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Archive for febbraio 2013

Ho scoperto che esistono due nuovissimi sport per superare lo choc post elettorale. Se sei della sinistra rivoluzionaria, ti studi di far lezione di grillismo ai grillini e gli dici con aria profetica e a suo modo sprezzante:
– Un partito interclassista si spaccherà alle prime decisioni serie.
– Sarà, pensa il grillino, però la DC ha governato per quasi mezzo secolo...

Se invece sei del PD, nonostante le recenti legnate, ti senti ancora così furbo, che fai finta di essere del Movimento 5 Stelle et voilà, ecco materializzarsi sul web improbabili petizioni di grillini che ieri sparavano a zero su Bersani e oggi , guarda un po’, chiedono a Grillo di dargli la fiducia.

Da tempo ormai in questo Paese tutti parlano di tutto, ma nessuno riflette su stesso.

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  Da giovane mi sentivo in colpa di fronte a quelli che capiscono sempre tutto e non si sconcertano mai per le sconfitte. Quelli che quando si prende una brutta batosta hanno sempre una spiegazione, un colpevole certo e un processo da celebrare, ma non si sentono mai imputati. Da giovane mi meravigliava la nostra perfezione: nessuno tra tanti bravi compagni riconosceva che avevamo sbagliato, tutto era sempre chiaro e il problema evidentemente non era nostro ma riguardava gli altri. Una volta mi resi conto che si stavano cancellando dalla memoria storica i partigiani monarchici e quando osservai che questa probabilmente l’avremmo pagata e ci sarebbe costata anche cara, ci fu subito il valoroso compagno pronto a  puntare il dito per etichettare: socialfascista! A mia insaputa e a seconda dei casi, sono stato da allora un fottuto anarchico, un pericoloso spontaneista e un maledetto anticomunista.

Col tempo, poi, quando ci ritrovammo tra i piedi migliaia di fascisti che non erano stati  mai epurati, scoprii che esisteva una spiegazione precisa che non spiegava niente; nessuno sapeva bene chi l’avesse tirata fuori, però bisognava rispettala: non si poteva fare in un altro modo. Sono passati gli anni, è andata così centomila volte ed eravamo sempre di più a non capirci niente e a sentirci, a seconda dei casi, più indietro degli altri, più infantili, più estremisti e più inadeguati. Per mezzo secolo siamo andati avanti così, con questa sorta di schizofrenia. Si perdeva sempre più facilmente ma non si sbagliava mai e se un errore proprio si doveva ammetterlo, beh non c’erano dubbi: l’aveva commesso un compagno dissidente, uno che non capiva niente o che probabilmente s’era venduto. E’ finita che nessuno è mai stato più bravo di noi a cercare gli errori degli altri nelle nostre sciocchezze, a riempire la nostra storia di sconfitte inspiegate, di comodi colpevoli e di falsi innocenti.

E’ passato mezzo secolo, noi continuiamo a perdere tragicamente, ma non ho bisogno più di guardarmi attorno per saperlo. Ad ogni sconfitta qualcuno si alza per primo, punta il dito e recita un versetto della nostra bibbia. Da giovane l’avrei invidiato, da uomo maturo mi sarei sentito a disagio. Oggi che sono vecchio a me questi che sanno sempre tutto e non spiegano mai niente fanno semplicemente pena. Ormai mi resta poco tempo e ciò che m’interessa capire davvero è dove abbiamo sbagliato e perché non ce ne siamo accorti.

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Abbiamo una teoria e una filosofia della storia. Sappiamo che non sarà dalle urne che verrà fuori la soluzione di questa crisi epocale e siamo convinti che la via del cambiamento si può costruire solo con le lotte dei lavoratori uniti. Noi però concordiamo con Lenin: “Chiunque aspetta una ‘pura’ rivoluzione sociale, non vivrà abbastanza per vederla”. Noi sappiamo che l’opposizione al capitalismo si fa anzitutto fuori dal parlamento, ma non per questo pensiamo di doverne stare fuori, perché la reazione si combatte nei luoghi fisici della sua organizzazione e perciò anche nel cuore delle istituzioni borghesi.
Noi, quando serve, scegliamo e non abbiamo paura di sporcarci le mani votando. Anche così si costruisce la rivoluzione.

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Sul filo di lana e nella logica oltraggiosa del “voto utile“, Skuola, sponsorizzata da Mediaset e Tgcom24, ha pensato bene di chiarire ai lettori-elettori i progetti per la scuola dai “grandi” protagonisti delle elezioni, senza interpellare gli altri candidati. L’iniziativa è quantomeno singolare. I rapporti tra la scuola malata e l’equipe dei “guaritori” dovrebbero essere ormai chiari: Bersani Monti e Berlusconi l’hanno governata assieme in piena concordia. Assieme hanno deciso i rovinosi tagli, l’illegale concorso a quiz e la sorte riservata ai precari; assieme hanno trasferito milioni di euro dal pubblico al privato in sfregio alla Costituzione e non c’è stato gran dissenso nemmeno sulle campagne di stampa per l’orario dei docenti e l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Scuola, istruzione e ricerca, fortilizi di democrazia, strumenti imprescindibili di promozione e riscatto sociale e autentici motori di quello sviluppo invano cercato nella trappola del rigore, nella mortificazione dei lavoratori, nell’attacco ai diritti e nella difesa di privilegi di classe, non avevano mai conosciuto il tracollo che viviamo. La trionfante DC del’48 non giunse a fare delle politiche per la conoscenza il perno di quel “sovversivismo dei ceti dirigenti” che ha ispirato Monti, il suo governo e la maggioranza che l’ha sostenuto. In linea con una tendenza tipica del neoliberismo all’italiana, Monti, Berlusconi e Bersani non si sono limitati infatti a una devastante rinuncia agli investimenti, ma hanno dilapidato un patrimonio di conoscenze e di esperienze pedagogiche e didattiche. Per un anno si è parlato di merito mentre si tagliavano servizi, si sono violate le regole mentre si bandivano crociate per la cultura della legalità, si è battuto sul tasto della formazione e lì ci si è fermati, ignorando che essa è solo una parte del mondo più ampio e complesso che si definisce educazione. Al tirar delle somme, è emerso il disastro e dopo le infinite chiacchiere sulla meritocrazia i docenti, messi sotto processo, hanno potuto verificare che ciò che si voleva da loro era solo la disponibilità a smetterla di educare, di fornire, cioè, strumenti in grado di formare coscienze, scegliere tra sistemi di valori, ricavare dall’insegnamento ciò che sarà utile per la durata di una vita che chiede anzitutto autonomia e capacità di relazione dialettica col tempo che cambia. Si voleva dimenticassero, in ultima analisi, che usar bene una penna, non significa “esser padroni del pennino e dell’inchiostro” ma aver parole da dire quale che sia lo strumento utilizzato: il miscuglio di acqua e polvere colorata con cui la preistoria ci parla dalle sue caverne, la biro, la matita, la tastiera virtuale di un tablet o quale che sia domani lo strumento tecnico che ci consentirà la comunicazione grafica. Si voleva che si limitassero a fornire agli studenti un minimo di competenze da spendere in tempo breve sul mercato del lavoro, per farne una piccola, alienata rotella del grande ingranaggio della produzione. Era, a ben vedere, la messa al bando del “Prometeo”, di “colui che riflette prima” e poi si schiera in un conflitto che è legge di vita e nel titanico scontro, metafora classica della lotta di classe, sa come rubare il fuoco agli dei.
Una scelta politica di fondo, quindi, perché ormai è chiaro: a dar retta agli stregoni del capitale, ai docenti tocca stravolgere il “tempo” della scuola, il vero capitale del loro investimento sul futuro; un “tempo” che è l’elemento di distinzione tra una programmazione che guarda lontano e quella che si limita a interventi a “ricaduta immediata”, verificabili in senso quantitativo nel breve volger di un anno. Di qui l’Invalsi e i quiz che levano alla gloria degli altari la nozione in nome di una utilità momentanea, buona per derubare i ceti subalterni di una “scuola per la vita” e disarmare Prometeo, difendendo dal furto il fuoco degli dei. Chi ha dato uno sguardo alla legge di stabilità, conosce la miseria della filosofia che sta dietro le scelte condivise dai tre “grandi” e la domanda a questo punto è legittima: perché “Skuola” e in generale il circo mediatico danno tanto spazio ai protagonisti di un sfascio senza precedenti, lasciando fuori Grillo, Ingroia e Giannino?
Se il caso Giannino, profeta della meritocrazia scivolato, guarda caso, proprio su questioni di merito e di educazione – due lauree inventate per rimpinguare il percorso di studi – induce a riflettere sui mostri che genera l’impuro connubio tra merito e mercato, non meno interessante è il “caso Grillo”. Al di là del ritorno alla “politica in piazza” e delle conseguenti “piazzate”, il suo programma, infatti, mette la scuola su binari “transitabili” dagli addetti ai lavori e attacca le due destre già alleate nel sostegno a Monti con un’affermazione che non fa spazio a equivoci: abolizione della legge Gelmini. Alla chiarezza dell’incipit, però, seguono poi il rifiuto dei finanziamenti dello Stato alle scuole confessionali e private, che fa l’occhiolino al dissenso di sinistra e, per rovescio, i cavalli di battaglia di Profumo, in modo da non dimenticare le delusioni della destra: abolizione del valore legale dei titoli di studio e integrazione Università/Aziende; infine, per star dietro al “nuovismo”, che è un “ismo” vitale per il populismo, tutto il web del mondo, il possibile e l’impossibile, senza criteri didattici, con l’abolizione graduale dei libri di scuola stampati e quindi la loro gratuità. Principi sani e fanfaronate, com’è nello stile della casa, ma Skuola ha fatto la sua scelta: l’alba del nuova politica nasce con Berlusconi, muore con Monti e fa i conti con Bersani. Altro non conviene ci sia e non se ne parla. Svanisce così la sinistra raccolta attorno a Ingroia con un programma che si colloca in modo consapevole fuori l’«arco incostituzionale» dei neoliberisti e scandalizza i sacerdoti del dio mercato con quel suo inizio che riafferma il valore universale della scuola, dell’università della ricerca pubbliche. Chi l’ha pensato, non ha cercato a tutti i costi il nuovo ed è, anzi, tornato schiettamente alla “vecchia” tradizione di uomini come Calamandrei, all’idea di una repubblica che garantisce l’accesso ai saperi per tutte e tutti, in base al principio indiscutibile che non esiste altra via per assicurare al Paese cittadine e cittadini liberi e consapevoli; un ritorno a dottrine sociali o addirittura all’«eresia socialista» della centralità della conoscenza, tanto cara ai padri Costituenti, da indurli a farne il tema del terzo principio della legge fondamentale della repubblica. Anche qui netto è il rifiuto della legge Gelmini, voluta da Berlusconi, cara a Monti e Profumo e mai seriamente messa in discussione da Bersani. Un rifiuto che si accompagna a proposte di ispirazione europeista, l’Europa antifascista di Spinelli, però, che è agli antipodi dell’Unione bancaria di Monti, Bersani e compagnia cantante: l’obbligo scolastico a 18 anni e il ritiro del blocco degli organici imposto dalle ultime leggi finanziarie, tutte ispirate, giova dirlo, al delirio monetarista di sacerdoti e servi sciocchi dell’Europa germanica. In questo solco di ispirazione democratica e di “statalismo socialista” – ecco un’altra eresia – si pongono il rifiuto di “qualsiasi progetto di privatizzazione del sistema di istruzione” che unisce sostanzialmente i tre “grandi”, e la stabilizzazione del personale precario. Novità significativa, la visione articolata delle politiche culturali. Sarà “passato” anche questo – siamo a Spinelli e al “Club del Coccodrillo”, al tempo in cui il nesso tra formare e informare era così chiaro, che Gaetano Arfè cercò di far nascere un telegiornale europeo – ma per Ingroia e compagni, scuola, università e formazione viaggiano sullo stesso binario di una seria riforma dell’informazione e del sistema radiotelevisivo che ne spezzi la subordinazione ai poteri economico-finanziario.
Di tutto ciò s’è parlato poco e si capisce il perché: la ricetta è alternativa. Né, maghi, né guaritori e nemmeno “miracoli rivoluzionari”. Senso della storia, però, occhio volto al futuro e, per farla breve, tanta Costituzione. Le urne non cambieranno il mondo, ma a ragionare onestamente bisognerà dirlo: col loro voto scuola e università hanno l’occasione di valutare con decisiva chiarezza l’Invalsi, l’Anvur, e la pletora di ignoranti che da tempo millanta crediti che non ha.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 febbraio 2103

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Confesso il mio peccato: torno spesso alle antiche letture. Gli anni, la formazione, il tipo di cultura, le scorie fatali della militanza hanno finito per collocarmi in quella sorte di “prigione” che molti, non senza disprezzo, definiscono “ideologia” e una sparuta pattuglia di sopravvissuti ritiene sia coerenza tra un sistema di valori, alcuni strumenti di analisi e scelte di vita che coincidono con opinioni politiche. Questa sorta di confessata sclerosi spiega probabilmente la diffidenza stupita per la fiduciosa ricerca del futuro del sistema formativo negli impegni strappati ai candidati e nella cartastraccia che diventano in genere programmi elettorali.
In un’ormai lontana introduzione a un ancor più lontano studio economico di Pietro Grifone, Vittorio Foa, tornava addirittura a Bucharin per individuare nella “simbiosi del capitale bancario con quello industriale” l’essenza della finanza e ricordava un insegnamento di Lenin che non è stato mai attuale come oggi: è impossibile modificare la natura necessariamente aggressiva e socialmente ingiusta del capitalismo, ripulendolo e dandogli una mano di vernice democratica. Il capitale in crisi non lascia sopravvivere diritti. Si studia, studiano i figli delle classi subalterne, nelle fasi di espansione, nei momenti di crescita economica o quando, comunque, i margini di profitto chiedono pace sociale e un fantoccio di democrazia. E’ questione di accumulazione, ma anche di “gerarchie sociali“. La borghesia è nata da una rivoluzione vittoriosa, conosce perfettamente i meccanismi della storia e sa che probabilmente la riforma della scuola e dell’università costò l’Impero agli zar, perché produsse il personale politico del populismo russo e condusse all’ottobre rosso.
Di tutto questo non si parla, mentre il voto è imminente. Va di moda invece una bestemmia: l’offerta elettorale. Un modo per dire che il voto è sul mercato. Offerta. Te lo ripetono con arroganza liberista, mentre si spara a raffica sulla scuola di ogni ordine e grado, mentre si precarizza e si umilia il personale docente e ai giovani si lasciano briciole di istruzione che preannunciano l’avviamento al lavoro. Di educazione nel senso socratico del termine – quella che bada all’intelligenza critica e all’utonomia del pensiero – non parla più nessuno; Socrate non rientra nell’offerta elettorale. Ormai il linguaggio è così drammaticamente deformato, che “aprire” un discorso politico appare un non senso e non si trovano più le parole per porsi domande elementari. Tra Monti e Bersani, col codazzo di forze minori pronte a “dialogare“, quali diversi modelli sociali, quale concezione dei rapporti tra le classi e quale Stato? Per quanti sforzi tu faccia per capire, la sola differenza che cogli è veramente desolante. La banda dei tecnocrati propende per condizioni di predominio del capitale finanziario, senza mediazioni liberal-democratiche di stampo giolittiano, senza “idilli turatiani”, se parlando di Fassina o Vendola, si può scomodare Turati. Un’idea di destra elitaria, con quel che ne consegue in termini di autoritarismo, trasparenza e decisioni prese in modo anonimo nell’ombra impenetrabile di consigli d’amministrazione e controlli di banche alle banche. Un modello sociale che lascia impunito Montepaschi, conduce in Mali e produce F35. In quanto ai “politici”, ecco l’altro volto del capitale, quello più o meno industriale, in cui l’autorità diventa giocoforza azienda – il “sistema Italia” – e “comanda“, come i padroni del vapore che si son “fatti da sé” e possono sfidare le regole in nome dell’efficienza e della produttività. Una “democrazia autoritaria“, che pareva contraddizione in termini e s’è vista all’opera in un esordio nemmeno balbettante, mentre apriva coni d’ombra di natura diversa, senza evitarci la Libia, il Mali e gli F35.
A ben vedere, la borghesia, divisa, sperimenta percorsi differenti ma non lontani tra loro. Per dirla con Gramsci, è al bivio di un nuovo experimentum crucis: non sa dove andare, ma non vuole star ferma e si compatterà. Anche i lavoratori sono a un bivio cruciale: avanti così non si andrà a lungo. Occorre qualcosa che non sia “offerta“, qualcosa che sia analisi e discussione e provenga dal basso. Parole nette se ne sono dette: niente Mali, niente F35, nessun dialogo con le due destre. Si potrebbe firmare una cambiale in bianco, se un abbozzo di riflessione nei giorni che abbiamo davanti, per carità di patria e onestà intellettuale, consentisse di trasformare il generico e insufficiente appello a una “legalità” tutta “giudiziaria“, in una schietta categoria di sinistra: giustizia sociale. Allora sì che scuola e università sarebbero al sicuro. E con esse l’insieme delle conquiste che hanno fatto la nostra storia migliore.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 febbraio 2013  

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 C’è chi si interessa molto di memoria storica, benché talora sia proprio la memoria a fargli difetto. Il presidente dell’«Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia», appena pochi mesi fa aveva dichiarato di voler «dialogare pazientemente con tutti» e di non aver «paura di confrontarsi con nessuno», ma se l’è poi dimenticato e giorni fa, in una lettera diretta a Rai, Mediaset, Telecom e Sky, non ha esitato a scrivere: «il 10 febbraio verrà celebrato il ‘giorno del ricordo’ in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata […]. Si eviti di dar voce a coloro i quali, in qualsiasi modo, leniscono lo spirito commemorativo espresso dalla legge dello Stato, perché ciò equivarrebbe a porre sullo stesso piano offensivamente vittime e aguzzini di una tragedia storica». A dirla in maniera spiccia, la richiesta è a dir poco brutale: quando si tratta di Foibe, mettete a tacere storici e docenti che non la pensano come noi.
Sono in molti ormai a credere fermamente che la vicenda storica si riassuma in una sorta di Bibbia e che, di conseguenza, storici e docenti siano tenuti a raccontare una serie di verità di fede che poco hanno da spartire con la “lettura” e l’interpretazione di documenti che riguardano fatti. A dar retta a questa visione “teologica” della ricerca storiografica e soprattutto dell’insegnamento della storia, docenti e storici, nelle scuole e nelle università, sono tenuti a spiegare agli studenti che la lotta armata di un popolo contro una forza di occupazione è solo terrorismo, che Bruto e Cassio furono antesignani delle Brigate Rosse e che un moto di piazza ha una duplice lettura: è figlio benedetto dei ciclamini o ignobile teppismo sovversivo a seconda degli interessi che mette in discussione.
Spiacerà ai cultori della “scienza nuova” e ai politici che gli fanno da sponda coi loro fatidici giorni del ricordo e della memoria di Stato, ma in tema di “cuore conteso” sul confine occidentale tra l’Italia e i Balcani, un docente serio non giungerà alle foibe se non per inciso e inevitabilmente dovrà occuparsi prima della politica estera a sfondo nazionalista e razzista dell’Italia di quegli anni. Parlerà di snazionalizzazione e di repressione e ricorderà i patrioti slavi condannati a morte e uccisi in seguito alle sentenze del Tribunale Speciale fascista. Giunto al 6 aprile del 1941, il docente dovrà dire della Jugoslavia invasa da italiani e tedeschi senza dichiarazione di guerra e di Belgrado, “città aperta”, investita senza preavviso dai terribili bombardamenti aerei delle forze dell’Asse.
Scosso da brividi, l’insegnante accennerà alle lettere dei nostri soldati, puntualmente censurate, in cui si raccontava la «squallida miseria» dei popoli conquistati e citerà lo stupore dei militari più intelligenti: «pensavamo che fosse la guerra delle nazioni povere contro il popolo dei cinque pasti al giorno» al quale insegnare «a conoscere come vivere con un solo pasto». Da quelle lettere il docente ricaverà la tragedia di giovani indottrinati dalla propaganda di regime e mandati al macello; giovani che soffrono per il gelo e per i tanti commilitoni «rimasti congelati ai piedi e alle mani», ma sono pronti, per reazione, a punire un nemico aggredito e dato per spacciato, che invece resiste oltre ogni attesa in una guerra partigiana che sorprende, intimorisce e risveglia dentro naturalmente il germe del razzismo e dell’odio, sistematicamente inoculato dalle scuole e dalle caserme: «in questo paese sono peggio degli africani, la maggior parte sono comunisti, sembrano briganti». Paura e odio – spiegheranno gli insegnati – sentimenti che conducono fatalmente a un bivio disperato. Qualche militare, infatti, racconta imprese atroci, che l’assenza di senso morale rende accettabili e l’effetto della propaganda induce ad addebitare addirittura alla ferocia del nemico che non s’arrende: «non si sa se dobbiamo combattere i civili o i militari. Siamo costretti a prendere d’assalto le case […] costretti ad usare dei lancia fiamme per bruciare delle case dove dentro c’era gente che non ha voluto farsi prigioniera e poi è morta bruciata». Qualcuno c’è, però, che ricava dall’esperienza una nauseata presa di distanza. «Qualche volta ci capita leggere articoli. La santa fanteria, l’eroico fante italiano e tanti altri ancora che esaltano le nostre gesta. Ma rimangono solo teorie. Già si vede come saremo trattati…». E’ l’annuncio della Resistenza ma anche l’intuizione della bufera che si annuncia.
Piaccia o no, ricordare le foibe, tacendo questo contesto, non è mestiere di docenti. Il problema evidentemente è che, In questo contesto, quella delle foibe diventa inevitabilmente un’altra storia.

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Da un po’ tutto s’è fatto così buio, che se accendiamo un lumicino è necessario riparare gli occhi con la mano, perché la luce ti ferisce. Lavori, militi, rifletti, scrivi, ti accampi negli archivi in cui sei entrato giovane e lo sai bene: ormai ci sei stato tanto, che occorre ti prepari a uscirne. Sei vecchio quanto basta perché sempre più spesso ti capiti di chiederti a che sia servito e a che serva interrogare il passato, quando il presente minaccia il futuro e di mille battaglie, non una alla fine ne hai vinto. 
Da un po’ c’è tanto buio attorno a te, che se un lumicino s’accende, tutto riacquista un senso  e ti accorgi che, tornassi mille volte indietro, mille volte rifaresti quello che hai fatto e non hai rimpianti. A qualcosa è servito, certo che è servito, mi dice un messaggio venuto dalla Spagna a cancellare i dubbi. Una buona notizia e val la pena di raccontarla.

Cari partecipanti al congresso di Barcellona del novembre 2011,
in attesa dell’imminente uscita del volume degli atti vi comunico con un certo orgoglio che la nostra denuncia dei bombardamenti di Barcellona da parte dell’aviazione legionaria ha aperto una prima breccia nel muro di impunità che “tutelava” i crimini della guerra civile.
È un risultato storico.
Qui l’articolo de El País
Allego il nostro un comunicato e vi invito a diffondere la notizia!
Un caro saluto,
Ida
Associació Altraitalia – Barcellona“.

 

SENTENZA – COMUNICATO STAMPA

La sentenza pronunciata oggi dalla sala X dell’Audiencia Provincial di Barcellona rappresenta un avvenimento di portata storica.
Finalmente si è infranto quel muro del silenzio che per anni ha impedito, sul fronte pubblico, la conoscenza di importanti avvenimenti del nostro recente passato, mentre su quello giudiziario ha bloccato qualsiasi tentativo di individuare i responsabili dei crimini contro l’umanità commessi durante la Guerra civile spagnola.
Questa sentenza determina l’apertura di una fase istruttoria volta a individuare i responsabili dei bombardamenti a tappeto, condotti dall’aviazione italiana, che tra il gennaio 1937 e gli ultimi mesi del 1938 colpirono la popolazione civile della città di Barcellona.
Paradossalmente, i promotori di questa azione di denuncia contro uno degli episodi più drammatici della violenza fascista in territorio spagnolo sono proprio i membri di un’associazione di italiani, l’Associació Altraitalia – Barcelona, che costituendosi parte civile ha accompagnato nel percorso giudiziario due delle vittime ancora in vita dei bombardamenti del quartiere della Barceloneta.
Con la precisa volontà di rendere noti e divulgare importanti fatti storici volutamente dimenticati e occultati dalle rispettive autorità istituzionali.
Dal 2009 la commissione memoria di questa associazione antifascista non legata ad alcun partito, ha testardamente portato avanti il suo progetto, nonostante le reazioni di sarcasmo e incomprensione
ricevuti da gran parte dei suoi interlocutori, ed è riuscita a raccogliere tutto il materiale storico necessario per esporre la sua denuncia per i bombardamenti effettuati dall’aviazione e dalla marina fascista nel 1937-38 ai danni della popolazione civile inerme, che costò oltre 6 500 morti al popolo catalano. L’ indifferenza e l’ostracismo che questa iniziativa ha incontrato nelle istituizioni catalane e italiane durante questi anni è stata sottolineata dalla sentenza stessa in riferimento al comportamento negligente tenuto dalla Generalitat e dai comuni delle zone bombardate che dal punto di vista giuridico non hanno promosso o appoggiato iniziative per sanare questa ferita umana e per restituire dignità storica alle vittime.
L’intervento delle truppe e le armi inviate da Mussolini sono stati decisivi per il trionfo del colpo di stato militare di Franco contro un governo democraticamente eletto e legale. Legalità che i bombardamenti violarono sistematicamente: l’Italia non aveva mai dichiarato guerra alla Repubblica spagnola, gli aerei e le imbarcazioni che effettuavano le azioni erano “pirata”, perchè avevano accortamente mascherato i loro segni di riconoscimento e operavano prevalentemente di notte, inoltre con la modalità dei bombardamenti a tappeto, utilizzata per la prima volta contro una grande città europea, si infrangevano i patti internazionali che lo stesso stato italiano -in quanto firmatario- si era impegnato a far rispettare.
Per come è stato dimostrato dai documenti d’archivio italiani i bombardamenti avevano l’obiettivo di attaccare e terrorizzare la popolazione civile catalana con il fine di provocare la demoralizzazione della retroguardia repubblicana.
I membri di AltraItalia hanno anche promosso una ricerca d’archivio (pubblicata nella rivista Sapiens num. 114 del 2012) in cui si dimostra come fino alla fine degli anni Cinquanta lo stato democratico italiano continuò vergognosamente a ricevere dal regime franchista il risarcimento delle spese di guerra sostenute. Con l’intenzione di promuovere il dibattito sulle implicazioni dle fascismo italiano con il colpo di stato di Franco, la guerra civile e la successiva dittatura, l’associazione ha organizzato inoltre delle giornate internazionali di studio dal titolo: “Catalunya-Itàlia: memòries creuades, experiències comuns Feixisme i antifeixisme des de la Guerra Civil fins a la Transició (1936 -1977)”, che si realizzarono con il supporto del Memorial Democràtic della Generalitat de Catalunya il 25 e 26 novembre 2011.
Eppure lo stato italiano non solo non ha mai riconosciuto le responsabilità di queste azioni militari, anzi ha permesso la creazione di monumenti e lapidi agli eroi della “Guerra di Spagna” che dagli aerei dell’esercito italiano uccisero donne e bambini a sostegno della sollevazione franquista. In varie città italiane, come Arezzo e Trieste, si mantengono e addirittura si inaugurano spazi dedicati a membri delle truppe fasciste caduti nella guerra di Spagna. Una guerra che rappresenta una pagina volutamente rimossa dalla memoria storica e civile italiana.
Per costruire una nuova Europa dei popoli su valori condivisi bisogna ristabilire la verità storica. Così l’hanno inteso i figli e i nipoti delle vittime dei massacri nazisti perpetrati tra il 1944 e il 1945 in diversi centri italiani che, con l’appoggio delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, hanno portato a processo, 60 anni dopo, i responsabili di quei crimini, ottenendo condanne e riconoscimento di risarcimenti.
Le vittime dei bombardamenti del quartiere della Barceloneta, contattate e sostenute da AltraItalia, attraverso gli avvocati Newton Bozzi (membro dell’associazione), Jaume Asens (membro della Commissione di difesa dei diritti umani del Collegio d’avvocati di Barcellona) e con il supporto di Josep Cruanyes (presidente della Commissione per la dignità) hanno presentato il 2 giugno 2011, una prima denuncia all’Audiencia Nacional, che dopo essere stata respinta dal tribunale, che si è dichiarato “non competente per il territorio”, è stata ripresentata l’1 giugno 2012 al tribunale di Barcellona.
Oggi, finalmente, è stata accolta la richiesta di apertura della causa.

Si spera che questa prima breccia aperta nel muro del silenzio e dell’impunità che ha protetto finora i crimini di una delle più lunghe dittature europee possa facilitare la comparsa di più iniziative di denuncia da parte della società civile di tutte le comunità spagnole che sono state colpite dai bombardamenti e dagli atti di violenza indiscriminata della guerra del 1936-1939.
Sono numerosi i familiari delle vittime dei bombardamenti che ci hanno contattato nel corso di questo percorso. Ci siamo limitati a raccogliere nella denuncia le dichiarazioni di due sole vittime per non dilatare i tempi e i costi dell’azione legale, ma speriamo che a partire da adesso le legittime richieste di queste persone siano sostenute da istituzioni e amministrazioni pubbliche.
Come italiani e catalani di Barcellona siamo orgogliosi di questa iniziativa e speriamo che la società civile antiautoritaria e antifascista catalana e spagnola nel suo insieme – con il supporto inderogabile di istituzioni e amministrazioni pubbliche – accetti e dia continuità al nostro contributo al riconoscimento di una giustizia universale che, oltre a dovunque e sempre i crimini contro l’umanità, permetta legare i valori che hanno ispirato le lotte di ieri per la libertà, la giustizia sociale e la dignità con quelle di oggi.

Testimoni – Vittime dei bombardamenti
1) Alfons Cánovas Lapuente
El 19 de Enero de 1938 alrededor de las 12, mi padre, que trabajaba como estibador para los Almacenes Generales del Comercio en el puerto de Barcelona, salió de su lugar de trabajo que se encontraba cerca de donde hoy está el Museo de Historia de Catalunya – Palau del Mar, es decir en la zona del puerto entre Plaza de Pau Vila y Paseo Joan de Borbón, y se fue, como hacía siempre, a cuidar de su huerto ubicado en un pequeño espacio de tierra en frente de los mismos depósitos, entre las vías del ferrocarril. Mientras trabajaba, unos aviones de la Aviación Italiana bombardearon los almacenes, las cercanías y le mataron. Este día yo me encontraba en el frente de Aragón combatiendo. Supe de lo ocurrido algunos días más tarde, cuando recibí una carta de mi tío. Cuando volví a Barcelona, mi hermana, que fue testigo presencial de los bombardeos, me repitió la misma narración del hecho delictivo.
2) Anna Raya
El día 1 de Octubre del 1937, tenía la edad de ochos años; me encontraba en el colegio de la calle Baluard del barrio de la Barceloneta en Barcelona. Una bomba lanzada por los aviones de la Aviación Italiana cayó directamente sobre el colegio. Hubo una nube, caían piedras, los niños corrían por todos lados y los aviones nos ametrallaron. Yo fui herida a la cabeza por un trozo de metal. Un soldado me llevó a un dispensario, ya que en la Barceloneta no había hospital y el más cercano estaba colapsado por la cantidad de muertos y heridos que provocaron los bombardeos. En el dispensario, un doctor me puso unas grapas para suturar la herida en la cabeza.

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Sarà capitato per caso, sarà che certa stampa disinforma informando e più che dare notizie accoglie umori, alimenta fermenti e “orienta” le opinioni verso “bisogni privati” a scapito di una visione collettiva dei problemi, la coincidenza colpisce. Giorni fa una lettera scelta da Beppe Severgnini per il suo “Italians“, blog storico del “Corriere della Sera“, se l’è presa con la scuola, con gli alunni e coi docenti. “Vil Maramaldo…” avrebbe accusato Francesco Ferrucci, ma Severgnini tace e dà spazio all’attacco: ogni anno, quand’è tempo di iscrizioni, inizia una guerra sorda tra genitori, decisi ad assicurare ai figli la sezione d’élite con i docenti “migliori” o quantomeno a evitare quella “peggiore“. Per il silenzioso Severgnini e la sua agguerrita ospite, la faccenda naturalmente non riguarda chi ha “optato per istituti privati” e non è chiaro se questo dipenda dal fatto che gli insegnanti delle scuole private sono tutti allo stesso modo bravi per definizione, se la bravura si leghi anche alla selezione degli iscritti o se, infine, la faccenda si risolva “democraticamente” in relazione alle rette, sicché chi più paga più facilmente ottiene ciò che di meglio sembra offrire il mercato. Sempre che, s’intende, l’apparenza coincida con la realtà e il presunto “migliore” non sia solo il più condiscendente alle pressioni di conformità di una “società chiusa” e ai modelli sociali che vanno per la maggiore. Sia come sia, per il muto padrone di casa e per la sua ospite, la scuola dello Stato ogni anno offre lo scandaloso spettacolo di dirigenti che s’inventano lotterie per far fronte alle pressioni – non meno scandalose, verrebbe da dire – di genitori che hanno in mente le più discutibili graduatorie di docenti. Tutto questo, inutile dirlo, per colpa degli insegnanti che non intendono farsi “valutare“. E’ difficile capire quanti genitori docenti ci siano tra le fila dei “clienti” che scelgono il miglior prodotto dell’azienda, ma non ci sono dubbi sul fatto che la stragrande maggioranza dei docenti sia in possesso del titolo di genitore per cui, a voler essere rigorosi, la lettera ospitata dal notissimo giornalista scrittore omette quantomeno un dato significativo: a volerla dire tutta, infatti, la guerra che si svolgerebbe ogni anno per la formazioni di classi d’élite – e di conseguenza per la formazione di classi ghetto – sarebbe, a rigor di logica, una sorta di guerra civile e anzi peggio, una guerra tra paranoici con tanto di sdoppiamento della personalità tra docenti decisi a non farsi valutare, genitori che hanno già valutato, e docenti-genitori che ragionano di valutazione a seconda degli abiti che si trovano ad indossare.
In un tempo che non è poi così lontano, dopo che la scuola aveva stroncato l’analfabetismo e la lotta di classe si faceva dal basso, genitori e docenti si contrapponevano, ma governavano assieme la scuola in nome del sistema di valori contenuto, nonostante i suoi limiti, nella Costituzione. Oggi non è più possibile perché la lotta di classe l’ha scatenato dall’alto la classe dirigente e l’analfabetismo riguarda i valori della Costituzione. Non sono le indagini Ocse a “bocciare” la nostra scuola. L’hanno “bocciata” tagli e scelte politiche omicide di gruppi di potere che hanno calpestato lettera e spirito della Costituzione. In questo clima, l’uscita di “Italians” trova la sua più naturale e probabilmente non casuale risposta in un articolo scialbo e apparentemente marginale con cui il 31 gennaio “La Stampa” annunciava la rivoluzione copernicana della futura formazione: “Nasce la scuola del domani“, titolava il giornale, e subito dopo, con sconcertante noncuranza, il tragicomico sottotitolo annunciava il Vangelo: “Gli insegnanti li scelgono i bambini“. E non si trattava di una “trovata” per incuriosire. Questo è il livello culturale del dibattito sulla scuola in piena campagna elettorale. Di qui purtroppo non si esce. Ecco la scuola del futuro, il perno attorno a cui ruotano i punti di forza della scuola di domani: l’immancabile “qualità“, un non meglio definito rigore e una rivoluzionaria ma improbabile capacità di stimolare il senso critico dei suoi scolari. Essi, infatti, prima di apprendere i rudimenti dell’ormai antidiluviano leggere, scrivere e far di conto, impareranno a scegliersi gli insegnanti. Il mercato chiede consumatori.

Uscito su “Fuoriregistro” il 2 febbraio 2013

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