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Archive for aprile 2012

All’alba di un infangato 25 aprile il rifiuto apposto dall’Università Orientale di Napoli alla richiesta degli studenti di onorare con una targa Vittorio Arrigoni, merita una riflessione.

Umano sei, non giusto“, scriveva, ribellandosi al potere che si fingeva umano, un animo mite come quello di Parini nel 1775. Ce l’aveva con l’aristocrazia che, sorda e cieca, non ascoltò né lui né altri. Il poeta non era un rivoluzionario, ma i tempi in cui viveva preparavano la rivoluzione e nessuno poté sottrarsi al corso della storia. Non fu la ferocia di chi chiedeva, ma l’ignobile insensibilità di quanti avrebbero dovuto ascoltare a decidere della sorte di chi pensava che il potere imbriglia la volontà dei popoli sicché il mondo non cambia. Cambiò, il mondo, cambiò com’era chiaro che sarebbe accaduto e teste a migliaia caddero sui patiboli, nelle piazze e sui campi di battaglia. Non lascio mai ai sogni e alle feritli utopie più spazio di quanto non sembri giusto alla mia ragione e alla mia onestà intellettuale e, quindi, non sosterrò che il cambiamento fu definitivo e la violenza produsse il regno della giustizia sociale. E’ una cosa alla quale l’orgogliosa – o, se volete, superba – difesa della mia indipendenza di pensiero mi impedisce di credere fino in fondo. Cambiò, il mondo, però, e fu migliore di quello precedente. Non me lo nascondo: non c’è certezza che il gioco delle forze economiche e le debolezze dell’umano sentire rendano duraturo e intangibile un progresso, e nel corso del tempo vichianamente credo che le conquiste della civiltà possano cedere il passo alla barbarie in un succedersi di primavere e inverni della storia; così andrà, finché uomini vivranno e mi basta la consapevolezza – ce l’ho, ma non saprei dimostrare che ho ragione – che senza lottare si perde la sola vera ricchezza nostra, l’umanità, e perciò non si vive. Per favore, fatela la vostra battaglia e non pensate che sia piccola. Non è piccola cosa quella per cui balzano in luce meridiana la rozzezza e l’insensibilità di chi governa un’istituzione millenaria come l’università. L’univeritas, che da millenni, sia pure tra mille contraddizioni, è fabbrica di pensiero critico e immagina un uomo capace di seguire le sue inclinazioni con la consapevolezza che il presente è il passato di chi ci seguirà ed ha, perciò, natura squisitamente storica. Piaccia o no a chi siede nel Senato accademico, la trincea in cui si sono ridotti rinnega la funzione per cui esistono. Arrigoni e il suo messaggio non parlano evidentemente al popolo militante, ma invitano tutti a una riflessione critica sulla storia e a una così naturale inclinazione dell’uomo che, volendola fuori dalle sue mura, l’«universitas» contraddice la sua ragion d’essere: fare del sapere un patrimonio pubblico comune, ricordando che ogni scienza è tale, solo se ricorda d’essere umana. Il vostro Senato accademico, chiuso nell’ostinato silenzio di chi non ha altre ragioni da opporre a chi gli chiede ascolto, se non quelle del potere, è fermo a una concezione del mondo che nacque a Trento con la Controriforma e impose l’abiura a Galilei, torturò e mise a morte col fuoco Giordano Bruno e creò l’indice dei libri proibiti. Eccolo il vostro reato: avete portato un libro dannato al rogo nelle vostre aule. Arrigoni, da vivo, era un militante, oggi è un dito puntato contro il potere. E’ vita del pensiero contro la morte per “ragion di Stato” e voi siete colpevoli di  lesa maestà. La targa ad Arrigoni è il libero pensiero che pretende spazio. Siatene orgogliosi e non arretrate. Se il Senato Accademico dissente, abbia l’animo di lasciare testimonianza di sé: consenta che la targa stia dov’è e l’affianchi con un’altra che manifesti le ragioni della contrarietà. Giudicherà la storia se a un cittadino del mondo l’università possa negare la cittadinanza.

La crisi del nostro mondo non è tragica per ragioni semplicemente economiche, come ci vogliono far credere i cialtroni che l’hanno provocata e ora intendono farla pagare alla povera gente. E’ una crisi assai più acuta, radicale e pericolosa: è crisi culturale. Questa scelta dell’università ne è la prova più tangibile e dolorosa. Quando il perno di una civiltà si riduce a riconoscersi nelle innovazioni del mondo economico e pretende di formare disciplinati soldati del capitale, invece che libere coscienze, non c’è altra via che la lotta. Siamo tornati molto più indietro di Parini e del suo 1775. “Umano sei non giusto”, egli scriveva allora, ma non è umano oltre che ingiusto quello che ci accade alla vigilia di un 25 aprile infangato. Tornano in mente i versi desolati di chi ha visto il volto della barbarie: “Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento“.

Il tempo della lotta non ha limiti e confini. Vive anche oggi e prima o poi trionfa. Strapperemo ai salici le cetre. S’è promesso per voto.

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Per la scuola è l’ultimo rovello: qualità. Chi la misura? Come si certifica? Quali sono i parametri che la definiscono? Le risposte naturalmente “piovono“, le ricette sono numerose ma in una sintesi tutto sommato corretta quella del mondo della scuola, che nessuno purtroppo sente il bisogno di interrogare, potrebbe essere questa: “l’obiettivo fondamentale di un sistema formativo di qualità sono studenti dei quali si possa verificare l’antico principio latino: ‘mens sana in corpore sano’. Studenti che abbiano sviluppato e potenziato al meglio le capacità individuali, siano pronti a farne patrimonio del gruppo classe e mostrino preparazione solida, autonomia operativa, forte ed equilibrato senso critico“.
Si potrebbe limare e approfondire, ma è allo stesso tempo una definizione seria e un’ipotesi di lavoro per il governo. Alla politica e ai Soloni che, assecondando i capricci del mercato, sputano sentenze da colonne di giornali, salotti televisivi, pulpiti e banchi di governo, la scuola chiederebbe, se potesse, i mezzi necessari per avere docenti ben preparati, puntualmente aggiornati, in grado di affiancare gli studenti non per condizionarli, ma per stimolarli. In questa sorta di eden, in cui la scuola inciderebbe sul territorio senza esserne prigioniera, un insegnante degno di questo nome non solo non avrebbe ragione di sottrarsi alla valutazione, ma anzi la chiederebbe per poterne fare arma di battaglia sindacale e domandare quella “retribuzione europea“, cui accennò Tullio De Mauro nella sua breve permanenza a viale Trastevere. Tecnici e politici qui, però, fanno i sordi e il perché è facile capirlo: se la scuola potesse formare giovani colti, in possesso di efficaci strumenti critici il rischio sarebbe chiaro: torneremmo a giurare nella Sala della pallacorda.
Il sospetto è fondato. Si fa un gran parlare di qualità, ma questa classe dirigente ha un sacro timore di una scuola da cui gli alunni, migliorando se stessi nella misura consentita da attitudini e capacità di apprendimento, escano culturalmente forti, consapevoli sul terreno sociale e pronti ad inserirsi nella società con le idee chiare di chi conosce il valore della partecipazione e perciò sa vivere e possiede un metodo che gli consente di vivere imparando.
La “qualità” che sta a cuore a Monti, Profumo e Fornero è di stampo aziendale e non c’entra nulla con tutto questo. Chi vuole capire che sia vada a cercarla in quel capolavoro che risponde al nome di ISO-9001, la parte che più ci riguarda di un “vademecum” che in campo internazionale dà l’esatta misura di quale sia per chi ci governa e per la “grande civiltà occidentale” la filosofia che sta a monte di una struttura di qualità e di quali strumenti occorrano per garantirne la “governance”.
La sigla non c’entra nulla con la formazione culturale dei giovani, ma fa bella mostra di sé sul sito della Bocconi – che è come dire Palazzo Chigi e governo d’Italia – e si riferisce, di fatto, a norme e strategie elaborate dall’Organizzazione internazionale per la normazione, le quali puntano a migliorare l’efficacia e l’efficienza nella realizzazione e nella vendita di un prodotto per assecondare i gusti del cliente e migliorare le vendite. Non a caso, però, una scuola che oggi voglia contare qualcosa sul mercato della formazione non può farne a meno.
Da buoni ragionieri, per occuparsi di formazione, i tecnici fautori della qualità aziendale, fanno i loro conti e il bollino qualità nasce dalla somma corretta di montagne di registri, schede, carte piene zeppe di progetti, indicatori e relazioni. Le ore effettivamente dedicate all’insegnamento si contano ormai in poche decine all’anno e sono le meno gettonate. Di continuità didattica non si parla nemmeno e mentre sale di anno in anno il numero di alunni per classe, diminuiscono le risorse. Alla fine, però, fa fede il documento scritto: di scuola se n’è fatta poca, ma s’è progettato quello che voleva il cliente e questo per lui s’è fatto con sicuro profitto. Letto, approvato e sottoscritto.
La qualità di Monti e Profumo è una delle tragiche barzellette che hanno ammazzato il Paese.

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Il questionario in rete fino al 24 aprile. Tempo scaduto, quindi, e imbroglio probabilmente riuscito. Lanciamo l’allarme e se si può pariamo il colpo. Sull’abolizione del valore legale del titolo di studio un Paese gravemente ferito dalla parità di bilancio diventata vincolo costituzionale si gioca quanto resta del futuro. Prima di por mano alla tastiera, perciò, meglio esaminare i criteri che lo ispirano e i fini che si propone: la neutralità dello strumento e la banalità dei temi coprono l’ambiguità delle domande e le risposte preconfezionate. Il profilo è basso: in ombra gli aspetti tecnici e ciò che raccomanda l’esperienza, si cercano opinioni generiche per sorprendere la buona fede, indurre a giudizi negativi e giungere a un “no” generalizzato, figlio naturale dell’impostazione dei quesiti.
Come giudicate la necessità di possedere uno specifico titolo di studio per poter esercitare una determinata professione?”. E’ il primo quesito. Nulla di più asettico, se rispondendo non si dovesse associare la risposta a una spiegazione che è tutta del Ministero. Chi giudica positivamente il valore legale del titolo di studio, infatti, non ha scelta. Lo fa “perché il possesso di un titolo specifico garantisce la qualità della prestazione resa dal professionista, che il cliente potrebbe non essere in grado di verificare da solo“. Tranne il ministro e i suoi collaboratori, nessuno sa perché un malato che si rivolge al servizio sanitario si trasformi fatalmente in un “cliente” e non sia, come pareva un tempo, un paziente, un cittadino bisognoso di aiuto che nella quasi totalità dei casi non ha strumenti utili a valutare il medico. Come dubitarne? In un mondo in cui chi non ha titoli legalmente riconiscuti esercita la professione medica, il cliente rischia di finire in mano a ciarlatani. Ciò, senza badare a questioni di reddito e all’evidente probabilità che  in preda a sciamani e stregoni pericolosi ma poco costosi finirebbero i più sventurati; la scienza vera sarebbe sempre più riservata ai grandi patrimoni. Certo, il Ministero offre la risposta alternativa: “Dipende dal tipo di professione“. Una opzione, però, che impedisce il giudizio pienamente positivo e a bene vedere finisce col rafforzare quantitativamente e qualitativamente la risposta negativa. Per dire di no, infatti, ci sono due vie, mentre una sola e molto ambigua è quella riservata ai sì. Non bastasse, è impossibile negare il valore legale del titolo con un giudizio secco; è d’obbligo, infatti, sposare la tesi “suggerita” dal Ministero: “la necessità di possedere uno specifico titolo di studio impedisce che soggetti con competenze acquisite attraverso l’esperienza pratica e/o attraverso studi personali possano esercitare una determinata professione“. Una tesi falsa e tendenziosa che presuppone strumentali e inesistenti conflitti tra chi possiede una laurea e chi non è laureato. Non è vero, infatti, che, per fare un esempio, commercialisti e ingegneri rubino il lavoro a ragionieri e geometri. E’ vero il contrario: definiti i campi d’azione, chi pensa di possedere le competenze, non ha che da laurearsi. Lo farà in men che non si dica e metterà a frutto il riconoscimento. Non fosse così, avremmo in giro più venditori di fumo del solito e correremmo tutti moltiplicati e gravissimi rischi.
Il tentativo di creare confusione caratterizza il secondo quesito, per il quale la necessità del titolo di studio riconosciuto per l’ammissione all’esame di abilitazione è “garanzia di preparazione adeguata e consente di selezionare, fin da subito, gli ammessi all’esame di abilitazione” oppure è un dato negativo, “perché il superamento dell’esame di abilitazione è sufficiente a dimostrare il possesso di adeguate competenze“. In modo persino malaccorto, domanda e risposte sembrano affermare che chi possiede il titolo di studio supera automaticamente l’esame di abilitazione e confonde parole che hanno significato ben diversi tra loro: ammissione e superamento. Anche qui lo scopo è chiaro: sfruttare la confusione e ottenere un no che porti acqua all’abolizione voluta dal Ministero. Su questa via indirizzano spudoratamente i quesiti 3 e 4 che mirano a stabilire se esistono “professioni non regolamentate, per le quali dovrebbe essere richiesto uno specifico titolo di studio, oggi non necessario” e altre, per cui “il titolo di studio richiesto sia eccessivo rispetto al tipo di prestazione che si è chiamati a svolgere“. In realtà i quesiti fanno una gran confusione tra dignità e qualità del lavoro, che dipendono da tutto, meno che dalla loro regolamentazione. Il lavoro di un buon operaio, infatti, appare a tutti più rispettabile di quello di un pessimo chirurgo e nessuno distingue tra lavoratori in ragione della regolamentazione del loro lavoro. I lavori hanno pari dignità – tutti sono, infatti, indispensabili al buon andamento della vita sociale – e ciò che fa la differenza è un codice di comportamento: l’ethos della responsabilità. Certo, la qualità d’un docente e l’esito del suo lavoro emergono in tempi lunghi, mentre esistono mestieri e professioni che consentono giudizi immediati. Indiscutibile rimane, però, il “principio di “garanzia“, vale a dire l’onesta e neutrale certificazione della preparazione, affidata però a un giudice unico, neutrale e uguale per tutti, che non valuta l’operato a valle, ma verifica l’attitudine a monte. Di questo, però, nel questionario del prof. Profumo non si trova traccia, forse perché non se ne trova nel mondo da cui provengono il ministro e buona parte del governo tecnico e “meritocratico“: l’università in cui la parrocchia consacra santi e beati e li regala all’adorazione dei credenti, dopo aver scoperto il gene che rende ereditarie qualità e tendenze, come fosse questione di sangue. Non a caso i “baroni” sono scienziati da generazioni.
Siamo alla postdemocrazia. Lo si sente dire sempre più spesso con accademica improntitudine e nessuno si scandalizza se per il pubblico impiego si fa eccezione alla regola e c’è un quesito a parte: “ritenete necessario il possesso di uno specifico titolo di studio per l’accesso al pubblico impiego?”. Se lo Stato del terzo millennio dovrà essere un feudo della finanza, la domanda ha un senso. In una repubblica parlamentare, la risposta sarebbe certamente una: “sì, perché il possesso di uno specifico titolo di studio garantisce professionalità e competenza da parte di impiegati, funzionari e dirigenti pubblici ed evita un’eccessiva discrezionalità nella loro assunzione“. Le cose però non stanno così. Mentre l’abolizione dell’articolo 18 spiana la via ai licenziamenti nel pubblico impiego, Profumo, che ai proclami dei venditori di tappeti, preferisce il piffero di chi incanta serpenti, suggerisce la sua risposta: “no, perché il titolo di studio può essere poco significativo in rapporto alle funzioni da svolgere e il possesso di adeguate competenze dovrebbe essere accertato esclusivamente in sede di svolgimento delle prove concorsuali“. Occorrono servi da sfruttare e manovalanza da ricattare. Basta con studi seri e i cittadini veri. Per la postdemocrazia un po’ di finto nuovo e tutto il vecchio del mondo: porte aperte al “bestiame votante“.

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Trecentosessantacinque giorni. Un anno, quattro stagioni, una manciata di settimane. Un secolo o un istante. Il tempo non si misura sui calendari e chi ha davvero vissuto non muore mai. Non c’è sole che tramonti o buio di una notte che spenga le grandi “utopie”: scrivono la storia. Per quanto la rabbia disumana e impotente del potere sappia colpire senza pietà, nessuno può cancellare il senso della solidarietà, la passione civile, la scelta serena di chi mette in gioco la vita per un ideale di civiltà e di giustizia sociale.

Un anno fa, il 15 di un aprile uguale a tanti, rapito nella notte, Vittorio Arrigoni, giornalista e militante schierato al fianco del popolo palestinese, fu ucciso nella Striscia di Gaza. La mano che pensava di cancellarlo così dalla lotta per un mondo migliore, lo rese invece veramente eterno. “Restiamo umani“, ripeteva Vittorio, ed è questa l’eredità che lascia al mondo: qualcosa che non può morire come non muore la giustizia, nonostante si tenti di imbrigliarla.

Non c’è arma che uccida un’idea e mai come oggi, viva e dolente, la causa della Palestina unisce chi lotta contro l’ingiustizia e la violenza. Mai come oggi appare chiaro che chi pensava di uccidere Vittorio Arrigoni ha rafforzato la volontà di quanti lottano per i diritti e la giustizia sociale e invano si sono fatti altri morti e altro sangue s’è versato. Chi guarda lontano non fa fatica a vederlo: più cresce, rabbiosa, la morsa del potere, più chiara appare la sua debolezza. Non c’è forza armata, in grado di piegare la forza della ragione. E’ legge della storia e non servirà a nulla trasformare il pianeta in un campo di battaglia.
Il mondo resta umano e non c’è modo di farlo cambiare.

Il nostro ricordo è il ricordo di molti, in questi giorni. Perchè certe parole, una volta ascoltate, una volta vissute, non ti lasciano più.
“Rimanere immobili, in silenzio, significa sostenere il genocidio in corso. Urlate la vostra indignazione in ogni capitale del mondo «civile», in ogni città, in ogni piazza, sovrastate le nostre urla di dolore e terrore. C’è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto”.

Da “Fuoriegistro” 14 aprile 2012

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Me ne accorgevo ora che aveva tirato fuori la verità e l’aria misteriosa degli ultimi tempi era sparita: coi suoi indifendibili quarant’anni, i capelli ormai tutti di un bianco opaco, molto vicino al grigio e le sue mille rughe, Francesco sembrava molto più vecchio di me. Il solo specchio dell’animo è il volto, pensai per un attimo, poi, superato lo smarrimento della sorpresa aprii gli argini alla rabbia.
Che senso ha?, urlai, mentre il telefono ostinato riprendeva a suonare e io, più ostinato, continuavo a non rispondere. Lui, però, stava zitto e io ricominciai:
Mi dici che senso ha? Non verrete più qui a fare consulenza. Né tu, né Franco, né Ciro. Nessuno. Tutti, mi dici, vi aspettavate un rappresentante di zona delle vostre parti. Ma che storia è mai questa, insinuai, cos’è, un campanilismo di tipo nuovo, o una spartizione di posti che non vi è riuscita?
Il gesto plateale della mano che lo mandava a quel paese era più disperato ed eloquente della voce che tremava. Per quanto mettessi nelle domande una furia astiosa, lui subiva con un distacco che mi pareva sprezzante e io sentivo con sgomento che avevo solo una gran voglia di mettermi a piangere. In quegli anni al sindacato, Francesco era stato un compagno leale, ormai però una guerra per bande, dolorosa, ma senza quartiere, ci vedeva nemici nel nostro stesso campo e il passato non contava più. Non serviva parlare, mancava la voglia di capire e contava ferirsi. Era quella la via più facile e non mi aspettavo perciò spiegazioni, quando replicò:
I tuoi grandi principi. A quello badi tu, l’uomo tutto di un pezzo. I principi. La vita, però, è altro, la vita è compromesso e anche fango. Tu lo sai, ma non le dai tempo…
Lascia stare, che è meglio, lo interruppi. Il tempo della vita è una storia incompiuta.
Mi fermai un attimo. Francesco pareva lontano e quando ripresi, parlavo soprattutto a me stesso:
Volente o nolente ti ci trovi e reciti la tua parte, però più avanti vai, più ti accorgi che sul copione il finale non c’è e infine, mentre provi inutilmente a capire se sei entrato nel ruolo, te ne vai, scivoli via dalla scena ma, come se nulla fosse accaduto, il sipario non cala, la rappresentazione prosegue e si trova subito un rimpiazzo. E’ lui il futuro che hai costruito e non potrai vedere, lui, il rimpiazzo che di te non sa niente, come niente, in fondo, tu sai di lui. Il tempo della vita, Francesco, è solo un intervallo incerto tra le nostre due sole certezze, uno spazio che riempi di te, ma è sempre pronto al vuoto.
Scosse la testa, ma rimase zitto. Dopo la rabbia, sopraggiungeva la rassegnazione, mentre una lama di sole anemico che tagliava in due la scrivania, pareva segnare fisicamente il confine che ormai ci separava. Il terremoto c’era stato, ma nella stanza tutto era rimasto com’era, anche se per me nulla aveva più senso e mi guardavo attorno spaesato: la pila di vecchie riviste ammonticchiate lungo le pareti, i manifesti che ricordavano un tempo nel quale il conflitto aveva ancora cittadinanza tra noi, lo striscione delle grandi occasioni, piegato alla bell’e meglio dietro il vecchio armadietto di legno scheggiato e l’annuncio di uno sciopero generale che ci aveva uniti per l’ultima illusione. I ricordi esaltanti non bastarono a curare le ferite e la mia domanda suonò come una provocazione:
Te la ricordi, tu, quella lotta? – gli chiesi, rompendo il silenzio che s’era fatto pesante e indicai col dito il manifesto col suo slogan, leggendo con enfasi:
Giù le mani dalle pensioni!
Giù le mani, certo, e il governo finì a gambe all’aria, fece Francesco pronto, ma svogliato, perché sapeva che la vicenda non era finita lì. Sapeva tutto, Francesco, e il solco che gli si approfondì tra gli occhi alla radice del naso, pareva una richiesta di armistizio.
Sì, il governo finì a gambe all’aria, replicai, ma poco dopo, il ministro fece una capriola, cambiò bandiera, passò dalla nostra parte e la guerra finì. Questo te lo ricordi?
Non era giusto trattarlo così. Contro il ministro prestato al governo dalla Banca d’Italia, contro la sua “modernizzazione” che sapeva di antico e puzzava di imbroglio, perché cancellava diritti e negava tutele, il sindacato aveva reagito come un sol uomo e s’era mosso con incredibile sincronia. Io e Francesco, il consulente e il dirigente, eravamo partiti all’attacco a corpo morto, senza fermarci neanche per tirare il fiato. Una pazzia esaltante. Lui che mi spiegava il calcolo delle pensioni, io che imparavo a muovermi abilmente tra “montanti“, coefficienti e rendimenti e a poco a poco disegnavo nella mia mente ogni giorno più chiara la “scaletta” per le assemblee. A fare da perno, il percorso storico che ci aveva condotti dove eravamo e più il tempo passava, più sentivo la forza delle nostre ragioni e meno temevo le ragioni della forza che ci opponevano i padroni. Vennero così le notti in bianco, i giorni di fuoco nei posti di lavoro e una certezza inattaccabile: era in gioco il futuro e si faceva sul serio.
Nelle assemblee, trovavi parole che andavano al cuore, esclamò d’un tratto Francesco, che s’era evidentemente perso come me sul filo dei ricordi. Mai visto tante adesioni tra i colleghi. Ana, la mia amica rumena, una volta mi disse commossa: mi ha fatto ricordare i giorni della rivoluzione.
Ci credevo. Ci credevamo tutti, replicai, mentre il telefono tornava a suonare metodico e petulante, ma non rispondevo. Ci credevo e non ricordavo più gli scontri per gli elenchi degli iscritti che non avevo mai potuto aggiornare, le mezze parole, gli accordi sottobanco già firmati, mentre si tenevano in piedi lotte ormai chiuse e s’illudeva la gente che non poteva immaginare.
Guardai Francesco. Per quanto amara, una questione personale io e lui l’avremmo superata; dietro il nostro dissenso, però, c’erano problemi ben più complessi di beghe personali. La verità era che per alcuni anni, senza nemmeno capire bene quello che accadeva, ci eravamo trovati a vivere uno di quei rari momenti in cui il treno della storia prende a correre a tutta velocità e non sai dove ti porti. Anche a saperlo, del resto, che fare? Ammesso che ognuno pesi davvero quanto può su quello che gli accade attorno, noi tutt’al più disegniamo un futuro. Il presente no, perché fa i conti col passato; il suo treno percorre, perciò, binari che altri hanno costruito ed è raro e difficile che qualcuno riesca ad azionare uno scambio e lo mandi in una diversa direzione. Quando finalmente la corsa terminò, il mondo era profondamente cambiato e, a guardarsi attorno, pareva di vedere la realtà attraverso un cannocchiale messo alla rovescia: invece di diventare più grandi, le cose s’erano rimpicciolite ed erano lontane all’orizzonte. Per inerzia, continuammo a definirci riformisti e rivoluzionari, ma la stagione delle riforme era chiusa da un pezzo e la rivoluzione era ovunque battuta. Sopravvivevamo a noi stessi, testimoni inconsapevoli o impotenti dei giochi meschini di un potere pervasivo che allungava le sue ombre fin dentro le nostre stanze e dietro il mito dell’organizzazione che “sa sempre quel che fa” celava le ambizioni e gli affari di opportunisti e mercenari. Come accade assai spesso di fronte al dolore, ci fu chi mise la fede avanti alla ragione o in un eccesso di disciplina non volle vedere e si ritrovò cieco. A torto o a ragione ormai conta davvero poco, dopo la corsa del treno, l’onesto e leale Francesco era diventato una sorta di soldato di Cristo, un gesuita fedele al suo vangelo, rispettoso di tutti i misteri gloriosi per i quali un credente pensa di vedere la luce del sole là dove regna il buio più profondo e santifica nella sua fede ciò che, di norma, gli appare inaccettabile in quella degli altri. Nella sua testa quadrata di militante addestrato ad “obbedir tacendo e tacendo morir“, l’appartenenza, sposa del “realismo“, aveva generato un figlio malato e l’aveva battezzato col nome più lungo e pericoloso del mondo: “nonsipotevafarediversamente“. Qui le nostre strade s’erano inevitabilmente separate, ma non c’era tra noi chi avesse ragione o torto: è che il dubbio e la certezza non conoscono accordi se l’uno vuole tutto e l’altra non sa cedere nulla. Forse, se avessi abbassato la guardia, se solo mi fossi deciso a rispondere al telefono che suonava e non si arrendeva, le cose tra noi avrebbero preso una piega diversa. Al telefono, però, non risposi e invece, come per chiudere i conti, tornai a far domande:
Sai cos’era l’Icme?, gli domandai a bruciapelo e mi guardò stupito.
No, non lo so e non capisco che c’entri con quello che ti ho detto.
C’entra, risposi. Vedrai che c’entra. E’ stato subito dopo lo sciopero per le pensioni. C’era una riunione confederale nei locali della Mostra. Una di quelle cose che non si sa a che servano, non hanno l’onore della cronaca, perciò non interessano nessuno, non richiamano grandi nomi da Roma, non c’è vetrina e chi può non ci va. Mi fu detto di rappresentare la scuola e rimasi incastrato.
Francesco dava ormai segni d’impazienza e il cicalare prolungato del telefono era insopportabile.
Diavolo, perché non rispondi?, mi chiese.
Perché no, risposi indisponente, senza perdere il filo. Lui ammutolì e io ricominciai.
Ci andai, rassegnato al tran tran e deciso a far atto di presenza. Arrivai che ormai avevano già cominciato e. il segretario regionale dei metalmeccanici provava a infilare il sindacato in un ambiguo progetto sull’utilizzazione delle aree industriali dismesse. Gli operai ce li trovammo addosso d’improvviso. Sulle tute, in petto, si leggeva chiaro il nome della fabbrica, più chiara, sui loro volti scuri, si leggeva una rabbia che faceva paura. Strappato il microfono all’oratore, pallido come uno straccio, uno dei lavoratori cominciò a parlare. Ufficialmente, spiegò, l’Icme era una fabbrica chiusa da un anno. L’azienda sosteneva che non aveva più mercato, ma loro, gli operai, l’avevano occupata e da un anno tiravano avanti con le scorte di magazzino. Noi produciamo e vendiamo, il mercato c’è, urlava con forza disperata l’operaio, E’ il padrone che se ne va Dio sa dove a sfruttare mano d’opera e nessuno fa nulla. Nessuno, nemmeno il sindacato. Eravamo praticamente prigionieri. Presero per il collo Vassallo, il segretario che stava parlando e lui, livido e pauroso promise mari e monti: “Andremo a Roma assieme, compagni. Il sindacato c’è. Vedrete che c’è. Ci andremo e non molleremo finché non si trova una soluzione”. Com’erano venuti, i lavoratori sparirono. Appena si chiuse la porta, Vassallo si riprese il microfono e urlò: “Estremisti del cazzo! Compagni, per questi dell’Icme s’è fatto quel che si poteva, ma è già tutto deciso e il partito è d’accordo. Sono problemi delicati, l’Europa ci impone quote di produzione”. I presenti non trovarono nulla da obiettare. Tutti erano sollevati per il pericolo scampato e uno solo, non ricordo, chi, urlò dall’ultima fila: “E allora perché mentire? Perché promettere Roma e una soluzione? Che c’entra il partito? Noi che ci stiamo a fare qui in tanti, se non serviamo a niente?”. Vassallo non si scompose. “Voi siete dirigenti, replicò. Basta con inutili estremismi”. Attorno a lui il silenzio era complice e indifferente. Il pericolo era lontano e quelli dell’Icme irrimediabilmente condannati. Ora l’hai capito che c’entra l’Icme? Se continua così, caro Francesco, rappresenteremo solo noi stessi. E temo che non ci sia più tempo.
Francesco m’avrebbe certamente esposto i suoi dogmi sulla trattativa con la prevedibile conclusione sul caso classico per cui qualcosa perdi e qualcosa guadagni, ma non ne ebbe il tempo. Il telefono riprese la sua danza e stavolta risposi:
Località Soffritti? – domandai sorpreso. Non so dove sia… Ai Camaldoli, vicino al Monastero? Sì, è nella mia zona, preside, ma se bruciano copertoni e sono minacciosi, meglio i carabinieri che il sindacato… No? C’entra il sindacato? D’accordo, vengo. Il tempo di arrivare, ma sono chilometri, ora sto a Pozzuoli… Certo che vengo, preside, prometto.
Ma dove vai? Che c’entri tu con gli incidenti di piazza?, fece Francesco stupito.
E’ una scuola e se ho capito bene c’è un problema sindacale…
Non è compito tuo, vada la polizia, poi il sindacato vedrà!
Uscii senza rispondergli. Ero maledettamente stanco. Da tanto, troppo tempo giravo a vuoto e non concludevo nulla. A Francesco, però, non l’avrei mai detto, non lo dicevo nemmeno a me stesso, però lo capivo: la stanchezza dell’animo ti chiede forze che non pensi di avere. Le trovi, è vero, ma è perché lo sai: se ti fermi, ti perdi. Era scritto, tuttavia, e anche questo sapevo. Prima o poi mi sarei fermato. E perciò mi sarei perso.

Uscito su “Fuoriregistro” l’11 aprile 2012

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D’Europa Unita parla ogni giornale
e ogni giorno sproloquia il Quirinale:
da banche uniti e comuni radici,
liberi sono i popoli e felici.

Muore intanto però democrazia
di grave ed incurabile anemia
e l’Ellade madre di civiltà
la fame soffre e non trova pietà.

D’Europa Unita parla ogni giornale,
l’età dell’oro pare al Quirinale,
però nessuno ancora ci ha spiegato
perché l’Unione i Greci ha massacrato.

Allarme povertà in Grecia

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Sull’antichissimo scoglio, la bellissima Partenope è scandalizzata: il bello e il  cattivo tempo in città lo fa ormai un generale di quelli “senza se e senza ma“, un Joe Petrosino locale che lancia la sua sfida celodurista:

badate a quello che fate
brutte facce ‘e marucchino
è cominciato nu repulisti fino
Joe Petrosino vi faci trimari’…

Cambiano i sindaci, mutano i generali, a Napoli, si sa, la povera gente ha sempre due anime e due volti: prima delle elezioni è un’importate riserva di caccia elettorale e fioccano promesse marinaie. Finita la caccia, cambia la scena, si tornaalla vita di smepre e la miseria è solo un problema d’ordine pubblico. Dopo blitz e retate, per immigrati, ambulanti, senzatetto, disoccupati e prostitute, non bastano ormai manette e manganelli. A Poggioreale il carcere è stracolmo e la Procura della Repubblica lavora a tempo pieno. Il Cardinale Sepe, molto preoccupato, ha lanciato l’allarme ai fedeli in un volantino stampato alla macchia: a rischio stavolta è Gesù Cristo! Attivati i canali segreti della potente burocrazia vaticana, tra parrocchie, centri sociali e quartieri malfamati c’è un prudente via vai d’angeli e diavoli e tutti consigliano prudenza al Paradiso. Con parole assai franche, come si addice a un santo pastore d’anime, il cardinale è stato chiaro e netto: meglio che Gesù Cristo quest’anno se ne stia dov’è o, quantomeno, passi per un buon barbiere e si faccia poi prestare un doppiopetto. In ogni caso, è meglio che sappia: se mette piede a Toledo, risorto sì, ma combinato come sta sulla croce, in compagnia di quella gentildonna della Maddalena, beh, non ci sono dubbi, Petrosino e la banda di camerati rossonero che governano la città gli faranno passare la resurrezione in gattabuia. Si sa, la legge è legge e di mestiere, a Napoli, il padreterno ormai fa il generale.

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Oggi, prima ancora che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvi formalmente il disegno di legge sul mercato del lavoro, nasce in Italia un nuovo fascismo. Segnate la data e ricordatela: 4 aprile 2012. Oggi, però, per quello che mi riguarda, nasce anche una convinzione ferma e definitiva: li abbiamo cacciati una volta, lo faremo di nuovo.

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Si potrebbe titolare “La polemica sull’Invalsi continua”, mentre l’università si accende di speculari timori per i connotati dell’Anvur, e non sono in pochi a chiedersi sconcertati se non sia tornata la Gelmini. I devoti di Monti e dell’Italia “nuova” si scandalizzeranno, ma le cose stanno così e, a ragionare laicamente, c’è poco da far festa: va, se possibile, anche peggio e mentre i ripetuti segnali di continuità fanno suonare campanelli d’allarme, il dato più inquietante è che stavolta alla barra del timone c’è uno dei grandi “tecnici” per cui si meditano processioni di ringraziamento e s’è avviato, con i doverosi caratteri dell’urgenza, il processo di santificazione del già beato Napolitano.
Che l’articolo 51 del “decreto semplificazioni” firmato dai tecnici sia, in realtà, il solito “decreto falsificazioni” di marca politica, è facile capire. Si pensava, però, che, se non altro, si fosse riconosciuto un confine che nessuno mai più, tecnico o politico, avrebbe osato varcare: il confine della decenza, che il governo “salva Italia”, in linea con l’armata Brancaleone passata da Berlusconi a Monti ha invece violato. E’ indecente, infatti, che, dopo le battaglie politiche sulla teoria e la pratica della valutazione, il governo “tecnico” abbia sistemato all’Istruzione la sottosegretaria Ugolini, giunta al Ministero dai vertici di quell’Invalsi, imposto poi come attività “ordinaria” alle Istituzioni scolastiche. Mai come oggi è stato così chiaro: a ispirare Profumo, che sa di scuola molto meno di un qualunque cittadino di media cultura, c’è con tutta evidenza la filosofia della vituperata ma trionfante Gelmini. A nulla è servito che appena un anno fa la Magistratura abbia intimato alla politica di non imporre quiz ai docenti. A nulla purtroppo serve ormai appellarsi alla Costituzione, che invano sancisce la libertà di insegnamento e l’autonomia delle Istituzioni scolastiche. Nel clima di una negata ma operante “sospensione della democrazia”, il governo “tecnico” agisce ormai come se l’Italia fosse davvero la “repubblica dei Presidenti”.
C’è una logica stringente in ciò che accade sotto i nostri occhi. Il governo Monti, nato com’è nato e vissuto con amara soddisfazione – è il prezzo da pagare al dopo Berlusconi, pensano in molti – e il timor panico per una crisi devastante, non è frutto di un caso. Monti, Berlusconi e ciò che attorno a loro si unisce in termini di cultura padronale, fastidio per i diritti, le tutele socialdemocratiche e i vincoli keynesiani, vengono da lontano, nascono nel 1992, con la vittoria del capitalismo liberista su quello di Stato del socialismo reale, con le barriere cadute a est e il pianeta a portata di mano di avventurieri il cui solo ostacolo, per un apparente paradosso, diventa quella “democrazia borghese” che del Capitalismo è stato a un tempo maschera e arma vincente.
Occorre l’animo di dirlo: abbiamo di fronte i due volti di una sola realtà, dominata dalle criminali aspirazioni di sparute, ma agguerrite pattuglie di guastatori agli ordini di una concezione reazionaria della società e della filosofia della storia, di un potere che non ha patria e non chiede legittimità ai popoli. La conoscenza, la coscienza critica, la filosofia della “formazione di massa”, il pensiero che attribuisce un ethos politico alle classi subalterne, armi efficaci e naturale presidio della democrazia, sono perciò l’obiettivo privilegiato di una guerra senza quartiere: il conflitto per la supremazia tra i mercanti, celati dietro l’astrazione che definiamo mercato. Una guerra in cui annientare le tutele democratiche e la cultura dei diritti non è meno vitale di un conflitto scatenato per conquistare la via del petrolio. Sembrerà un’esagerazione, ma è nella logica di questo conflitto: scuola e università sono da tempo nel mirino di governi apparentemente diversi tra loro. Il controllo del potere passa anche e soprattutto per il controllo della scuola e non c’è nulla che lo spieghi meglio del filo rosso che attraversa e unisce le politiche per la formazione lungo l’asse Berlinguer, Moratti, Gelmini e Profumo; politiche che, non a caso, privilegiano il privato d’élite a danno del pubblico. Chiunque provi a leggere tra le righe nei progetti sulla scuola elaborati tra la metà degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio troverà nei concetti economici di produttività, impresa ed efficienza la chiave di lettura politica delle cortine fumogene su merito e “competenze”. Dietro, è facile vederli, ci sono la svendita della funzione docente, l’asservimento economico di insegnanti ormai dequalificati, la cancellazione dell’autonomia della ricerca e della libertà d’insegnamento. Dietro, si coglie soprattutto la reale portata di un progetto politico che, attirando l’attenzione su un’imprecisata volontà di “cambiare” il sistema formativo, copre abilmente l’obiettivo ambizioso e pericoloso: utilizzare la formazione per trasformare il Paese. Di intenti “pedagogici” del governo ha talora parlato il prof. Monti.
A ben vedere, la crisi, chiedendo scelte radicali, riconduce al conflitto tra sfruttati che producono ricchezza e sfruttatori che la fanno propria e chiama i governi borghesi alla necessità, storicamente ricorrente, di imporre ai ceti subalterni di pagare con la salute, la miseria, il sacrificio del futuro dei figli e la rinunzia al sogno di un mondo migliore l’esito devastante delle contraddizioni del sistema.
In questo senso se, com’è evidente, la crisi riguarda anche le strutture di comando capitalistico, non meraviglia che il lavoro intellettuale e i docenti che, piaccia o no, sono essi stessi “intellettuali”, siano nel mirino. Toni Negri, da cui si può dissentire ma non è mai banale, riflettendo sull’attuale natura del lavoro intellettuale, coglie il senso dell’attacco alla formazione, portato da un potere economico che diventa politico nonostante la crisi, o forse proprio perché c’è la crisi, e si mostra deciso a costruire una società di automi attivati da un pensiero unico, privi di senso critico, capaci di vivere solo in una “moltitudine produttiva” e incapaci, perciò, di autonomia personale. “Quanto più il lavoro diviene immateriale, cognitivo, affettivo, relazionale” egli osserva, “tanto più diviene […] produzione della vita”. Tornano in mente Marcuse, sbrigativamente pensionato, Marx ripudiato e le domande sono serie: se questo è, quale “vita” si vuole produca oggi un docente? Il lavoro di chi si propone di offrire dal basso chiavi di letture della pluralità e complessità degli eventi, coltivando l’autonomia del pensiero critico, rientra nel modello di società che si va costruendo? Il “docente-intellettuale”, che non vuol dire per forza l’intellettuale organico e neanche quello “impegnato” che era tutt’uno con la sua lotta, ma perdeva il contatto coi lavoratori, come accadeva prima della cesura prodotta del Sessantotto, il docente che non a caso si presenta ormai come pietra dello scandalo, perché di quella cesura è molto spesso figlio, quel docente ha cittadinanza in una società tornata rigidamente gerarchica? Tutto lascia credere di no: il docente che vive di dubbi socratici e al dubbio forma i suoi studenti, di fatto si rivolta contro il pensiero unico ed è per questo “rivoluzionario” sul terreno teorico ed eversivo su quello della prassi. Questo docente, perciò, e la scuola che egli sa e vuole fare vanno cancellati.
Così stando le cose, la scuola dei quiz, che umilia la classe docente per asservirla, ha una funzione chiara: non valuta gli alunni, seleziona i docenti. Chi non si svende non rientra nei fini pedagogici di base della “scuola nuova”: la produzione di una umanità che Labriola definì “bestiame votante”, massa di manovra e manovalanza generica, priva di pensiero autonomo e senso critico, dannata a vivere d’elemosina, stenti e supina rassegnazione clericale. In altri termini, la base di consenso del regime che avanza. Il De Felice di turno spiegherà poi ai nostri nipoti che eravamo tutti convinti.

Uscito su “Fuoriregistro” e su “Paesesera” il 5 aprile 2012

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