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Archive for agosto 2013

Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea, n. 2 dic 2010

Leggere, spiegare interpretare la storia:
ogni nuova lettura è infatti una nuova costruzione,
una riscoperta del passato ad uso del presente

Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, 1985

Di certo si ripete un banale truismo quando si dice che è il presente con l’insieme dei suoi problemi politici e sociali a spingere lo storico a interessarsi di un dato tema, così da concludere che in ultima istanza ogni movimento storico risulta contemporaneo. Nessuno meglio di Marc Bloch, tra gli storici del XX secolo, ha insistito sull’indissolubilità del legame passato-presente per fare storia, ed è altrettanto significativo che su questo nodo egli s’interrogasse nei mesi precedenti la sua fucilazione ad opera delle truppe naziste avvenuta alle porte di Lione, nella primavera del 1944. Antifascismo popolareMi sembra questa la premessa d’obbligo dal momento che è la crisi del modello democratico occidentale che stiamo vivendo, unita alla deriva populistico-autoritaria dei governi di centro-destra del nostro Paese, il focus storico e ideologico del recente, interessante saggio che Giuseppe Aragno ha dedicato all’antifascismo popolare a Napoli (Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, manifesto libri, Roma, 2009)1. Ed è ancora una volta il pensiero di Bloch – “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente”2, a sollecitare un corretto approccio d’analisi per un tema di così aperta attualità, nonostante i non pochi tentativi contrari messi in campo dal revisionismo storico negli ultimi anni.
Parlare quindi dell’antifascismo della città di Benedetto Croce, il riconosciuto capofila dell’antifascismo “morale”, la cui “religione della libertà” portò – come è noto – più di una generazione di lettori delle sue opere alla scelta della lotta armata contro la dittatura significa fare i conti oltre che con la storiografia contemporanea con il dibattito che considera questo tema ormai obsoleto.
Finora la letteratura dell’antifascismo napoletano – è risaputo – si è polarizzata essenzialmente su due filoni di ricerca. Da una parte ha analizzato il mondo dell’intellighenzia che vedeva muoversi intorno allo stesso Croce personaggi della cultura come Adolfo Omodeo, Roberto Bracco, Francesco Flora e altri, tutti in fondo riconducibili alla lezione dell’idealismo storicista; dall’altra il mondo del lavoro d’area comunista sta, cui si rifacevano nei primi anni Trenta del secolo scorso i “giovani” intellettuali Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Giorgio Amendola. Decisamente altro invece è l’obiettivo di Antifascismo popolare: nessuna concessione alla “storia dall’alto” né tantomeno a quella dei leader dei partiti, dal momento che l’attenzione dell’Autore è rivolta alla soggettività dei militanti e al complesso definirsi e manifestarsi dell’antagonismo dei “sovversivi”, non limitato infine alla sola area comunista. In una parola, sono le “storie di vita” ricostruite dall’onnipotente polizia di Arturo Bocchini a fare la storia dell’antifascismo, da cui muove Aragno nel ripercorrere il difficile e sofferto “viaggio” delle idee e delle e delle azioni di uomini e donne contro il totalitarismo in un saggio originale che si colloca perciò ai massimi livelli della storiografia contemporanea. A questo punto, se un riferimento si deve fare, il richiamo obbligato non può che essere al lavoro di Danilo Montaldi e che cosa ha significato l’ “osservazione partecipe” che lo studioso cremonese ha messo in piedi nella ricostruzione del movimento socialista italiano tra Ottocento e Novecento nelle sue molteplici espressioni e derivazioni, a cominciare ovviamente dal riconoscimento dell’importanza avuta dal rimosso anarchismo3. Tornerò dopo sull’aspetto specificamente metodologico-storiografico e sugli interrogativi che il saggio di Aragno sollecita, mentre ora mi sembra opportuno fare alcune considerazioni di ordine politico generale per contestualizzare il tema affrontato.
Il punto di partenza di Antifascismo popolare è in diretta connessione con il ciclo storico e politico degli ultimi venti anni, l’origine cioè della crisi attuale. Il periodo che ha visto implodere in campo internazionale, nel 1991, l’Urss e il “socialismo reale” mentre in Italia la vittoria del liberismo portava al potere, nel 1994, il primo governo Berlusconi, espressione di un reazionarismo populistico sintesi della collaborazione dei partiti dell’estrema destra, tra cui Alleanza Nazionale e la Lega Nord. In contem-poranea si assisteva alla scomparsa del Pci, il più forte partito comunista d’Occidente protagonista di “storiche” conquiste politiche e sindacali dell’ultimo mezzo secolo, a favore di una nuova formazione partitica d’impostazione democratica che tagliava però di netto con la tradizione del movimento operaio e la cultura di sinistra. Una tale pratica politica ovviamente si accompagnava a livello ideologico con un revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra che considerava il fascismo e il comunismo due utopie tragiche e speculari del Novecento …
Per quanto concerne propriamente l’antifascismo italiano, il riferimento polemico di Aragno anche se appena richiamato è il fortunato pamphlet di Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo4, eccessivamente esaltato e pour cause dalla sinistra nostrana, dal momento che non si può tralasciare di ricordare che lo storico torinese è rimasto vittima dello stesso schematismo revisionistico che voleva combattere. Se il fascismo è definitivamente morto da anni e non se ne vede ormai ombra alcuna – è questa la tesi di Luzzatto – l’antifascismo quindi, privo di avversari, rappresenta un pugile suonato, prigioniero com’è di un’anacronistica coazione a ripetere. In Italia poi, egli precisa, “non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo”; ora “è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi, allora, se la fine dell’uno ha accelerato l’agonia dell’altro?”5. Circa i partigiani sopravvissuti, la conc1usione è ancora più obbligata: “L’ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità, si allunga su questi vecchi […] fino a farli apparire improbabili come campioni di moralità e maestri di democrazia”6. Caduto infine il muro di Berlino, è morto anche il comunismo, ed allora per il nipotino italiano di Nolte anche l’antifascismo muore per inedia mentre la generazione che lo ha vissuto si esaurisce per legge naturale …
Si sarebbe visto di lì a poco che la retorica delle “magnifiche sorti e progressive” della “catastrofe” epocale del 1989-91 preludeva semplicemente ad una fase di selvaggio liberismo, il cui collante ideologico poggiava enfaticamente sulla “fine della storia” e la centralità del mercato quale unico mezzo di sviluppo. Dapprima la guerra civile nell’ex Jugoslavia poi l’assorbimento dei paesi dell’Europa dell’Est da parte di quelli: capitalistici dell’Europa unita, infine la guerra del Golfo segneranno la caduta delle illusioni dell’ultimo decennio del Novecento.
Su una novità di tale portata vale la pena ricordare quanto scrisse un irriducibile critico delle ideologie correnti come Franco Fortini “I grandi movimenti, non possiamo ancora decifrarli. Possono avere esiti imprevedibili, buoni o pessimi. Ma una cosa è certa: qualcosa è crollato, non solo laggiù, ma qui. Non è la libertà‟ di cui scrivono i ridicoli mostri della pubblicistica di servizio. È una liberazione. Non credevo di arrivare a vedere questo inizio. Devo ripensare, imparare, capire”7.
Diversamente però dall’impegno rivendicato dall’intellettuale Fortini per comprendere il presente in movimento, la politica internazionale risponde con le armi di sempre, a cominciare dalla guerra. È anche il momento, detto tra parentesi, della massima diffusione nel nostro paese del pensiero di Carl Schmitt. Dopo l’abbattimento delle torri gemelle di New York e la successiva guerra all’Irak di Saddam Hussein usando falsi documenti circa il possesso di armi di distruzione di massa, la politica imperialistica di George W. Bush localizza nel mondo islamici il centro del terrorismo internazionale, aprendo contro di esso una crociata in difesa dei valori occidentali e questo significa la sostituzione del Welfare con il Warfare e l’annessa politica di potenza. “Il passaggio dallo stato sociale all’economia politica è stato decisivo, ha scritto Mario Tronti dinanzi al manifestarsi delle prime crepe del mercato globale. E si è incontrato con il fallimento della costruzione di socialismo, l‟intero campo anticapitalistico si è sfaldato”.

Nello specifico italiano, intanto, assistevamo alla crisi del sistema dei partiti ad opera di Tangentopoli con il trionfo dell’homo novus, il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi, il cui obiettivo era arrivare attraverso un bonapartismo mediatico all’annullamento degli istituti di democrazia rappresentativa nati dalla Resistenza. Ancora una volta, un abile animale politico tentava, in tempo di alta tecnologia dell’informazione, il recupero del peggiore reazionarismo della storia novecentesca del nostro Paese, facendo tesoro del senso di sfiducia diffuso tra l’opinione pubblica e del rigetto della politica che accompagna periodi del genere8. Di qui il manifestarsi di un progetto populistico-autoritario che vede un attacco sistematico alle regole della democrazia, dal ridimensionamento del parlamento a vantaggio dell’esecutivo e in particolare del “capo” del governo che legifera prevalentemente con decreti-legge, alla lotta costante all’autonomia e ai rappresentanti del potere giudiziario, che ha “osato” incriminarlo in diverse occasioni per provati reati di corruzione e falso nella gestione delle sue aziende televisive, alla sempre maggiore influenza della chiesa cattolica negli affari dello Stato e nelle questioni di bioetica – si ricordi la violenta crociata dei difensori della vita sul tema dell’eutanasia a proposito del “caso Englaro” -, alla caccia allo straniero, al quale una superficiale quanto indiscutibile lettura razzista della crisi economica attribuisce l’origine di ogni malessere.
Dalla parte dell’opposizione di sinistra, l’incapacità politica del governo Prodi, determinata dall’assenza di un progetto politico-culturale alternativo a quello berlusconiano, ha portato quell’area all’inevitabile sconfitta elettorale dell’aprile 2008, trascinando con sé anche la rappresentanza della “sinistra radicale”. In questo stato di cose, che ho sintetizzato per ovvi motivi in maniera cronachistica, si viene alimentando giorno dopo giorno la deriva populistico-autoritaria della democrazia italiana, e ridotti così gli spazi del dibattito tra posizioni non più diverse – tanto dal punto vista politico che ideale -, si afferma il pensiero politico del regime. La definizione di deriva populistico-autoritaria è di uno storico della letteratura, attento da sempre alle contraddizioni della società capitalistica, qual è Alberto Asor Rosa e risale all’estate 2008. inoltre Asor Rosa si rivela tra i pochi intellettuali italiani impegnati a seguire storicamente i segni del “fascismo” e/o del totalitarismo del quarto governo Berlusconi in polemica con la lettura moderata della sinistra e della maggioranza della stampa, che non riconosce alcuna matrice antidemocratica a quella prassi politica.9
Per tornare al nostro argomento, va detto che è l’attuale situazione politica italiana con i suoi numerosi caratteri antidemocratici – talvolta sfocianti in aperto fascismo da parte dell’esecutivo in carica – ad aver spinto alcuni analisti allo studio del fenomeno fascista del XX secolo, mentre nel frattempo le posizioni del revisionismo di destra sono diventate ormai giudizi storici acquisiti. In questo clima di impudica quanto strumentale amnesia dei recenti processi storici, di cui qualsiasi deputato del Partito della libertà o della Lega Nord dà quotidianamente testimonianza, uno studioso del fascismo, Emilio Gentile, ha ricordato quanto sostenuto tra il provocatorio e il surreale da un anonimo nostro contemporaneo “Forse il fascismo non è mai esistito”10. Ma nonostante una tale grottesca situazione – o grazie ad essa? – da alcuni anni stiamo assistendo ad una lenta, qualificata ripresa della storiografia del fascismo napoletano tanto da poter parlare di un Faschismus-Renaissance. alla cui base va collocata la messa in discussione dell’ideologia berlusconiana dell’ “eterno presente”. I primi risultati finora conseguiti fanno ben sperare, ed è certamente questo il modo migliore di rispondere ai revisionismi nostrani che teorizzano la defascistizzazione del fascismo come la definisce appunto lo stesso Gentile, per caratterizzare la dittatura mussoliniana alla stregua di uno Stato autoritario privo del parlamento! In breve si nega in maniera esasperante che vi sia stata un’ideologia fascista, una classe dirigente fascista, una cultura fascista, una dittatura fascista, dato che la perdizione del regime è dovuta principalmente all’intesa con la Germania nazista e di qui il successivo razzismo e antisemitismo.
Di questo filone d’indagine di storia locale non si può trascurare di citare la ricerca realizzata qualche anno fa dalla Cgil e curata da Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930-1943), del 2006, con saggi di Giuseppe Aragno, Alessandro Hobel, Andrea De Santo11. In quell’occasione sempre Aragno aveva dato un’anticipazione dell’indagine avviata sull’antifascismo popolare napoletano che si sarebbe concretizzata nell’omonima monografia del 2009. Un altro lavoro degno di segnalazione è senza dubbio il Seminario di studio su Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), tenuto presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli tra il gennaio e l’aprile 2005 e pubblicato l’anno dopo con l’omonimo titolo da “La Città del Sole”, contenente saggi di Luigi Cortesi, Luigi Parente, Sergio Muzzupappa, Alessandro Hobel, Fabio Gentile12. Si tratta di una significativa summa di analisi politico-sociali sullo scontro fascismo-antifascismo nella metropoli del Mezzogiorno che supera cronologicamente il ventennio e si collega alle novità critico-metodologiche apertesi con il Sessantotto in particolare grazie al lavoro pionieristico di Guido Quazza e Luigi Cortesi13. Il merito di questi due studiosi è stato infatti il superamento del “mito della Resistenza” tanto a cuore ai partiti di massa antifascisti insieme alla considerazione della sua centralità nella storia dell’Italia del Novecento, così che stigmatizzando i caratteri della democrazia da essa derivata veniva messo in risalto il ritardo dell’applicazione della Costituzione nel fondare una reale società democratica.
Nell’analizzare inoltre – per quanto concerne il caso Napoli – la transizione dal fascismo alla Repubblica all’indomani del Secondo conflitto mondiale, Cortesi, in un saggio del 1977, esemplare per il rapporto instaurato tra i dati strutturali di quella società e la memoria collettiva dei protagonisti delle lotte di quegli anni, ha parlato della città partenopea come di un “laboratorio politico” della storia italiana del XX secolo. E ciò per essere stata l’ex capitale del Regno delle Due Sicilie una delle sedi della nascita insieme a Torino del Partito comunista fondato per iniziativa di Amadeo Bordiga14. Ed ancora, quello che accadrà a Napoli dopo la rivolta antifascista popolare delle Quattro giornate (28 settembre-1 ottobre 1943) e la presentazione del “partito nuovo” di Togliatti con la “svolta di Salerno” (aprile 1944) sarà niente altro che la prefigurazione dello sviluppo moderato entro cui s’incanalerà la politica comunista nei decenni successivi. Come è noto, il progetto del “partito nuovo” del Pci “verteva sulla collaborazione delle forze della sinistra con la vecchia classe politica prefascista in direzione di una “democrazia progressiva” da realizzare nell’ambito degli istituti di uno Stato liberal-costituzionale. In una parola, è Napoli la capitale della nuova Italia nel 1943-44, visto che è essa e non Brindisi né Salerno il centro politico del “regno del Sud”, ed è qui che il vecchio blocco storico proverà i nuovi compromessi di governo prima di passare a Roma.
A questo punto, bisogna sottolineare che l’antifascismo napoletano che esce dal saggio di Aragno si presenta estremamente variegato e differenziato nei suoi caratteri ed obiettivi anche se ovviamente non molto diffuso nella società locale, ma non fu questo il proprio dell’opposizione nazionale, dato il forte controllo messo in piedi dai sistemi di repressione, come sta chiarendo la recente storiografia dello Stato totalitario mussoliniano? Lo studioso napoletano si muove con padronanza nell’area dell’antifascismo, tra la tradizionale critica delle “anime belle” alla Croce e l’opposizione moderata di una limitata parte del mondo cattolico, subalterna al fascismo delle gerarchie ecclesiastiche che si riconoscevano nell’opera del cardinale Ascalesi, fino all’antagonismo di classe dei militanti e “sovversivi” di sinistra, in primis gli anarchici, la cui individuazione e sistemazione rappresentano senz’altro la parte la parte più originale dell’intero lavoro. Di conseguenza, risulta oltremodo difficile dar conto delle numerose iniziative e forme di lotta che l’Autore ha ricostruito sulla base delle carte del Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato, mentre lo spettro d’esame va oltre la limitata fase dello “spontaneismo” del dopo 8 settembre, rimasto tuttora il motivo ispiratore della rivolta dell’autunno 1943 secondo la vulgata storiografica. E ciò, nonostante le immediate conclusioni “aperte” su quelle “giornate” di uno storico, attento analista della dialettica socio-politica come Corrado Barbagallo in Napoli contro il terrore nazista15.
Entrando poi nel merito dell’antifascismo napoletano, si esce dall’impasse dei luoghi comuni o peggio dal minimalismo revisionistico oggi di moda soltanto seguendo – a dire di Aragno – il “lungo viaggio di generazioni diverse dal punto di vista sociale e/o ideologico di quella singolare galassia culturale e politica che fu la Napoli dei primi decenni del Novecento. Ancora una volta, come è accaduto per casi di altre realtà del nostro Paese, il primo problema da affrontare riguarda lo studio della società nelle sue stratificazioni – così l’indagine spazia dalla grande borghesia delle professioni libere alla classe operaia di fabbrica all’artigianato, elemento di forza dell’economia locale, ed ancora dalla piccola-borghesia al sottoproletariato metropolitano hegelianamente liquidato come “plebe” dallo storicismo contemporaneo: in una parola, è realmente l’antifascismo popolare napoletano il protagonista dell’analisi.
Per inquadrare infine la tradizione rivoluzionaria di questa area di irriducibili oppositori del regime ci aiuta la storia della città di Napoli tra Ottocento e Novecento, la sua presenza nelle vicende delle lotte per la democrazia postunitaria non disgiunta da quella del contemporaneo movimento operaio e socialista. Alla base di quest’ultimo, si ritrova l’eredità del movimento anarchico di Bakunin, che nell’ex capitale borbonica fu attivo all’indomani dell’Unità, e la cui critica al parlamentarismo democratico mazziniano portò alla fondazione della prima Sezione italiana dell’Internazionale (1869). Ed inoltre non minore influsso esercitò nella galassia della sinistra – nel secolo successivo – il comunismo internazionalista di Bordiga, dopo la breve fase del sindacalismo rivoluzionario che ebbe in Arturo Labriola ed Enrico Leone le avanguardie di livello nazionale. Ancora una volta l’utilizzo della categoria di “laboratorio politico” si rivela proficuo ai fini di una ricostruzione sine ira et studio del movimento operaio e socialista napoletano che in quell’area mise in piedi un importante centro di teoria pratica.
Ma è proprio il ruolo dell’ anarchia nella conoscenza e diffusione del pensiero di Marx nel nostro Paese poco considerato da Aldo Romano nella sua fondamentale Storia del movimento socialista in Italia (Milano-Roma, 1954-56, voll. 3; ripubblicata nel 1966), è stato ritenuto invece nodale dalla successiva storiografia socialista e ha ricevuto da Aragno l’inoppugnabile conferma della tendenziosità della tesi dello storico napoletano. Nel libro, il caso del giovane Romano divenuto negli anni Trenta del secolo scorso uno storico vicino alle posizioni del fascismo, viene affrontato con la necessaria acribia filologica e non minore sensibilità umana, rivelando così tutta la maturità del ricercatore nel trattare argomenti di tale delicatezza.
Il ventenne studente liceale Aldo Romano, figlio di Nunzio proprietario e direttore dell’Istituto scolastico privato “Vittoria Colonna” della città partenopea, nutrito in un ambiente di idee radical-socialiste, viene condannato per antifascismo insieme all’amico Giovanni Pugliese-Carratelli, il futuro filologo classico della Scuola Normale di Pisa, a due anni di confino a Cava. Dopo però appena 8 mesi di “condotta irreprensibile”, il capo del Governo lo restituisce alla famiglia (12 luglio 1931)16. Pentitosi degli errori giovanili, questi riesce ad iscriversi al Pnf, nonostante il parere negativo della Federazione napoletana, ed inizia così con la protezione di Gioacchino Volpe e del ministro dell’Educazione nazionale De Vecchi la folgorante carriera di storico del Risorgimento, rappresentando il fascismo agli appuntamenti culturali internazionali.
In quegli stessi anni la recrudescenza del controllo quotidiano della polizia nonché il suo sempre più duro comportamento nei confronti dell’antifascismo militante si spiegano, secondo l’Autore, alla luce dell’aumento del costo della vita indotto dalla crisi industriale e produttiva che colpisce sia la città che la regione, interessando l’area chimica e metallurgica, il settore marittimo, quello tessile senza trascurare il mondo dell’artigianato, elemento portante dell’economia locale. Si acuisce di conseguenza il sistema repressivo della dittatura, e pur tra non poche contraddizioni il Questore riesce a mettere in piedi un collaudato apparato di controllo, da cui sarà colpita in particolare la sinistra di classe, mentre l’obiettivo del potere è d’ora in poi uno Stato totalitario efficiente.
Nel secondo dopoguerra, Aldo Romano, ormai noto per gli studi su Carlo Pisacane e per la genesi nazional-democratica del comunismo italiano, aderirà al Pci, e vestiti i panni dello stalinismo imperante contesterà dal punto di vista storiografico l’azione del rivoluzionario Bakunin, fino a definirlo un “deviazionista” e un “opportunista” del movimento socialista17. Violenza settaria e pregiudizi ideologici che riportano ad una stagione politica definitivamente storicizzata, sulla quale la critica storica sviluppatasi sull’interdetto mondo dell’anarchia, si ricordi per tutti il lavoro avviato fin dagli anni Cinquanta da Pier Carlo Masini ha conseguito contributi di indiscusso valore ed importanza.
Se intanto ci soffermiamo al puro dato statistico dell’antifascismo Napoletano vi troviamo oltre 2000 antifascisti schedati dal Casellario Politico, e 396 confinati. A costoro poi occorre aggiungere gli ammoniti, i diffidati, coloro che finirono davanti al Tribunale Speciale, quanti insomma passarono tra le maglie del sistema poliziesco – e sì che ce ne furono! -, ed infine non pochi esponenti femminili, a cominciare da quella Teresa Pavanello, una napoletana nata in emigrazione in Brasile, che conoscerà tutti i luoghi della repressione, prima di finire sepolta nel manicomio provinciale della sua città.
Essenzialmente due risultano le novità di rilievo del libro di Aragno: il riconoscimento della presenza in realtà abbastanza considerevole del movimento anarchico nella metropoli meridionale, finora identificato soltanto con la militanza del dentista Giuseppe Imondi e della sua compagna, l’indimenticabile Maria Berardi; e last but not least, l’antifascismo femminile. Senza tuttavia voler sottovalutare il significato e la portata critica del pensiero libertario all’interno del movimento socialista, di cui l’indagine dà non pochi dati sia storici che archivistici di prima mano, credo che la ricerca dovrà in futuro continuare a insistere sul secondo argomento, dal quale emergono in maniera inequivocabile tanto l’originalità che la diversità del femminismo quale si espresse nella lotta al fascismo.
Tra le tante “storie di vita” tirate fuori dall’oblio e ricostruite in maniera davvero partecipe da Aragno si colloca quella della famiglia Grossi che vale la pena seguire attraverso le vicissitudini dei suoi componenti, all’indomani della fuga dalla Italia alla ricerca di un rifugio sicuro. L‟internazionalismo socialista del XX secolo è incarnato come meglio non si potrebbe dall’avvocato antifascista Carmine Cesare Grossi e dalla moglie, Maria Olandese, noto soprano lirico conosciuto finanche a Pietroburgo, dove ha cantato alla corte dello zar. In breve, siamo in presenza di una esperienza politica che attraversa gli avvenimenti cruciali del secolo, segnando al tempo stesso la irriducibile forza d’animo di tali convinti militanti. L’avvocato Grossi è una figura nota della ricca borghesia napoletana dell’età liberale; i suoi amici sono Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, lo stesso Croce, ma dinanzi alla dittatura fascista decide, nel 1926, d’emigrare in Argentina con la moglie, i due figli maschi Aurelio e Renato, e la figlia femmina Ada. A Buenos Aires si farà subito conoscere per l’opposizione decisa al totalitarismo, per gli articoli su “L’Italia del popolo” e il dialogo aperto all’interno del rissoso fronte antifascista. Allo scoppio dello scontro “civiltà-barbarie”, la famiglia Grossi torna in Europa per partecipare alla guerra civile in Spagna, a fianco delle Brigate internazionali. Intanto l’avvocato è nominato dal governo Largo Caballero responsabile del settore della propaganda, Ada è speaker di “Radio Libertà” di Barcellona, e così la sua voce entra nelle case degli italiani, la moglie è crocerossina, i due figli lavorano da telegrafisti al fronte. Durante lo scontro bellico, Cesare ha modo di vedere da vicino il discutibile modo di far politica dei comunisti stalinisti ed aderisce quindi all’anarchismo, e ciò non solo per quanto è accaduto a Camillo Berneri e B. Durruti. Occupata intanto Barcellona dai falangisti, i Grossi cercano scampo in Francia, e dopo diverse peripezie finiscono nel campo di concentramento di Argelès-sur-mer, mentre Ada, sposatasi con un giovane medico anarchico, resta in Spagna a combattere il franchismo. Rientrati separatamente in Italia, sono condotti prigionieri da Mentone al carcere di Poggioreale a Napoli; Maria e Aurelio finiscono nel confino di Melfi, Carmine è spedito a Ventotene dove si ritrova con il compagno Giuseppe Sallustro conosciuto al tempo della guerra spagnola, mentre il potere si accanisce sul malconcio Renato, trasferito nell’Ospedale psichiatrico provinciale della città, verso il quale s’indirizzano i classici metodi di repressione. E infatti pienamente acquisito che il manicomio rimane il luogo ideale del potere borghese per eliminare i “sovversivi” di ogni tendenza, molto prima che Foucault mettesse in luce la capacità distruttrice e disumanizzante della scienza medica.
A tal proposito, la madre scrive al ministro dell’Interno una lettera emblematica per il quadro di violenza che dà della situazione italiana del tempo. Ella ricorda che il figlio “non potrà mai guarire se lo si lasci per più lungo tempo con alienati, inattivo intellettualmente e completamente isolato dal consorzio civile e dall’ambiente familiare, essendo prescritto come unico rimedio in tali casi (e com’è stato riconfermato dalla esperienza medico-psichiatrica e illustrato in congressi, quale l’ultimo tenuto a Bruxelles) che l’infermo […] reintegrato al suo ambiente familiare abituale, riprenda le sue abitudini e i suoi studi e attività”l8.
Alla disumanità indotta dalla shock-terapia di Sakel insieme alla violenza messa in atto dal fascismo a tutti i livelli della società risalta inequivocabilmente che l’obiettivo di una giustizia umana di una parte definita dell’area antifascista è l’utopia che il totalitarismo mussoliniano non potrà mai accettare così che il destino di Renato è ormai maniera irreversibile, Alla caduta del fascismo, Ada si troverà in Spagna dove vivrà per quarant’anni con il marito, Cesare sarà liberato alla fine dell’agosto 1943 e ritroverà a Melfi la moglie e il figlio Aurelio, mentre l’altro figlio Renato sarà l’irrecuperabile prigioniero delle istituzioni totali, In definitiva, il tutto è stato vissuto dalla famiglia Grossi nella completa consapevolezza del proprio impegno e nel rispetto delle singole individualità, come ci tiene a sottolineare Maria, ed altrettanto normale è per la famiglia superstite il rientro nell’anonimato all’indomani della conquista della democrazia nel nostro Paese.
Come ho detto prima, è il mondo dell’opposizione femminile a rappresentare un’interessante quanto originale novità della ricerca di Aragno. Ma cosa vuol dire, in sostanza, antifascismo al femminile? È qualcosa d’altro, anzi di più del rapporto classe-sindacato o classe-partito vissuto dai militanti di base e quel di più richiama all’autonomia della donna come “soggetto politico”, la cui esistenza conduce all’origine di tutti i: movimenti di emancipazione e di liberazione come ha dimostrato la storia del secolo appena trascorso. Sono questi i caratteri che accomunano figure indimenticabili e tanto diverse nelle loro provenienze culturali quanto nelle singole storie di vita come Maria Olandese, Maria Berardi, Adele Bennoli, Clotilde Peani, Emilia Buonacosa, Ada Grossi e tante altre: insomma intellettuali, operaie, semplici donne di casa, “compagne di vita”, tutte però unite dall’odio al regime e dall’insopprimibile desiderio di eguaglianza tra le classi e i sessi.

Il “lungo viaggio” di Giuseppe Aragno attraverso l’antifascismo popolare napoletano si conclude con l’estate 1943, che trova il suo culmine nelle “Quattro giornate”, la “prima grande insurrezione urbana antifascista d‟Italia e d’Europa” (Cortesi), che rappresentano la cartina di tornasole della città che diventerà il “laboratorio politico” del secondo Novecento”.
Su questo nodo cruciale della storia della Resistenza del nostro paese si è aperta una violenta, talvolta scolastica, querelle politica già all’indomani delle “giornate” di settembre, polarizzata sull’interrogativo: fu, quella rivolta, organizzata oppure semplice frutto della spontaneità?
A questo punto, dobbiamo richiamarci allo stato della ricerca sulla Napoli dei “quarantacinque giorni” per un inquadramento d‟insieme della questione che ci sta a cuore. L’estate 1943 fu senza dubbio per i napoletani il più terribile e sofferto tra gli anni della Seconda guerra mondiale, sia per la crisi economico-alimentare, che attanaglia la città, che per i quotidiani bombardamenti, che fanno strage tra i civili. Se nelle campagne meridionali di quei mesi si assiste a scontri ed occupazioni d‟ogni genere, altrettanto dura è in ambito metropolitano la risposta operaia con mobilitazioni e scioperi nelle maggiori fabbriche già a partire dalla primavera; è il caso, tra le altre, della Navalmeccanica, della Miani e Silvestri. Dopo 1’8 settembre, la città è abbandonata a se stessa per l’incapacità dei responsabili delle istituzioni, dal prefetto Soprano al podestà Solimena al questore Lauricella al provveditore agli studi: ragion per cui tutta la classe dirigente fascista sarà accusata pubblicamente, all’indomani della cacciata della Wermacht, di aver favorito le stragi naziste del “settembre nero” dal direttore del “Roma”, il vecchio liberaldemocratico Emilio Scaglione.
Alla base della sommossa dobbiamo intanto mettere il comportamento del colonnello Walter Scholl, che aveva decretato lo stato d’assedio il 12 settembre, ed ancora più inaccettabile quello sul lavoro obbligatorio per i giovani delle classi dal 1910 al 1925.
Se poi si passa ad analizzare il fronte dei partigiani combattenti durante le “giornate”, si deve sottolineare a fianco del numeroso popolo metropolitano (professionisti, impiegati, commercianti, operai, disoccupati, studenti, sottoproletari, casalinghe, ragazzi di strada o “scugnizzi” ecc.) un consistente nucleo di rappresentanti delle forze armate (qualche alto ufficiale, vari ufficiali inferiori, sottufficiali, moltissimi soldati semplici) che fungeranno perlopiù da organizzatori delle azioni, mentre per ovvi motivi politici è da rimarcare la completa assenza dei partiti che soltanto dopo il 25 luglio si erano messi in movimento. Altrettanto vasto e variegato si presenta il settore della sinistra, per quanto riguarda la composizione del fronte di lotta antifascista, e in esso è l’area comunista che merita una particolare attenzione analitica, visto che dall’area staliniano-togliattiana sono venute le letture “patriottiche” più definite della rivolta. Tra i militanti comunisti però risulta egemone la frazione internazionalista, di base potremmo dire di ascendenza bordighiana, irriducibile antagonista della linea “centrista” di Togliatti che avrebbe portato alla formazione del “partito nuovo” dell’anno seguente. È la stessa componente che realizzerà di lì a qualche settimana la “scissione di Montesanto” e la relativa nascita ad opera della frazione bordighiano troskista della seconda Federazione napoletana del Pci. Degna di rilievo risulta non di meno la componente troskista rappresentata dai fratelli Ennio e Libero Villone, ed ancor più consistente di quanto si voglia di solito riconoscere dai “compagni di strada” del Pci si presenta il movimento anarchico, sul cui ruolo proprio il lavoro di Aragno e il recente Dizionario biografico degli anarchici italiani della Biblioteca “Franco Serantini” hanno dato un contributo fondamentale. Come è facilmente immaginabile, se di certo più conosciute e storicizzate risultano l’area liberale formatasi intorno a Croce così come anche la liberalsocialista basti ricordare il nome di Pasquale Schiano, infaticabile organizzatore di iniziative politiche negli anni della crisi del fascismo – tutta da analizzare invece è ancora, tranne qualche leader, quella cattolica, che dinanzi alla violenza nazifascista scelse la via delle armi. Com’è noto, con il Sessantotto prende avvio una riconsiderazione critica della Resistenza così che il nuovo paradigma storiografico (Guido Quazza, Luigi Cortesi) segna – per lo specifico napoletano – il superamento della visione “nazional-popolare” con la quale la sinistra comunista aveva guardato alle Quattro giornate.
Di questa tendenza la migliore narrazione resta senz’altro il fortunato libro di Aldo De Jaco, La città insorge: le quattro giornate di Napoli, uscito nel 1956 e arrivato alla quarta edizione, tutto poggiato com’è sull’esaltazione della rivolta del “popolo” metropolitano in risposta alla violenza intollerabile dei tedeschi19. Particolare risalto è poi riservato alla partecipazione degli “scugnizzi” negli scontri dei quartieri in rivolta divenuti per ciò i protagonisti del patriottismo di una intera comunità, insistendo eccessivamente sull’aspetto prepolitico delle loro azioni! Sarà comunque, questa, la lettura più diffusa e accettata nel clima politico del dopoguerra, che porta difilato alla mitizzazione di quelle “giornate”. Con l’utilizzo dello stereotipo storico-antropologico dell’homo neapolitanus, impasto di anarchia e ribellismo atavici, si trascura di guardare al diffondersi nel Mezzogiorno, nel corso dei duri mesi estivi di una “coscienza pubblica” che rinnega la scelta bellica del fascismo, di cui vede finalmente come in un nitido specchio il volto di classe e la repressione che l’accompagna.
“L’antifascismo del ventennio – ha scritto Guido Quazza – non crea la ribellione: questa quale moto di popolo nasce da un soprassalto della coscienza delle masse, e non dalla lezione dei politici”20. Anche per Napoli questa considerazione è indiscutibilmente fondata. Per la prima volta infatti la città conosce, oltre l’antifascismo operaio e quello morale à la Croce, l’antifascismo popolare, meglio la Resistenza armata, che coinvolge in uno stesso fronte migliaia di cittadini, studenti, soldati, proletari e non, giovani (quelli che per un vezzo folclorico duro a morire si vorrà ad ogni costo chiamare “scugnizzi”, mitizzati dall’immagine fotografica di Robert Capa).
Dal riorientamento degli anni Sessanta e Settanta verrà invece: l’analisi sulla spontaneità collettiva delle masse urbane di quelle ‘‘giornate”, elemento di certo non alternativo – come sostenevano in modo apodittico gli studiosi legati al Pci – all’organizzazione del partito, considerata l‟unica strada vincente della rivoluzione; ed altrettanto adeguato rilievo si sarebbe riservato alle forme di autonomia della classe operaia che avevano condotto agli scioperi della primavera. Con tali premesse si superavano giudizi correnti e luoghi comuni sulle Quattro giornate viste come classica jacquerie urbana, giudizio che univa sullo stesso fronte (strani scherzi dello storicismo assoluto!) personaggi tanto diversi come Benedetto Croce e Palmiro Togliatti2l.
Valgono più che mai al riguardo le riflessioni metodologiche che in quel periodo avanzava Luigi Cortesi: “Lo studio di Napoli e della Campania negli anni della seconda guerra mondiale consente appunto di far giustizia della tentazione di relegare la regione ad un ruolo soltanto passivo o frenante, ad una estraneità alle tensioni e alle scelte degli anni dell’esperienza fascista, della lotta antifascista e della ricostruzione, passività ed estraneità che corrisponderebbero fatalmente alla generale arretratezza delle strutture economiche e dei rapporti sociali. Esistono tutti gli elementi che possono indurre a considerare la lotta politica e civile che allora si svolse in Campania non come un capitolo atipico della storia nazionale, o come serie di effimeri fuochi di paglia rispetto all’incendio della “vera” Resistenza e della “vera” Liberazione, ma come parte organica del fatto storico complessivo, nel quale ciascuna città o regione –  Roma e Milano non meno che Napoli, l’Emilia o il Veneto non meno che la Campania – apportò proprie peculiarità e propri livelli di partecipazione”22. Da qui, di conseguenza, l’evento-Quattro giornate era considerato un momento significativo della Resistenza napoletana oltre che elemento di non minore importanza per la nascita della Repubblica democratica italiana, e come tale deve essere studiato, sia cioè dal punto di vista del “politico” sia da quello delle strutture socioeconomiche, sia focalizzandosi sulla vita quotidiana di una metropoli esposta ai rischi di una guerra totale, sia badando ai comportamenti della forza lavoro nelle fabbriche, sia esaminando infine l’immaginario di una comunità che combatté fino alla morte per un “mondo nuovo” …
Ho già detto in altra sede che la Napoli dell’autunno del 1943 non è altro che il capitolo centrale dell’antifascismo popolare meridionale, la cui ribellione rinvia direttamente agli scontri e ai morti di Ponticelli, di Orta d’Atella, ed ancora a quelli di Giugliano, Mugnano, Acerra, Matera, Lanciano e di tante altre località in una soluzione senza fine23. Ed aggiungevo inoltre che le Quattro giornate non potevano essere più lette come “un fatto a sé”, in conformità cioè al tradizionale “paradigma della Resistenza del Nord”, dal momento che esse facevano parte con le proprie specificità e caratteri del “lungo periodo” della storia dell‟antifascismo napoletano, ed i risultati di Antifascismo popolare di Aragno stanno ora a confermarlo.
Habent sua fata libelli dicevano gli antichi dei libri che portavano nuove conoscenze alimentando nei lettori la riflessione e gl’interessi sul proprio tempo. Lo stesso si può ripetere ora per il libro di Aragno così attuale e al tempo stesso così controcorrente. Realizzata con controllato rigore filologico unito alla sensibilità politica dell’Autore per i problemi contemporanei, l’opera sconta però l’imperdonabile mancanza dell’indice dei nomi, strumento insostituibile d’orientamento nella selva dei tantissimi “volti” e “storie” che la stessa ricerca ha il merito di recuperare. Nell’epoca dell‟”eterno presente” come gli storici sono soliti definire il mondo postmoderno in cui viviamo, l’Autore ha voluto; scommettere sulla memoria e lo ha fatto con la guida di uno grandi filosofi del Novecento scomparso qualche anno fa, Paul Ricoeur. Questi per una vita intera si è interrogato sul rapporto memoria-oblio alla base della storia, focalizzando l’analisi sull’evento del nostro tempo il totalitarismo fascista, lasciandoci un libro riconosciuto ormai come un classico, La memoria, la storia, l’oblio24. Con la dialettica passato-presente siamo tornati di nuovo al partigiano Marc Bloch dell’apertura. Dinanzi agli “estremi” del XX secolo (totalitarismi, due guerre mondiali, i genocidi di popoli, Shoah ecc), il filosofo francese non riconosce legittimità al “dovere della memoria” come si è fatto negli ultimi tempi da parte degli Stati europei nello stabilire per legge giornate a ricordo di qualche evento speciale – e così che l’Italia ha scelto il 27 gennaio quale giornata della memoria delle vittime dei Lager nazisti. Anzi per nulla ossessionato dalla memoria – di cui invece la maggior parte degli’ studiosi esalta l’esclusività epistemologica – egli rivendica di per contro il “dovere storico” per analizzare i fatti del recente passato sollecitando – in risposta alla visione revisionistica del “nuovo antisemitismo” nazifascista – un rigoroso lavoro storico all’altezza degli interrogativi del nostro presente …
Da oggi in poi si può dire con soddisfatta sicurezza che il mondo dell’antifascismo popolare napoletano si presenta molto più conosciuto e meglio indagato, tanto nelle idee che nelle azioni dei suoi protagonisti, e quest’acquisizione di conoscenze la si deve in modo particolare all’intenso e partecipe saggio di Aragno. Infine voglio soltanto augurarmi che il “lungo viaggio” di quelle donne e di quegli uomini per l’affermazione di una reale democrazia ci accompagni ancora a lungo.

NOTE

1. Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie. Roma, 2009.
2. Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, con uno scritto di Luciene Febvre, a cura di Gilmo Arnaldi, traduzione italiana, Torino. 1969, p. 54.
3 Convinto assertore del presente come storia, Danilo Montaldi (1929-1975) ha studiato un originale metodo di ricerca, tra il sociologico e lo storico, la società italiana negli anni dello sviluppo capitalistico, polarizzandosi sulla vita quotidiana e le forme di lotta politica delle classi operaie e subalterne. Restano fondamentali i saggi Autobiografie della leggera (Torino, 1961), Militanti politici di base, (Torino, 1971), Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), (Piacenza, 1976). Per un inquadramento della sua opera e del suo pensiero, vedi Luigi Parente (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, Atti del Convegno, Napoli 16 dicembre 1996, Napoli, 1996.
4 Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, 2004. Ibidem, p. 8.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Citato in Luigi Parente, Oltre le banchine di Auschwitz. Coscienza pubblica e storiografia nella Germania d’oggi in Orizzonte Europa, “Bollettino dell’Istituto campano per la storia della Resistenza”, 1990, n- XII, p, 20.
8 Marc Lazar, L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel paese di Berlusconi, traduzione italiana Milano, 2009.
9 Secondo Alberto Asor Rosa, “Il terzo (sic) governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo”, “il manifesto”, 4 giugno 2008. Questo giudizio è stato successivamente analizzato all’interno della crisi della cultura italiana contemporanea ne Il grande silenzio, la lunga intervista sugli intellettuali raccolta da Simonetta Fiori (Roma-Bari, 2009).
10 Mi riferisco, in particolare, al volume Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2002, il cui punto d’analisi è appunto la boutade negazionista citata.
11 Gloria Chianese (a cura di), Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930·1943), Roma, 2006.
12 Sergio Muzzupappa e Alessandro Hobel (a cura di), Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952). Sette lezioni, Napoli, 2005.
13 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, 1997; Luigi Cortesi, Introduzione a Luigi Cortesi, Giovanna Percopo, Sergio Riccio, Patrizia Solvetti (a cura di), La Campania dal fascismo alla Repubblica. Società politica cultura, Regione Campania, I, 1977, ora in Id., Nascita di una democrazia. Guerra fascismo, Resistenza e oltre, Roma, 2004, pp. 175·243. Una sintesi della storiografia della Resistenza è il saggio Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, 2004.
14 Sulla questione Bordiga, nell’ambito del marxismo del XX secolo, una attenta analisi è venuta da Luigi Cortesi (a cura di), Amadeo Bordiga nella storia del comunismo, Napoli, 1999. Altri dati, circa la lotta politica nella Napoli post-prima guerra mondiale e il ruolo di Bordiga nella fondazione del Pcdi, in Id., Il comunismo tra fascismo e Resistenza, in Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), cit., p. 34 e ss.
15 L‟introvabile pamphlet di Corrado Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista . (8 settembre-1° ottobre 1943), uscito nell’inverno del 1943, è stato di recente ripubblicato a cura di Sergio Muzzupappa, pref. di Luigi Parente, Napoli, 2004. Esponente interessante, oltre che prolifico, della storiografia economico-giuridica del XX secolo, Corrado Barbagallo è noto per essere stato tra i primi divulgatori del marxismo in Italia con Il materialismo storico (Milano, 1916), e per avere fondato e diretto insieme ad Antonio Anzilotti dal 1917 la “Nuova rivista storica”.
16 La questione è analizzata in dettaglio da Giuseppe Aragno, op. cit. p. 69 e ss.
17 I limiti dell’impostazione storiografica di Aldo Romano, che si può definire propriamente democratico-togliattiana, furono individuati, già alla comparsa della sua Storia del movimento socialista in Italia, dallo storico del Risorgimento Walter Maturi, che si rifaceva agli studi recenti di Leo Valiani sul socialismo europeo e di Franco Venturi sul populismo russo (Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Lezioni di storia della storiografia. Pref. di Ernesto Sestan, Torino. 1962. pp. 634-38). Su quelle basi, la tesi del Romano è stata riproposta negli anni Settanta sul piano filologico da Alfonso Scirocco, Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità 1860-1878, Napoli, 1973, che ha individuato la teoria rivoluzionaria di Bakunin all’origine della crisi della democrazia mazziniana napoletana, servendosi in particolare dei fondamentali risultati degli storici anarchici Arthur Lehing e Pier Carlo Masini.
18 Giuseppe Aragno, op. cit., pp. 36-7.
19 Aldo De Jaco, La città insorge. Le quattro giornate di Napoli, Roma, 1956. Alla situazione politica e sociale delle città e delle campagne del Mezzogiorno nell’ “anno mirabile” l‟Istituto campano per la storia della Resistenza di Napoli ha dedicato l’importante Convegno del settembre 1995, i cui atti sono stati pubblicati con il titolo Mezzogiorno 1943. La scelta, la: lotta, la speranza, a cura di Gloria Chianese, Napoli, 1996. Per la questione delle stragi naziste di quegli anni vedi, ora, Gabriella Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, Napoli, 2003.
20 Guido Quazza, op. cit., p. 128.
21 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, in Gloria Chianese, op. cit., p. 369. Allo stesso stereotipo è rimasto legato anche Claudio Pavone nell’eccellente volume frutto di una vita, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991.
22 Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia, cit., p. 176.
23 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, cit., p. 368.
24 Vedi in particolare Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad, it., Milan.

Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea,  n. 2 dic 2010

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Giorgio Israel, storico della matematica, membro della Académie Internationale d’Histoire des Sciences, discute spesso di scuola e ne parla con notevole competenza. Al paragone, Gelmini, Profumo e Carrozza fanno la figura degli analfabeti. In ciò che dice c’è quasi sempre un notevole equilibrio; ogni osservazione corretta, tuttavia, contiene spesso un’incredibile sciocchezza. L’ultimo esempio di questo singolare modo di ragionare l’ha dato ieri, lanciandosi senza esitazioni in un’appassionata difesa del liceo classico.
israelImmaginando l’inevitabile domanda del lettore – “Perché il liceo classico?” – la risposta dello studioso è subito nel titolo del suo articolo: “Perché se muore il liceo classico muore il paese”. Letto il titolo, però, a me è venuta spontanea un’altra domanda: perché perdere tempo a leggere l’articolo? Se rimanesse in piedi solo il liceo classico, infatti, il Paese morirebbe più presto e di una più terribile morte. Come ha scritto oggi un’attenta osservatrice, “ogni scuola nei suoi indirizzi e nelle sue specialità va valorizzata per ciò che è senza graduatorie di merito”. Il perché mi pare chiaro. La scuola, senza distinzione di indirizzi, infatti, ha la funzione specifica di dare ai giovani l’ampia formazione che Israel intende difendere. La scuola nel suo insieme – Israel non se n’è accorto, ma è già moribonda – la scuola come istituzione deve  formare giovani capaci di quelle scelte “scelte autonome” di cui scrive Israel. Nessun indirizzo scolastico si deve e si può proporre di creare “polli di batteria formati per una sola funzione”. Nessun indirizzo scolastico, nessun docente, nessun ministro, nessun accademico può pensare di assegnare al liceo classico il compito di salvare il Paese. Il Paese muore se muore la sua scuola, come purtroppo sta accadendo; muore, non si salva, non sopravvive, non va da nessuna parte se conserva il liceo classico e manda alla malora ogni altro indirizzo.
Israel coglie senza dubbio un grave problema reale di carattere generale ma, per risolverlo, sceglie una soluzione evidentemente parziale. Il liceo. Quindi, solo una élite. Così non si salva il paese, si torna a una scuola profondamente classista. No, non sarà questa difesa nostalgica di Gentile a tirarci fuori dal disastro incombente.

Uscito su Fuoriregistro il 27 agosto 2013

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Rajna Dragićević, insegna lingua serba, lessicologia, storia della lessicografia e lessicografia pratica, alla facoltà di Filologia di Belgrado; autrice di varie monografie, manuali per licei e università e numerosi contributi scientifici, gode della stima di una cerchia di studiosi in Serbia e in altre regioni dell’ex Jugoslavia.
Rajna DragićevićIl contributo più efficace e lucido alla vita culturale del suo Paese, ha saputo darlo parò probabilmente in occasione della festa dei laureandi che si è tenuto quest’anno alla sua facoltà. Invitata a parlare, Rajna Dragićević ha tenuto, infatti un appassionato discorso agli studenti. I giovani, sono stati così colpite dalle sue parole, che all’indomani della festa hanno deciso di consegnarne il testo a Blic, un quotidiano di Belgrado che senza pensarci due volte l’ha pubblicato così com’è stato pronunciato. La reazione non è stata unanimemente positiva e c’è chi ha trovato i toni retorici e chi ha criticato l’eccesso di attenzione per la disciplina linguistica a scapito delle altre. A leggerle con attenzione, però, le parole della studiosa serba hanno valore universale.
Qui da noi un discorso di questo genere non è facile ascoltarlo. Da anni ormai politici, giornalisti, Dirigenti Scolastici Regionali e gran parte di chi ha responsabilità di governo delle istituzioni scolastiche e delle università o tace o copre e giustifica le demenziali scelte ideologiche di governi incompetenti, privi di autonomia, ridotti a esecutori d’ordini della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale e degli onnipresenti economisti neoliberisti che dettano legge entro e fuori i centri di potere dell’UE. Sono parole che val la pena di leggere, qui, soprattutto, in Italia, dove vergognose campagne di stampa hanno veicolato nell’opinione pubblica l’immagine distorta di docenti ignoranti, fannulloni e mangiapane a tradimento. Talvolta, è vero, s’è sentita qualche voce autorevole esprimere flebili dubbi e manifestare un qualche dissenso; una posizione di sfida così aperta e di così alto profilo, però, non s’è ancora sentita
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“Cari studenti, stimati colleghi, cari laureandi
nello stesso giorno della vostra festa di laurea sono stati rinviati gli esami per la licenza ginnasiale perché i test sono stati illegalmente pubblicati. E’ solo una delle manifestazioni del crollo del nostro sistema educativo e del sistema sociale a tutti i livelli…

Questo articolo è uscito su “Fuoriregistro”, una rivista che amo e di cui sono redattore. Non prendetevela perciò per l’interruzione. Chi vuole continuare a leggere, clicchi e potrà farlo tranquillamente.

 

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In una lontana introduzione a un ormai classico saggio di Pietro Grifone sul peso della finanza nella nostra storia, Vittorio Foa tornava addirittura a Bucharin per cogliere nella «simbiosi del capitale bancario con quello industriale» l’essenza della finanza e ricordare un insegnamento di Lenin che non è mai stato attuale come oggi: non si può modificare la natura socialmente ingiusta e strutturalmente aggressiva del capitalismo dandogli una mano di vernice democratica. Il capitale in crisi non lascia vivere i diritti.
I ricorsi preoccupano la ministraA guardare com’è ridotto il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione, è difficile dar torto al rivoluzionario russo. Ai ragazzi provenienti da classi subalterne si garantiscono scuole e università solo nelle fasi di espansione e crescita o quando, comunque, la difesa del saggio di profitto chiede pace sociale e un fantoccio di democrazia. E’ questione di accumulazione, ma anche di «gerarchie sociali». La borghesia, figlia di una rivoluzione vittoriosa, conosce i meccanismi della storia e sa che una riforma del sistema formativo produsse il personale politico del populismo russo, avviò il processo che condusse all’ottobre rosso e costò l’Impero agli zar.
Di educazione in senso socratico – quella che ha a cuore l’intelligenza critica e l’autonomia del pensiero – non parla più nessuno; Socrate non è un’offerta che rientri nei piani dell’azienda. Cosa sia cambiato da Gelmini in poi, dove si differenzino i modelli di società, cosa distingua tra loro l’idea dei rapporti tra le classi e la concezione dello Stato non è dato capire. Il linguaggio è stato così violentemente deformato che un discorso politico diventa un non senso. E’ una torre di Babele; Una linea comune, al contrario, traspare: la sottomissione incondizionata al predominio del capitale finanziario, la rinuncia ad assumere ruoli di mediazione di stampo giolittiano – persino il Giolitti del dopo Turati – con quel che ne discende in termini di trasparenza, autoritarismo, controlli di banche private sui pubblici affari e scelte operate all’ombra impenetrabile di consigli d’amministrazione.
Non è un caso se pratica di governo e cultura storica parlino ormai lingue diverse e il dibattito politico si riduca al desolante scontro tra opposizioni che fanno i conti della spesa, misurando il rapporto qualità-prezzo e maggioranze che insistono su promozioni da supermarket: «qui da me, prendi uno e acquisti tre». Tutto qui. Solo un’offerta accattivante, tutta lustrini e paillettes, mentre la miseria cresce e la tragedia incombe.
Non smentisce la regola la ministra Carrozza, ultima arrivata, in ordine di tempo, a quel Ministero dell’Istruzione che da anni spara a raffica su scuole e università, da anni precarizza e umilia il personale docente e lascia ai giovani briciole di istruzione che annunciano l’avviamento a un lavoro che non c’è. Ieri, in un incontro informativo coi sindacati, la ministra ha mandato in onda il suo spot, tutto numeri e percentuali: 11.268 docenti assunti per l’anno che comincia, le nomine divise a metà, 50% dalle graduatorie e 50% dal concorsone 2012, nozze coi fichi secchi, un tanto ai precari più anziani e qualcosa a giovani scelti con “metodo meritocratico”, come comanda lo slogan che tira di più. Un colpo al cerchio e uno alla botte, senza far cenno alle procedure del concorso che non sono state completate e alla marea dei ricorsi pronta a salire. L’edificio crolla: 450 milioni per la sicurezza degli stabili sui 13 miliardi necessari e se un disastro farà morti ci penserà Napolitano con l’immancabile telegramma.
C’è chi ritiene che sia un problema culturale, chi sospetta si tratti invece di una cultura che non c’è più, ma la ministra non si fa domande. Come scendesse dalla luna, si dice sconcertata. Chissà, forse gli addetti all’immagine le hanno assicurato che la campagna pubblicitaria è andata bene e funzionerà. Non è facile capire, ma è certo che non si è accorta che le sue 11.000 immissioni sono ad un tempo un modelle perfetto d’ingiustizia sociale e un granello di sabbia nel deserto. Chiunque al suo posto ricorderebbe il fanciullo di Sant’Agostino che con la sua conchiglia travasa l’Oceano mare in un buco scavato sulla sabbia. Lei no. Per lei l’«offerta è giusta» e c’è poco da discutere: prendere o lasciare, come vuole il mercato. In quanto ai ricorsi, secondo il costume della neonata democrazia autoritaria, stupita che la gente ancora pensi, si opponga e tenti le vie legali, la Carrozza scarta e finisce fatalmente fuori strada: c’è un’emergenza, dice, «la soluzione non può essere sempre il ricorso». La faccenda dei ricorsi, insomma, questo malnato diritto di difendere diritti, è un vero eccesso di diritti, un’anomalia da sanare al più presto. Chissà, forse la ministra pensa a una nuova campagna e all’immancabile offerta accattivante. E’ urgente: la gente deve capire che la democrazia crea troppi impicci al mercato.
La storia, maestra senza allievi, è lì a dimostrarlo: la borghesia divisa sperimenta percorsi differenti ma non lontani tra loro. Per dirla con Gramsci, è al bivio di un nuovo «experimentum crucis»: non sa dove andare, ma non vuole stare ferma e si compatterà. Anche la sinistra è giunta ormai a un bivio cruciale: la gente è allo stremo. Il generico appello alla «legalità» non può bastare. Occorre tornare a una inequivocabile categoria di sinistra: la giustizia sociale.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 agosto 2013 e su Liberazione.it e Report On Line il 22 agosto 2013

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Per anni abbiamo pensato che un modello di stato sociale – sanità, formazione, pensioni – fosse un’idea di società figlia di un tempo della storia fecondato da un sistema di valori e, come tale, non potesse nascere per partenogenesi. bet_33_672-458_resize[1]Della mia generazione, per esempio, chi militò a sinistra da giovane fece i conti con una visione della formazione nata da un inestricabile intreccio tra modo di produzione, ragioni del mercato e rigide gerarchie sociali, Un modello egemonico di classe, fondato su criteri di selezione che bloccavano ogni ascensore sociale.
Parlo di tempi lontani, quando si diceva «democrazia borghese» perché in mente si aveva quella socialista. Di tempi in cui c’era un mondo che pensava di «normalizzarci» e noi lo mettemmo sottosopra. Le identità erano irriducibilmente alternative: destra e sinistra erano campi contrapposti separati da barriere ideali. «Ideologie», si dice oggi con tono sprezzante. E’ vero, la sinistra aveva «anime diverse» e i nostri padri erano scesi a compromessi che noi rifiutavamo, ma c’era un terreno comune: i valori dell’antifascismo. La guerra era stata messa al bando, sulla legislazione sociale, sul lavoro e sulla sua tutela ci si poteva scontrare ma anche incontrare perché, per le sinistre, la repubblica era fondata sul lavoro. Se parlavi di studio, sulle finalità ci si intendeva: la formazione del cittadino tocca alla collettività, al popolo sovrano che ha la responsabilità di fornire strumenti critici per consentire di scegliere tra parti in lotta; è il popolo che ha l’autorità per «realizzare il bene comune, far rispettare i diritti inviolabili della persona, assicurare che famiglia e corpi intermedi compiano i loro doveri e formino i ragazzi al rispetto della legge costituzionale». La famiglia, quindi, cedeva il posto alla collettività, riunita nel «patto sociale» sottoscritto dopo la Liberazione, e riconosceva che l’unica tutela degli interessi particolari deriva dalla difesa assicurata ai diritti collettivi. Negli anni Sessanta del Novecento, questa visione della vita sociale – e l’idea di sistema formativo che ne derivava – non era figlia del bolscevico Zinoviev e nemmeno un prodotto del provincialismo italico: la sosteneva, infatti, persino il cattolico «Ufficio Internazionale per l’Infanzia». Oggi quel mondo è sparito. Destra e sinistra viaggiano unite e il punto d’intesa si riassume in un logoro slogan liberista: «troppo Stato». Non è la critica anarchica al principio di autorità, ma la rivendicazione di una sconcia «libertà» che tuteli manipoli di privilegiati a spese della giustizia sociale. La crisi che attraversiamo, ci spiegano, infatti, è figlia dei nostri errori. Un Sistema Sanitario al limite della decenza fa all’economia danni più seri di quelli causati dall’attacco terroristico alle Twin Towers e Obama è avvisato: se la crisi metterà in ginocchio gli USA, sarà per colpa sua che importa dall’Italia quell’idea di riforma sociale che ci sta rovinando. In un loro libro a quattro mani – Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia Giuliano Amato, ideologo del craxismo, e lo storico Andrea Graziosi l’hanno teorizzato proprio in questi giorni di spese militari senza limite, di privatizzazioni senza liberalizzazioni e di banchieri che si tengono i profitti e socializzano le perdite: i «diritti costosi come quelli sociali» hanno «una natura diversa dai diritti politici e civili» e non sono «perciò sempre e comunque esigibili». E’ il più pesante attacco portato in Italia a quella che l’ex colonnello di Craxi chiama «l’irrealistica ideologia dei diritti», tenuta in vita ovviamente dal «cortisone del debito pubblico» grazie al “fanatico” provincialismo dei difensori della giustizia sociale, fermi a Keynes, mentre il mondo si inchina ai disastri di Hayek.
Applicato alla storia romana, questo «realismo» ideologico alla Fukuyama accollerebbe la crisi dell’impero a Menenio Agrippa e al suo celebre apologo sui diritti dei lavoratori; poiché si tratta, però, di fatti contemporanei, per quadrare i conti non si fa cenno a Grecia, Spagna e Portogallo, alla Francia vacillante, all’Inghilterra fuori dall’euro – è ovunque colpa dei diritti? – si ignorano i moti turchi, il terremoto nordafricano, il Medio Oriente in fiamme e, per difendere i privilegi di sparute minoranze parassitarie, si riducono i diritti a una volgare «illusione» e si fa della storia la scienza dei fatti che prescinde dagli uomini e dai loro bisogni. Occorre cambiare, ci dicono i severi giudici della repubblica, ma è l’antica bandiera del rinnovamento all’italiana: si cambia tutto perché nulla cambi. Intanto, scuole, università e ospedali, diventate aziende, sono alla rovina e i servizi, piegati alle logiche del profitto, sono solo riserve di caccia per manager. Nella crisi di identità di un popolo di senza storia, la dottrina di Amato e Graziosi confonde le cause con gli effetti e non serve a un insegnante che, in terra di camorra, deve spiegare agli studenti cosa tenga assieme la legalità costituzionale, nemica della guerra, e il cacciabombardiere abbattuto in volo dalla difesa irachena ai tempi della prima guerra del Golfo o quelli che, acquistati mentre non ci sono soldi per gli esodati, mandano in fumo quanto basta per dar da vivere a tutti i pensionati. L’insegnante però lo sa e per questo si mettono a morte scuola e università, perché non dica ciò che gli storici fingono di non sapere: per ingrassare i padroni del vapore, si spende e si spande nelle guerre che vuole il capitale, si gira il mondo armati fino ai denti per ammazzare amici e nemici con l’uranio depotenziato e si inventa una Costituzione materiale che è l’esatto contrario di quella su cui fonda la repubblica. L’insegnante lo sa: il lavoro ormai non si paga, le riforme cancellano diritti e stato sociale, la scuola è privatizzata, gli immigrati finiscono in campi di concentramento, la Val di Susa è militarmente occupata come la Libia nell’Italia liberale, la Magistratura usa l’eterno codice Rocco per trasformare in terrorismo il conflitto sociale, un Parlamento di nominati manomette la Costituzione e ci lega a filo doppio a un’Europa che di Costituzione non vuol nemmeno sentir parlare. Sovversivismo delle classi dirigenti. Altro, ben altro che una «irrealistica ideologia» dei diritti.

Uscito su Report in line il 20 agosto 2013 e sul Manifesto il 23 agosto 2013

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Ernesto Che Guevara, che prima di essere un rivoluzionario fu uno studente in gamba, si laureò in medicina e imparò a conoscere i problemi della scuola e dell’università, parlando agli studenti a Santiago di Cuba strappata con le armi a un dittatore al soldo degli USA, non mostrò incertezze: “Andate a cercare i nomi degli artefici della riforma e andate a vedere qual è oggi la loro posizione politica, quale ruolo hanno svolto nella vita pubblica dei Paesi d’appartenenza e avrete delle sorprese straordinarie. I personaggi che […] appaiono all’avanguardia della riforma nel loro paese sono le figure più nere della reazione, le più ipocrite, perché parlano un linguaggio democratico e praticano sistematicamente il tradimento“.  scuola-privata1[1]Sarà un caso, ma chi nel nostro Paese volesse provare a seguire il consiglio del Che, sorprese ne avrebbe davvero. Senza tornare al fascista Giovanni Gentile, Berlinguer, Moratti e Maria Stella Gelmini corrispondono perfettamente all’identikit tracciato in anni lontani dall’eroico rivoluzionario argentino. La verità è che la formazione, di qualunque paese si parli, è un ganglio vitale del potere economico e di quello politico, il solo vero e decisivo “ascensore” della scala sociale e un’arma a doppio taglio: se funziona come si deve, il potere ha da fare i conti con un controllo popolare reale e condizionante. Se invece non funziona, il popolo è servo, rassegnato e facile da manovrare.
Non meraviglia se nel ritratto, breve ma efficace, di Ernesto Che Guevara è facile riconoscere i volti e le scelte ambigue di chi qui da noi oggi governa la scuola e il paese. Chiedendo la fiducia al Parlamento, Enrico Letta non fece giri di parole: «La società della conoscenza e dell’integrazione – disse per l’occasione – si costruisce sui banchi di scuola e nelle università. Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica. In Italia c’è una nuova questione sociale, segnata dall’aumento delle disuguaglianze». Sapeva perfettamente che la crisi della scuola è un’arma fortissima in mano al malgoverno; era perfettamente consapevole che gli accordi capestro sul debito pubblico e sul pareggio di bilancio, firmati a tradimento del paese e approvati da parlamentari mai eletti, gli avrebbero impedito di comportarsi di conseguenza e investire sulla scuola anche se avesse voluto, ma a lui interessava solo il voto di fiducia, l’atto formale imposto dalla Costituzione. Nulla di quello che prometteva era in grado di fare senza aprire un conflitto con l’Europa della banche, ma quel conflitto non era nei suoi programmi e della sorte dei giovani e delle classi subalterne non gli importava nulla. Per rafforzare l’inganno, di lì a poco non esitò a dichiarare di nuovo pubblicamente: «Mi prendo l’impegno: se dovremo tagliare su scuola e università, io mi dimetterò»: L’Italia dei talkshow si lasciò come sempre incantare e i soliti pennivendoli ci raccontarono mirabilie: dopo l’intervista a Fabio Fazio nella trasmissione «Che Tempo che Fa», la popolarità del nuovo astro della nostra vita politica è salita alle stelle, ci vennero a dire. Di lì a poco, come in un sapiente gioco delle parti attentamente preparato da curatori d’immagini ed esperti di psicologia delle masse, di fronte all’evidente inerzia, alla totale mancanza di risorse e ai diktat paralizzanti di banchieri cialtroni travestiti da statisti per recitare la loro parte sui tragici palcoscenici dell’UE, entrò in scena di rincalzo Maria Chiara Carrozza. «O ci sono margini per un reinvestimento nella scuola pubblica, oppure devo smettere di fare il ministro», dichiarò la ministra dell’Istruzione, l’immancabile «volto pulito» di un governo impossibilitato a governare. Me ne vado, minacciò la signora, e ci fu chi si lasciò incantare dalla dichiarazione.
Sono passati mesi. Letta e Carrozza non hanno tirato fuori un centesimo bucato, gli studenti stanno peggio di prima, migliaia di assunzioni sono state cancellate, e ai docenti è stato bloccato lo stipendio. Le dimissioni non le hanno date e di far pagare la crisi a chi può farlo, di colpire seriamente chi i soldi li ha ma li nasconde non c’è nemmeno la più pallida intenzione. I nostri politici sono tutti al capezzale di Berlusconi, un loro collega, guarda un po’, evasore fiscale. A settembre, quando le scuole riapriranno, qualcuno si preoccuperà come sempre di trovare i fondi necessari a finanziare le scuole paritarie e la risposta alla sacrosanta protesta degli studenti, la daranno le forze di polizia in assetto antisommossa.
Che Guevara e Castro avevano capito come vanno le cose quando a dettare legge è il capitale. Non a caso Fulgencio Batista lasciò Cuba cacciato dalla rivoluzione.

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 agosto 2013

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“Qui rido io” scrisse all’ingresso della sua villa, chiamata “Na santarella”, il celebre commediografo Eduardo Scarpetta. 260px-La_Santarella100_1811[1]Senza tentare paragoni irriverenti, questo blog è la mia villa napoletana e anch’io avviso idealmente chi legge: “Qui scrivo io”. Quella che segue, perciò, è una vera eccezione alla regola. Per una volta mi affido alle parole di un grande storico del Novecento, Gaetano Arfè, di cui ho avuto la sorte di essere amico. E’ un gesto di umiltà, ma anche la calcolata rinuncia a tentare una battaglia estenuante. Non spero più di poter discutere della tragedia delle foibe con qualche risultato. Non me la prendo con gli interlocutori. Sono i miei insuperabili limiti a decidere per me. Qui scrivo io, ma stavolta, a conclusione di una corrispondenza inizialmente tempestosa, lascio la parola a uno degli intellettuali più acuti del Novecento italiano. Uomo di grande onestà intellettuale. Di mio solo una premessa, in modo che chi avrà la pazienza di leggere, capirà di che si tratta. Al sig. Ernesto della Sernia, che ha avuto la bontà di commentare per ben due volte un mio intervento in difesa di Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi, mie amiche e valenti studiose, dirò solo due parole, che non pretendo condivida e non aprono discussioni: dopo la fine della guerra, la sinistra ebbe un suo breve ruolo, poi fu battuta dalla Dc che governò per lunghi decenni. La sua “potenza mediatica e culturale” nel dopoguerra fu a lungo perciò pari a zero. Dopo vent’anni e più di dittatura, gli storici di sinistra furono costretti a ripartire da dove si erano fermati i loro maestri con l’avvento del fascismo. La scuola e le università rimasero a lungo feudo di un mondo che non si era dissolto con la caduto del regime. La mia generazione ha studiato la storia sui libri fascisti – a stento riveduti e corretti – e bisognò attendere i manuali di Spini e Saitta e gli anni Sessanta per sapere cos’era stato il fascismo non solo nei Balcani, ma anche nelle colonie d’Africa. In quanto alla Germania, nonostante Norimberga, si è trovata a fare i conti con storici come Nolte che, a partire dal suo celebre “I tre volti del fascismo” fino al volumetto intitolato “Gli anni della Violenza”, non solo definì il fascismo essenzialmente antimarxismo, ma lo descrisse come un’esperienza europea. Egli aprì così la strada a una lettura del nazismo che ne faceva il figlio naturale di una sorta di baluardo contro il bolscevismo o, per dir meglio, contro la barbarie bolscevica. In pratica, egli trovò una giustifica al nazismo e affermò che il nazionalsocialismo aveva certamente ecceduto, ma era stato soprattutto una replica alla minaccia bolscevica.
Gli storici di sinistra, quelli veri, Kersevan e Cernigoi tra loro, hanno provato in tutti i modi a raccontare i crimini del nostro Paese. Non sono riusciti però a farli entrare nella memoria collettiva. E’ vero, noi manchiamo di una storia seria della repubblica; ma questo non è accaduto perché non l’abbiamo voluta scrivere. E’ che le carte necessarie sono secretate. Da Portella della Ginestra, a Piazza Fontana, dall’Italicus a Brescia, a Bologna e all’aereo abbattuto a Ustica, noi siamo urtati e urtiamo nel segreto di Stato, nell’omertà dei militari e dei servizi segreti. Provi l’ottimo sig. Ernesto ad entrare negli archivi militari e scoprirà che uomini come Roatta, appesi alle pareti e incorniciati con tutti gli onori possibili, ancora oggi sfidano gli storici. E si ricordi: l’italianizzazione dei Balcani contò molto sulla diffusa complicità del nazionalismo e dei nazionalisti italiani. Non spero di averlo convinto e dubito che ci riesca Arfè. Una cosa mi conforta: essendosene andato da qualche anno, il mio amico Gaetano non potrà continuare la discussione. E non lo farò io. Questo blog è la mia villa napoletana, la mia ideale “santarella”. Qui scrivo io.

Foibe, un silenzio con tanti padri

Le foibe sono episodio tragico di una lunga storia che comincia da lontano, dalla fine della “grande guerra” quando sul problema dei rapporti con la Jugoslavia, “fungo velenoso nato nei boschi di Versailles”, si spaccò in Italia il fronte dell’interventismo. Leonida Bissolati, nel suo ultimo discorso, alla Scala di Milano, fu accolto dai fischi e dagli insulti dei nazional-fascisti e bollato come “croato onorario” e Gaetano Salvemini si vide il nome storpiato in quello di Slavemini. Lo squadrismo aggredì col ferro e col fuoco uomini, sedi e istituti degli slavi di Trieste. Il governo fascista seguì, nei loro confronti – come dei tedeschi dell’Alto Adige – una odiosa e stolida politica di persecuzione sistematica e di programmatica snazionalizzazione, che non si fermò neanche di fronte alle lapidi dei cimiteri e mutuò poi dai nazisti i metodi per assoggettare i popoli della Jugoslavia, la cui tradizione è satura di lotte secolari, sanguinose e crudeli, della cui recrudescenza siamo stati in date assai recenti testimoni. La documentazione è vasta, varia e inoppugnabile e mi limito a ricordare tra gli apporti più lontani le pagine dello stesso Salvemini, che per il comunismo, italiano e slavo che fosse, non ebbe mai indulgenze, tra quelli più recenti e facilmente accessibili lo scritto di Giacomo Scotti apparso nel Manifesto.
Tutto questo non giustifica ma spiega l’orrore dell’eccidio delle foibe. Una spiegazione, invece, va cercata per la petulanza, la meschinità, la strumentalità volgare che inquinano la campagna in atto, legittima e anche doverosa verso le vittime, per portare alla consapevolezza di tutti il crimine allora commesso, ma che, detto in parole semplici, mira a un obiettivo politico rozzamente perseguito: una chiamata di correità postuma per D’Alema e Fassino, una ennesima accusa alla cultura di sinistra di avere imposto sull’evento la congiura del silenzio.
Lascio agli interessati il compito di smentire solennemente che nella parte “secretata” del loro programma di governo ci siano la restaurazione del Tribunale Speciale, ben noto al vicepresidente del Consiglio, e il ripristino della pena di morte. Mi limito a dare una pacata risposta a Ernesto Galli della Loggia, il quale, in stridente contrasto con Claudio Magris e in suggestivo connubio con Giuliano Ferrara, che non ha mai utilizzato quella preziosa fonte sulla storia del comunismo italiano che è la sua tradizione familiare, ha ribadito ancora una volta l’accusa di colpevole reticenza agli intellettuali di sinistra che controllavano l’editoria, che erano annidati nella stampa, che – non lo ha detto, ma si può presumere – avevano un loro Min. CuI. Pop – il ministero fascista della cultura popolare – donde si diramavano direttive circa i temi di cui era lecito parlare. La giovane età non consente a Galli della Loggia di avere un nitido ricordo di quegli anni ed è presumibile che gli manchi il tempo e forse anche l’addestramento per cimentarsi nella ricerca. Egli non sa che delle case editrici da lui chiamate in causa Laterza era sotto l’ala di Croce, ancora vivo, e che, notoriamente, non aveva simpatie comuniste, la Feltrinelli non era ancora nata e solo Einaudi era legato al partito comunista; non sa che sulla grande stampa, che allora si chiamava borghese o padronale, le firme di collaboratori comunisti o anche socialisti erano più rare delle mosche bianche; non sa che per i giovani con una tessera rossa in tasca era impresa assai ardua vincere un concorso per entrare in una scuola, in un archivio o in una biblioteca. Le ragioni dei silenzi, e non solo sulle foibe, sono più complesse e intricate di quanto egli creda.
Una, della quale la responsabilità ricade sulle sfere dirigenti anche del nostro paese, è che la rottura verticale di Tito con Stalin e la posizione assunta dalla Jugoslavia in campo internazionale indusse tutto il campo atlantico alla benevola indulgenza nei confronti del suo regime e anche il trattamento piuttosto rude riservato agli stalinisti del suo paese fu accettato col silenzio.
Per quanto riguarda la sinistra va detto che le coscienze, e non solo quelle degli intellettuali, frastornate e sconvolte dalla enormità della catastrofe che si era abbattuta sui popoli, letteralmente stentavano a prendere lucida coscienza di quanto era avvenuto, a valutarne le manifestazioni, a giudicarne gli effetti, a stabilire graduatorie degli orrori. A segnare e a qualificare la guerra era stato il ricorso deliberato, programmato e indiscriminato al terrore che colpiva i combattenti, ma anche, e in molti casi con maggiore ferocia, le popolazioni civili, e gli episodi erano tanti che anche la capacità di sdegnarsi ne risultava allentata: le bombe sulle città inglesi, su Coventry che ispirò in Italia il brillante .neologismo “coventrizzare”; le “città fucilate”, da Oradour a Lidice, da Marzabotto a Kragujevak; i campi di sterminio. E c’erano anche le rappresaglie anglo-americane sulla Germania – Dresda rasa al suolo -; le fosse di Katin scavate e riempite di morti polacchi dai soldati dell’Armata rossa; l’atomica su Yroshima e la replica su Nagasaky. Neanche le persecuzioni antiebraiche e i campi di sterminio avevano un particolare rilievo in questo quadro: in un volantino antimonarchico largamente diffuso erano elencate tutte la grandi malefatte di casa Savoia a partire dal 1848, ma tra quelle di Vittorio Emanuele III non era denunciato l’atto più abietto, la legittimazione delle leggi razziali.
Gli intellettuali, in questo caso i giovani che si avviavano agli studi storici, non avevano, non potevano e non dovevano avere come primario interesse quello di ricostruire episodi di barbarie, quale ne fosse il colore, ma di dare della storia dell’Italia unita un’interpretazione che non fosse quella tramandataci dalla storiografia fascista o fascistizzata. I nostri maestri non furono gli storici d’accademia, furono Croce, Salvemini, Gramsci. Ci impegnammo a scoprire la storia di un’Italia sconosciuta, l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo, partendo da un problema storico appassionato: le ragioni della catastrofe nella quale eravamo stati precipitati. Eravamo ispirati da idealità apertamente professate, ma il nostro lavoro non fu, nella maggior parte dei casi, viziato da ideologismo. Facemmo della storia etico-politica, cercammo, cioè, di fare emergere l’importanza nel processo storico delle idee, dei valori, delle passioni che animavano le donne e gli uomini che ne erano protagonisti.
Il revisionismo storiografico dei tempi nostri è partito dalla legittima esigenza di allargare, articolare, approfondire il giudizio storico sul fascismo, ma nel suo procedere, e in coincidenza con l’avvento di Berlusconi, ha abbassato sempre più la storia a cronaca e ne ha degradato l’interpretazione a volgare propaganda politica.
L’ “operazione foibe” è, sotto questo aspetto, esemplare. L’episodio non era sconosciuto, ma non aveva avuto finora posto di rilievo nel macabro elenco delle stragi che hanno segnato la seconda guerra mondiale e poteva essere atto doveroso ricordarlo e metterlo in piena luce. Ma è imprudenza politica fame un atto di accusa contro sloveni e croati che sarebbero legittimati a presentare i conti, ben più pesanti, delle vessazioni e degli eccidi subìti; è vilipendio della storia estrapolare quel fatto dal suo contesto che è caratterizzato, fin dal suo primo formarsi dalla violenza fascista ed è ignobile che esso venga riesumato al fine di dar credito alle farneticazioni di un anticomunismo quarantottesco che non si è accorto della scomparsa definitiva dell’URSS e dei suoi partiti e che grottescamente denuncia nei dirigenti “diessini”, in Diliberto, in Bertinotti, i biechi e consapevoli strumenti di una politica destinata a seminare terrore “e a provocare morte”.
Negli anni del fascismo Benedetto Croce ci insegnò che la storia è storia della libertà e a quel monito ho ispirato le regole che mi hanno guidato nella mia attività professionale e politica. In essa era fedelmente riflessa la mia coscienza di uomo partecipe alla vita del proprio tempo. A conclusione di una lunga e sofferta esperienza durata una intera vita, alla libertà io oggi indissolubilmente associo la pace. E di qui faccio partire l’invito agli studiosi della più giovane generazione a intraprendere una revisione della storia d’Europa – la storia è sempre stata oggetto di revisione perenne – che parta dall’angosciante problema di andare all’origine della crisi che ha travolto, nello scorso secolo, la civiltà liberale e che io identifico nella guerra. Anche se sopravvissuti allo stato di larve, i miti dei nazionalismi scatenati e contrapposti ancora influenzano il giudizio storico. In realtà, la “grande guerra” non ebbe da nessuna parte nobiltà d’intenti, non fu da nessuna parte guerra per la patria, fu scontro di imperialismi. Di fatto essa demolì i valori nati dall’incontro dialettico del cristianesimo col liberalismo e col socialismo, impresse alle tendenziali linee di sviluppo delle economie una svolta incorreggibile, seminò, essa sì, terrore e morte e li levò a ideologia, fomentò l’odio tra le classi e tra i popoli. Quella guerra partorì dalle proprie viscere il bolscevismo, il fascismo e il nazismo e la pace dei vincitori ebbe a suo fatale sbocco la seconda guerra mondiale, cui hanno fatto seguito la guerra fredda e l’instaurazione di un ordine del pianeta terra che porta in sé i germi delle catastrofi.
In questa visione anche l’episodio delle foibe non sarà più un macabro confronto contabile di crimini orrendi e tutti imperdonabili, ma apparirà come manifestazione di quella stessa bestialità umana contro la quale, mano nella mano, come nei vecchi manifesti socialisti, tutti i popoli sono chiamati a muoversi, se l’umanità vorrà avere un futuro.

Gaetano Arfè, Foibe. Un silenzio con tanti padri, in Idem, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, La Città del Sole, Napoli, 2005. pp.395-400.

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Bisogna aggiornarsi e smetterla di lamentarsi di Giorgio Napolitano, rischiando di apparire così degli analfabeti della Costituzione! La moderna cultura costituzionale, infatti, prevede la duplice elezione del presidente della repubblica da parte di un Parlamento di nominati, dopo elezioni svolte con una legge incostituzionale. 992836_682697815090376_1468825722_n[1] A questo Parlamento – una sorta di Circo Barnum della politica – il nostro costituzionalissimo Presidente ha tutto il diritto di imporre il voto di fiducia a un’indecente governo di “larghe intese”, dopo una campagna elettorale in cui i partiti avevano chiesto il voto agli elettori, promettendo che avrebbero fatto tutto, tranne che un governo di “larghe intese”.
Secondo la nuova cultura costituzionale, la legalità repubblicana consente al bipresidente della Repubblica di chiedere con insistenza a un Parlamento illegittimo – sarebbe più appropriato chiamarlo Camera dei Fasci e delle Corporazioni – una riforma della Costituzione che non tenga conto del suo articolo 138. E’ un suo indiscutibile diritto.  Se errore c’è stato –  riconosciamolo, infine! – lo commise l’Assemblea Costituente, quando scelse una Costituzione “rigida”, che non lasciava mano libera al capitalismo e alla reazione di classe.
Napolitano, depositario della più avanzata e moderna cultura costituzionale, ha solo posto rimedio a un antico errore e ha deciso che la Costituzione preveda la duplice elezione del presidente della repubblica da parte di un Parlamento di nominati, dopo elezioni svolte con una legge incostituzionale.
Bisogna aggiornarsi e smetterla di lamentarsi. E’ il momento di applaudire: “Viva Giorgio Napolitano, viva l’Italia, viva l’Europa delle banche, viva lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo!

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Ridurre l’anomalia italiana al caso Berlusconi e – peggio ancora – illudersi di superarla monitorando le reazioni dei berlusconiani e andare avanti con questo governo significa votare al suicidio la nostra democrazia. Comunque vada, il modo in cui esce di scena un uomo che, piaccia o meno, s’intesta un’età della storia d’Italia, proietterà sul futuro le ombre di un passato con cui fare i conti. Inutile ingannare se stessi, la tempesta non ha precedenti. Si naviga a vista, l’ago della bussola è impazzito e se le stelle segnano la rotta si sa: non c’è mare che non abbia tragedie da raccontare e gli astri che guidarono Colombo oltre l’Oceano mare, fino alle sue Indie americane altre volte avevano spinto al naufragio esperti nocchieri. Questo è in fondo la storia: maestra senza allievi, Cassandra di verità negate, che trovano conferma postuma nel disastro invano previsto e mai evitato.
Ora tutto pare chiaro e persino facile: c’è una sentenza e si applichi, ipso facto decada il condannato e le Istituzioni facciano quadrato. Basterà solo questo a difendere la legalità repubblicana? Se un conformismo più dannoso della mancanza di rispetto non fosse la foglia di fico di Istituzioni sempre meno credibili, qualcuno troverebbe l’animo di riconoscerlo: la sacrosanta condanna di Berlusconi giunge quando l’uomo incarna una crisi che ormai lo trascende. Paradossalmente egli non ha tutti i torti a sentirsi tradito e in questo suo indecente «diritto» di recriminare si cela forse l’origine vera dell’ultima e più pericolosa anomalia italiana. Un’anomalia che stavolta riguarda direttamente il capo dello Stato. Tre anni fa, in occasione del decennale della morte di Craxi, condannato in ultima istanza come il leader delle destre, Napolitano gli rese omaggio e scrisse alla moglie parole che oggi pesano come macigni: «Cara Signora, ricorre domani il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi, e io desidero innanzitutto esprimere a lei, ai suoi figli, ai suoi famigliari, la mia vicinanza personale in un momento che è per voi di particolare tristezza, nel ricordo di vicende conclusesi tragicamente». Non si può tacerlo, perché ha legami diretti con quanto accade e ha fatto molto male alla salute della repubblica.
Allora come oggi, il Parlamento era figlio di una legge decisamente incostituzionale, ma Napolitano si mostrava inconsapevole della gravità della situazione. Mentre manipoli di «nominati» di ogni parte politica bivaccavano nell’aula grigia e sorda di mussoliniana memoria, egli non trovava di meglio che ricordare il pregiudicato Craxi e il suo personale rapporto «franco e leale, nel dissenso e nel consenso» col quello che giungeva a definire «protagonista del confronto nella sinistra italiana ed europea». Per il Capo dello Stato, l’uomo che aveva chiuso nella vergogna i cento, nobili anni di storia del partito di Turati, Nenni e Pertini aveva dato un «apporto incontestabile ai fini di una visione e di un’azione che possano risultare largamente condivise nel Parlamento e nel paese proiettandosi nel mondo d’oggi, pur tanto mutato rispetto a quello di alcuni decenni fa». E’ a questi precedenti, che fanno appello gli eversori quando perorano la causa del loro pregiudicato.
Salvandolo dall’estrema ingiuria, la morte impedì a Gaetano Arfè, grande storico del socialismo, politico tra i più intellettualmente onesti dell’Italia del Novecento e irriducibile nemico di Craxi, di replicare a Napolitano. Oggi, tuttavia – ecco Cassandra e la storia maestra senza allievi – quando il disastro è compiuto, oggi il suo giudizio, espresso nel fuoco di mille battaglie, si proietta fatalmente sul caso Berlusconi e si fa per Napolitano un dito puntato che non si può piegare ricorrendo alla Corte Costituzionale. Dove il Capo dello Stato vedeva il lavoro di uno statista, Arfè coglieva la rozza sostituzione degli ideali dell’antifascismo con una sorta di strumentale «sovraideologia, brandita e utilizzata come strumento di costruzione di un nuovo potere». A Bettino Craxi anche Arfè attribuiva un progetto; si trattava però di «un disegno venato di paranoia, […] perseguito con magistrale destrezza tattica, ma con altrettanto grande miseria morale». Per questo era «affondato nel fango». Perché lo meritava. Se Napolitano indugiava su un dato marginale – «il peso della responsabilità caduto con durezza senza eguali sulla persona di Craxi» – e si spingeva fino a ricordare che per una delle sentenze subite da Craxi «la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo […] ritenne […] violato il diritto ad un processo equo». Arfè guardava lontano e, senza tirare in ballo Strasburgo e l’equità dei processo, coglieva il nodo irrisolto della vicenda: il nesso di continuità tra craxismo e berlusconismo. Per Arfè il craxismo pervadeva ormai l’intero mondo politico, offriva modelli di comportamenti ai gruppi dirigenti, pericolosi strumenti di lotta politica e nuove tecniche di propaganda e manipolazione del consenso. «Sotto questo aspetto – egli denunciò lucidamente – il craxismo è sopravvissuto a Craxi».
Questo rinnovarsi della «sovraideologia» craxiana nell’esperienza berlusconiana e il suo perncioso radicarsi nei gangli della vita pubblica italiana, Napolitano l’ha colpevolmente ignorato fino alla sua discutibile rielezione, avvenuta anche grazie al consenso di Silvio Berlusconi; è stato Napolitano a volere le «larghe intese» con Berlusconi e con i berlusconiani e sempre lui, Napolitano, ha invitato un nuovo Parlamento di «nominati» a metter mano alla Costituzione.
Si può gridare allo scandalo per le posizioni eversive assunte dal partito di Berlusconi e stupirsi per il caso «anomalo» del leader condannato, sta di fatto, però, che è difficile negare a Berlusconi ciò che Napolitano ha ritenuto si dovesse a Craxi: pregiudicato, sì, ma degno di essere lodato. In questo senso, i fatti e la loro estrema crudezza parlano chiaro: l’anomalia italiana non si identifica solo con Berlusconi e meglio sarebbe per tutti se, risolta la pratica dell’arresto e messo il condannato fuori dal Senato, il suo sponsor, ottenuta una legge elettorale, lasciasse quel Quirinale mai occupato due volte dalla stessa persona.

Uscito su “Liberazione.it” l’8 agosto 2013 e sul Manifesto il 10 agosto 2013 col titolo Corsi e ricorsi. Napolitano e il precedente di Craxi

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Sto pensando alla mia giovinezza, ai miei sogni, ai miei eroi. Quando ho bisogno di difendermi dalla disperazione, apro un vecchio cassetto e scartabello tra antichi fogli ingialliti dal tempo. Lo so, quando diventiamo vecchi, gli anni lontani ci sembrano tutti belli perché noi eravamo giovani. Non sempre però è così. Io questo vecchio cassetto non lo darei via nemmeno in cambio di un tesoro. Non c’è ricchezza che valga quanto alcuni ricordi, ma per fortuna non c’è ricordo che mi convincerà a fermarmi nel passato. Il passato ha senso solo quando ti aiuta a vivere il presente.

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Porti irrequieto al buio tuo tempo guerra
e vai non quieto al nuovo tempo incontro
con incerta fiducia. E più è uno scontro.

Hai in petto una speranza,
guerrigliero braccato alla boscaglia,
oggi che resti solo e senza scampo

e sgrana il suo rosario per la taglia
il mitra che già spezza il tuo respiro.
E’ la tua fede antica quanto il mondo:

che se lottar non serve e tutto è assurdo,
pure tu devi farlo. E con dolore.
Spesso è la morte il prezzo della vita.

Ottobre – novembre 1967

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