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Archive for agosto 2016

No-sign-610x350Nell’immaginario collettivo passa per verità della storia, ma è solo una forzatura: la Costituzione è formata da parti nettamente divise tra loro: una accoglierebbe i «principi sacri e intoccabili» e le altre sarebbero formate da norme che si possono e oggi si devono aggiornare, sicché se cambi 47 articoli su 139 e non tocchi i «principi», tutto è com’era e hai solo «modernizzato». In realtà, gli Atti della Costituente dicono che i «Principi fondamentali» non sono un isolato «Preambolo» e gli autori, esclusero la parola e il concetto che la sottende proprio per non suggerire una «graduatoria di valori» tra le sue norme, che essi non hanno in mente e anzi smentiscono. Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, lo sottolinea: non è una inesistente maggiore «importanza», ma la loro natura «generalissima» e la difficoltà di dare loro un posto adeguato in uno dei titoli di cui essa si compone a suggerire di unirli in una parte a sé, intitolata «Principi fondamentali». Né d’altra parte si può sostenere che, cambiando la parte seconda della Costituzione, non si incida sulla prima. Si prenda ad esempio il Senato, finora eletto dai cittadini. La riforma prevede che non sia eletto dal popolo e non rappresenti più l’intero Paese, ma realtà territoriali. E’ evidente che un’Assemblea Parlamentare che non nasce dal voto popolare non ha una delega all’esercizio della Sovranità popolare e quindi non può più svolgere funzioni legislative e di revisione costituzionale che la riforma le assegna. E non si tratta di un problema che non riguarda i principi: la Sovranità, infatti, appartiene al Popolo che la esercita. Se i Senatori non rappresentano più il Popolo, come possono costituire una Assemblea legislativa?
Se le cose stanno così – e non è facile negarlo – insistere sui principi per coprire un profondo mutamento significa far propaganda per il referendum, negando che sono in gioco temi di fondo e linee di principio. Modificare un terzo degli articoli della Costituzione significa scriverne un’altra. Il governo ha i titoli per farlo, o la cortina di fumo cela proprio un problema di legittimità? L’articolo 138 concede di emendare singoli, specifici punti, non di trasformare il potere costituzionale di revisione in potere costituente, che è attributo esclusivo del popolo; nessuno, del resto, può ratificare una nuova Costituzione. Il tentativo di Renzi, quindi, è anticostituzionale ed eversivo. «Eversione dall’alto», direbbe Gramsci.
Al di là del dato giuridico, c’è poi un problema storico che in Italia ha radici profonde e lontane. Da un lato, il bisogno dei ceti dirigenti di far ricadere sulla Costituzione la cause della loro inefficienza, dall’altro, la volontà dei poteri economici di rafforzare il governo a danno delle Camere. Una volontà che cresce in anni di crisi, soprattutto se è crisi finanziaria. A seconda del momento storico, la manifestazione virulenta esplode con l’attacco alla Costituzione, o con i tratti dell’aperta reazione, ma conduce al nodo cruciale posto da Pietro Grifone durante il fascismo: la compatibilità tra democrazia e capitalismo finanziario, struttura di fondo della nostra economia e punto di coesione della classe borghese. Se il fascismo storico, per dirla con Gobetti, volle «guarire gli Italiani dalla lotta politica», utilizzando come farmaci massicce dosi di «fede nella patria», Renzi sposa il modello Marchionne, che privatizza i profitti e socializza le perdite, secondo gli spiriti animali della «razza padrona», e produce «bestiame» votante, togliendo alla scuola la libertà d’insegnamento.
Cosa accadrebbe con la vittoria del «sì» non è facile dire, ma è indicativo il ritorno alla polemica dei tutori di una malintesa «libertà d’impresa», che insistono per cambiare gli articoli della Costituzione sull’iniziativa economica privata e pubblica, le nazionalizzazioni, la cooperazione e la collaborazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Polemica antica, cui si somma l’altra, più attuale, sulla inadeguatezza della Costituzione di fronte alla costruzione di un mercato interno di carattere liberistico proposta dalle politiche comunitarie. D’altra parte, l’obbligo per l’azienda di non svolgere attività «in contrasto con l’utilità sociale», imposto dell’art. 41, è stato sempre vissuto dai liberisti come privazione di libertà; in questo senso lo leggeva l’on. Colitto, accademico e avvocato, quando chiese alla Costituente modifiche intese ad attenuare «l’impressione che l’attività privata, dovendo muoversi in una determinata, precisa direzione, non goda più della libertà». Quasi che esistesse un legittimo diritto ad agire contro la società di cui l’impresa è parte; una libertà che, in nome della concorrenza, spesso si fa diritto al «danno sociale». Colitto non la spuntò, ma ci lasciò un esempio della possibilità di violare lo spirito della Costituzione, senza por mano ai Principi fondamentali.
Anni fa, Berlusconi tentò invano di abolire l’art. 41 della Costituzione. Renzi, reso prudente dalla sconfitta dell’ex alleato, aggira l’ostacolo, lascia com’era l’articolo 41 ma, lo «disarma», rendendolo una dichiarazione d’intenti. L’articolo, infatti, al suo terzo comma recita testualmente: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Dove storicamente il «qualunquista» Colitto fu battuto, passa Renzi, per ora vittorioso, abolendo l’articolo 99, che istituì il CNEL, il «Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro», strumento di controllo indiretto dei limiti in cui può svolgersi l’iniziativa privata, volto a impedire che essa contrasti con l’utilità sociale, come prevede il secondo comma dell’articolo 41, che assegna al CNEL il potere di promuovere iniziative legislative di natura costituzionale, economica e sociale. Al di là di ciò che può essere oggi il CNEL, la discussione alla Costituente dimostra che l’operazione non è neutra o indolore. In aula è un fuoco di fila tra figure di primo piano. Di Vittorio vorrebbe modificare il nome in «Consiglio economico del lavoro», per impedire la pariteticità tra lavoratori e imprenditori; Clerici, della DC, trova inaccettabili principi di subordinazione, perché il lavoro è uno dei tanti settori, importantissimo, ma non l’unico nel mondo economico; Ruini aggiunge che non si può far contare per centomila gli operai e per uno la grande azienda. Dietro lo scontro ideologico sulla definizione del nome e sul «peso» delle componenti, ci sono i contenuti, sui quali si confrontano il liberale Einaudi e il democristiano Costantino Mortati, giurista fine, che nel 1960, difendendo la femminista Rosa Oliva, otterrà la cancellazione della legge che esclude le donne dalla magistratura e dalla carriera militare. Mortati, che svolge un ruolo centrale nei lavori della Costituente, chiede che i progetti di legge presentati dagli organi ausiliari abbiano poteri di ratifica dei contratti collettivi di lavoro e corsie preferenziali per i loro progetti di legge. Ha la meglio Einaudi, che si oppone, temendo un potere eccessivo che sminuisca il Consiglio i Stato. Renzi cancella tutto questo e ciò che ne è nato. E’ vero che i pareri del CNEL non erano vincolanti, ma è altrettanto vero che la «riforma» spegne una voce del lavoro dipendente e con essa rischia di svanire l’Archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro pubblico, con gli accordi interconfederali del settore privato, quelli tra governo e parti sociali, la banca dati sulle statistiche territoriali e quella sulle professioni non regolamentate. Una perdita secca in tema di democrazia economica, perché chiude un organo che faceva programmi. Ora li farà il mercato, finalmente fuori controllo e libero di gestire se stesso senza vincolo e finalità sociale. L’art. 41 è lì, nessuno lo tocca, ma è una inutile enunciazione di principio.
In senso autoritario, del resto, per tornare all’Italia disegnata dal progetto di Renzi, vanno le ragioni di chi alla Costituente si oppone alle leggi d’iniziativa popolare, in base alla convinzione, di per sé dispotica, che «l’intervento diretto popolare costituisca un perturbamento, una deviazione della linea direttiva politica approvata dalla maggioranza ed esposta dal governo». E’ Mortati a rilevare che l’istituto ha lo scopo di frenare e limitare l’arbitrio della maggioranza, che non è sempre espressione della volontà popolare. Renzi, che non sa chi fossero Colitto e Mortati, si schiera inconsapevolmente col primo e, in un progetto di Costituzione che rafforza il potere decisionale del governo, attacca la legge d’iniziativa popolare e i referendum, triplicando il numero di firme necessario per l’una, che passa da 50 mila a 150 mila, e portando quello per i referendum abrogativi da 500 mila a 800 mila elettori.
Cambiare la Costituzione è un evento di rilevanza storica. Perché cambiamo? Renzi e il suo governo hanno la legittimità politica e morale che aveva l’Assemblea Costituente? Evidentemente no.

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Copertina del libro Viva il re! di Marco Travaglio

Copertina del libro Viva il re! di Marco Travaglio

Bisognerebbe ringraziare Umberto Nobile, sfortunato protagonista di trasvolate polari, che si trovò contro Balbo e il fascismo, scelse l’esilio nell’Unione Sovietica e negli Stati Uniti e fu eletto deputato alla Costituente, tra gli indipendenti nelle liste del PCI; con lui merita un ricordo per la cultura e la passione civile, Paolo Rossi, giurista e perseguitato politico eletto alla Costituente, al quale i fascisti bruciarono lo studio e la censura bloccò i libri che aveva scritto. Rossi scrisse della «pena di morte e della sua critica» in un Paese così imbarbarito, da ripudiare Beccaria e tornare alla pena capitale. Sul significato storico della parola «tornare» manca – e sarebbe molto utile – uno studio accurato, in un Paese che ritiene attuale il codice penale fascista, ma rottama la Costituzione nata dalla Resistenza e lo fa, in un’Europa tornata alla guerra con la tragedia balcanica, tornata al colonialismo con i raid sulla Libia, tornata al razzismo, tornata ai confini sbarrati, tornata ai campi d’internamento, tornata allo sterminio quotidiano, che oggi tocca ai migranti, e tornata alle alleanze con i «dittatori amici».
Bisognerebbe ringraziarli, perché seppero difendere una norma che poteva sembrava superflua e oggi costituisce l’articolo 139, l’ultimo della Costituzione, quello che afferma un’apparente ovvietà: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». E’ questo il testo definitivo e lo si deve a Nobile. In tanti lo ritenevano inutile e antigiuridico, ma per fortuna Gronchi, esprimendo il voto favorevole dei democristiani, ricordò che la forma dello Stato era stata scelto con un referendum ed era quindi «evidente che […]essa non potrebbe essere modificata che da una consultazione diretta fatta nella stessa forma attraverso la quale essa è sorta». Quell’articolo. «ha il valore di una solenne affermazione politica che la prima Costituzione italiana non può, in alcun modo omettere», sostenne Rossi, perché l’immutabilità della forma repubblicana conclude quasi tutti gli ordinamenti giuridici repubblicani.
Quanti di quelli che hanno approvato la nuova Costituzione conoscono le attuali Costituzioni repubblicane? Quanti hanno letto le migliaia di pagine con le discussioni dell’Assemblea Costituente? Probabilmente nessuno. La stragrande maggioranza non le conosce, benché quelle pagine spieghino le ragioni storiche, politiche ed etiche per cui la Costituzione è come noi la leggiamo. Ripugna alla coscienza che qualcuno cambi qualcosa senza conoscerla a fondo, soprattutto se si tratta di Costituzione, perché gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato che, se gli interessi in gioco lo richiedono nulla può esser dato per certo, nemmeno la forma repubblicana. Giorgio Napolitano, infatti è stato eletto due volte Presidente della Repubblica. Poteva farlo? Si è detto che la Costituzione non lo proibisce. Ed è vero. Ma essa non proibisce nemmeno che qualcuno sia eletto tre, quattro e pure cinque volte. Napolitano ha potuto introdurre così una novità assoluta, che per ora, spiace per Rossi, Nobile e Gronchi, potremmo definire «Presidenza lunga», o forse meglio «Principato di Napolitano». Qualcuno, percorrendo la sua via, potrà domani prolungare il soggiorno al Quirinale per il numero di volte che gli sembrerà opportuno. La Costituzione non si pronuncia e un Parlamento riformato come vogliono Renzi, Boschi e Verdini si limiterà ad approvare.
In realtà, sulla rielezione del Presidente della Repubblica c’è stata una inspiegata amnesia collettiva ed è sembrato che alla Costituente non se ne sia parlato. In realtà se ne parlò e sulla rielezione, soprattutto immediata, prevalse il dissenso. Lussu, ad esempio, propose di limitare a cinque anni il mandato, e il socialista Antonio Costantini dichiarò che «il carattere parlamentare della Repubblica» rendeva «impossibile la perpetuazione della tendenza al potere del Presidente eletto». Salvatore Aldisio, cattolico e antifascista, fu per la rielezione per «non più di una volta», ma chiese un mandato di sei anni. Replicando, il socialista Lami Starnuti chiese di tenere fermi nel testo i sette anni, ma di aggiungere che il Presidente «non è rieleggibile». Una scelta saggia che non trovò fortuna. Paolo Rossi, perplesso, suggerì allora una modifica alla modifica: «non è immediatamente rieleggibile», ma non ebbe fortuna. Sul tema tornò Togliatti in seduta plenaria Togliatti, chiedendo di aggiungere la non eleggibilità consecutiva e Nitti, precisè che avrebbe ridotto il mandato a quattro anni, per limitare i danni di eventuali rielezioni. Fu il giovane Aldo Moro a prendere in considerazione la rielezione di un «buon presidente» ma prevalse infine la necessità che un presidente durasse in carica per sette anni, in modo da garantire la stabilità del sistema. Sulla rielezione ci furono aggiunte nel testo, ma l’andamento della discussione e le preoccupazioni di uomini di Lami Starnuti, Lussu, Togliatti e Nitti, ci dicono che la maggioranza non era favorevolea. In un Parlamento privo di legittimità, però, nessuno, meno che mai Giorgio Napolitano, ha voluto tenerne conto. Di fatto, un presidente rieletto non s’era mai avuto e ci sono voluti un pessimo Presidente e un Parlamento di «nominati».

 Contropiano, 26 agosto 2016; Fuoriregistro, 28 agosto 2016.

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Foto x sito Bruno 5Voglio segnalarlo. E’ un caso di severissima miopia, incurabile per lo storico, che invita i discepoli di Ippocrate a cercare però rimedi, in nome di quella umana compassione che il giuramento impone giustamente ai medici: preoccuparsi del bene dei malati, secondo le forze e il giudizio. Dei malati, aggiungo di mio, con il dovuto rispetto, e di quanti dalla cattiva salute del malato in qualche modo dipendono, perché da questa terribile miopia, ostinata fin quasi alla cecità, possono ricevere – e in questo caso hanno ricevuto – danni seri, morali e materiali.
C’è un luogo comune da sfatare: la storia non si ripete, si dice spesso, e qualcuno ci aggiunge un codicillo da saputello, per informarci che nelle rare circostanze in cui si ripete, l’evento muta genere letterario e da tragedia ch’è stato, diventa farsa. Gli addetti ai lavori lo sanno e gli archivi, con i loro polverosi documenti, confermano: la storia ha variabili e costanti, eventi che si puntualmente si ripetono e alla prova dei fatti confermano l’esito degli esperimenti di laboratorio. Una costante, una di quelle più solide scientificamente e, di conseguenza, più capace di tutte di indurre alla riflessione – ecco il caso che intendo segnalare – è la stupida miopia dei realisti più realisti del re. Un caso recentissimo e lampante s’è verificato pochi anni fa con un Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica, di così dubbia legittimità che a molti è parso solo un proconsole dell’Europa. Questo signore scriveva i comunicati del suo governo in lingua inglese, invece che nell’italiano di Manzoni e giustificava la decisione con un’affermazione che, a distanza di pochi anni, pare ad un tempo tragedia e farsa: è l’inglese la lingua ufficiale dell’Unione Europea.
Colto dalla gravissima forma di miopia, quest’uomo dallo sguardo annebbiato, vedeva nell’italiano la lingua di una colonia e riteneva giusto per la sua dignità di statista, parlare la lingua dell’Impero. Per tutto il tempo che è stato in carica, i cittadini della repubblica, soprattutto quelli che non conoscono l’inglese, sono stati di fatto offesi e discriminati e hanno dovuto arrangiarsi. Il popolo, che a dar retta alla Costituzione è sovrano, in genere non capiva un bel nulla e chi l’inglese non lo conosceva era declassato a sovrano di seconda scelta, subiva la discriminazione, ma aveva altro cui pensare perché ogni comunicato anglosassone celebrava i funerali di un diritto e il lavoro su cui si fonda la Costituzione stava diventando l’araba fenice. Ogni giorno erano botte da orbi e i suicidi non si contavano, ma subito entrarono in azione i «ministeriali di ferro»: pennivendoli, velinari  servi del potere non persero occasione per cantarne le lodi. Politologi d’ogni colore, editorialisti e osservatori politici, andarono tutti in brodo di giuggiole, quando il proconsole segnò sul calendario della nostra vita politica un nuovo insuperabile record, una svolta epocale: per la prima volta nella storia degli Esecutivi italiani, sul sito web istituzionale apparve un comunicato stampa nella lingua di quella che fu la «perfida Albione». Chiunque si fosse preso la briga di dare uno sguardo, sarebbe rimasto stupito. Ora non tutto è stato accuratamente cancellato, ma la prima informativa nella lingua imperiale era indiscutibilmente affascinante: «Italian economy picks up in 2013; structural balance remains on track». Una musica deliziosa per timpani educati. C’era della poesia in quel governo tecnico.
Come musulmani giunti alla Mecca, in una sorta di trance, i «ministerialisimi» si affrettarono a spiegarci con invidiabile tempismo che quel comunicato tecnico di due pagine web, pieno zeppo di dati esposti con perizia grammaticale e lessico di livello superiore, era figlio di un’accorta strategia: fornire messaggi subito comprensibili e, ciò che più conta, rassicuranti agli immancabili investitori esteri. Un progetto spregiudicato e lungimirante, si disse in un delirio internazionalista, però le ciambelle non riescono tutte col buco, si dice da noi nel provinciale idioma di Dante e Manzoni, e non tutto andò per il verso giusto. In Francia, ove, si sa, gli investitori sono una manica d’ignoranti, non solo non capirono nulla della nuova «comunicazione istituzionale in Italia» e non seppero cogliere il grande sforzo di attirare capitali dall’estero, ma in un provincialissimo francese la Fnac manifestò addirittura l’intento di lasciare l’Italia.
Che dire? Forse la rivoluzione era stata troppo radicale, forse il Governo avrebbe dovuto scrivere  comunicati anche in francese, perché da quelle parti sono tutti piuttosto nazionalisti. Non è facile capire, pareva una Torre di Babele e sta di fatto che a Parigi, abituati forse a leggere in Italiano i nostri comunicati, si confusero e ci presero per inglesi. Può darsi, poi, che gli “ombrosi mercati” si allarmassero: «l’Italia è messa così male, che il suo governo ha rinunciato a farsi capire dai cittadini e parla esclusivamente agli “investitori esteri!», si pensò. In fondo, i mercati non lo sanno che qui da noi i cittadini non contano più nulla…
Va bene così, sostennero i malati di miopia severa vicini alla cecità: la Fnac se ne va, ma il governo ci ha provato e i «tecnici» sono innovativi. E’ accaduto, poi, che non se n’è andata solo la Fnac. Se n’è andato addirittura il Regno Unito. A corto d’idiomi, abbiamo fatto ricorso alla neolingua di Orwell e s’è parlato di Brexit. Intanto non abbiamo una lingua e forse il massacro della Grecia ci indurrà ad adottare il tedesco ma, in attesa che i discepoli d’Ippocrate giungano in soccorso dei miopi ormai quasi ciechi, in vista del referendum istituzionale, sarà il caso di ricorrere all’italiano, per capire cos’è accaduto. Soprattutto essere certi che la miopia serissima non abbia attaccato le meningi e non sia diventata contagiosa, perché chi ha deciso di scrivere rottamare la Costituzione, bene certamente non sta.

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1. Costituente e Costituzione: la «cultura dell’antifascismo»

ministri-arrivo-quirinale-140222123943_bigIl primo documento ufficiale sulla Costituzione è un decreto legge firmato il 25 giugno 1944 da Umberto II di Savoia. Dopo la liberazione, si legge, «le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che a tale fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per determinare la nuova Costituzione dello Stato». La guerra insanguina il Paese, ma il governo è guidato dall’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi e su venti ministri, dodici sono antifascisti: l’azionista Alberto Cianca, confinato e fuoruscito, Benedetto Croce, il cattolico De Gasperi, che ha conosciuto la galera fascista, lo storico della filosofia Guido De Ruggiero, arrestato e destituito dall’insegnamento, Giovanni Gronchi, cattolico e uomo della Resistenza, i comunisti Palmiro Togliatti, tornato dall’Unione Sovietica, e Fausto Gullo, ex confinato, il socialista Pietro Mancini, reduce dal confino e dal carcere fascista, Meuccio Ruini, perseguitato politico, il socialdemocratico Saragat, evaso da Regina Coeli, e Carlo Sforza, liberale, ex ministro e fuoruscito. Tutti, tranne De Ruggiero, saranno poi nell’Assemblea Costituente.
Sono giorni terribili nella storia dell’umanità; l’Italia, che paga le sue responsabilità per l’immane tragedia, è un campo di battaglia e sui monti la guerra partigiana è senza quartiere. Iniziata nel settembre del ‘43 a Napoli, insorta contro i nazifascisti, durerà fino al 25 aprile del ‘45. In quei giorni, però, non «muore la patria», come sostengono Galli Della Loggia e una destra che non si è mai riconosciuta nell’Italia della Resistenza. In quei giorni, per dirla con la felice espressione di Gaetano Arfè, «la cultura dell’antifascismo», consegna al Paese l’eredità preziosa che nel suo insieme la Costituzione, non i suoi soli principi fondamentali, tradurrà in norme fondanti. Sono i valori nei quali, a guerra finita, si riconosce buona parte del popolo italiano: ideali di libertà, di pace e solidarietà tra i popoli. Prima ancora che nelle norme, però, essi si sono affermati nelle coscienze, sostituendo la concezione della vita imposta dal fascismo e che purtroppo oggi riemerge: il mito del capo, la scala gerarchica tra caste, classi e razze, la violenza come motore della vicenda storica. I deputati della Costituente, portavoce di questo cambiamento, traducono con sapienza giuridica un dato che è anzitutto storico. Essi potranno scrivere la Costituzione, così com’è, solo perché sono parte di un processo che giunge a compimento e ha radici nel corpo della società. In condizioni diverse, senza quel mutamento, senza quella cultura, essi non avrebbero potuto mai scriverla com’è. Una Costituzione non nasce «a freddo». E’un punto di svolta, il perno attorno al quale un Paese volta pagina e consacra il futuro che ha conquistato. Vico sostiene che la storia è un incessante ripetersi di cicli e raggiunta l’età «civile» torna a quella «primitiva». La Costituzione del ‘47 apre la nostra età «civile», dopo un’esperienza dolorosa, drammatica e collettiva; si può aggiornarla, ma rifarne un articolo. su tre, significa abolirla e questo segnerebbe il punto di caduta verso il basso, il ritorno all’età «primitiva».
Proprio in quei giorni, affrontando il plotone di esecuzione, Giacomo Ulivi, un partigiano di appena vent’anni, rivolge a chi potrà leggere parole che spiegano più di mille discorsi ciò che accade nelle coscienze libere: «Dobbiamo […] abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali», afferma , poi prosegue:

«Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita? […] In questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione […]. Per venti anni […] . tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti. Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica ci siamo stati scaraventati dagli eventi. […] Per questo dobbiamo prepararci. […] Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere».

Quando, nell’autunno 1945, nascono la Consulta Nazionale e il Ministero della Costituzione, due nuovi dati emergono chiari: la maturità di un popolo, consapevole dell’importanza del passo che sta per compiere e la comune volontà di ogni forza politica di giungere all’appuntamento con la necessaria preparazione. La materia prima, tuttavia, è accessibile a tutti, perché ogni elettore, anche i più giovani, ha vissuto e pagato sulla propria pelle il conflitto sociale, la violenza delle passioni ed è stato in qualche misura partecipe di un risveglio. Non si tratta di astratte teorie o semplice propaganda. Dietro le varie bandiere c’è una tragica e sofferta esperienza vita. L’omicidio Matteotti, l’incendio del Parlamento tedesco, la guerra di Spagna, la battaglia nei cieli di Londra, la tragedia di Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima, l’occupazione, la guerra in casa, la Resistenza, sono eventi che hanno scosso nel profondo anche le persone più semplici e meno attrezzate culturalmente. E’ la vita vissuta a produrre esperienze e valori che danno un senso e contenuti a parole che il regime aveva cancellato: libertà, pace, giustizia sociale, democrazia, solidarietà. Questo e tanto altro significano l’antifascismo e quella Resistenza che, scrive Arfè, è il crogiuolo «nel quale tutte queste esperienze si fondono: ne nasce una cultura nella quale tra ideologie diverse e tra loro contrapposte si instaurano nuovi dialettici rapporti e tutti finiscono con l’innestarsi in una trama unitaria intessuta col filo dell’antifascismo e dell’antinazismo».
La Repubblica è nei fatti, così come la prevalenza di antifascisti militanti, di vite intensamente vissute e grandi sogni, tra i deputati della Costituente, che provano a dare risposte durature a una sola domanda: come si costruisce un Paese senza guerra e dittatori, in cui ognuno è un «sovrano»? . La scienza non basta. Ci vuole coscienza storica. ma l’Assemblea non manca e la risposta giunge: occorre il sovrano di un Paese fondato sulla dignità dei cittadini. E poiché il solo possibile sovrano di uno Stato senza ragion di Stato è il popolo, si parte da qui: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…».
Perché funzioni, occorreranno libere discussioni, articoli collegati tra loro, 347 sedute – di cui 22 con prolungamento serale e notturno – 1663 emendamenti, dei quali 292 approvati, 314 respinti, e 1057 ritirati o assorbiti; 275 oratori parleranno in 1090 interventi; ci saranno 15 ordini del giorno e sulle decisioni più controverse 23 votazioni per appello nominale e 43 a scrutinio segreto. Concluso il lavoro, Piero Calamandrei, un grande giurista, pur riconoscendone limiti, carenze, contraddizioni e persino ambiguità, saluterà nella Costituzione, un compromesso di altissimo profilo tra forze politiche e correnti ideali che hanno fatto la storia del Paese, poi interrogando se stesso, le augurerà vita fertile e duratura:

«Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana dove un secolo fa sedeva e paralava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia, e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andare dei secoli la storia si trasfiguri in leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi banchi non siamo stati noi, uomini effimeri i cui nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio da Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni nelle quali l’eroismo è giunto alle soglie della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il lavoro che occorreva per restituire all’Italia la libertà e la dignità».

Nessuno in quei giorni avrebbe mai potuto immaginare Renzi, Boschi, Napolitano e un Parlamento abusivo.

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1396125529-uccelli-del-malaugurioVoglio essere onesto. La mia presenza da un po’ è saltuaria, la mia vita precaria come precaria è sempre la vita e stamattina ho avuto mille da cose da fare, perciò ci ho pensato tardi e tardissimo mi decido. Buon ferragosto a tutti, come si suole scrivere, senza pensare a qualcuno in particolare. Una precisazione però la voglio fare: buon ferragosto a tutti, tranne Matteo Renzi, Giorgio Napolitano e quell’aquila della Boschi che ancora non mi ha spiegato com’è che è diventata ministro.
A loro Ferragosto glielo auguro pessimo, anzi no, pessimissimo !!!!!!!!!!!!

Aglie e fravaglie
cape ‘e alice e cape d’aglio”
e fatture ca nun quaglie.
Uocchie, maluocchie
e frutticielle
‘int’all’uocchie,
corna, bicorna
e la sfortuna ca nun torna,
diavulillo diavulillo,
jesce a dint’o pertusillo…
sciò sciò ciucciuvè!

 

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Elezioni-Istruzioni-per-l-uso_h_partbIl governo dei traditori della Costituzione, la banda del magliaro fiorentino e la sua anima nera, il bipresidente Giorgio Napolitano, hanno allungato l’elenco dei crimini dei quali saranno chiamati a dar conto alla storia: abbiamo rimesso i piedi in Libia, l’abbiamo fatto a mano armata e ora siamo di nuovo lì, sullo scatolone di sabbia insanguinata che copre immense risorse petrolifere. Andammo a conquistarlo con la forca e con le deportazioni di massa, ai tempi di «Faccetta nera» e «Tripoli bel suol d’amor», ce ne cacciarono, poi, con le ossa rotte le potenze plutocratiche. L’Impero affogò, così, assieme ai suoi sventurati soldati che attraversavano in fuga il Canale di Sicilia, come oggi i migranti africani, e facevano da bersaglio ai mitra dei caccia Alleati.
Il mondo cambia e «l’Italia, proletaria per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai», non va più di moda. Stavolta, perciò, non ci siamo andati come disoccupati, straccioni e mano d’opera esuberante, ma per impedire una inesistente «invasione» di disperati e straccioni, in fuga dalle loro terre distrutte e terrorizzate dai nostri bombardamenti. Il petrolio se lo prenderanno gli americani e a noi toccheranno i costi della losca e dissennata impresa. L’avete visto, no? Non cantano i nostri soldati, stavolta non ci sono fanfare e non si marcia alla velocità dei bersaglieri. I soldati stanno nell’ombra e si nascondono persino al Parlamento, ammesso che l’accozzaglia di nominati e signorsi accampati in Senato e alla Camera, si possa definire Parlamento.
A tradimento, con il più sovrano disprezzo per la sovranità popolare e con una cecità destinata a produrre disastri, questo governo di sedicenti costituzionalisti, di incompetenti e di portaborse, si prende la responsabilità etica, giuridica e politica, di associarsi all’ennesimo crimine degli Stati Uniti dì America e alla miseria morale dell’Unione Europea, ricattata dall’alleato Erdogan, dittatore e volgare bandito da strada. Se e quando un reduce delle stragi che stiamo causando si vendicherà e avremo il nostro Bataclan, ricordiamocelo: non sarà un islamico fondamentalista il terrorista di casa nostra, ma un pagliaccio, travestito da Presidente del Consiglio e sostenuto da un vecchio osceno al quale paghiamo stipendi d’oro da più di mezzo secolo.
Ricordiamocelo, teniamolo bene a mente e regoliamoci di conseguenza, quando infine avremo in mano il mitra: spariamo a raffica milioni e milioni di «no», vinciamo il referendum, poi li metteremo spalle al muro e gli chiederemo conto del male che stanno facendo. Non abbiamo mai avuto nemici più feroci, più vigliacchi e più pericolosi.

Contropiano, 16 agosto 2016

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ImmaginePer Renzi, Fabrizio Rondolino, è sinonimo di cretino. Il re dei cretini. Lo dicono i soliti bene informati, che preferiscono mantenere l’anonimato. Il pupo fiorentino, infatti, ne avrebbe le scatole piene. «Rondolini, te tu sei tonto e pure grullo!» – gli avrebbe urlato – «Ogni volta che apri la bocca, parte una sassata diretta al governo».
E come dargli torto?
L’ultima il Rondolini l’ha combinata proprio in questi giorni, insultando i docenti meridionali che protestano per le porcate del Miur.
“Se gli insegnanti del Sud che urlano in tv conoscessero l’Italiano, almeno capiremmo che vogliono“, ha scritto con l’abituale violenza l’ex consigliere della Santanché, scatenando l’ira di Renzi, che avrebbe deciso di mollarlo: «Basta, Rondolini, tu mi rovini! Gli insegnanti del Sud risponderanno al referendum con una valanga di no… Ma tu da che parte stai?».
Nel frattempo si dice che all’ANC, l’Associazione Nazionale Cretini, ci sia bufera e l’associazione minacci addirittura di querelare Renzi. Cretini, sì, sostengono all’ANC, ma Rondolino no, Rondolino è veramente troppo. Anche i cretini hanno una dignità!

Contropiano, 8 agosto 2026, Fuoriregistro, 9 agosto 2106 e Agoravox, 10 agosto 2016

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banchieriCon la consueta schiettezza un ottimo amico, onesto, riflessivo e preparato, ha scritto due parole semplici, chiare e ricche di umanità:

«Non amo i numeri, anzi per la precisione,non credo nei numeri. Sin da bambino. Mio nonno, quando mi insegnava a giocare a carte chiudeva sempre la sua lezione dicendo “la matematica non è un’ opinione”, sancendo così la stessa come scienza esatta, nel senso che, a briscola, se lui aveva fatto 70 punti, io inevitabilmente ne avevo fatti 50. Non uno di più ne uno di meno».

Naturalmente la sua diffidenza per i numeri non si ferma al nonno e la sua spiegazione merita il massimo rispetto. La logica dei numeri, prosegue, infatti,

«quella che prevale nel mondo, è quella che fa accettare come verità inoppugnabile il fatto che a 50 anni sei già vecchio per lavorare, che a 60 una donna non può essere madre. La logica dei numeri è quella che stabilisce, per esempio, che i governi d’Europa non possono sforare il rapporto del 3% tra entrate e uscite pubbliche. E dietro quel numero, quel banalissimo numero,3%, si pongono le vite di milioni di persone».

Sulla maternità della sessantenne e su quanti anni ci occorrono per essere vecchi, nessuno eccepisce, ma poiché siamo ormai tutti economisti, sul 3 % e sui numeri in generale, apriti cielo! «Guarda che non sono uno sprovveduto» – gli fa indispettito un commentatore – «I numeri sono l’unico modo di interpretare la realtà…». Questi sono tempi in cui se ce l’hai coi numeri, ti trattano come il Santo Uffizio trattava gli eretici: ti abbrustoliscono in piazza. Io però gli do ragione al mio amico e pazienza se in piazza poi bruciano anche me. I numeri sono un modo di interpretare, non l’unico e tutte le interpretazioni hanno bisogno di parametri di riferimento. Se io non mangio nulla e un altro mangia due polli, i numeri diranno che siamo in due e abbiamo mangiato un pollo a testa. Non interpreteranno la realtà, ma la stravolgeranno. In quanto al 3 %, è stato scelto da un burocrate a cui fu detto di far presto. Nessuno verificò e tutti fecero l’elogio dei seri calcoli fatti. Lo dice il giornale della Confindustria e nessuno l’ha mai smentito, perché è vero.
Una scienza è tale se formula ipotesi, le verifica e dimostra che a condizioni date il risultato è ovunque e comunque quello ottenuto in sede sperimentale. L’economia, ripetono ossessivi i nostri politici, spalleggiati da una stampa sempre più serva, è una scienza, le leggi di mercato esistono,  hanno comportamenti prevedibili e consentono di predire il futuro. Sulla base di questa credibilità scientifica ci si racconta quotidianamente, con infinita arroganza, che sono la domanda e l’offerta a condizionare le nostre vite, non le scelte politiche effettuate in conseguenza delle predizioni degli analisti economici. Un bombardamento quotidiano di «certezze» ci presenta le leggi del mercato come «naturali» quanto la legge di gravità. Per alta che sia la soglia d’attenzione e il senso critico di un ascoltatore, è difficile impedire alla nostra mente di immaginare gli economisti come matematici in grado di elaborare dati certi, utilizzando equazioni e diagrammi da cui ricavare la predizione del futuro.
Le cose stanno davvero così? La predizione di un economista ha il grado di certezza di quelle di un fisico? La risposta a questa domanda non è banale. Se è positiva, vuol dire che gli economisti sono scienziati. Se è negativa, significa che sono poco più che astrologi, alchimisti capaci di descrivere tutt’al più in senso probabilistico una realtà sostanzialmente ignota. Per elaborare una predizione, che, essendo fondata su probabilità, retrocede subito al rango di previsione, l’economista esamina il passato – spesso filtrato attraverso la statistica – e applica teorie a variabili legate al caso e al rischio. Ne viene fuori un dato necessariamente soggettivo, frutto di esperienze diverse e  conoscenze e dottrine diverse. La previsione, pertanto, produce aspettative più o meno razionali e dati statistici da verificare, ma non ha la solennità della predizione, una parola che si riferisce a certezze, a risultati già verificati in laboratorio in ogni possibile condizione che hanno valore di dato scientifico. L’analista economico propone uno scenario, in base a un valore atteso dalla elaborazione e dalla distribuzione di probabilità scelte soggettivamente. In un quadro di crisi e di endemica incertezza non può avere alcuna pretesa di profezia o di verità perché per ottenere questo risultato occorrerebbe un veggente.
Ci parlano ogni giorno di «modelli dinamici stocastici di equilibrio generale (DSGE)»; ce li presentano come certezze, ma due cose sono certe: li elaborano le banche centrali per regolare l’economia e risultano puntualmente sballati sette giorni dopo che sono stati dati per infallibili. Se glielo fai notare, gli economisti ti guardano dall’alto in basso, lasciando trapelare il disprezzo del matematico che, secondo la lezione di Galilei, interpreta la natura. Il problema è che l’economista non utilizza la matematica come fanno i fisici e sono in tanti ormai a sostenere che

«i principali “gioielli della corona” della scienza economica sono del tutto privi di riscontri empirici e non possono essere confrontati. […] con dati osservativi perché la previsione che scaturisce da una teoria e consente di verificarne gli enunciati con esperimenti cruciali è impossibile in economia».

Ogni giorno ci troviamo di fronte ad affermazioni di carattere assiomatico, certezze che non occorre dimostrare, dogmi simili a verità di fede, contro le quali è pericoloso manifestare dubbi, pena la scomunica. I politici, mai così culturalmente indigenti, fanno ormai gli aristotelici in polemica con gli anatomisti neoplatonici: «è vero sì, si vede bene che tutti i nervi portano al cervello, ma Aristotele dice che l’intelligenza è nel cuore…».
Ogni giorno una «certezza» naufraga. Ogni giorno una predizione si dimostra campata per aria e ha conseguenze tragiche sulla vita degli uomini, però nessuno ha quel tanto di umorismo necessario per ricordare ciò Nicolas Chamfort ebbe a scrivere sugli economisti: sono ottimi anatomisti, ma chirurghi scadenti: fanno meraviglie sui morti e massacrano i vivi.

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Archeologia-Prometheus-3Il furto del fuoco rubato a Prometeo si narra in mille modi, però, comunque lo racconti, ricorda l’antichissimo e innato bisogno di emancipazione dell’uomo. E’ un tema universale: la lotta per il progresso, che è soprattutto lotta per la conoscenza e il possesso del sapere. Il fuoco non scalda i corpi diversamente da quanto la conoscenza riscalda l’animo dell’uomo e lo rende ribelle di fronte alla prepotenza del potere. Prometeo «colui che riflette prima», il Titano che ama il genere umano, altro non è se non la metafora d’una lotta inesausta, identica a se stessa nell’apparente trascorrere del tempo: lotta contro il potere dei pochi, affidato all’ignoranza dei molti. Prometeo non ha un suo tempo, perché il nostro passato è stato presente e il futuro domani diventerà un nuovo presente e poi ancora passato. Su tutto, dai primordi, quel conflitto senza il quale – ci ammonisce Eraclito – non ci sarebbe vita.
A fine Ottocento, Prometeo fu l’operaio in lotta per la scuola gratuita, aperta a tutti e per la refezione scolastica. Fu l’operaio che impose con le lotte ai falsi «vati» del liberalismo una legge di riscatto, smascherando l’inganno: non era onesto e non rispondeva ai bisogni reali della gente l’incitamento rivolto al legislatore da Carducci che, dall’alto della sua cultura diventata potere, scriveva con toni di padre e intenti patrigni: «sottraete il figlio del lavoratore alla sofferenza dell’alfabeto». L’operaio voleva soffrire di quella pena, perché ogni parola che imparava a leggere lo rendeva Prometeo e lo spingeva a rubare la scienza dei padroni. arma possente di liberazione. Si videro così cortei con le bandiere rosse attraversare i «corsi» e i «rettifili» di città, rifatte a misura di ricchi, pronte a mettere ai margini le «classi pericolose», facendo ricorso allo sfruttamento del lavoro. Ogni parola svelava il segreto che Prometeo aveva  carpito ai numi: senza il fuoco della conoscenza lo sfruttato è il miglior alleato dello sfruttatore, perché non ha coscienza dei diritti.
Il fuoco esiste per riscaldare tutti e tutti hanno diritto all’alfabeto: chi lo userà per sfruttare e chi si approprierà del sapere per lottare.
Il futuro che seguì quelle lotte oggi è il nostro passato. Qualcuno l’ha chiamato «secolo dei lavoratori» e tutti i padroni lo sanno, benché non lo dica nessuno, perché ci sono verità che il potere nasconde come segreti di Stato: la generazione dei rivoluzionari bolscevichi nacque dall’improvvido regalo di uno zar narcisista più che riformatore: la scuola per tutti, gratuita e libera produsse il populismo russo e quest’ultimo i rivoluzionari. Quando si corse ai ripari, si fece la scuola di Renzi, ma era ormai tardi e cadeva il Palazzo d’inverno, per merito dell’alfabetizzazione più che dei fucili.
Contro Prometeo, i padroni d’oggi hanno rovesciato la storia e rubato il fuoco, che lasciano deperire, riducendo in cenere le scuole e le università languenti. A chi vuole ravvivarlo si oppone la forza di titani maligni nemici del genere umano: dirigenti del nulla, che hanno il compito di spegnere intelligenze critiche e trasformare le scuole in fabbriche di sfruttati consenzienti, costringendo i docenti a rinnegare Prometeo. Per realizzare il progetto di questo governo liberticida, i dirigenti scolastici hanno scelto un nuovo modo di assumere docenti: un filmato in cui si veda per intero la figura di chi si «candida». E’ sempre più evidente: la nuova filosofia della conoscenza ha cancellato dalla storia l’apologo di Menenio Agrippa e il suo irrinunciabile insegnamento. Essa ci riconduce ai primordi dell’umanità, all’eterna lotta per la libertà contro il potere.
Prometeo però è immortale e il fuoco non può avere padroni. Sarebbe ora che Abravanel, Giavazzi, Ichino e tutti i sacerdoti del neoiberismo se ne ricordassero, invece d’inseguire fantasmi che hanno prodotto disastri: Prometeo non è un solo mito, è un modo d’essere dell’uomo nella storia di tutti i tempi. Come un passero intrappolato, piuttosto che vivere in gabbia, si rompe le ali contro le gabbie per riconquistare la libertà di volare, così l’uomo sfida le imposizioni e mette in gioco la vita, se il potere prova a imporgli un’ideologia di annientamento della sua libertà di scelta. Hai voglia di giocare con le parole. Se hai riconosciuto che la conoscenza è «un bene della vita», è inutile ricordare che costa, come costano le polizze assicurative, sicché i giovani che non possono permetterselo devono rassegnarsi, perché la scuola per tutti ha un prezzo troppo alto. Non c’è prezzo troppo alto quando si parla di vita e perciò, finché c’è tempo, giù le mani dalla scuola. Sebbene a lunga combustione, una miccia giunge a innescare la carica esplosiva per cui è stata accesa. Qualcosa dovrebbe pur dircela la barbarie che monta ogni giorno di più. Da troppo tempo il potere ha rovesciato con la forza il corso della storia, rubando a Prometeo quel fuoco che filosofia della storia e leggi del progresso umano gli avevano imposto di rubare. E’ tempo di restituire il fuoco al legittimo proprietario. Per il bene di tutti, padroni compresi.

Fuoriregistro, 2 agosto 2016; Agoravox, Psicoanimismo e la Sinistra Quotidiana, 3 agosto 2016

 

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