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Archive for agosto 2018

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Veltroni ha ragione, ma cita a sproposito Luciano Gallino. E’ vero che la distruzione di una comunità politica e la fine della democrazia sono sempre possibili. Se questo accade oggi nel nostro Paese, però, se definire qualcuno “intellettuale di sinistra” è come prenderlo a male parole, la colpa è del PD, così come al PD dobbiamo la micidiale crescita del neofascismo.
E’ venuto il tempo delle parole chiare che non consentano ambiguità. Il Partito di Renzi, del Jobs Act e della Buona Scuola è il primo e autentico responsabile dell’attuale disastro italiano e non c’entra nulla con la sinistra. Il PD è il partito di Minniti e dei campi libici. Senza Renzi e Minniti, non avremmo Salvini e il suo rinascente fascismo.
Potere al Popolo non vuole e non può consentire che la bandiera dell’antifascismo e della democrazia finisca nelle mani di chi prima l’ha violentata e tradita, poi l’ha consegnata inerme nelle mani di una destra fascista.

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mariabarattoR439Sul “femminicidio”, complice la sedicente sinistra radical-chic, si è costruita l’ennesima operazione di “disinformazione di massa”. Per capire la natura reale del fenomeno, infatti, non bastano certo il conto aggiornato degli ammazzamenti e la storia in salsa romantica delle povere donne uccise. Questi sono dati superficiali cui manca essenziali complementi. Bisognerebbe, infatti, aggiungere almeno, per cominciare,  che l’80 % degli assassini è di “razza italiana”. Si darebbero così senso e valore concreti al salviniano “primi gli italiani”. Primi, certo, e quindi – come vuole la logica corrente – inferiori ai “barbari” immigrati, che – per fortuna, ci sarrebbe da dire – non si integrano nella civilissima società ospitante.

Manca, poi, e non è vuoto banale, la radice di questo primato: siamo primi, perché siamo culturalmente fermi al concetto dell’onore, a un diritto di famiglia che sebbene modificato nei codici, se non si è saputo modificare nella testa di cittadini, per i quali spesso lo stupro è figlio di una gonna corta e di “comportamenti” riassunti nelle parole del senso comune: “in fondo se l’è andato a cercare”.

Il senso comune però non è buon senso e nell’analisi del fenomeno manca la presa d’atto: il femminicidio chiama direttamente in causa le politiche dei tagli alla formazione. Manca – e di tanti vuoti questo è il più grave e significativo – il dato sul “femminicidio al nero”, che uccide ugualmente, ma non ha mai colpevoli ed è sempre un delitto perfetto. Il più diffuso e ignorato, il più tollerato e taciuto.

Manca insomma all’appello la “morte morale” di una donna come Maria Baratto, morta di cassa integrazione e di reparto confino. Manca la morte da contratto di assunzione con incorporato il licenziamento per gravidanza; mancano la discriminazione salariale, le montagne da scalare nella carriera, le molestie sessuali che decidono dell’assunzione o del mantenimento del posto di lavoro. Se si vorrà sventare la strumentale la manovra, in un Paese malmesso per libertà di stampa, e smascherare la pietà pelosa del conto delle vittime e la retorica della femmina vittima di violenza maschile, occorrerà che la nostra anemica comunicazione sui social cambi registro e si ricordi che il modello politico del capitale finanziario è il fascismo. Lo ha dimostrato lucidamente Pietro Grifone e bisogna perciò mettere in discussione la presunta superiorità del modello occidentale e aver presente che, come accade per tutti i deboli e gli sfruttati, la condizione della donna è figlia allo stesso tempo della società capitalista, della sua sottocultura, dei tagli di bilancio al sistema formativo e dei limiti di una sinistra evanescente, che ha rinnegato la lotta di classe e si è attestata sulla sterile difesa dei diritti umani e civili.

Come dimostra chiaramente una delle più incontestabili “costanti” della vicenda umana,  laddove si sono cancellati la cultura del lavoro e i diritti dei lavoratori, conquistati dal movimento operaio e socialista, anche i diritti umani e civili sono stati sistematicamente violati. Il “femminicidio” è la parte di un tutto, l’effetto di una causa, il fango che precipita a valle dall’immensa montagna dell’ingiustizia sociale. Da questa consapevolezza può e molto probabilmente deve ripartire una sinistra degna della sua storia e della sua funzione sociale e politica. Poi si vedrà se la destra è un suo sinonimo e tra gli strumenti e le categorie ormai “fuori tempo” ci sono davvero la cultura di classe e la centralità del conflitto.

Agoravox, 29 agosto 2018

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L’umanità che vorresti ingabbiare,
carceriere di sogni e di speranze,
è un uccello che vola
sulle ali del pensiero.
Più t’inventi confini,
più l’uccello sconfina,
più va dai monti al mare,
libero di volare,
e i tuoi muri attraversa.
Il prigioniero vero
sei ormai tu, carceriere carcerato,
e una chiave non c’è
che ti liberi il cuore.

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marta-di-giacomoMi ricordo di un padre accusato di aver ammazzato i suoi due bambini.  Saranno dieci anni ormai, ma me lo ricordo bene, benché nessuno ne parli più. A dar retta a inquirenti e giornalisti, Ciccio e Tore Pappalardo, figli di Filippo, autotrasportatore di Gravina, la polizia li aveva cercati ovunque: campagne battute metro su metro, cisterne a decine ispezionate, ma nulla. La Questura brancolava nel buio, ma contro il padre c’era ormai un’opinione pubblica che non distingue più l’indicativo dal condizionale. E’ un gioco da ragazzi: “il padre avrebbe…”, “il padre saprebbe…”, “nella versione dei fatti del padre ci sarebbero forti contraddizioni…”.

Chi fa informazione lo sa che, ripetuto ad arte e in maniera ossessiva, un condizionale diventa indicativo; lo sa che, dopo una campagna battente, finisce che il “padre ha…”, il “padre sa…” e “nella sua versione dei fatti ci sono evidenti contraddizioni…”. Costruito il mostro, celebrato il processo sui media, sui social e nella testa sempre più confusa di una immensa giuria popolare che non conosce regole, non legge carte, non ascolta difese, non ha più dubbi, la condanna è inevitabile. Più la penna è felice e la parola convincente, più successo e più strada farà l’informatore disinformato, così che oggi, se facessimo un referendum, scopriremmo che, per gli sventurati bambini condannati a morte nel Mediterraneo, tanti, tantissimi non muoverebbero un dito, perché sì, va beh, è vero che siamo tutti figli dio, ma Salvini e Di Maio hanno ragione e avanti così non si può andare. Facessimo un referendum sul Far West, scopriremmo probabilmente che da noi siamo tutti pistoleri, che un’arma ci vuole e se ti entrano in casa, ‘sti figli di putttana neri, rumeni e rom ci vuole pure un colpo nella schiena.

Tanto poi che succede, se il caso montato ad arte diventa galera per innocenti e morti ammazzati barbaramente? Niente. Non succede niente. La penna buona si è fatta un gran nome, la carriera è diventata facile e veloce, ma attorno a noi la barbarie è cresciuta e va bene così. Siamo un popolo di smemorati. E’ vero, sì, abbiamo il reato di femminicidio, ma l’idea che la ragazza se l’è cercata non la togli dalla testa a nessuno; non dico dalla testa dei maschi, ma delle femmine benpensanti per cui il femminismo è stato soprattutto un’esasperazione ereditata dagli anni Settanta e la verità è che l’uomo è cacciatore.

In un mondo come questo il giornalista non sente il bisogno di andare a cercare Marta Di Giacomo, la giovane donna che si dichiara vittima di uno stalker ma, come accadde per Filippo Pappalardo, mette mano alla tastiera che cerca gloria e ci monta il caso: “ho letto tutto e francamente, in questa storia, trovo che molte cose non tornino”. Tra le colpe di Marta ce n’è una imperdonabile: la si coglie dalla presentazione del suo caso, uscita dalla malaccorta tastiera dell’inquisitrice, che da sola è un libro aperto e sa di razzismo:
“Marta di Giacomo, la ragazza napoletana”.
Proprio così, come succede allo stupratore vero o presunto che, se non è rumeno, rom o senegalese, non merita prime pagine e titoli dei TG.

Ciccio e Tore, non li avevano mai cercati seriamente o, se l’avevano fatto, s’era cercato male, forse perché tutti avevano già in testa una “verità”. I due ragazzi, infatti, erano sotto il naso degli inquirenti: a due passi dal Municipio e dalla stazione ferroviaria di Gravina. Morti da due anni nella cisterna di un vecchio caseggiato abbandonato, di cui però nessuno s’era curato. Uccisi da un volo di venti metri e dall’impatto assassino. Per la stampa, però, per la polizia e per i magistrati l’assassinio era lui, il padre, che giaceva in una galera senza speranza. Se per caso nel pozzo non fosse sventuratamente caduto un altro bambino, i disinformatori di turno avrebbero continuato a smontarne la versione e l’ergastolo a Filippo Pappalardo non l’avrebbe tolto nessuno.

Marta Di Giacomo non solo è napoletana. Ha un altro delitto ancora più terribile da pagare: è militante di Potere al Popolo. Questa è l’Italia d’oggi, ma le selvagge e i selvaggi che ci hanno ridotti a questo punto si mettano l’animo in pace: ci sono tramonti e albe e il mondo cambia. E’ legge della storia. Oggi nessuno ricorda Appelius, Interlandi, Ojetti e le “penne d’oro” di un tempo osceno piàù i meno come quello che viviamo.
Se poi qualcuno ricorda, come capita a me, lo fa con disgusto.

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Stavolta non basta ingraziare come sempre Agoravox, che vi prego di leggere. Per un foglio libero voglio scrivere stavolta libere parole. Di me non parlo mai, ma a volte occorre.
Negli anni della contestazione, troppi capetti parlavano a nome dei proletari e li tenni alla larga. Ho poi scritto da comunista storie di socialisti, ma non gli ho mai sparato addosso per ragioni di parte. Quando i comunisti m’hanno messo alla porta e mi avrebbero voluto Craxi e compagni, che pagavano molto bene tre righi scritti ad arte, non solo ho risposto picche, ma sono diventato amico del socialista Gaetano Arfè: uno dei più ostinati e preparati nemici del craxismo.
A chi mi ha offerto le ottime sistemazioni in cambio del silenzio, università, Ufficio Studi del sindacatone, un mare di soldi in cambio dei discorsi del deputato destro, ho detto sistematicamente no. Sono sempre stato così geloso della mia autonomia di pensiero e parola che da Renzo De Felice, il mio grande maestro, mi sono prima fatto chiamare e poi mandare via. Da insegnate sindacalista, infine, ho preferito diventare un ex 113, piuttosto che chinare la testa.
La mia parte l’ho fatta da cane sciolto, ma quando i grandi sogni sono diventati tragedia, ho aiutato chi potevo, rischiando di persona, e a nessuno ho mai fatto l’analisi del sangue.
Sono orgoglioso del mio testamento. Non lascia quattrini e non occorre notaio. L’ho consegnato in versi a un libriccino rosso intitolato “E però scrive”. In poche parole racconta una vita e altro non ho da lasciare:

 

Amico, se ti compri,
pagati quanto vali.
Non un quattrino in più.
Credimi, non sentirti prezioso,
tanto nemmeno serve e poi si muore.
Ma se ti vendono un giorno per caso,
e magari all’incanto,
tu non avere prezzo.
Stattene duro e il banditore invano
attenda di picchiare il martelletto.
(da Giuseppe Aragno, E però scrive, Intra Moenia, Napoli, 2003, p. 14).

Sono come sono e da me nessuno può aspettarsi silenzi: fanno male alla coscienza e bisognerebbe tenerlo a mente: il laudatore professionista tradisce persino quando è fedele. Dio solo quale spreco di fortune narrano le storie di quelli che se li sono messi attorno.
Lo so, chi ti dice ciò che pensa e lo fa  apertamente e pubblicamente, può darti fastidio; però è prezioso: ti mette sull’avviso e ti fa vedere quello che a volte non si vede. Nei giorni della fortuna, non è al tuo fianco, però, puoi giurarci, te lo trovi accanto nella caduta.

Eccovi Agoravox: https://www.agoravox.it/La-Repubblica-violentata.html

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Dopo il ponte il torrente.
La Calabria dopo la Liguria.
E morti, morti ovunque, morti tra mare e terra, morti d’ogni colore.
Tanti, tantissimi. Certamente troppi, se non avessimo una storica tradizione di gregge.
E’ vero, Di Maio non ha colpa per il Paese fisicamente e moralmente disastrato. E’ sua  però la colpa, se al governo c’è un antico disastratore.
Sua è la colpa e tanto basta.
E’ vero, finché l’ovile avrà Martina per alternativa, i disastrati resteranno in mano ai disastratori e i disastri continueranno.
Noi però abbiamo De Magistris, che è un leader, abbiamo forze cospicue, un po’ disperse ma sane e abbiamo una domanda che cresce e non trova risposta. Abbiamo quasi tutto. Basterebbe fissare i contenuti, definire quella che un tempo si chiamava “linea” e voleva dire identità e programmi.
Se finalmente ci convincessimo che i diritti civili non sono  mai al sicuro, se al sicuro non sono quelli sociali, avremmo in un momento solo fatto metà del percorso, perché abbiamo tanto – un leader, le forze fisiche, le risorse morali – e c’è una domanda pressante che attende risposta.
Diamoci una linea e ricordiamo: persino l’ovile fascista produsse Resistenza. Aveva dalla sua, come noi oggi, la forza delle ragioni. Quella che annichilì le ragioni della forza.

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potere-al-popoloA gennaio avrò 73 anni. Ho lasciato per strada tanti compagni, alle spalle ho il mio mondo sconfitto e non mi resta tempo. Se hai vissuto come volevi, però, se sai che, tornando indietro, faresti più o meno quello che hai fatto, la vecchiaia non ti pesa. E’ la naturale compagna della vita che tramonta e si sa: per tutti giunge la notte che non porta l’alba.
Quello che rende molto pesante quest’ultimo percorso è la sensazione di straniamento che, più passa il tempo, più si fa viva, dolorosa e soffocante. Non avrei mai creduto di dover chiudere in un mondo come quello che mi circonda. E’ un mondo nel quale non mi riconosco. Le idee per cui ho lottato, la società che pensavo stessimo costruendo, non ci sono più. Mi sento come un viaggiatore che scende da un treno alla stazione sbagliata e non riconosce i luoghi, le persone e la parlata. Una sorta di sopravvissuto cui mancano persino le parole per descrivere ciò che prova. Questa non è la solitudine che solitamente si accompagna alla vecchiaia. E’ molto di più e molto peggio.
Da novembre, però, è accaduto qualcosa che mi ha aiutato a vivere, mi ha restituito la curiosità di un tempo, il desiderio di capire, la forza di lottare. Forse sono un illuso, forse con gli anni non sono più grado di leggere la realtà, ma da novembre ho vissuto così, con una passione che avevo smarrito, con l’entusiasmo di una giovinezza che non c’è più. A farmi questo regalo è stata l’idea da cui è poi nato Potere al Popolo.
Quando Salvatore Prinzi mi ha chiesto se volevo dare una mano, mi sono spaventato: sono vecchio, ho risposto, che vuoi che faccia? C’è voluto poco, però, per convincermi e non è stato solo perché a Salvatore voglio bene. E’ che quella idea che pareva folle, quella sfida che poteva sembrare irrazionale, mi è sembrata la sola risposta possibile alla tragedia che si scorgeva dietro le quinte della storia. La risposta a un presente che si rifiutava di diventare futuro e si faceva passato. Il neofascismo al governo era già lì, bastava poco per vederlo.
Non dirò cosa è stata la campagna elettorale nel gelo e con i mezzi che avevamo. Delle difficoltà non mi sono accorto. Dirò dei compagni giovani e non più giovani che ho incontrato in quei mesi. Erano in tanti e avevano tutti negli occhi una speranza. Che non si potesse vincere lo sapevamo. Contava però, era preziosa, quella scintilla riaccesa, quel fuoco che tornava a brillare nel buio, come se chissà quale antica Vestale l’avesse difeso nel tempo. Non dimenticherò le assemblee romane, il comizio conclusivo a Piazza Dante e quella convinzione che mi era cresciuta dentro e non ho più perso: c’è bisogno di Potere al Popolo, c’è bisogno che quella idea si realizzi. Risveglia sogni e speranze, conduce alla lotta chi non lottava più.
Ho vissuto i mesi seguenti il voto, quelli delle trattative tra le forze che avevano partecipato alla fase iniziale della nascita di Potere al Popolo con pazienza, fiducia e rassegnazione: ci vuole del tempo mi sono detto, è naturale. Mi sono trovato ai margini, ho capito che ai “cani sciolti” toccava pazientare e l’ho fatto con buona volontà e con fiducia. Ho voluto credere a tutti e a tutti ho fatto spazio.
Ora che il fascio-leghismo ci toglie l’ossigeno, non si può più aspettare, però, e lo dico senza mezzi termini e senza false ipocrisie: il tempo è scaduto. Tutti hanno avuto modo di difendere le proprie idee e posizioni e ora è necessario che Potere al Popolo dia a se stesso la struttura che si è delineata nelle assemblee e nel dibattito. E’ tempo di consentire a tutti quelli che credono nella sua funzione politica di vederlo nascere come organismo autonomo.
Non lo dico perché così sarò meno vecchio. E’ che Potere al Popolo per me è la risposta da sinistra al problema storico che ci pongono i Cinque Stelle e allo stesso tempo la prova che esiste un inganno che va smascherato: la sinistra esiste, vive e può avere consistenza. Così come purtroppo esiste e governa la destra. Una destra estrema.

Contropiano, 10 agosto 2018

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ca2fdb061915f300a650dca32a5e41dd7cc2197990efd6acddd5d5dbPer quello che è accaduto in Puglia, per quello che accade ogni giorno, parole non ne ho. Prendo perciò in prestito da me stesso quelle che scrissi il 7 agosto del 2012, oggi sono sei anni, riflettendo su un libro intitolato Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, curato per le Brigate di solidarietà attiva da Gianluca Nigro, Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto, Yvan Sagnet e stampato da Derive e Approdi.  

Non mi chiuderò nei confini d’una recensione, mi dico, mentre i quaranta gradi di Lecce calano fino ai venti del Potentino e il pullman caracolla tra curve e tornanti, puntando su Napoli. Meglio le riflessioni di un lettore “preso” da un libro che, nato nel Salento e nel Salento incontrato, non mi consente più di guardare Otranto con occhi di turista. Di un libro parli quando è seme che germoglia un’idea e così è accaduto con questo volumetto in un’estate di fuoco: le sue pagine fitte, stampate da Derive e Approdi con piacevole eleganza grafica, m’hanno scottato come sole d’Africa.

Scriverò da lettore, senza voler costruire ragionamenti che intendano spiegare. Del tema dirò poi. Prima segnalo un dato che colpisce. Come s’usa nei lavori collettivi, in copertina trovi gli autori in ordine alfabetico, ma l’elenco parte da una sigla che conoscono in pochi – Brigate di solidarietà attiva – e non fa nomi, sicché di Maria Desiderio e Nives Sacchi, che per le Brigate hanno curato l’interessante parte finale, c’è traccia solo all’interno del libro [p. 101]. La scelta rimanda a radici profonde del movimento operaio, a un’idea militante di lavoro sociale cooperativo, tradotta con coerenza in fogli di propaganda e corrispondenze anonime, sicché tutto parlava di un insieme coeso, di un “collettivo”, rappresentato al più dal nome d’una testata e dal gerente responsabile, dovuto per legge. E’ un biglietto da visita significativo, un dato costitutivo dell’agile volume e della cultura di chi l’ha curato. Non a caso, del resto, il libro, proprio nel capitolo conclusivo, è un gioco di luci e ombre, anche se punta i fari su un tema prevalente: l’esperienza di un gruppo di braccianti africani che, giunti nel Salentino nell’estate 2011 per la raccolta dei pomodori e ospitati a Masseria Boncuri, in un campo gestito dall’associazione Finis Terrae e dalle Brigate di solidarietà attiva, realizzano il primo sciopero autorganizzato di lavoratori migranti. Qualcosa di epocale, precisa l’introduzione non firmata, “un momento importante della storia del movimento operaio in Italia dal punto di vista sia delle pratiche sia dell’analisi” [p. 8].

E’ questa continuità che colpisce: il nesso tra passato e presente della lotta di classe, in una visione così ampia della vicenda che, a ben vedere, il libro narra due storie e descrive un Paese che solo a lettori ciechi può sembrare “molto diverso dai tempi del primo sciopero a Villa Literno tanti anni fa” (1).

In primo piano, con l’obiettivo che s’apre a “zumata”, trovi lavoratori migranti che a Nardò, dopo un’inutile trattativa con un caporale, trasformano la rabbia in pratiche “sindacali” autorganizzate e per due settimane ripercorrono le tappe d’una grande storia, quella del movimento operaio, di cui a quanto pare non s’è persa memoria. Come in un film retrospettivo che ha una specificità tutta attuale, dal libro affiora così l’anima profonda di un conflitto in cui braccianti sfruttati si trovano di fronte all’eterna frontiera che separa il lavoro dal capitale. Occidentali o africani, la distinzione è solo iniziale e non è il cuore del libro. Lo senti quando il caporale minaccia: “prendere o lasciare”. Non è andata così con Marchionne? Lo capisci mentre vedi risorgere pratiche d’una cultura antica che da tempo si dà per spacciata: il blocco stradale (l’antico presidio contro i crumiri), il prezioso confronto in assemblea, l’appello all’unità (siete piccini perché siete in ginocchio diceva uno slogan a fine Ottocento), l’internazionalismo (lavoratori di tutto il mondo unitevi). E’ così che ancora una volta, sul terreno della lotta per i diritti, si incontrano sfruttati d’ogni luogo e cultura e si ripete un fenomeno antico che ha leggi sue proprie: nel fuoco della lotta emergono leader – di dove sarebbero venuti sennò, Bordiga, Gramsci, e organizzatori della tempra di Enrico Russo, Buozzi e Di Vittorio? – e strumenti di lotta – come il mutuo soccorso e la resistenza – che pongono al centro il lavoro e la sua tutela, i dati materiali e il bisogno di cambiamento. Un bisogno che passa giocoforza per quello stesso conflitto negato, dopo il crollo dei regimi dell’Est, da un artificio ideologico inneggiante alla “fine della storia” e dal preteso trionfo dell’eden capitalista.
Il percorso, però, si badi bene, non segue le sirene della nostalgia: “non si tratta di riproporre schemi e teorie senza un’adeguata contestualizzazione”, scrivono le Brigate, attaccando i feticci neoliberisti. Si dice che “nell’era della globalizzazione […] le classi sociali non esistono più, che lo stereotipo degli operai e dei braccianti in sciopero appartiene a un immaginario collettivo che mal si adatta al «capitalismo»”. Invece “il lavoro coatto c’è ancora”; che, “importa se siano italiani, africani o asiatici? La globalizzazione […] ne ha prodotte di nuove, ma certo non le ha eliminate”. E’ l’affermazione di un principio di fondo che non solo dimostra “quanto trasversale sia lo sfruttamento dei lavoratori” [p. 144], ma rappresenta la tappa decisiva d’un percorso e il messaggio più attuale e se possibile “rivoluzionario” che viene da Masseria Boncuri.

Inutile negarlo, ognuno ha la sua storia e la mia lettura è certo “di parte”. A me tuttavia pare chiaro: la sofferenza che brucia sulla “pelle viva” – per dirla col felice titolo del libro – non bada al colore o ai confini. Se così fosse, se il punto fosse il dramma dei migranti e il libro non leggesse ogni voce che viene dallo sciopero, in altre parole, se non raccontasse un altro racconto, che fa da sfondo, allo sciopero e cala la lezione del passato nella realtà dello scontro di classe di questi anni di crisi, se fosse così, non avrebbe ragione d’essere. Sarò più chiaro. Se il libro non cogliesse il momento di un contatto tra pari che come tali prendono a riconoscersi, non solo persone ma sfruttati protagonisti di un’unica lotta, il libro sarebbe un’occasione mancata. Così invece non è: “Nardò – leggiamo – non rappresenta solo Nardò, si configura come paradigma e specchio di un sistema più ampio, […] rispetto allo sfruttamento e alla precarietà del lavoro nel contesto della crisi generale” [p. 103]. Qui è evidente che non si parla solo di migranti africani, ma dell’altra storia, quella che, tenuta sullo sfondo con circospezione quasi stupita, emerge quando ragazzi e ragazze fanno i conti con la realtà del campo: “si arriva e si parte cambiati”, scrivono, perché tutto attorno “fa vacillare il senso di giustizia” [p. 103], perché “vivere Nardò vuol dire sospendere la propria concezione di tempo”, [p. 103], sicché ognuno “si mette in discussione in prima persona e lo fa agendo da singolo in una collettività alla quale il suo agire appartiene […] verso la comunità con cui ci si relaziona, i braccianti, che a loro volta rispondono alle loro condizioni di appartenenza” [p. 113].

E’ una vicenda, questa, che non cerca la ribalta e lascia spazio all’impostazione più “culturale” di Mimmo Perrotta e Devi Sacchetto, ricercatori universitari di Sociologia, al carisma di Pierre Yvan Sagnet, che dal Camerun è approdato al Politecnico di Torino e nelle roventi campagne pugliesi si è scoperto sindacalista, rompendo il fronte dei migranti divisi per etnia. E’ la storia di due organizzazioni di un moderno movimento operaio, “motori” di un incontro che potrebbe avere rilievo storico non solo per il futuro dei migranti ridotti in servitù dai caporali, contro i quali lo sciopero ottiene una legge che fa del caporalato un reato penale, ma anche per i giovani occidentali che un feroce attacco ai diritti e l’imperante precarietà ricacciano indietro nel tempo, fino a condizioni da Ancien Régime, riducendoli a migranti in patria, giramondo senza speranze in dissidio insanabile con un sistema che li cancella dalla storia. Se è vero, come scrive il camerunense Segnet, che “tutte le cose belle si ottengono lottando”, non meno vero è che, nel mettere al centro del discorso la centralità del conflitto per il lavoro e la sua tutela, egli torna inconsapevolmente a un patrimonio d’esperienze sedimentate, a lotte vittoriose che produssero crescita civile e sconfitte sanguinose che ci imbarbarirono.

Il libro è prezioso per questo, perché si fa “documento” e consegna alla memoria storica un momento di lotta operaia, che colloca nell’alveo d’una tradizione fertile e d’una cultura senza le quali lo sciopero a Masseria Boncuri non avrebbe radici e futuro. Prezioso, perché la sua idea di fondo segue i fili d’una storia antica che ha ancora una bruciante attualità e, come scrive Gianluca Nigro, di Finis Terrae, guarda alla questione del “lavoro, spesso elusa dal movimento antirazzista”, [p. 77] e “costringe” Istituzioni e sindacati a “prendere atto delle proprie responsabilità di fronte ai fenomeni di degrado e sfruttamento lavorativi”: la necessità di far fronte agli esiti di leggi repressive “pensate” in funzione di interessi padronali, alla condizione disumana di un universo concentrazionario creato da politiche di classe, per produrre serbatoi di manodopera da sfruttare e all’urgenza di “recuperare […] nodi culturali e teorici dell’agire sociale e politico” [p. 79 e 93]. Questo, saldando le pratiche di lotta a una teoria antica come quella del mutualismo che non è “carità privata”, ma recupera i modi e le forme della democrazia di base e l’ethos del primo movimento operaio; un mutualismo in cui Finis Terrae vede un “contrappeso alla cultura del conflitto”, ma è poi costretta a riconoscere che “nel caso di Nardò è servito ad alimentare […] la conflittualità ” [p. 86]. Solidarietà, quindi, ma come strumento di lotta, base per la “resistenza”, pilastro teorico della cultura operaia, che assume connotati concreti con la creazione di una “cassa di resistenza” nata per ammortizzare i contraccolpi dello sciopero che “per un lavoratore migrante […] significa oggettivamente un’autoespulsione dal ciclo produttivo e la mancanza quasi immediata di risorse al suo sostentamento” [p. 87].

Questo è il libro che il lettore scoprirà. Non solo cronaca di lotta, descrizione dei processi per i quali passa e si struttura una nuova servitù, ma un’esperienza che diventa “scuola di conflitto” per tutti, migranti e volontari, offre prospettive future all’idea di riscatto e non riguarda solo lo sciopero del Salento, un gruppo di migranti, i migranti in quanto tali o i giovani volontari. Riguarda gli sfruttati e il loro scoprirsi classe al di là delle diverse condizioni di vita imposte dalla globalizzazione alle varie anime presenti nel campo. In questo senso, una divisione netta tra lavoratori africani e giovani militanti è fuorviante. Il libro, infatti, racconta il momento di un incontro tra gruppi che, su piani sfalsati, sono in balìa di logiche di profitto. I migranti, “in condizioni di estrema emarginazione sociale, sottoposti a un capillare sfruttamento sedimentato da quasi vent’anni” [p. 102] e chi giunge volontario e si percepisce come un “occidentale privilegiato” ma, catapultato in “un microcosmo, un piccolo paradigma di marginalità, […] dentro una realtà parallela – a pochi chilometri dalle più belle spiagge pugliesi gremite di turisti”, sente aprirsi “fratture interne”, acquisisce la “consapevolezza che la logica della militanza «ordinaria» è stata stravolta” [p. 103] e si trova a riflettere su un dato sconvolgente: “nessuno dei volontari delle Brigate ha una storia senza precarietà, senza il problema di fare i conti alla fine del mese”. Pur senza azzardare paragoni per ora improponibili – il futuro è tuttavia davvero buio – è così che centinaia di militanti occidentali e africani, impegnati a livelli diversi nella stessa lotta, individuano una via comune, che è tutta da esplorare e non sarà facile da percorrere, ma ha le lontane radici in una storia di lotte che ha prodotto civiltà contro una rinnovata barbarie.
Questa è la narrazione sorprendente e incredibilmente aperta al futuro che il libro ci offre: mentre un cieco sfruttamento torna a riempire di contenuti la parola solidarietà, un terribile fronte di lotte unisce giovani generazioni rapinate dei diritti nell’Europa “madre dei diritti”, in un “campo” non a caso aperto, con generazioni sfruttate da sempre. Assieme, africani e occidentali scoprono che contro di loro s’è scatenata – si sta già combattendo – “una lotta di classe che deve tornare a ripartire dal basso, dagli ultimi della scala sociale del nostro Paese”. E’ così che “tanti volontari” si sentono “mossi dalle stesse motivazioni di emancipazione dei migranti lavoratori” [p. 115] (2).

Visto da questo punto di vista, il libro è soprattutto la prova che in un mondo che va globalizzando la disperazione si può riuscire “a creare momenti di forte mobilitazione come alla Masseria”, una mobilitazione che assume il significato di quelle “azioni cardini che consentono di credere che la crisi si può combattere anche così. Forse solo così”.(3).

Un concetto ormai quasi dimenticato torna spesso nel libro e assume un significato preciso: lotta di classe. L’urto sarà violento? Migranti e volontari vorrebbero che non fosse così e il movimento non lo è stato. Le curatrici, però, sanno che troppa gente è schiacciata e lucida è amara è la loro verità: la violenza è già in campo. E quella” di un sistema economico e politico colluso, la violenza di strutture che si muovono sul piano mediatico e non sulla realtà quotidiana, la violenza delle rivendicazioni del singolo individuo a discapito della collettività, uno contro tutti, tutti contro uno, tutti contro tutti” [p. 135].
La partita non s’è chiusa a Nardò.

Note
1) Mario Desiati, La rivolta dei migranti in difesa della legalità, Repubblica, 11 marzo 2012.
2) Annamaria Sambucci, Bsa Tuscia.
3) Idem.

Uscito su “Fuoriregistro” il 7 agosto 2012.

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ImmagineIn Francia, l’Assemblea Nazionale ha approvato all’unanimità la cancellazione della parola razza dalla Costituzione. Il razzismo è perciò sparito dalla Francia? No. Non si cancella ciò che esiste solo perché si riferisce a qualcosa che non ha più nome. Il razzismo più pervasivo e pericoloso non ha costruito la sua fortuna su una categoria biologica; più semplicemente ha utilizzato il concetto di razza per imporre una costruzione sociale fondata su gerarchie. La differenza di razza, insomma, è stata e sarà se,pre l’alibi che giustifica la differenza di trattamento, la discriminazione e soprattutto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
I ricchi sono razzisti per opportunismo. i poveri lo diventano per disperazione. Per far sparire il fenomeno non basta cancellare parole. Ci vogliono giustizia sociale e un’equa distribuzione delle risorse tra classi sociali e Paesi, a livello nazionale e internazionale. Ci sono problemi di natura apparentemente morale e ideale, che si possono capire solo avendo presenti dati “volgarmente” materiali. Diciamocelo perciò chiaramente: se il razzismo riguardasse esclusivamente il campo delle caratteristiche biologiche, l’idea di rimuovere la parola razza dal linguaggio comune, una logica di sradicazione o, se si vuole, di negazione lessicale potrebbe funzionare. Anche perché la “razza”, in senso razzista, non esiste davvero
img-20180803-wa0036.jpgPer quanti sforzi abbiano fatto la genetica, l’antropologia fisica e la biologia, infatti, nessuna misurazione delle differenze complessive tra i popoli ha potuto accertare delle “distanze biologiche” tali da consentire di costruire una tabella di “valori” in grado di giustificare scientificamente una classifica tra popoli. Si è provato a definire le razze umane in virtù di criteri morfologici e di dati sierologici, ma tutti gli studi così impostati hanno fallito perché mille altri criteri provano che negli esseri umani esiste una fortissima, innegabile e comunanza di caratteristiche. Le differenze tra gruppi umani sono soprattutto “storiche” – adattamento al clima, isolamento, migrazione e così via – e non consentono di definire tipi umani razzialmente separati.
La razza, in realtà è solo uno strumento pratico di carattere “descrittivo” o, se si vuole, “narrativo”, come dimostra il razzismo interno ai popoli. Il leghismo padano, per esempio, si è inventato due razze che non esistono. Cancellare dal vocabolario la parola non serve perciò praticamente a nulla, perché esiste storicamente – ed è quello più autentico – un razzismo senza razza. E’ il razzismo più diffuso, quello autentico, che serve per coprire interessi materiali di classi dominanti e privilegi di classe. Se il Mezzogiorno, spolpato vivo, non può essere più cannibalizzato, ecco che Bossi s’inventa la razza padana e una politica di decolonizzazione che ha naturalmente bisogno di creare una “razza meridionale”.
Napoli e i napoletani, che da un punto di vista razziale non esistono e sono uno stupendo esempio di mescolanza di semi e di idee, possono talora subire il razzismo e qualche volta vederlo attecchire anche nei loro vicoli, ma la città e la sua gente non ci credono mai per davvero e non a caso per il popolo napoletano Hitler fu il “furiere”. La ferocia degli ultimi governi – quella del ministro Minniti anzitutto, che di Salvini è stato maestro – seguendo un progetto preciso, privilegiando interessi di parte – i ricchi prima dei poveri, il Nord prima del Sud e l’euro prima dei popoli e per ultimi i dannati della terra, gli immigrati – ha potuto e può provocare talora episodi di violenza razziale, ma la gente qui è vaccinata e prima o poi si ribellano persino le pietre delle strade.
I napoletani, che sono anche greci, latini e levantini, che hanno visto persino i cosacchi accampati a Piazza Mercato e non hanno mai consentito che nella loro città ci fosse un tribunale dell’Inquisizione, istintivamente diffidano di un razzismo senza razza. Accade ciò che si è visto ieri, quando su povere magliette di gente comune si è letta la sfida beffarda, orgoglioso e tagliente: “Nel mio quartiere nessuno è straniero”.
Non è sogno e nmmeno speranza, è certezza: da Napoli, dove per la prima volta i nazisti si arresero a un popolo insorto, partirà il riscatto morale e i lanzichenecchi gialloverdi morderanno la polvere.

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