Ho sorriso ieri, all’«ex OPG Je so’ pazzo», pieno di gente, quando un amico di vecchia data mi ha avvisato: «in giro c’è chi dice che ti sei troppo appiattito sul sindaco». Poiché non mi sono spostato di un millimetro e sto come sempre a sinistra, ne ho ricavato una conclusione: come fanno gli storici compiacenti che ignorano i documenti, quando non raccontano la «verità» dei padroni, così alcuni sedicenti compagni fanno con chi non sta con loro. Non ti vedono come sei, ma come vorrebbero che fossi.
Appiattito su cosa? Io, che oggi conosco De Magistris, so che è uomo di sinistra, come può e deve esserlo uno della sua generazione. Più adatto al suo tempo e più a sinistra di certi vecchi sinistri inaciditi. Più adatto per cultura, esperienza e temperamento. E non lo dice uno che scrive le vite dei santi.
E’ inutile che farsi le pulci l’uno con l’altro, mentre il mondo corre e non aspetta. Si può essere diversi e lottare per lo stesso obiettivo. Finché funziona, va bene com’è. Se qualcuno tradisce ne riparleremo. L’anomalia Napoli ha molti protagonisti e suscita allo stesso tempo timore e spirito di emulazione. Parlo per me, per il contributo che ho potuto dare a un disegno collettivo, a cui tanti hanno messo mano senza per questo «appiattirsi».
Il primo passo concreto l’ho fatto il giorno stesso in cui De Magistris fu messo brutalmente alla porta. In un comitato nato per rispondere alla prepotenza, riuscii a far passare un principio: non stiamo difendendo un sindaco, ma la sua e la nostra città. E mi pareva già chiaro: per i cialtroni romani, Napoli e il suo sindaco andavano subito normalizzati. Erano già un’autentica anomalia.
Subito dopo, naturale conseguenza, il conflitto con la coscienza: un magistrato? Ma no, un ex magistrato… Sì, va beh, però uomo di quelle Istituzioni che hai rifiutato…
Ho cercato un confronto. Raffaele Paura è l’amico che se mi dice sbagli, mi ferma. Avrebbe bocciato l’idea che mi affascinava? E qual è questa idea? La dico sinteticamente. in origine avevo questo in testa: ricondurre il sindaco ai movimenti e i movimenti al sindaco. Come? Una «cessione di poteri», un trasferimento autentico. Per me era ed è un’occasione storica, un treno che non passa due volte. L’opinione, quella che sempre rispetto e quel giorno temevo, fu immediata: sai cosa penso dei magistrati, ma questo non è stato al gioco e s’è fatto mettere alla porta. Merita rispetto. Prova.
Occorreva parlarne anzitutto con lui, con il sindaco. L’ho scritto in un libro e non mi ripeto. Ho discusso del rapporto tra legalità e giustizia sociale, ma l’avevo già fatto nel 2012, quando presentò un mio libro sull’antifascismo e mi sorprese per la coincidenza delle opinioni. Venne la riconferma e fu il primo segnale di un’anomalia. Un magistrato a vita – non gliel’hanno mai tolta la toga, non si può fare – un giurista autentico, colto, che riconosce il tuo stesso confine: la legalità senza giustizia sociale è una prepotenza.
Il secondo segnale fu che ci si capiva benissimo quando si parlava di potere. Anche questa era un’intesa anomala: lo studioso dei perseguitati politici e un ex rappresentante dei persecutori. Solo che, guarda caso, il magistrato era finito tra i perseguitati. E poiché pensavo fosse in fondo un liberale, mi venne in mente Giovanni Amendola, che a quattro passi da Palazzo San Giacomo dirigeva “Il Mondo”, capofila della stampa antifascista che ora un marmo ricorda. Su questa base nacque un’intesa forte. Oggi lo so: l’uomo è integerrimo come Amendola, ma lo scavalca mille e mille volte a sinistra.
Cominciò la messa scalza. Non lasciai fuori nessuno. Tutti la stessa risposta: sì certo ha garantito spazi di democrazia dal basso, ma vorremmo capire. Secco e intellettualmente onesto il no di quello che allora era il Me-Ti; diventato poi Ex Opg, è stato il più veloce nel passaggio del guado e si è inventato il «controllo popolare». In tutti i movimenti c’era gente di prima qualità. Il più illuminante fu per me Mario Avoletto, che non è mai andato oltre una partecipazione iniziale a titolo personale e poi s’è fatto da parte. Mi confermò la formula base che conduce ad oggi: una progressiva cessione di poteri ai comitati attivi sui territori. Potere di decidere, potere di gestire. Seguirono per me incontri con il sindaco, lunghe lettere, riflessioni che avvicinano. Non ci poteva essere e non c’è appiattimento. Era un binario unico, con due forze che non puoi sovrapporre: una sintesi tra «vertice» e «base» che conservano le distanze.
Inizialmente assemblee da carbonari cui si veniva a titolo personale, senza impegnare gruppi e organizzazioni. Anche trovare una sede non era facile. Per l’esordio pensai al «Giardino Liberato», di cui sono peraltro il garante giuridico, ma non si poté fare; mi chiamò da Roma Enrico Voccia, amico carissimo, e mi spiegò che hanno le loro regole: occorreva un po’ di tempo. Aveva ragione a difendere la sua autonomia e non forzai la mano. Poiché il tempo mancava, pensai a Barbara Pianta Lopis, sempre così ospitale. Andò bene e ne uscii confortato*. A Bagnoli, in una sera di pioggia, tra mille scetticismi, la pubblica assemblea e la conferma che non si scavavano buchi nell’acqua.
Il 6 dicembre 2014, infine, missione compiuta: a palazzo San Giacomo c’erano più o meno tutti e l’anomalia Napoli divenne processo in corso. Chi più, chi meno, tutti i movimenti hanno poi fatto miracoli e la stampa dei padroni si è suicidata con la slogan sprezzante: «il sindaco dei sovversivi». Ho poi lasciato tutto in mano a tutti. Non ho mai barato. Non ho mai chiesto nulla. Ho sopportato le persone moleste che misurano gli altri da se stessi e mi hanno inutilmente atteso al varco delle candidature. C’erano compagni presenti all’ultimo garbato rifiuto: no, grazie, non mi candido, ho fatto ciò che credevo necessario. E poi sono vecchio.
Ho sorriso ieri, quando un amico mi ha parlato di appiattimento; gli ho spiegato che è giunta l’ora di farsene una ragione. Si rassegnino i duri e puri. C’è ancora chi lotta per ideali e non si mette in vendita. Ruoli? C’è a questo mondo chi ha sempre fatto ciò che credeva giusto, senza badare a chi fa ciò che gli torna comodo. E’ questa la prima anomalia del caso Napoli. Se dovesse servire, ci penserei, ma non chiederei il consenso di nessuno. So sbagliare con la mia testa.
In due anni non mi sono mai fatto da parte, ma non mi sono mai nemmeno fatto avanti. Sono entrato in un comitato, uno solo: quello che lotta per la salute mentale. L’ho fatto dopo ripetute insistenze e quando ho capito che si poteva lavorare per un obiettivo che l’Italia ci invidia: l’«Osservatorio Comunale per la Salute Mentale». Non a caso comunale. I compagni che «noi non abbiamo a che fare con le Istituzioni», erano partiti dal ruolo che il sindaco ha: garante della salute. Da un’apertura alle Istituzioni, quindi. Poteva nascere solo così l’Osservatorio. Ho lavorato perché me l’hanno chiesto loro, i duri e puri, ma pochi giorni fa due dei più duri e più puri, un terzo sta dietro e tace, in un empito di durissima purezza me l’hanno contestato: «chi ti ha mai detto di parlare con il sindaco? Lo sai, sono state le nostre lotte…». No, non si tratta di Alzheimer. E’ malafede. Va così a questo mondo. Di mio ci ho messo l’intelligenza politica e il credito che i durissimi non hanno. Ho garantito per loro, bambini capricciosi o ambigui marpioni.
Ancora un passo: aiutare lo sforzo dei «Volontari di Napoli Insieme». Dare una mano a Salvatore D’Amico, che ritiene la solidarietà con i poveri un gesto politico e ha ragione. La sinistra non fa la carità dei preti, come dimostrano la storia del primo socialismo e dei pionieri delle prime organizzazioni operaie. Nessuno meglio di Ernesto Cesare Longobardi lo ha mai spiegato con più chiarezza ai compagni. Si era ai primi del Novecento e lui fu efficace e semplice: «E’ inutile parlare di organizzazione e di politica a chi la mattina non sa se la sera mangerà e non ha dove dormire la notte». Troviamogli un pasto, troviamogli un letto, aggiungo io, poi si potrà parlare di lotta.
Qualche giorno fa qualcuno mi ha detto che sono una merda e ha scagliato l’anatema: «agente del partito De Magistris, presto ti daremo quello che meriti!». Gli ho risposto che non mi fa paura. Non pubblico la lettera firmata perché il minacciato dovrebbe poi preoccuparsi di tutelare la salute di chi minaccia e perciò tengo per me i nomi dei campioni. Vale per loro quello che spesso diciamo dei fascisti: tornate nelle fogne.
* Qui ho corretto alcune parole frettolose e malaccorte. Pareva che ce l’avessi con Enrico o con i compagni del «Giardino Liberato», ma non è così e mi scuso.
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