regalò all’Italia alla fine degli anni Trenta. In quanto al resto, mentre il revisionismo infuria e la parificazione tra fascisti e partigiani punta a colpire apertamente il cuore della Costituzione, un intellettuale democratico, progressista e antifascista che scelga di parlare alle giovani generazioni, non può far finta d’ignorarlo. Le parole sono pietre e, dietro “i ragazzi di Ezra”, come Marco Rossi Doria definisce i neofascisti di Casa Pound, si vedono bene e molto da vicino i “bravi ragazzi di Salò” tirati fuori dal cilindro anni fa da Luciano Violante. Troppo da vicino, perché tutto si riduca a una semplice e semplicistica questione di letteratura. Schierandosi con la Repubblica Sociale, Ezra Pound scelse il campo di chi volle il genocidio e la Shoà. Era impazzito, sembrerebbe, ma gli si fece grazia della vita e dopo una complessa e travagliata vicenda, gli si rese poi la libertà. Pazzo, sano, libertario o fascista che fosse, egli sembrò ribadire la sua fede e lasciò di sé, anni dopo, parole che si direbbero un testamento spirituale: “…sul lembo estremo dei Gobi, bianco nella sabbia un teschio canta e non par stanco, ma canta, canta: Alamein! Alamein! Noi torneremo! Noi torneremo”.

I “fascisti del terzo millennio” ritengono che Pound non fosse pazzo e condividono coi fatti il suo pensiero politico. Importa poco se Pound sia stato un traditore o un visionario. Fino a quando le sua follia sarà la fede di “Casa Pound”, il dialogo è improponibile. E’ vero. Molto ancora dovremo interrogarci sul senso storico del secolo scorso e il mondo in cui viviamo è complicato. Da troppe parti, tuttavia, e da troppo tempo, per ragioni oscure, è venuto e viene l’invito pressante a una pacificazione che ha assunto col tempo, ogni giorno di più, l’inaccettabile  valore d’una parificazione. Rossi Doria dovrebbe saperlo: i vecchi e i bambini rom cacciati a suon di molotov da un nostro quartiere sono l’esito naturale d’una pratica di sdoganamento del fascismo alla quale da tempo i giovani antifascisti, nella loro stragrande maggioranza, si vanno opponendo con civiltà e misura. E’ vero che c’è un estremo bisogno di parole scambiate. Ma non meno vero è che non si può discutere con un’arma puntata alla tempia. E il fascismo, vecchio o nuovo che sia, è un’arma pronta a colpire, come ben sanno gli immigrati e gli omosessuali aggrediti e terrorizzati. Mi spiace doverlo dire, ma è così. Anch’io ho avuto in famiglia antifascisti e sono certo: è meglio lasciare in pace i padri e i nonni che se ne sono andati. Per quello che potevano, hanno già detto tutto ciò che c’era da dire. Nessuna violenza, quindi, ma un dissenso forte e chiaro. Qui non si tratta di pazzia, ma di una inaccettabile scelta di campo.

Uscito su “La Repubblica Napoli“, il 7 ottobre del 2009

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Non so se sia vero, ma si dice che il dolore d’una pugnalata non si senta subito acuto com’è destinato a diventare dopo che la ferita è inferta. Certo è che il colpo vibrato alla schiena della scuola dall’avvocato Gelmini sul momento non è apparso devastante al personale della scuola, quanto invece intuirono che fosse gli studenti. Un anno fa, di questi tempi – me ne ricordo bene – l’onda montante della protesta studentesca si muoveva nelle vie e nelle piazze come un corpo vivo, multicolore, forte della giovinezza e, per ciò stesso, tanto sicuro di sé quanto evidentemente solo e, paradossalmente orgoglioso d’una solitudine destinata a produrre debolezza. Un anno fa, di questi tempi, nelle scuole già ferite a morte, gli studenti erano in armi e i docenti assenti dal campo.
Noi la crisi non la paghiamo” era lo slogan che si sentiva correre di piazza in piazza, che incendiava le università e accendeva di speranza le scuole medie superiori. Nella passione dell’autogestione gli studenti produssero analisi pregevoli, denunciarono i guasti della privatizzazione, scoprirono le mille trappole apparecchiate da un governo culturalmente indigente, politicamente reazionario, povero nel personale politico, fermo nelle pastoie della penosa vicenda giudiziaria del suo leader. Non era solo questione di moduli e maestro unico e nemmeno, come ancora in parte riteniamo, di una devastante operazione di cassa, che svuotava di risorse il pubblico per tamponare le falle aperte nel bilancio dello Stato dai costi e dalla corruttela della politica, dalle spese di guerra e dagli effetti d’una crisi del capitale di dimensioni epocali. Emergeva in tutta la sua gravità la condizione di regressione e di imbarbarimento di un Paese pronto a consegnarsi con singolare faciloneria alla xenofobia separatista e leghista, all’avventurismo del “Partito Mediaset” e al neofascismo modernizzato da Fini e Tatarella. Riemergevano la violenza poltica dell’estrema destra, che giunse a schierasi in armi a Piazza Navona, le tare d’un capitalismo nato malato, intisichito da un borghesia senza rivoluzione, intossicato dagli oscuri rapporti con la malavita organizzata, eternamente invischiato nelle pericolse relazioni massoniche tra banca, industria politica e finanza, perennemente afflitto da un’avidità di profitto pari solo alla pervicace tendenza all’evasione fiscale. Gli studenti dell’Onda l’avevano intravisto il pericolo vero che non stava solo nei tagli alla ricerca, nel licenziamento dei precari, nell’attacco ai livelli minimi di funzionalità del sistema formativo. L’avevano capito che il problema di fondo non era semplicemente quello della dottrina Gelmini sul “sessantottismo” o di Brunetta sul “fannullonismo”, ed appariva chiaro che il supplente da conservare, l’organico da preservare, gli standard minimi da tutelare sarebbero poi stati un effetto e non la causa. La dignità delle condizioni materiali del lavoratore – non solo di quello della scuola – poteva essere salvata solo a condizione di aprire uno scontro senza precedenti sui diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione repubblicana e antifascista, avendo come controparte un governo che in nessuna delle sue componenti aveva come riferimento l’Italia nata dalla Resistenza. La dignità poteva esser salvata solo a condizione di fare della scuola il perno d’una battaglia senza quartiere contro una visione nuovamente classista della società, espressa da un capitalismo costretto dalla legge del profitto a rifiutare ogni possibile mediazione.
Oggi tutto è più chiaro. I precari, messi alla porta con una ferocia da prima rivoluzione industriale, sono isolati in un battaglia d’avanguardia coraggiosa ma disperata, come isolati furono gli studenti. I docenti prendono atto, registrano i danni, sono testimoni d’una Caporetto, ma ancora non saldano i ranghi, ancora non vanno a cercare i cassintegrati, i licenziati, i disoccupati e ancora non si schierano su un fronte unico con gli spezzoni dell’esercito sbandato della democrazia. E’ drammatico ascoltarne l’impotente e continuo lamento per le classi divise, l’orario spezzettato in sedi lontane e il deperimento pauroso della qualità dell’insegnamento e, nel contempo, non sentire una voce combattiva e davvero solidale coi colleghi mandati a casa, non veder balenare la lama d’un pugnale che si accinga a restituire il colpo ricevuto, non ascoltare il proclama che conduca alla guerra per la democrazia. Fuori dalla scuola, tuttavia, nelle piazze oscurate dall’informazione di regime, per fortuna si lotta ancora con coraggio. E nella lotta, com’è sempre stato nella storia dei lavoratori, emergono soluzioni, nasce una consapevolezza nuova, si individuano obiettivi, si cercano alleati. Il tre ottobre, quando una stampa spesso pavida è scesa in piazza fuori tempo, oscurando la manifestazione nazionale dei precari, ancora una volta gli insegnati erano praticamente assenti. Come un anno fa, quando i nostri figli studenti ci chiedevano di agire e noi eravamo fermi. Eppure, davanti al Ministero da cui la Gelmini comanda le operazioni di smantellamento, Barbara, una precaria che ha cuore e testa, ci ha chiamati una volta ancora alla lotta. Val la pena di ascoltarla e riflettere. Non è retorica: il tempo comincia veramente a stringere: La lezione di Barbara

Uscito su “Fuoriregistro” il 6 ottobre del 2009

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