Perché Edward Luttwak, consulente strategico dei governi Usa, sia ospite più o meno fisso dei nostri sempre più squallidi talk show è un mistero glorioso. Di solito, quando lo vedo, cambio subito canale. Questa gemma, che regalo ai cari pacifisti armati, me l’ha segnalata un amico, non per caso discendente di un “sovversivo” perseguitato nell’Italia di Crispi: Ferdinando Kaiser, che con le sue belle foto è attento e acuto testimone delle luci e delle ombre del nostro tempo. «L’Europa è cresciuta con la guerra» afferma Luttwak, ospite di «Quarta Repubblica». «L’Europa ha conosciuto sviluppo e crescita con la guerra. Sempre. Ora è finito questo strano periodo di pace. Siamo nel post-pacifismo. Tutti, a partire dalla Germania. hanno voltato pagina e si riarmano. Gli uomini amano la guerra, le donne amano i guerrieri. Il pericolo della guerra nucleare non c’è, perché i russi non vi ricorreranno mai. Io ho fatto tre guerre. E’ stata un’esperienza bellissima e invito gli italiani a considerarla». Questa, amici e compagni arcobaleno, che chiedete armi per gli ucraini, è l’equivoca compagnia che avete scelto.
Giovanni Bergamasco nasce a Pietroburgo il 1° gennaio 1863 da Carlo e Maria Paulowna. Grazie al talento con cui usa la fotocamera, il padre è diventato vice Presidente della Società fra gl’italiani di Pietroburgo e fotografo dello zar. La nascita di Giovanni coincide con una riforma che apre la scuola ai poveri, agevola l’accesso delle donne alle superiori e garantisce libertà d’insegnamento. Prima di essere ucciso nel 1881, Alessandro II, temendo che la riforma allevi «sovversivi», l’abolisce. Bergamasco giunge all’università quando il nuovo zar, Alessandro III, cancella la rappresentanza studentesca e l’autonomia universitaria e vieta agli studenti di gestire le loro biblioteche e la stampa manoscritta, ma li spinge così a fornire i primi militanti alla rivoluzione. Nel clima di cospirazione che vive all’università, Bergamasco si avvicina alle frange estreme del movimento e nel 1884, segnalato come «ardente nichilista», fugge prima in Svizzera, poi a Napoli, dove vive una sorella sposata. Giunto in città con la fama di nichilista «fanatico» e «violento», il giovane, che parla in russo, francese e tedesco, suscita mille sospetti. Ha una casa in fitto a Mergellina, ma non vi dorme e vive con Barbara Walbery Tourenen, una donna incinta, considerata un’amante finché non si accerta, carte alla mano, che è davvero la moglie. Benché esca pochissimo e trascorra le serate a casa della sorella, gli si crea attorno un alone di mistero, alimentato dalla sua audacia – una sera giunge a fermare un agente per chiedere conto del pedinamento – e dalle difficoltà dei poliziotti, che affermano di non riuscire a stargli dietro perché è troppo veloce. Per mesi l’enigma Bergamasco agita i sonni del questore, finché non si scopre che alla fine del 1885, volontario in cavalleria, ha portato in caserma idee libertarie e dopo il congedo ha stretto rapporti con gli internazionalisti. La sorveglianza si stringe – stavolta si bada anche alla moglie, la «druda socialista» – e a fine agosto 1887, in vista di una visita a Napoli di Guglielmo II, la polizia scopre che Bergamasco è tra i più attivi promotori della campagna antimilitarista. In effetti, l’anarchico vive giorni di intensa attività. A settembre, infatti, fonda «Il Demolitore», organo del circolo «Il Lavoratore», che incita a colpire «con odio implacabile […] l’attuale ordinamento». Nel mirino obiettivi precisi: lo sfruttamento, anzitutto, offesa alla dignità degli
«operai, i quali, costretti dalle dure esigenze della vita, piegano il collo ai voleri di chi comanda, senza speranza di poter sollevare la loro misera condizione».
Una condizione figlia della superstizione, dell’ignoranza e della rassegnazione, che spengono il pensiero libero, sicché, schiavo dello Stato, «avvincolato dalla religione» e «pieno di pregiudizi», il lavoratore
«conformemente alla legge darviniana di selezione naturale, […] di generazione in generazione, si degrada, e, ciò ch’è peggio, diviene incapace, disadattato alla ribellione, abituato a piegar la testa ed a sottomettersi».
In queste condizioni, conclude il giornale, c’è una sola via: la ribellione. Se da Platone a Saint-Simon, i nuovi «sistemi di organizzazione […] sono riusciti vani», affermano Bergamasco e i suoi compagni, non «approderanno a nulla anche le nuove fantasticherie. Al contrario,
«l’ordine anarchico, l’armonia nasceranno da sé, naturalmente, dalla spontanea volontà degli uomini affrancati. […] Come diceva Bakunin, tutti i ragionamenti sull’avvenire sono criminosi, poiché impediscono la distruzione pura ed impastoiano il cammino della rivoluzione».
L’invito a lottare diventa perciò perentorio e pressante: «all’opera, compagni, alla ribellione!».
E’ con questo spirito che Bergamasco entra nel comitato per la liberazione di Emilio Covelli dal manicomio, ma nella lotta per salvare il compagno c’è l’inconsapevole presagio d’una minaccia: la psichiatria come strumento di annichilimento della personalità, che Bergamasco sperimenterà col fascismo. L’anno si chiude con l’apertura della «Lega delle arti meccaniche», una cooperativa di produzione che ha però vita breve.
A ottobre del 1888 l’anarchico è tra i fondatori del circolo «Miseria», di cui scrive il programma, inserendo accanto ai temi classici dell’operaismo e dell’anticlericalismo un elemento di modernità: la necessità che la donna,
«emancipata dalla tirannia dell’uomo, rivendichi la sua libertà, sicché nessuna legge […] torturi il suo povero cuore, violenti la sua libertà e calpesti la dignità sua con l’assurdo comando d’imporre l’amore verso un uomo anche quando egli la disprezzi, l’insulta e brutalmente la calpesta».
E’ un segnale di cambiamento profondo. Sia pure confusamente, Bergamasco tenta di allargare gli orizzonti, superare i confini «eroici dell’anarchismo più spinto» predicato dalla vecchia guardia internazionalista e far crescere la coscienza di classe. Non c’è foglio anarchico o circolo sovversivo in cui non ci sia traccia dello slancio innovativo che egli dà al movimento dei lavoratori. Punto di riferimento per la stampa clandestina che giunge da Londra, per la natura libertaria della sua formazione, il profugo evita rigide scelte ideologiche, sicché attorno a lui prende a muoversi un mondo: Ferdinando Colagrande, tipografo e uomo di punta della «Società Generale dei Lavoratori», Cetteo De Falco e la sua attiva «Unione Emancipatrice» dei calzolai, Gaetano Balsamo, raffinatore di guanti, col «Fascio delle Associazioni Indipendenti», il calzolaio Giacomo Reginella, punto di riferimento di un’associazione che ha in programma lo sciopero, e Giuseppe Serena, un sarto che guida una lega di resistenza. Sono operai anarchici e socialisti che intendono rifiutare la divisione in «caste separate, le quali rendono impossibile lo scioglimento dei problemi d’interesse generale» e si rendono conto della necessità di dar vita a un sindacato di classe. E’ un processo lento, che però guarda avanti. Non a caso, quindi, ai primi del 1889, Bergamasco firma un telegramma di solidarietà con le lotte dei disoccupati romani assieme al calzolaio Giacomo Reginella che, intanto, invita a liberare le società operaie dall’influenza di quanti approfittano per prendere i loro voti:
«operai e operaie […], affratelliamoci in una causa comune. Non si dica più han fatto sciopero i cocchieri, han fatto sciopero le sigaraie. Dovrà dirsi han fatto sciopero gli operai e le operaie. Allora sì che saremo invincibili».
Nel 1889 Bergamasco è socio del circolo «L’Operaio Emancipato» e a giugno si fa espellere dal congresso delle mazziniane «Società Affratellate». Di lì a poco, ai primi del 1890, è redattore del «Combattiamo!» di Genova e si fa due mesi di carcere per violazione delle leggi sulla stampa. Tornato a Napoli ed eletto segretario del Circolo «L’Emancipazione Sociale», il 30 aprile 1890 è arrestato con i membri di un Comitato accusato di voler dare carattere violento alla manifestazione del I Maggio. A gennaio del 1891 è in Svizzera, al congresso di Capolago; di lì a poco pubblica il «I Maggio» e il 15 aprile 1891 partecipa a una riunione che, secondo la polizia, intende organizzare «un primo maggio rivoluzionario», in linea con le scelte del congresso di Capolago. Da quelle scelte nasce un appello alla disobbedienza rivolto ai soldati, per il quale Bergamasco è arrestato. Tornato libero, il 22 aprile 1892 subisce un’altra condanna, stavolta a 14 mesi di carcere. Secondo l’accusa, dal novembre 1890 all’aprile 1891 non solo ha ripetutamente incitato all’odio tra le classi sociali, ma ha preso parte
«attivissima anche al movimento del 1° maggio 1892, promuovendo riunioni di suoi confratelli, nei quali portava sempre i consigli più disperati, tanto che aveva stabilito col noto Gino Alfani, di organizzare delle bande armate che nei punti eccentrici della città, […] si sarebbero precipitati all’interno per far insorgere la popolazione e devastare e saccheggiare la città».
Uscito in libertà provvisoria, ad agosto del 1892, a Genova, al congresso di fondazione del PSI, si schiera con gli anarchici. Arrestato ancora dopo i tumulti che sconvolgono la città nell’agosto del 1893, esce quasi subito, ma il 9 dicembre torna in carcere e ci resta. Con Crispi al governo, in Africa si spara e la «guerra dei commerci» con la Francia accresce la povertà, scatenando proteste cui Crispi risponde con leggi speciali e tribunali di guerra. Nulla di strano, perciò, se le condanne sospese consentono infine di spedire Bergamasco a domicilio coatto per quattro anni. Il 21 febbraio 1895 l’anarchico giunge in catene a Porto Ercole. Lo zar sarebbe stato meno duro, ma il detenuto non cede. Lacero, scalzo, brulicante d’insetti, senza assistenza medica, asciugamani, lenzuola e materassi, il 18 marzo 1895,
«per l’anniversario della Comune, issa coi compagni la bandiera rosso-nera sul castello di Monte San Filippo, mentre in cielo volteggiano palloni di carta con i colori dell’anarchia».
Bergamasco si rivela così «il vero capo» dei coatti politici ed è Crispi in persona ad inviare una torpediniera che lo prelevi con ottanta tra i più pericolosi coatti, per disperderli nelle colonie di pena. Finito a Lipari e poi di nuovo a Porto Ercole, il 18 aprile 1896 torna a Favignana. Pochi giorni e il 24 maggio, con alcuni compagni, beffa la vigilanza ed evade, «prendendo imbarco in qualche navicella per ignota direzione». Benché inseguiti da navi da guerra, i fuggitivi sbarcano a Tunisi, ma la ragion di Stato piega il diritto d’asilo e la Francia li consegna all’Italia. Spedito a Lampedusa, vi sta fino al 18 novembre 1896, quando è «prosciolto condizionalmente dai vincoli della coattiva dimora». Il 1897 di Bergamasco, tornato a Napoli a pezzi dopo tre anni di feroce repressione, non ha colore politico. Timore e isolamento sono la nota dominante, perché, non più coatto, di fatto è ancora prigioniero. Gliel’ha ricordato la polizia appena tornato, fermandolo senza motivo, minacciando di ritirargli la «carta di permanenza» e intimandogli di «tener buona condotta, con avvertenza che in caso contrario sarebbe inviato alla coattiva dimora». Buona condotta, quindi. Ma quali garanzie offre una formula così vaga a chi passa per «rivoluzionario professionale», è obbligato a rispondere a ogni chiamata della polizia e a tenere «sempre indosso il libretto di permanenza» per «esibirlo ad ogni richiesta», servo dei capricci della squadra politica? Buona condotta o ricatto? A ben vedere, un «sorvegliato di polizia» vive sul filo del ricatto, tenuto ad avere «stabile lavoro»e a «farlo constatare all’ufficio di PS», quando alla Questura basta poco per farlo licenziare; sul filo del ricatto vive evidentemente un ex coatto che non deve «dar luogo a sospetti», quando di sospetti vivono i rapporti dei confidenti ed è sempre a rischio: se un intoppo lo tiene fuori casa, perché non «può ritirarsi la sera più tardi di un’ora di notte», se incontra un amico, perché gli sono vietati i quasi inevitabili rapporti con «pregiudicati in materia politica» e persino se è solo e oppresso dai ricordi, perché non può «frequentare […] osterie ed altri esercizi pubblici, […] riunioni, spettacoli e trattenimenti». Poiché la vita sa essere feroce, in un momento così amaro giunge dalla Russia la notizia della morte del padre, che se n’è andato proprio mentre una violenta tempesta investe il figlio Giovanni. All’ansia per l’incerto futuro, si sommano così il lutto, il senso di colpa per le scelte estreme e gli anni di lontananza, i dubbi inesorabili e le domande amare: perché voler cambiare il mondo, se il prezzo è il dolore di chi ami? Quali assurdi sogni ha rincorso, se ne è nato un inferno? E la ricchezza improvvisa giunta con la morte del padre non finirà col separarlo dagli operai tra i quali vuol vivere? E’ l’uomo di sempre, ora che ha ereditato un patrimonio di oltre 400.000 lire italiane» e, calcolando la «parte dell’avere paterno che di diritto gli tocca, teme la malafede nella divisione fatta» ed è «preoccupato […] di far valere legalmente le proprie ragioni verso i parenti?». Un anno di silenzio è quanto resta della crisi. Un anno in cui l’ex coatto sistema la vistosa eredità ricevuta, «segregandosi dai compagni, ad alcuni dei quali ha anche rifiutato qualche soccorso». Se i rapporti con la Questura si chiudessero qui, l’esito della vicenda sarebbe quello «classico» di tante «militanze estreme» e di lui ricorderemmo ciò che si dice spesso dei giovani «disertori della borghesia»: come ogni buon conservatore, fu inizialmente un milite della rivoluzione. A febbraio del 1898, però, una nota di polizia riferisce che le cose non stanno così; pare, infatti, che «in un abboccamento […] abbia promesso di tornare a spiegare attività in favore del partito» e assicurato un forte sostegno economico all’«Avanti!» in difficoltà e agli operai socialisti che organizzano a Napoli una nuova Camera del Lavoro. Benché non vi siano prove di una sua responsabilità nei moti di maggio del 1898, il Tribunale Militare ne ordina l’arresto, ma Bergamasco si rende latitante, poi si ammala, evita di tornare al domicilio coatto ed esce infine allo scoperto:
«Non ho preso parte a riunioni e a dimostrazioni, non mi sono ascritto ad alcun circolo o gruppo che sia, non sono uscito dalla stretta legalità. […] Mi si perseguita perché sono socialista? E sia […]. Viva il socialismo!».
Nel 1899 lavora nell’ombra per riorganizzare la Camera del Lavoro di Napoli. Ad aprile fitta alcuni locali al giornale socialista «La Propaganda», che, grazie al suo sostegno economico, esce l’1 maggio 1899 e diventa in breve un riferimento per il movimento socialista meridionale. Acqua n’è passata sotto i ponti e all’animo ribelle fanno ora argine l’esperienza della repressione e la volontà di fermarla. Il Novecento di Bergamasco non è il secolo «breve» della storiografia; ha il respiro lungo delle vicende esemplari, parla agli uomini di ogni tempo e insegue un’utopia che muove la storia: la giustizia sociale. Diventato figura di spicco del socialismo locale, ai primi del 1900 entra nella Commissione Esecutiva e nel Consiglio Direttivo della Sezione Napoletana del PSI. A ottobre è a Roma, al congresso nazionale del partito e nonostante le divergenze sull’uso dei fondi de «La Propaganda», parla ai lavoratori di solidarietà, narrando una metafora: la vittoria delle api laboriose unite contro la prepotenza dei calabroni. L’opuscolo circola per vie clandestine e piace ai lavoratori, che il 10 novembre 1901 eleggono l’autore consigliere comunale per i socialisti. Un successo personale, ma anche la risposta popolare alla stretta repressiva dei «liberali» che, però, profittando delle condanne da lui riportate, ottengono che Bergamasco sia dichiarato ineleggibile. L’ex coatto si presenta però in Comune ugualmente e cede solo quando il «caso» esplode e la folla invade le tribune del Consiglio municipale per ascoltare la discussione dell’interpellanza Bergamasco e salutare il consigliere che esce dall’aula. Bergamasco perde la partita ma pone la questione della repressione del dissenso alla coscienza del paese:
Nel 1902, in rotta con i compagni sulla irrisolta questione della gestione economica del giornale e sulla distanza tra intellettuali del gruppo dirigente e base operaia, esce dal partito e raccoglie un gruppo di lavoratori nell’«Unione Socialista». Fa scalpore e termina in modo tragico l’attacco a Pietro Rosano, ministro di Giolitti, che Bergamasco accusa di avergli estorto 4.000 lire nel 1898 per evitargli il domicilio coatto. Travolto dallo scandalo, Rosano si uccide, lasciando una lettera in cui si dice innocente e scatenando così moralisti ed eroi da burletta, che di sé danno puntualmente il peggio ogni volta che occorre il meglio. I «liberali», ciechi e sordi quando un’infamia diventa ragion di Stato, sparano a zero sul «sovversivo ingrato», che compra la libertà e vende chi gliel’ha venduta. In quanto ai rivoluzionari «duri e puri», solitamente prudenti nel fuoco dello scontro, non hanno dubbi:
«Noi ammiriamo Bergamasco accusatore, ma non possiamo che deplorare Bergamasco compratore di libertà. Innanzi alla legge morale Rosano e Bergamasco si equivalgono».
Su moralisti, maramaldi borghesi e campioni d’ipocrisia rivoluzionaria, il «traditore» vola alto. «In politica, scrive, non c’è pietà», ma se solo avesse temuto il suicidio del ministro, gli avrebbe «scritto una lettera senza pubblicarla, perché il suo intento era di allontanare Rosano […] dal potere». Quanto alla gratitudine, «sopra di essa vi è il dovere. Ebbi la libertà e pagai. E tacqui, benché premuto da ogni parte, finché il tacere non era colpa». Benché scosso, nel 1902 Bergamasco si laurea in scienze naturali e di lì a poco, nel 1903, anima la protesta contro la visita dello zar in Italia e pubblica l’opuscolo intitolato «Per l’arresto di alcuni socialisti russi in Napoli». Pur tornando nel Psi, ha col partito rapporti sempre difficili, perché gli riesce difficile conciliare la formazione sostanzialmente anarchica, con le regole e le scelte di un partito politico. Dopo la strage di Pietroburgo, nel 1905, quando Nicola II scatena la repressione, dalla Russia giungono numerosi profughi. Per Bergamasco sono anni irripetibili. Bandito dalla Russia e accolto a Napoli dai socialisti, Gorky fa scuola di partito a Sorrento e la «cerchia dei sovversivi» è in subbuglio. Tra scontri e arresti, Bergamasco dà vita a un «Comitato pro Russia», che apre una sottoscrizione per le vittime delle rivoluzione e riunisce i profughi e le loro compagne in una sezione dell’Unione del Lavoro. Giovani, spesso sopravvissute a feroci «pogrom», le rivoluzionarie sono accompagnate dall’aureola del martirio, dalla letteratura sovversiva russa e dalla loro musica appassionata, suonata dal «compagno Sormus», artista di «potenza meravigliosa» che ricorda col violino la rivoluzione sconfitta. «Noi vi vediamo serene muovere al vostro destino», recitano i giovani a memoria, ricordando versi di Pascoli alle Kursistky. Nel 1906, Bergamasco lascia il partito e la redazione de «La Propaganda», ma vi torna a ottobre, in tempo per rappresentare al congresso di Roma la Sezione di S. Stefano di Aspromonte. Nel 1908 al congresso Nazionale di Firenze, rappresenta la sezione socialista di Londra. Quando lo zar sembra allentare la stretta e i profughi ripartono, molte ragazze hanno sposato socialisti e il 25 ottobre 1908, alla festa d’addio, quando Sormus intona le note della Marcia Funebre dei Rivoluzionari russi e le «piccole profughe scattano in piedi», nessuno sa trattenere le lacrime. L’agitazione contro la visita dello zar si riaccende però a giugno del 1909 e il 24 settembre Bergamasco lancia «una lettera istigatrice di agitazione» da «un palchetto del cinematografo Roma […] contro la venuta dello Czar» che, però, il 23 ottobre giunge in Italia nonostante le proteste. Il 21 ottobre 1910, dopo aver partecipato al congresso di Milano, Bergamasco lascia di nuovo il partito. Vi torna nel 1914, quando, in contatto con Mussolini, ne condivide inizialmente il bisogno di «uomini nuovi pieni di carattere», per tornare «all’opera di propaganda e di organizzazione» e la polemica contro il parlamentarismo «che corrompe, uccide lo spirito rivoluzionario, […] e troppo spesso anche la dignità personale». L’attacco al Belgio neutrale e il mito della «guerra per la rivoluzione» inducono Bergamasco a chiedere l’intervento contro i tedeschi, «minaccia perenne alla pace mondiale». Presto però, la cruenta realtà del conflitto, «le decimazioni metodiche per domare i ribelli, i giovani socialisti inviati nelle trincee di prima linea, per essere più facilmente eliminati», tutto dimostra che la barbarie non è tedesca. Barbara è la guerra. Non a caso, perciò, il 26 novembre 1916, è con Bordiga, che al Teatro Tarsia tenta insistentemente di parlare contro la guerra. L’adesione all’Unione Socialista Italiana, nell’agosto 1918 è l’ultimo atto politicamente rilevante d’una lunga militanza. L’avvento del fascismo segna il ritorno definitivo all’anarchia e la rovina economica. Per Bergamasco, la crisi del mondo liberale, il bolscevismo e il fascismo si profilano all’orizzonte rapidi e devastanti, con l’andamento delle svolte epocali che, come spesso accade, si fanno tragedia personale: un fratello ucciso nella bufera dei Soviet, la sconfitta della rivoluzione libertaria, i beni di famiglia confiscati dai «compagni» bolscevichi, la miseria. Del patrimonio nato dall’intraprendenza di Carlo tutto è perso, i cospicui fondi liquidi e due fabbricati a Pietroburgo, nella centralissima via Marskaia. Scoppiata nella Russia da cui è fuggito da giovane, la rivoluzione non è quella sognata. Per una beffa della storia, Bergamasco non solo non l’ha fatta, ma ha dovuto subirla impotente, così come nulla ha potuto di fronte alla Caporetto di un socialismo che agitava lo spauracchio dei Soviet, mentre attraverso la breccia aperta dalla guerra dilagava il fascismo. Tra i gerarchi, c’è chi, provenendo dalle file socialiste, come Ferdinando Giannini, ricorda che «è’ stato compagno e amico del Capo del Governo e ha […] sovvenuto l’Avanti! quando vi erano gli uomini che hanno fondato il fascismo». Poiché ha insegnato Scienze Naturali e pubblicato studi in materia, Giannini suggerisce di dargli «l’incarico al Gabinetto di Storia Naturale dell’Università». Il calvario sembra finito. La durezza dello scontro, il peso dell’isolamento, la disparità delle forze, tutto consiglia di non trascinare le figlie alla rovina, cercando inutili eroismi. L’eroe ha il coraggio estremo di un istante. Eroe è Niso, che si salva fuggendo, vede l’amico Eurialo circondato, torna e in un attimo brucia coraggio e vita. Quell’attimo lo consegna alla storia, non una scelta ripetuta più volte nella consapevolezza di una resistenza dall’esito fatalmente tragico. Se il rischio di esagerare non dettasse prudenza, penseresti a Giordano Bruno e al martirio, ma sarebbe retorica. Né eroe, né martire, Bergamasco fa i conti con la vita, cerca un compromesso, medita la resa, ma si rivolta contro se stesso d’istinto e non cede, benché gli costi caro, perché la dimensione in cui si sente vivo è quella della dignità. «Non ho chiesto l’elemosina, risponde, ma di poter vivere lavorando», invece «ho perso la cattedra di professore medio governativo, ed ora, per […] continui ed arbitrari arresti, mi si fanno perdere le lezioni private». Stessa sorte ha l’offerta di un sussidio di 2.000 lire. Qualcuno prova a trovargli una cattedra in una scuola, ma tutto si riduce a un incarico per «materie speciali nelle scuole serali di disegno applicato alle arti, purché egli sia fornito del titolo che lo abiliti». Un lavoro che non gli assicura nemmeno «il necessario sostentamento», sicché l’anarchico punta il dito sul regime «che in quanto alla tattica copia quella maledetta leninista» e rompe col funzionario che si occupa di lui:
«Perché fingere che mi si voglia aiutare […] quando si è fatto e si fa di tutto per rovinarmi? Le sarò grato se ella vorrà lasciarmi in pace e nella santa indigenza. G. Bergamasco, prof. al R. Istituto Tecnico, oggi boicottato».
Per due anni fa vita ritirata ed è «aiutato dalle due figlie nubili, Maria, ricamatrice, ed Eleonora, insegnante privata». In occasione delle elezioni del 1929, però, scrive al «Mezzogiorno» una lettera coraggiosa e mai pubblicata, che induce a riflettere sul «consenso» al fascismo. Gli è stato impedito di votare, ma se avesse potuto, dichiara, avrebbe «gettato nell’urna la scheda no. E’ facile riportare vittorie usando i mezzi… che si sono usati». Finché scrive ai giornali lettere censurate contro il regime che perseguita «i comunisti nostrani», però riconosce l’URSS e non difende i propri connazionali, l’anziano dissidente è «un grafomane che non sembra nel pieno possesso delle facoltà mentali». Il cenno alla pazzia si fa però manicomio, quando la critica diventa propaganda attiva. Se a gennaio del 1932, durante la cerimonia per il decennale della nascita della Milizia, Bergamasco, fermato mentre urla lo sdegno di quanti, «spogliati in Russia […] chiedono giustizia», se la cava con poco danno, il 7 febbraio, quando manifestini antifascisti scritti a mano riempiono mercatini rionali e cabine telefoniche, finisce all’ospedale psichiatrico provinciale. Due mesi di manicomio, però non lo piegano. Dimesso il 25 maggio, scriverà con orgoglio: «S’era voluto […] farci passare per morti, ma noi siamo vivi e gridiamo alto ai quattro venti le nostre giustissime ragioni e rivendicazioni». In realtà, è iniziato l’incubo degli arresti preventivi. Il 10 dicembre 1933, nel porto c’è la flotta russa e nessuno bada a Bergamasco, mentre aspetta una motobarca che gli approda accanto. Chiamare i militari nella lingua che è stata sua e lanciare manifestini è un attimo; compagni, ha scritto,
«sotto la bandiera del partito Socialista Rivoluzionario, lottavate per la libertà e il benessere della patria ed oggi il popolo è schiacciato. Svegliatevi, finalmente, e cercate di rovesciare con tutti i mezzi i bolscevichi».
Il gesto gli costa un breve arresto, poi gli sfratti, la ricerca affannosa di un tetto per la notte, il trasferimento a Roma dalla figlia Elvira nel maggio 1935, tutto si perde in gelide note trimestrali: «non ha dato motivo a speciali rilievi». Il 27 luglio 1935, però, quando a denunciare un «individuo sedicente di Leningrado», che ha ingiuriato il governo sovietico e tirato sassi contro la sua sede è l’ambasciata russa, Bergamasco, «pericoloso a sé ed agli altri», finisce in manicomio. Uscito il 29 settembre, a marzo 1936 scrive «W la libertà» sulla saracinesca di un negozio sfitto ed è di nuovo ricoverato. Esce rapidamente, ma il regime infierisce: ora è uno «squilibrato» da «fermare in determinate circostanze». Bergamasco denuncia la persecuzione, ma la lettera inviata alla stampa è consegnata alla polizia:
«i fascisti mi tolsero il permesso d’armi, il voto politico ed amministrativo, mi cancellarono dall’elenco dei professori governativi, m’impedirono di continuare la mia carriera di giornalista […]. Tre volte mi mandarono al manicomio […] e tre volte uscii dopo pochi giorni sano di mente. Una ventina di volte venni arrestato […]. Dove sono stato rinchiuso or ora in occasione dell’anniversario della nascita di Roma […] mancano luce ed aria e fa freddo ed umido. In un angolo è posto un puzzolente recipiente di legno per i bisogni naturali. Non si esce all’aria, per cibo si ha un poco di pane con qualche microscopico companatico. Ma quel che è assai peggio, è che il tavolaccio e le coperte son pieni, zeppi di schifosi insetti».
Il 22 ottobre 1937, dopo l’ennesima irruzione notturna della polizia, Bergamasco si rivolge direttamente a Mussolini:
«Sì, sono in disaccordo […] con la politica fascista, […]; ma non si può perseguitare la gente soltanto per le idee professate. Invece sono continuamente soggetto a noie che mi crea la polizia e ad arresti. […] Ebbene, quando Le dico di non aver alcuna intenzione – vecchio come sono di 75 anni – di fomentare agitazioni, Ella mi può perfettamente credere ed ordinare che la polizia mi lasci in pace. Ieri notte è venuto un agente a […] verificare se io non avessi cambiato alloggio. Ciò significa l’intenzione di arrestarmi nuovamente in occasione delle prossime feste. Mi lascino finalmente tranquillo, che poco mi rimane ancora a vivere. Con ogni considerazione. Dott. Giovanni Bergamasco».
Poiché nulla cambia e la persecuzione continua, il 2 luglio 1938 si taglia le vene, ma assegna al suicidio il valore di estremo baluardo della dignità:
«sono stato fedele ai miei principi umanitari di libertà, di uguaglianza sociale, di solidarietà umana e di lotta alle superstizioni. […] I bolscevichi m’hanno depredato, i fascisti mi perseguitano. Sono due dittature egualmente nocive, nemiche della libertà. Non volendo entrare io nell’ovile, […] eccomi di bel nuovo sul lastrico all’età di 76 anni. E sia! Mi spezzerò, ma non mi piegherò».
Soccorso, si salva, ma il duce, che gli fu amico, lo ignora, benché la figlia Maria gli abbia ricordato l’amico di un tempo:
«Papà mio conosce l’italiano, il francese, il turco e il russo; è laureato in scienze naturali, ha collaborato con successo in parecchie riviste scientifiche; è giornalista, fondatore di parecchi giornali, sveglio di mente, intelligentissimo».
Per Mussolini, però, un uomo coerente è un’anomalia da correggere. L’Italia è in guerra il 14 luglio 1940, quando a Roma, in Via Nazionale, una zelante fascista fa arrestare l’anarchico perché sputa su un manifesto del duce. Un medico compiacente attesta che a 77 anni può vivere da confinato e il 22 agosto, dopo mezzo secolo, torna a Tremiti. Nel 1896 vi ha scritto parole che sono un testamento:
«La notte di San Bartolomeo, le stragi spietate […] i filosofi ed i liberali pensatori – Bruno, Serveto, Vanini, Moro […] – condannati alle fiamme o altrimenti martirizzati, tutto ciò ci pare un’aberrazione mentale, un brutto sogno».
Trasferito a Lauro il 5 maggio 1942, «si accompagna ai confinati della stessa fede» fino al 29 giugno 1943, quando, ricoverato d’urgenza all’ospedale di Avellino, muore per arresto cardiaco. Fu, per dirla con Arfè, tra coloro che forse non trionfano mai, ma certamente non sono mai vinti *.
* Nota
Le notizie che mi hanno consentito di scrivere questa biografia sono ricavate dall’Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Affari generali e riservati, 1909, b. 2; Ivi, Confino politico, Fascicoli personali, b. 94, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 516, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Archivio di Stato di Napoli, Schedario Politico, Sovversivi deceduti, b. 7, f. Bergamasco Giovanni di Carlo; Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari, 1977: Nunzio Dell’Erba, Le origini del socialismo a Napoli. 1870-1892, Angeli, Milano, 1979; Pier Fausto Buccellato, Marina Iaccio, Gli anarchici nell’Italia meridionale, Bulzoni, Roma, 1982; Giuseppe Aragno, Bergamasco Giovanni, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, BFS, Pisa, Vol. I, 2003; Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012, pp. 81-106.
Napoli, 19 maggio 1879 – 28 dicembre 1931 Nel 1893, quando si iscrive alla «sezione impiegati» del Partito Socialista, è ancora uno studente ma frequenta sovversivi e si nutre di libri e giornali rivoluzionari che, secondo la polizia, hanno saputo «guastargli il cervello». Troppo giovane per valutare i rischi che corre, il 9 agosto 1894, mentre Crispi soffoca violentemente i moti contadini in Sicilia, si reca in Questura e firma un atto di fede nell’anarchia. Una perquisizione domiciliare consegna così alla polizia una lettera in cui scrive di voler diventare un «santissimo Caserio», l’anarchico che ha ucciso il Presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Interrogato, spiega di volere davvero ammazzare Crispi, causa di rovina per tanti uomini, ma aggiunge di non essere capace di uccidere. Denunciato per «apologia di delitto», il 28 agosto è affidato al padre in «libertà provvisoria». Chiuso in collegio, il ragazzo conserva le sue idee e durante le vacanze frequenta i soliti compagni di fede. Il 6 agosto 1897, disperato per l’isolamento in collegio, tenta il suicido, ma si salva e dopo il liceo si iscrive alla Federazione Socialista. Nelle manifestazioni è così attivo che, profittando dei moti per il pane, il 10 maggio 1898 la polizia lo include tra i «sovversivi pericolosi» e lo arresta. Il 13 giugno è condannato a sei mesi di domicilio coatto a Ischia, ma evade e si consegna a novembre, quando, cessato lo stato d’assedio, può tornare libero. Controllato con cura, il giovane si fa prudente e se prova ad agire, è subito colpito. Il 4 giugno 1899, infatti, «festa dello Statuto», è arrestato per «un manifestino sovversivo diretto all’esercito e stampato alla macchia». Contrario all’intesa tra Giolitti e Turati, festeggia il primo maggio 1900 con un gruppo di socialisti dissidenti. Nel 1901 entra nel Comitato di lotta al domicilio coatto ma è così vicino ai libertari, da essere segnalato tra gli anarchici italiani in contatto con quelli argentini. Arrestato per oltraggio al papa ed eletto segretario della «Lega di resistenza dei camerieri di caffè e ristoranti», nel 1902 rompe coi socialisti. Decisa a zittire un militante che trova ascolto tra i lavoratori, la polizia intanto forza la mano. Nel 1903 è ripetutamente arrestato: perché porta bandiere anarchiche ai comizi socialisti, turbando l’ordine pubblico, perché si agita in un corteo contro l’Austria, causa incidenti tra il pubblico al Consiglio Comunale, oltraggia Pio X e incita all’odio di classe. Nel 1904 è fermato perché viola la legge di P.S., è in prima linea negli incidenti di settembre per lo sciopero generale e diffonde volantini non autorizzati alla elezioni politiche di novembre. La repressione rende Vanguardia prudente, finché il 29 marzo 1906 pubblica «La Voce dei Ribelli», che i tipografi, impauriti dalla polizia, rifiutano di stampare. Scritto a mano e diffuso alla macchia, il giornale chiede cambiamenti politici e sociali e tocca temi ancora attuali: la questione morale e una «legalità» estranea alla giustizia sociale, che lascia impuniti coloro che, politici in testa, «rubano […] scappano e portano via parte della ricchezza nazionale». I toni sono violenti – «se occorre distruggervi, […] senza esitare contribuiremo» – ma è una violenza figlia della cecità del potere. Alla «Voce dei Ribelli» fa seguito «I Ribelli», giornale di cronaca e dibattito teorico, che dopo due numeri diventa «Il Picconiere», ma è subito chiuso. Nel 1907 Vanguardia, presente al Congresso Anarchico di Roma, vive a Milano, è redattore della «Protesta Umana», e tiene conferenze sul domicilio coatto e sull’antimilitarismo. Il 13 novembre parla al comizio di Milano per le vittime politiche, poi è segnalato a Vigevano, Pavia, Santhià, Biella e Lugano. Rimandato a Napoli con foglio di via a febbraio del 1908, fonda il «Sorgete», un gruppo comunista «libero», ostile a ogni organizzazione politica, ma aperto a un sindacalismo di base, fondato sull’azione diretta. Tra i temi di fondo, i diritti negati e il parlamentarismo, che non solo limita la libertà di riunione e di pubblico comizio, ma giunge al sequestro preventivo e alla soppressione dei giornali, all’arresto dei cittadini «per delitto di pensiero» e alle fucilate sul popolo affamato. Il 7 ottobre 1909, «Sorgiamo!», nuovo giornale di Vanguardia, individua i nemici del popolo – «lo Stato, il Capitale, la Chiesa […] i giudici, gli sbirri, le carceri, i codici, i soldati» – e minaccia di «demolire» il «vecchio e decrepito assetto sociale» che la storia condanna a sparire. Una minaccia che il 13 ottobre 1909, durante le proteste per la condanna a morte di Ferrer, Vanguardia realizza simbolicamente, facendo esplodere un innocuo petardo nella chiesa di Montesanto. Un gesto per cui è condannato a quindici mesi di carcere. Uscito in libertà provvisoria, Vanguardia torna alla lotta sindacale, guidando una vertenza dei tessili della «Wenner» di Scafati, che nel novembre 1910 sfocia in aspri scontri e in una denuncia per mancato omicidio di un poliziotto. Nel 1911 è l’anima del movimento contro il caro-casa e partecipa a vari scioperi. Ad aprile del 1912 è segretario della «Lega dei lavoratori dell’Arte bianca», che guida fino al 17 agosto, quando lo ferma l’esecuzione della condanna per il petardo di Montesanto; tornerà libero per uno sconto di pena l’11 marzo 1913. Il tentativo di dar vita a «La Battaglia», un giornale subito censurato, e due arresti segnano il ritorno alla militanza di Vanguardia, che il 25 gennaio 1917 è sulla linea del fuoco, dove la morte è il volto della guerra. All’orrore delle trincee, reagisce organizzando diserzioni e falsificando licenze, finché il 10 gennaio 1918, scoperto, resta in carcere fino al 15 marzo 1919, quando è assolto per mancanza di prove. Tornato a Napoli, diventa dirigente della Camera del Lavoro e segretario della «Lega panettieri», che guida in una dura vertenza su orari di lavoro, salari, ufficio di collocamento e igiene dei panifici. Complici le Autorità, i padroni rispondono con l’esercito che fa il pane e la polizia che difende forni e panetterie, ma Vanguardia forma squadre di panettieri che sorprendono il servizio d’ordine e attaccano i crumiri. Scontri e arresti non domano la protesta, che assume un significato emblematico, diventando una ideale «linea del Piave» in un conflitto sul ruolo delle classi sociali e sui costi della guerra che la borghesia ha voluto e ora scarica sulla povera gente. La portata e il significato degli eventi in una città inquieta, allarmano il Prefetto, sicché, quando il pane scarseggia, i militari sbaraccano e Vanguardia ottiene l’apertura di punti vendita comunali a prezzo politico. Il giovane al quale le idee rivoluzionarie avrebbero guastato il cervello, ha dimostrato un grande equilibrio e ha vinto, lottando coraggiosamente per i diritti della povera gente. La vittoria, che il 10 dicembre 1919 i lavoratori salutano come la prima di una lunga serie, in realtà ha spaventato i padroni, ma i Fasci di Combattimento, nati a marzo, non preoccupano ancora. Ai primi del 1921 però, mentre lo squadrismo dilaga, Vanguardia crea il «Circolo popolare» e la «Lega Inquilini» che ostacola le pretese esorbitanti dei padroni di case, tentando di dare forza al malcontento e opporre agli squadristi propaganda e lotta sindacale. La violenza fascista vanifica però il tentativo. Benché denunciato per un manifesto clandestino e arrestato per lesioni a vigili urbani, a luglio del 1922 Vanguardia guida la «Lega panettieri» in una vittoriosa vertenza su salari e lavoro notturno, ma il fascismo giunto al potere lo ferma. Il primo maggio 1924, l’anarchico si reca con alcuni compagni in una bettola, sale su un tavolo e con grande dignità canta l’Internazionale e si fa arrestare. Il 22 novembre 1926, con le leggi «fascistissime», giungono la condanna a quattro anni di confino e il viaggio disumano che lo conduce a Pantelleria, sfinito e incatenato ad altri confinati. Ritenuto pericoloso, l’anarchico è esposto all’arbitrio dei militi e la sorella, per sottrarlo a quell’inferno, chiede al duce di perdonare «le colpe giovanili di un italiano», che al tempo della guerra «ha esposto la vita sul campo dell’onore». L’Alto Commissario Castelli, convinto che Vanguardia sia fermo nelle sue idee, esprime parere contrario e mentre l’istanza è archiviata, il confinato finisce a Ustica, dove l regime di polizia è più spietato. L’isola gode di una fama sinistra: vi impazza, ricorderà anni dopo Aldo Garosci, un aguzzino, brutale e neuropatico. Non bastasse, Cesare Mori, il «prefetto di ferro» inviato a Palermo con pieni poteri per risolvere il problema dei rapporti tra regime e mafia, ritiene che la colonia, in cui vivono in media 360 sovversivi ritenuti pericolosi, possa fare da base a un pericoloso movimento. Per controllare i confinati, Mori utilizza Vincenzo Picone, un finto confinato politico e un confinato vero, Riccardo Fidel, sedicente comunista, che all’insaputa del Picone fa da provocatore. Per ottenere la libertà a spese dei compagni, Fidel fa credere a Picone che i confinati preparano una rivolta e la fuga. Ingannate dalle spie, le Autorità di polizia si convincono che una nave si è già accostata all’isola e poi allontanata tenendo una rotta inconsueta. Il 30 settembre 1927 Mori mette l’isola a soqquadro con perquisizioni da cui non emerge uno straccio di prova, ma sostiene che i confinati, d’accordo «con sovversivi del Regno e dell’estero», hanno un piano «di evasione e ribellione contro i poteri dello Stato». E’ così che 56 confinati, tra cui Vanguardia, sono denunciati al Tribunale Speciale. Il 10 ottobre 1927, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato, l’anarchico finisce in carcere duro a Palermo e poi a Napoli. Per mesi, interrogatori brutali si alternano a offerte «vantaggi» in cambio di «collaborazione». Vanguardia, però, non non compra la libertà vendendo la dignità. Negli anni delle prime battaglie aveva orgogliosamente affermato: «Non varranno prepotenze e violenze […]; respingeremo senza esitazione qualsiasi mezzo voi adotterete». É stanco e malato, quando, assolto per insufficienza di prove, agli inizi del 1929 è trasferito a Ponza, dove la salute peggiora di giorno in giorno. Quando possono, i tiranni evitano di trasformare in eroi le loro vittime; Mussolini perciò non ha dubbi: l’ora della liberazione non deve coincidere con quella della morte. L’uomo che l’1febbraio 1930 torna a Napoli è molto sofferente. Non è in grado di nuocere, ma il regime, che lo ritiene ancora pericoloso, lo tormenta con frequenti perquisizioni; il 27 ottobre 1930, per l’ottavo anniversario della marcia su Roma, lo tiene in cella per una giornata. É il 10 novembre del 1931, quando torna in Questura per una bomba esplosa nella zona del porto. Di lì a poco, il 28 dicembre 1931 muore nella sua abitazione al n. 45 di via Bernini.
Fonti e bibliografia: Archivio Centrale dello Stato, fascicoli intestati a Vanguardia in Casellario Politico Centrale, b. 5312 e Confino, Fascicoli Personali, b. 1046. Archivio di Stato di Napoli, Questura, Gabinetto, I parte, II serie, 1888-1901, b. 86 bis, «Fascio dei lavoratori. Iscritti»; b. 86 ter, f. «Federazione Socialista Napoletana» e b. 110, «Camerieri di caffè e ristoranti»; Schedario politico, fascicoli intestati a Vanguardia in Sovversivi annuali, b. 96 e Sovversivi deceduti, b. 110. Rosa Spadafora, Il popolo al confino, La persecuzione fascista in Campania, I, pp. 512-13; Giuseppe Aragno, Siete piccini perché siete in ginocchio. Il Fascio dei Lavoratori, prima sezione del PSI a Napoli, (1893-1894), Bulzoni, Roma, 1989, pp. 110-112; Idem, biografia in AA. VV., Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, II, (I-Z), Biblioteca Serantini, Pisa, 2004, pp. 648-49. Idem, Antifascismo e potere, Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012, pp. 23-40; Fabrizio Giulietti, Umberto Vanguardia. Azione e propaganda di un anarchico napoletano, (1879, 1931), Galzerano, Casalvelino Scalo, 2009.
Napoli, gennaio 1893. La disoccupazione, cresciuta oltre il tollerabile, minaccia l’ordine pubblico e la pace sociale. La Società del Risanamento, che lavoro ne dà, si è mangiata tutto ciò che poteva, anche il suo capitale e non riesce a gestire il conflitto con i proprietari che difendono la rendita da significative quote di case popolari e giocano al rialzo con l’indennità di esproprio, ritenuta sempre troppo bassa. Benché vicino a Giolitti che governa, il Comune cerca d’impedire che il potere centrale intervenga nella gestione della traballante immobiliare, ma il ciclo d’espansione si è esaurito da tempo e occorre ridimensionare i programmi. Sotterraneo, ma duro, lo scontro tra potere locale e centrale prosegue per mesi, finché a luglio, complice la sinistra come sempre divisa, la Giunta cade su un tema apparentemente marginale: il rinnovo della convenzione con la Società dei trams, che prevede l’espansione della rete. Mentre la crisi morde più feroce che mai, le Destre, dai cattolici ai crispini, ai liberali legati alla camorra hanno tutto l’interesse a creare problemi al Ministero, perché la Giunta è filogiolittiana e non intendono perdere l’occasione per mettere le mani sulla città. In un clima confuso, in cui i partiti sono incapaci di guardare oltre i propri interessi, la tensione sale, alimentata dalla fame, dalla rabbia e dalla disoccupazione. Sono i giorni in cui lavoratori francesi hanno fatto strage di crumiri italiani ad Aigues Mortes, il Paese è in subbuglio e anche a Napoli ci sono accese reazioni a carattere nazionalista. Da giorni, al suono della marcia reale, cortei patriottici partono dal “Gambrinus”, il caffè della “bella gente”, al grido di “Viva Crispi! Viva l’Esercito! Abbasso Giolitti!” e si scontrano con la polizia. Il 23 agosto scendono improvvisamente in sciopero i cocchieri, danneggiati dall’estensione della rete tranviaria. Nessuno se l’aspetta, ma l’industria delle carrozzelle è in mano alla “bassa camorra”, quella che raccoglie i voti per i politici, e i cocchieri, evidentemente organizzati, si passano la voce, uno incita l’altro a ritirare la carrozzella e lo scopo è subito chiaro: coinvolgere la popolazione e far nascere disordini. In breve cominciano gli assalti ai tram e alle carrozzelle che non si ritirano e violentissimi scontri con la polizia. Si va avanti così fino al 24, quando la polizia uccide Nunzio De Matteis, un adolescente, figlio di un operaio dell’Arsenale, che i dimostranti portano in giro per la città incitando alla rivolta. Dai vicoli accorre gente, prende alle spalle la polizia e la circonda. Si lotta, tra cariche di cavalleria e scritte di varia provenienza: “Abbasso la Francia! Vogliamo la guerra!”, “Morte ai poliziotti! Viva Bovio!”. Dopo tre giorni di violenze e assalti ai negozi con insegne straniere – si devasta ma non si saccheggia – la protesta si spegne. Si sono visti assieme qualche sovversivo, popolani inferociti e individui sospetti. Ha fatto da mediatore il deputato Alberto Agnello Casale, notoriamente legato alla camorra. Chi ha mosso le acque? E’ la prima domanda in queste circostanze, quella che spesso cancella la domanda più utile e necessaria: quali saranno le conseguenze della rivolta? Quello che oggi importa ricordare, per rispondere alla domanda che nessuno si pose in quei giorni, è che la rivolta, nata dalla crisi dell’economia del vicolo, aprì la via alle Destre e alla reazione. Di lì a poco la polizia colpirà le organizzazioni operaie e arresterà soprattutto anarchici e socialisti. Pochi mesi dopo, subentrato a Giolitti, Crispi metterà fuorilegge il Partito Socialista.
Cominciò così in tutto il mondo industrializzato: manifesti, comizi, cortei e astensione dal lavoro. Gli operai volevano le otto ore. In Italia ne facevano in media 14, donne e bambini compresi. Gli imprenditori sostenevano che la richiesta era una pazzia.
Sono così gli imprenditori, fanno i medici dei pazzi. Per vocazione.
La repressione scattò immediata e violenta: cariche, arresti, denunce per associazione sovversiva, disobbedienza alle leggi e istigazione all’odio di classe. La protesta dei lavoratori fu sepolta sotto secoli di galera.
Vennero altre “feste del lavoro”.
Nel 1894 Crispi sciolse il Partito Socialista e segregò nelle isole migliaia di lavoratori, ma non riuscì fermarli e a maggio del 1898 Bava Beccaris sparò a mitraglia sulla folla disarmata. L’Italia insorse, corse il sangue e Rudinì ricorse agli stati d’assedio e ai tribunali di guerra. Secoli di domicilio coatto “ricondussero l’ordine” nel paese.
Muro contro muro, finì che Bresci vendicò i morti del ’98 uccidendo Umberto I. I terroristi sono sempre esistiti e l’unica possibile guerra preventiva si combatte con le armi della giustizia sociale.
Nel 1892, Giovanno Bovio, difendendo gli operai arrestati per le manifestazioni del 1° maggio lo aveva avveritito lucidamente, quando, rivolto ai giudici aveva urlato a nome degli imputati:
“non ci fate, voi, o giudici, non ci fate, per queste braccia scarne, per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Io fui nato ad esser cavaliere e tu mi hai fatto malfattore, ed ora ti fai giudice! Così gridò il figlio a Nicolò terzo estense, provocatore e parricida. E noi chiediamo a quelli che ci chiamano fratelli: noi fummo nati al lavoro e dhe, non fate noi delinquenti e voi giudici!“.
Una invocazione, forse un monito, più che mai attuali.
Troppi estensi parricidi si ergono ancora a giudici in questo nostro misero pianeta e troppi bambini lavorano 14 e più ore per un zuppa buona a farli lavorare.
Un’ora di lavoro di un operaio europeo vale dai 12 ai 16 dollari. Ci sono parti del mondo in cui si ragiona in centesimi. E il lavoro non ha né orari, né tutele.
Lo sanno i nostri ragazzi che ascolteranno musica in piazza San Giovanni?
Desidero ringraziare Ciro Crescentini per questa intervista che ha pubblicato sul “Desk”, il suo giornale indipendente. Da quando è iniziata questa breve, intensa, ma soprattutto inquietante campagna elettorale, questa è di fatto una delle rare occasioni in cui un candidato prova a parlare di politica. Sono state le sue domande a consentirmelo e di questo non posso che essergli grato.
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Giuseppe Aragno, 72 anni, professore in pensione, storico dell’antifascismo e del movimento operaio si è candidato con Potere al Popolo, il movimento politico che si ispira al Partito laburista inglese di Jeremy Corbyn, alla France insoumise di Jean-Luc Mélenchon e agli spagnoli di Podemos provando a rifondare la sinistra nel nostro Paese. Aragno è candidato nel Collegio Uninominale Napoli 5 (comprende i quartieri di Arenella, Vomero, San Carlo all’Arena, Piscinola e Miano). Il Desk ha incontrato Aragno per un’intervista con l’obiettivo di affrontare le questioni politiche di merito senza formalismi e giri di parole. Una bella conversazione, un significativo documento storico. Siamo soddisfatti!
Professore Aragno, è ancora possibilità fare politica nel nostro Paese e ipotizzare un nuovo modello di società? Come scrisse Aristotele, l’uomo è un «animale politico» e tende per natura a vivere con i propri simili e a formare comunità. Quali che siano le condizioni in cui vivranno, gli uomini faranno perciò comunque politica. Divisi da interessi diversi, essi lottano fra loro, ma non possono isolarsi e lavorano per costruire e modificare la società; è un processo che vive di contrasti e produce miglioramenti e peggioramenti. Non a caso, prima di Aristotele, Eraclito intuì che nella relazione di reciproca dipendenza tra due opposti concetti è implicita l’idea di conflitto e individuò il binario sul quale viaggia la storia politica e sociale dell’umanità: il bene, infatti, esiste solo perché c’è il male. Senza l’uno non avremmo l’altro, così come la fame è in stretta relazione con la sazietà, la pace con la guerra, l’acqua col fuoco. E via così. E’ vero, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, i sacerdoti del neoliberismo hanno decretato la “fine della storia”. Con una sconcertante rozzezza ci hanno presentato il capitalismo e il suo mondo come un paradiso terrestre in cui, sparito il bisogno, non ci sarebbe stata più ragione di contrasto tra gli interessi. I fatti hanno dimostrato che il momentaneo trionfo del capitalismo ha prodotto invece una sorta di inferno, in cui il conflitto è ancora una volta il vero motore del cambiamento. Un nuovo modello di società, quindi, non solo è possibile, ma è già in corso di costruzione, perché non c’è ordine costituito che non contenga in sé i germi della sua dissoluzione e i semi di un mondo nuovo.
Si intensificano forme di qualunquismo e razzismo, soprattutto tra i ceti popolari. Questa regressione politica e culturale è prodotta dall’assenza dei partiti e dei sindacati di massa? In alcune, interessanti e per molti aspetti attualissime pagine della sua storia del capitale finanziario, scritta nel 1940 al confine di Ventotene come dispense per i compagni confinati, Pietro Grifone, antifascista ed economista di notevole spessore, individuò nei sistemi politici autoritari, in particolar modo nel fascismo, il regime del capitale finanziario. La storia dell’Italia – che non a caso è la patria del fascismo – si può leggere anche alla luce di questa analisi. E’ significativo, per esempio, che l’autoritarismo di Crispi e la successiva crisi del 1898, corrispondano a due momenti di acuta crisi economica: quella determinata dalla “guerra doganale” con la Francia e l’altra, causata dalla guerra ispano-americana, dal conseguente collasso del commercio atlantico e dal fortissimo rialzo del prezzo del grano. I costi della guerra e lo scontro durissimo tra capitale e lavoro su chi dovesse pagarli, in altre parole la crisi del primo dopoguerra con l’inevitabile codicillo del discredito della politica, della guerra tra i poveri, del qualunquismo e del razzismo, condussero al fascismo. Certo, allora come oggi l’inadeguatezza dei partiti di massa e l’allontanamento delle masse dal sindacato agevolarono la reazione. Oggi, poi, mentre i partiti sono diventati organizzazioni personali di un leader e sono ridotti a comitati d’affari e strumenti di raccolta di un consenso cercato ad ogni costo, c’è una componente nuova che nessuno sembra avere interesse ad affrontare: una nuova rivoluzione industriale devasta a ritmi mai visti il mondo del lavoro e la società. E’ un quadro particolarmente fosco, nel quale non a caso si fanno largo intolleranza e razzismo e si disegna all’orizzonte un nuovo e pericoloso fascismo.
Potere al popolo non è stato costruito troppo in fretta? Non era opportuno rafforzare, estendere, i radicamenti territoriali? In condizioni ordinarie risponderei sì. Ma noi viviamo davvero condizioni ordinarie? Io penso di no. Penso, al contrario, che Potere al Popolo sia la risposta necessaria che nasce nel momento in cui occorreva nascesse. Una risposta che il vecchio ceto politico, quello che ha guidato la “sinistra che non c’è”, non è in grado di dare. Forse la questione andrebbe vista in maniera del tutto diversa. Forse Potere al Popolo coglie in tempo il treno della storia; come spesso capita, lo fa perché ha saputo guardare lontano, così lontano, che non tutti hanno avuto la voglia, la capacità o anche solo l’umiltà per seguirne l’esempio. Se un limite può avere, è quello di essere una risposta necessaria ma apparentemente debole. Colpa di chi l’ha fatto nascere o di chi ha scelto di attendere, di stare a guardare con la segreta speranza di fare irruzione sul palcoscenico della crisi nelle vesti di chi raccoglie i cocci delle forze alternative e risolve la crisi? Non mi pare che la risposta sia difficile da dare. Mi riferisco, per esempio, a uomini che stimo, come Montanari e De Magistris, che hanno scelto di “saltare il giro” e di attendere un altro treno. Una scelta legittima, perché forse non hanno grandi forze che li seguano. Sta di fatto, però, che nessuno saprà quante ne avrebbero risvegliate. Spero sinceramente di sbagliare. Spero che un altro treno possa ancora passare, ma non ci credo. La storia non aspetta; il suo treno passa una volta e non torna. Per me Potere al Popolo ha un indubbio merito: ha colto lucidamente il momento storico che attraversiamo e ha lanciato l’allarme. Se ha visto bene – e mi pare che sia così – non poteva aspettare. Toccava ad altri, a tutti gli altri, mettere da parte le ambizioni personali e prendere umilmente posto in trincea. Non è andata così. Ora occorre dare quanta più forza è possibile a chi ha avuto il coraggio di agire. I segnali sono purtroppo inquietanti e in discussione stavolta è la democrazia.
C’è ancora spazio per la sinistra sociale e di classe nel nostro Paese? C’è un disperato bisogno di sinistra sociale e la lotta di classe è chiaramente in corso: la conducono i ceti dominanti, tornati d’un tratto razza padrona. Gramsci direbbe che si tratta di “sovversivismo dall’alto”. Molto probabilmente il degrado culturale e l’analfabetismo di valori che accompagnano la crisi, lo stato comatoso della scuola e dell’università, i rapporti di forza nei luoghi di lavoro, impediscono che questo bisogno sia sentito con forte consapevolezza, ma è un bisogno fortissimo, che esiste ed è destinato a crescere. Si salderà, ecco un elemento sul quale riflettere, con la coscienza più alta della repressione e della negazione di diritti che posseggono i giovani immigrati, spesso colti, spesso politicizzati e comunque più pronti alla lotta, perché più maltrattati. In questo senso, a me pare che il modello che si costruisce nell’ex OPG sia l’indicazione di un metodo, una via “internazionale” per quanto locale. D’altra parte, come non vedere quali possibilità apra la crisi a un movimento che si proponga di creare rapporti con gli sfruttati di altri Paesi? Certo, la storia del movimento dei lavoratori, così come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, è un capitolo chiuso, ma l’esperienza, la lezione sono più vive che mai e occorre rendersene conto: ci sono mille ombre, ma gli spiragli esistono e le luci filtrano. Sull’ultima spiaggia si sono già fermati eserciti agguerriti. Soprattutto quando pensavano di aver vinto e intendevano stravincere.
Professore, crede ancora nella costruzione di una società socialista? Ci credo, sì, e non è per una fede “religiosa” o perché mi difendo chiudendo gli occhi sulla realtà. La verità è che ho una sconfinata fiducia nell’uomo e nella forza delle ragioni, che nei tempi lunghi prevale sulle ragioni della forza. La storia ha terribili inverni e noi ne stiamo vivendo uno. A ogni inverno, però, segue sempre il tepore di una primavera. Non ci vorrà un giorno e nemmeno un anno. Probabilmente non farò in tempo a vederlo, ma non ci credo per inguaribile utopismo. La barbarie ci minaccia da ogni parte. La barbarie ci assedia. Oggi come e più di ieri, però, la sola alternativa è il socialismo.
Esercito in assetto da campagna, leggi speciali, secoli di galera e soggiorno obbligato. Lo Stato borghese affronta così i Fasci Siciliani. I socialisti “legalitari” colti di sorpresa – Turati è fermo alla lezione di Engels sullo spontaneismo del Sud -, l’estrema sinistra, a quel tempo anarchica e già minoritaria, in eterna attesa della rivoluzione che non verrà e il disastro giunge puntuale. Non c’è una teoria buona per ogni tempo. Ci sono pensatori che guardano al tempo loro e chi fa di un metodo di lettura le “dodici tavole”. Le inedite parole di questa canzone napoletana sequestrata dalla polizia crispina non ci parlano solo di tempi lontani. Anche oggi l’anacronistico conflitto tra “purezza rivoluzionaria” e “via legalitaria” produce corti circuiti e apre la via alla reazione.
Napule bella è ‘na schiumma d’oro, s’hanno arrubbate tutte cose lloro e ricche hanno arrubbate e puverielle, Facimme come fece Masaniello.
So ‘sti guverne tutt’assassine, so cose propete da stravede’. Chiunque saglie fa ‘n‘arruine, nisciune dice: cheste che d’è!
Nu guappe deputate è De Felice Chi nun ‘o sape, overo nun ‘o dice: Pe’ senza niente l’hanno condannate a diciott’anne e pure survigliate.
So ‘sti guverne tutt’assassine, so cose propete da stravede’. Chiunque saglie fa ‘n’arruine, nisciune dice: cheste che d’è!
Hanno arrestate a tutt‘e socialiste sagliuto a lu putere è pure Crispe, Ma u cunte s’hann’a fa ch’hanno sbagliato: mo sentarranno ‘e botte d’o Mercato
So ‘sti guverne tutt’assassine, so cose propete da stravede’. Chiunque saglie fa ‘n’arruine, Nisciune dice: cheste che d’è!
Iamm‘a piglia’ ‘e legne e li fascine, struimme a chesta razza ‘e malandrine, struimme a chesta razza de ministe ca chiste songo ‘e vere cammorriste!
So ‘sti guverne tutt’assassine so cose propete da stravede’. Chiunque saglie fa ‘n’arruine, Nisciune dice: cheste che d’è!
L’articolo va letto. Dalla “sicurezza” e dal decreto Minniti, infatti, DemA prende le distanze ed esprime critiche di fondo:
Francesco Puglisi era a Genova nel luglio 2001 ma non torturò e non uccise. La Cassazione, che ha evitato il carcere agli uomini in divisa dopo la Diaz e Bolzaneto, a lui ha dato 14 anni di galera. Si sono incrementati poi ammazzamenti umanitari, bombe intelligenti e fuoco amico e chi s’è visto s’è visto. E’ stato come dire: ti prudono le mani? Bene. Percorri la via «legale» e passa all’incasso: una «guerra per la pace» o la «democrazia da esportare, tutta massacri «umanitari». E se poi centri ospedali e scuole, sta tranquillo, c’è la stampa che dice «è fuoco amico» o «nemico sbagliato». Tu rientri e fai la carriera in polizia. Lì ai modi bruschi non si fa caso: il terrorismo è un’infamia misteriosa buona per coprire altre infamie.
A chi sa di storia, il «caso Genova» e Francesco Puglisi ricordano gli eterni «spettri del ’98», i processi politici costruiti ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio, l’avvocato che in Tribunale parlava per gli imputati e ammoniva le classi dirigenti:
«Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!».
I tribunali li «fecero delinquenti» e tali sono stati per sempre. Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.
Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte della povera gente e del dissidente politico è peggiorata.
Normativa emergenziale, come figlia naturale di una vera e propria cultura della crisi, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono diventati così i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che nemmeno il codice Zanardelli, adottato nel gennaio nel 1890, sceglie di abbandonare. Certo, per il giurista liberale la sanzione deve rispettare i diritti dell’uomo. Di qui, libertà condizionale, abolizione della pena capitale e discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Non sarebbe stata un’inezia, se Zanardelli, però, non avesse affidato la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un «Testo unico» di Polizia, cui regalò basi teoriche forti e strumenti pericolosi quanto efficaci: istigazione all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esaltava «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità».
La definizione volutamente vaga del reato fornisce agili strumenti repressivi e lo Stato, che non dà risposte al malessere delle classi subalterne, può criminalizzarne le lotte, in nome di norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento e una marcata diversità rispetto alla cultura dominante è «pratica sovversiva». Nei fatti, istigo al reato e poi condanno. Tra crisi, indeterminatezza e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante un insieme di norme che consentono di tarare la repressione sulle necessità e sugli interessi dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme progressiste introdotte da Zanardelli, poi nel 1930 vara codice «suo», firmato da Alfredo Rocco, che incredibilmente sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla «continuità dello Stato» l’idea di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, “tecnicamente” più moderno, ma soprattutto molto più autoritario. In attesa – si dirà – di un nuovo codice che, però, non si farà. Delusa la legittima attesa, la conseguenza di quella grave scelta consente oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, di tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: nessuna risposta alla sofferenza di chi paga la crisi, criminalizzazione del dissenso, indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Senza contare lo stretto rapporto tra politica e malavita organizzata. Ormai non c’è una voce libera che domandi perché il codice penale italiano, che non prevede in modo serio il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.
Oggi, mentre si leva la bandiera della democrazia, si continua a ignorare il nodo che la soffoca, un nodo mai sciolto, nemmeno col mutare della vicenda storica; un nodo che ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica, dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera a una repressione generalizzata. E’ una sorta di blando «Cile dormiente», che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, soprattutto quello finanziario, metta in discussione mediazione e regole democratiche, che pretenderebbero di controllarlo: sono, afferma, merci costose che non hanno mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini, che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Giuliani e i torturati di Bolzaneto e della Diaz, Cucchi, Uva, Aldrovandi, Magherini e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, mentre lo scandalo della Banca Romana svela i contatti mai più interrotti tra politica e malaffare, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà; più abile, la repubblica cancella mille verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il «Daspo» che Maroni e la Cancellieri, avrebbero invano voluto estendere al dissenso di piazza, con Minniti c’è ed è sanzione amministrativa e di polizia. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali, miseria e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma pienamente repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté infine deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e barbare leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di «normale» da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza. Anche quella seguita da innumerevoli processi, condanne e internamento in manicomio di numerosi partigiani.
Così stando le cose, con una protesta di piazza che costa a un giovane quattordici dodici anni di galera, mentre un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista? Perché così si può mandare in galera un barbone, cui peraltro non si è mai dato un aiuto, o per colpire il dissenso e assolvere ladri di Stato e mafiosi in veste di statisti?
Mi sorge un dubbio: i Questori si cambiano, o si ricorre a cloni di un funzionario nato con l’unità d’Italia? Un dubbio legittimo per chi passa la vita tra carte di polizia riservate e miserabili note di confidenti. La storia ha talora volti impresentabili. Uno, piaccia o no, è quello del potere. Gli metti a guardia limiti e regole, ma sulle zone d’ombra non sorge luce. Prendi il sindacato, per esempio. Oggi sarebbe comico vederci un “covo di terroristi”, ma nel 1893 a Napoli è una minaccia per l’ordine pubblico: un operaio può elemosinare, non lottare per un diritto. Se lo fa, è un “sovversivo” e la Questura lo mette dentro. Quando i lavoratori si associano, il collega di Minniti ne infiltra le organizzazioni per “conoscere il numero complessivo degli iscritti, le generalità, i connotati e un cenno biografico dei capi”. Sono furbi, i Questori. Si muovono nell’ombra, fanno schedature e mandano a Roma le liste dei più “pericolosi”. Se l’operaio parla delle otto ore, del salario e dello sciopero, ecco l’etichetta: “sovversivo”. Senza informare gli interessati, le “autorità”, segnalano i sindacalisti “più influenti affiliati ai partiti sovversivi”. La Questura ricama, la stampa fa da cassa di risonanza, ed ecco nascere “cabine di regia” e “manovre anarchiche”. Per colpire chi disturba i padroni, l’anarco-insurrezionalismo è un’arma vincente nell’Italia liberale, fascista e repubblicana. Gli schedari della Questura sono pieni di rapporti fantasiosi e inverosimili di spie e confidenti che vendono a peso d’oro notizie di terza mano, libere interpretazioni o invenzioni di trame rivoluzionarie. Costruita la trama, parte la denuncia: “si punta a fomentare le passioni, a coalizzare, con mire evidentemente politiche e avverse all’attuale stato di cose”. Perché? Per “trarre partito dal malcontento che serpeggia nelle varie classi operaie”.
In questi giorni, leggendo i giornali e ascoltando il Questore, mi è sembrato di essere in archivio tra le carte del 1893. Allora come oggi, le cause del malcontento non interessano nessuno. Contano i “sovversivi”. Quasi sempre presunti. Si costruiscono teoremi e si fanno girare inverosimili soffiate di confidenti. Così, per tornare al passato, fa paura persino una bevuta “in una bettola fuorigrottese, ove si legge una lettera pervenuta da Palermo”. Nessuno sa che c’è scritto, ma è certo: è un piano rivoluzionario al quale, suggerisce un infiltrato a caccia di quattrini, “prenderebbe parte un giovane prete dimorante al Vomero”. Il condizionale la dice lunga e il senso del ridicolo consiglierebbe più serie riflessioni, ma “in alto” si preme. Per colpire gli operai, la Questura induce il proprietario di uno stabile a sfrattare i sovversivi, la Procura “garantisce che dal locale Pretore sarà emessa relativa ordinanza e, nello stesso giorno in cui giunga, fatta eseguire”. Per le accuse è presto, ma il Questore trasmette in via riservata alla Procura Generale copia dei rapporti destinati al Prefetto. La procedura é inusuale ma serve allo scopo e si giunge al punto di denunciare gli autori di un manifesto che due settimane prima è stato giudicato del tutto legale. I lavoratori scoprono un provocatore, un ex agente di PS, lo espellono, ma qualcuno lo inserisce nell’elenco degli iscritti “ritoccato” dopo il sequestro, e in Tribunale fa la sua parte di testimone. Falso naturalmente. Per un po’ si cerca un’imbarcazione “comandata da un maltese, che dovrebbe arrivare dall’Albania con armi da sbarcarsi lungo la marina di Licata e Porto Empedocle”. Nessuna la trova e le perquisizioni senza mandato non tirano fuori carichi di armi, ma la “velina” della Questura giunge a giornali compiacenti e crea un clima di tensione giustificato, scrivono le Autorità, dalla “necessità di opporsi con energia al movimento che nelle presenti condizioni economiche e morali di queste basse classi sociali, può da un momento all’altro gettare la città in preda allo scompiglio”.
Occorrono imputati “deferiti al potere giudiziario sotto il titolo di Associazione di malfattori”. Cos’, scrive il Prefetto; poi, Creato l’allarme, il solito confidente tira fuori un misterioso piano di rivolta imminente a Palermo, Messina e Napoli. Inizierà, si dice, con “incendi dolosi appiccati nella notte”. La Questura, avuta “notizia sicura che gli incendi si sarebbero praticati nella nottata mediante petrolio e acqua ragia” di cui sarebbero intrisi “stoppacci accesi gettati negli scantinati”, mette in moto “pattuglie che percorrono la città in tutti i sensi con ordine di fermare, perquisire e arrestare”. Nel cuore della notte sono presi due individui, che, guarda caso, hanno con sé due bottiglie di acqua ragia e un foglio con la scritta a mano: “Viva la rivoluzione sociale”. Due terroristi e due bottiglie di acqua ragia sarebbero ben povera cosa per una rivoluzione, ma la Squadra Politica sostiene che mille compagni, impauriti, si sono ritirati. Nella fretta, la Questura sbaglia la data dell’arresto e anticipa d’un giorno la rivolta, ma per i giudici va bene così. La fantomatica rivolta non c’è, ma due bottiglie d’acqua ragia e le chiacchiere di un sarto arrestato, che si “pente” bastano e avanzano.
Al processo, tutto si basa su insinuazioni di anonimi confidenti della Questura. La difesa chiede di interrogarli, ma il giudice rifiuta, perché “le informazioni dei confidenti trovano riscontro negli atti”. E’ verità di fede. I due “terroristi” negano: l’acqua ragia è strumento di lavoro. Nessuno gli dà retta. Degli agenti che testimoniano, uno è colto con un foglietto da cui legge appunti e nomi d’imputati; un altro manda su tutte le furie il giudice che lo interroga perché ricorda “cose molto differenti da quelle risultanti nella deposizione scritta”. Un ispettore, infine, messo alle strette dalla difesa, ammette che gli imputati non sono sovversivi pericolosi. Il giudice preoccupato, scrive allora al Questore per fargli “raccomandazioni sul contegno di funzionari e agenti che dovranno essere intesi, non potendo in caso contrario garantire l’esito del processo”. Preoccupato è anche Crispi, Presidente del Consiglio, che ingiunge al Prefetto “di sollecitare il più possibile il pronunciato della Camera di Consiglio, ritenendo opportuno lo scioglimento del sindacato”. In quanto al sarto, il testimone chiave ritratta le dichiarazioni rese in istruttoria e narra la storia di durissimi interrogatori, di lunghi digiuni e della privazione dell’acqua. La polizia, racconta, l’ha convinto a firmare una dichiarazione falsa e già preparata. Dopo un’altalena di violenze e lusinghe, ha ceduto in cambio di 500 lire, un passaporto e la sistemazione delle figlie. L’uomo non mente. In archivio la polizia ha dimenticato la ricevuta della cifra pattuita firmata da un ispettore. Il processo è una farsa, ma Il sindacato è disciolto e i sindacalisti sono spediti in galera.
Un caso eccezionale? No. Nel 1914, quando l’Italia prepara la guerra, l’ostacolo sono gli operai antimilitaristi. A giugno del 1914 l’esercito liquida il conto, sparando sui lavoratori. A Napoli sono ammazzati quattro dimostranti. Due sono operai di 16 anni. Polizia e bersaglieri sostengono di aver sparato una sola volta per legittima difesa e poiché i morti si sono trovati in due vie diverse, si “aggiustano” gli atti. Un testimone ferito, arrestato, si rimangia le accuse e “per imperiose ragioni di ordine pubblico”, uno dei due morti è nascosto “nella sala mortuaria del Trivio”, il cimitero ebraico. Mentre per giorni la povera madre cerca il figlio ucciso, si prende tempo e si concorda una versione tra i Commissariati di quartiere. “Prego redigere un unico rapporto ribadente questo solo punto di vista”, scrive il Questore ai dipendenti: “c’è stato un unico conflitto a fuoco. Confido nella solerte abilità ed attendo un preciso rapporto per il quale è opportuno prendere accordi col Colonnello che comandava la truppa”. Un giudice nota che “l’esame necroscopico e gli accertamenti generici escludono che uno degli operai sia morto con gli altri”, ma tutto è sepolto in archivio, anche la verità narrata da un veterinario, finito in ospedale per uno scontro a fuoco in cui è morto un lavoratore. La via dei tumulti non è quella indicata dalla Questura.
Si può dire ciò che si vuole, ma le cose stanno così: negli anni settanta una legge della Repubblica ha dichiarato “perseguitati politici” 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici che tra il 1948 e il 1966, hanno dato fastidio. In Archivio ci sono ancora i telegrammi della polizia repubblicana che pedina il mio amico Gaetano Arfè, partigiano, storico di prestigio e direttore dell’Avanti, che è in contatto con quell’autentico pericolo pubblico che risponde al nome di Giorgio Napolitano. Chi non ci crede, controlli. In archivio Sandro Pertini è ancora schedato come malfattore. Lo tenne prigioniero a Ventotene un camerata del noto Almirante, per dirla col linguaggio dei questurini: Marcello Guida, direttore della colonia penale fascista di Ventotene, ove fu prigioniero anche Terracini, che poi firmò la nostra Costituzione. Chi non se ne ricorda, si informi. Scoprirà che il 12 dicembre 1969, quando una bomba fascista fece strage a Milano, all’epoca italiana e oggi capitale della Padania, il Questore che coordinava le indagini era Marcello Guida. E fu lui, Guida, a mentire agli italiani sostenendo che l’attentato era opera di anarchici insurrezionalisti. Pochi giorni dopo il povero Pino Pinelli, volò dal quarto piano della Questura retta dal Guida, alto funzionario fascista e incredibile Questore della Milano antifascista. Malore attivo, si disse, ma non è chiaro che voglia dire.
Si potrebbe continuare a lungo, giungere a Genova e Cucchi, ma a che serve?
Sbaglierò, ma in questi giorni sento puzza di montatura. Per ora si sono indicati ignoti colpevoli all’opinione pubblica. Poi verranno il reato e i nomi. Senza aspettare un sarto che si penta, si può azzardare una profezia: i nomi li hanno già fatti i giornali e in quanto al reato, da noi vige ancora il codice del fascista Rocco, con la devastazione e il saccheggio pensati per gli oppositori del regime. Nessuno lo dice ma mentre scrivo c’è un ragazzo che sconta 14 anni di carcere per un bancomat distrutto. Un lavoratore uccisi sul lavoro ti costa un anno e il carcere non lo vedi manco da lontano.
«I tuoi sono i soliti argomenti degli anti renziani a prescindere», mi assale becero e tronfio il neofita del renzismo. «Vedi solo le cose brutte e gli errori (che ci sono, ovvio, ma chi non ne fa?), mandanti oscuri che lo manovrano (il grande capitale e la grande finanza, ovvio), l’attacco continuo alla Costituzione (e chi sei tu per deciderlo?), l’aver resuscitato Berlusconi (che non è mai stato così fuori dai giochi come ora). Sei tristissimo, circondato da fantasmi che ti ossessionano, sempre più rinchiuso nel tuo fortino di duro e puro. E gli altri, noi poveretti che non abbiamo capito quello che solo tu eletto, invece, sai. Noi che viviamo nella vita normale, dove si fanno cose giuste e cose sbagliate ma ci si prova. Sei tristissimo».
Non c’è lavoro? Licenziamo, come chiedono Squinzi e la Confidustria. Riduciamo in servitù il giovane disoccupato e il problema sarà risolto. Poi, però, per favore, non piantiamo grane sulla dignità calpestata: se il matrimonio è un gesto d’amore, si può andare a nozze anche coi fichi secchi.
Dietro la cieca e feroce flessibilità morale invocata da Renzi, che sorvola su tutto, in nome di una comoda quanto inesistente necessità storica, si cela la tragica complicità che accompagna di solito le avventure dei personaggi loschi e pericolosi. Così fu per il fascismo, che passò col consenso della borghesia pronta a sostenere il regime. Il peggior Crispi resuscitato, il domicilio coatto reso ben più feroce dal confino politico? Sono solo fantasmi che ossessionano i moralisti! Lo Statuto Albertino calpestato? E chi siete voi per deciderlo? Quando un fiume di sangue corse in lungo e in largo il Paese e caddero Matteotti, Amendola, Gobetti, si patteggiò con la coscienza: avrebbero fatto certamente di peggio i bolscevichi. «Sei tristissimo, vedi solo le cose brutte e gli errori», si disse a chi non stava al gioco.
Oggi sono tristissimi e sempre più colpevolmente rinchiusi nel fortino di duri e puri coloro che registrano fatti gravissimi: un presidente della Repubblica eletto due volte («che ossessione! La Costituzione non lo vieta!», Già, ma la Costituzione non vieta nemmeno l’elezione ripetuta tre, quattro e cinque volte…). Sono tristissimi quanti ricordano puntigliosamente che questo Parlamento è illegittimo, perché eletto con una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Tristissimi, perché nella loro inaccettabile smania di costituzionalità, si rifiutano di capire che esiste una «vita normale, dove si fanno cose giuste e cose sbagliate ma ci si prova».
C’è da augurarsi che stavolta, quando la folle avventura appena iniziata sarà terminata e il disastro compiuto, i «tristissimi» sappiano ricordare e trattino come meritano i ciechi gioiosi che tutto accettano e tutto lasciano correre. Ricordare e punire senza pietà. Sarebbe inaccettabile una nuova legge togliattiana sull’epurazione e una nuova amnistia.