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Quando «Fratelli d’Italia» ha definito l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione) un inutile carrozzone, la domanda del mondo della formazione sulla sorte che l’«Unione Popolare» riserva all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) e all’INVALSI si è fatta pressante.
Sia pure confusamente, docenti, personale non docente e studenti, molti dei quali voteranno per la prima volta, intuiscono il rapporto diretto che lega il ruolo di questi organismi, l’inefficienza crescente del sistema formativo e la grave crisi della nostra democrazia. Per dare risposte adeguate, occorrerebbe probabilmente partire da lontano, ma in una campagna elettorale condizionata dalla mancanza di tempo, si punta il dito anzitutto sui dati macroscospici: investiamo su università e scuole pubbliche, assumiamo, cancelliamo l’aziendalizzazione e le rovinose riforme Gelmini e Renzi; basta con classi pollaio, tasse e precariato. Finisce così che, pur essendo un problema di fondo, dimentichiamo le agenzie di valutazione, delle quali non si percepisce immediatamente il ruolo negativo e lasciamo che sia la Meloni a dure che l’INVALSI è un «inutile carrozzone».
E’ un vuoto pericoloso? Sì, perché manca una riflessione sulle conseguenze prodotte dalle misure neoliberiste sul mondo della conoscenza e quindi nella società. Si può supporre che una di queste conseguenze sia, per esempio, l’origine di seri problemi di partecipazione? Penso di sì. Penso che dovremmo anzitutto capire come siamo giunti al punto in cui siamo e quali meccanismi producono l’indifferenza o addirittura l’adesione di studenti e docenti. Individuarli consente di comprendere se e quanto c’entrino con la formazione e come si possa eventualmente smontarli.
Esiste ormai almeno una generazione di giovani docenti e studenti soffocati nei confini disegnati via via da Bassanini, Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi e formati in scuole e università dominate dalle agenzie di valutazione. Una generazione, forse qualcosa in più di una generazione, cui sono stati sottratti gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare e valutare liberamente con la propria testa, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, di non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
E’ vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Il lavaggio del cervello che parte dalla scuola, passa per la televisione e i social e non trova freni nella famiglia, un peso non ce l’ha? E che ruolo ha giocato tutto questo nella sconfitta della sinistra? Una sconfitta culturale, prima ancora che politica, come ci dicono chiaramente i milioni di voti, non solo meridionali e comunque di ceti popolari, toccati ai 5 Stelle nel 2018, che si sono poi significativamente incontrati con gli altri milioni di voti finiti alla destra leghista.
In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visone miope. Un regime reprime, ma mira anche a costruire consenso. Per riuscirci, sterilizza la conoscenza intesa come potenziale arma di lotta e manipola il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento addirittura ostile a chi lo combatte. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, gli operai e i braccianti ringraziavano i loro carnefici e se elargivano «benefici», li definivano «padri dei lavoratori».
Torniamo al punto. Sono anni che l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo forma i futuri docenti e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle nuove generazioni. I contenuti di tale insegnamento sono selezionati da un sistema di valutazione che, di fatto, è uno strumento di controllo sulla cultura. E’ vero, scuole e università adeguatamente finanziate dallo Stato, sono un bene comune decisivo, in grado di consentire la crescita sociale e la realizzazione di ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza».
Le cose però non stanno così. Noi riusciamo ancora a vedere – e perciò li combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e calo delle immatricolazioni. L’Italia, ultima in Europa per percentuale di laureati, impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; benché la crescente povertà causi la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani, cioè, ai quali si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è ormai un’astrazione; l’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti e isolata dal contesto sociale, è sempre meno accessibile ai ceti subalterni. La sua decadenza è tra le cause fondamentali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
Così ridotta, l’Università va rifondata, ma è necessario che la gente capisca. Se diciamo INVALSI, c’è ancora chi sa che si tratta di assurdi criteri di valutazione e prova a boicottare. Se invece diciamo ANVUR, parliamo non solo di una inaccettabile valutazione, ma anche di meccanismi che diventano addirittura controllo sulla cultura; molti però non sanno, pochi si rendono conto e non è facile difendersi. Così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori e un furto per gli studenti. Se non ne denunciamo la reale funzione, non sarà mai chiaro dove si nasconde uno dei principali nemici di una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione ha il suo principio-guida nella Costituzione, laddove, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, dice che quest’ultima è fondata sul lavoro e che la sovranità non appartiene al mercato, ma al popolo. Solo seguendo questa bussola, Scuola e Università possono insegnare, per esempio, che le risorse della natura non sono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri; dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Tuttavia Scuola e Università non possono più farlo efficacemente, perché gli equilibri ambientali sono subordinati ormai agli interessi economici che dettano legge anche nel mondo della formazione. Occorre perciò impedire che l’ANVUR continui a costruire sacerdoti del pensiero unico e a spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

Ecco la risposta alla domanda da cui siamo partiti. L’ANVUR è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di lavori che le commissioni non leggono. Per l’ANVUR, una ricerca vale se l’editore conta molto, se c’è chi la cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a un giovane che in tredici anni, dalla laurea al concorso, ha sfornato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. In pratica 200 pagine all’anno per tredici anni. Non bastasse, ha organizzato undici convegni, detto la sua in quarantuno simposi, seminari, workshop e festival nazionali e internazionali, ha valutato come revisore «prodotti di ricerca» su riviste italiane e straniere, ha presentato quattro progetti nazionali e internazionali e ha partecipato ai lavori di otto comitati scientifici. Naturalmente la commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo ha potuto dedicare alla ricerca?
Si sa che il valore della ricerca è la sua qualità, che si misura in base a metodologia, originalità, capacità innovativa e ricchezza creativa. Un progetto di qualità può richiedere anche anni di lavoro. Che credibilità ha un giudizio dell’ANVUR, che, fondata su logiche produttivistiche, impone alla ricerca vincoli temporali? E soprattutto, a che serve una simile valutazione e quali effetti produce sull’insegnamento? La risposta è semplice: l’ANVUR, che conosce il forte legame esistente tra «grandi editori» e «baroni», che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce di fatto ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dalle quali sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potrei continuare, ma ormai dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare vuol dire imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti, ma è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

Agoravox, 12 settembre 2022

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Nonostante lo spreco d’incenso e le incessanti processioni dei devoti in mistica attesa che il Santo faccia almeno uno dei centomila, sospirati miracoli, tutto è fermo al campanello scambiato. Sono le settimane destinate alla preghiera, spiegano in coro gli zerbini dell’informazione, ma l’occhio malevolo dei miscredenti non sfugge il fatto che per ora all’uomo piovuto dal cielo non è riuscito di chiudere in tempi da Santo, nemmeno l’indecente partita dei sottosegretari.
Roberto Cingolani, l’uomo dell’Istituto Italiano di Tecnologia e della scienza privata finanziata dallo Stato, pare monsignor tentenna: un tempo perplesso sulle «rinnovabili» («sono le energie meno impattanti – diceva – ma bisogna fare investimenti e non risolvono tutti i problemi») ora ragiona come un manager dell’ambiente, che di ecologia sa poco, ma di profitto molto. Intanto, per il suo Ministero della Transizione Ecologica, in materia energetica dovrebbe sottrarre competenze ad altri ministeri, ma se la deve vedere col leghista Giancarlo Giorgetti, che non vuol cedergli il MISE. Vittorio Colao, che dovrebbe essere il faro dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale, pare sia a disagio. Dovrebbe presiedere un comitato interministeriale sulla digitalizzazione del paese istituito, però, presso il Ministero dell’economia e delle finanze. Questo significa che ci metteranno le mani tutti i ministeri competenti con i loro ministri incompetenti.
Roberto Garofoli, sottosegretario alla Presidenza, del Consiglio sta rischiando il manicomio per raccogliere le rose di nomi dei sottosegretari. Al Carroccio spetterebbero 8-9 posti, 11-12 ai 5Stelle, in serie difficoltà per le defezioni,  6-7 a Forza Italia, due a Italia Viva, uno a Leu, uno al blocco centrista. Gente di alto livello? Il precedente dei ministri con Brunetta e soci non incoraggia e per ora comunque siamo a una babele di nomi, complicata dalla richiesta del PD di confermare alcuni ex sottosegretari di Conte e riequilibrare  la presenza maschile nei ministri del governo. Poiché la questione delle donne al governo passerà per la direzione del partito che si riunirà in questi giorni, tutto per ora è fermo.  Incenso e processioni per ora non sono bastate: il Santo, per chi ci crede, c’è, ma la «corte dei miracoli» non s’è ancora formata.
In realtà, mentre l’informazione ufficiale disegna ogni giorno l’apoteosi del Santo e nessuno lo dice il primo segnale della sua esistenza il Governo l’ha dato. E’ accaduto al tavolo Stato e Regioni, guidato dalla Gelmini, scienziata dei neutrini. Un segnale importante, perché riguarda le vaccinazioni, per le quali dal Santo si aspettano miracoli. Per il momento, in attesa dei miracoli, la vaccinazione dei docenti e del personale amministrativo scolastico è un autentico disastro. Con Gelmini fedele agli ordini della sua destra, le cose per ora vanno infatti così: gli istituiti scolastici inseriscono in una piattaforma i nomi dei lavoratori, i quali, se vogliono si prenotano. Quando però un insegnante campano che insegna in Lombardia chiede di essere inserito, scopre che non può: ogni regione inserisce infatti solo i nomi dei docenti nati dalle sue parti. E il docente campano? Si rivolga alla Regione in cui è nato! Non sarebbe un metodo da «governo dei migliori», ma siamo agli esordi e ci vuol pazienza. Il fatto è, però, che il docente campano non insegna dalle sue parti e nella piattaforma campana non c’è posto per lui. Risultato? Non si può vaccinare. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di migliaia di lavoratori.
Il Santo lo sa che quando fai di una scuola un’azienda, va a finire così? E’ vero che non si fanno profitti, ma registrare perdite significa funzionare male.
Quante processioni e quanto incenso sarà necessario, per compiere il miracolo della vaccinazioni?

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Letto l’elenco, Nembo Kid tace e zitto sta sul Quirinale – lo blocca la vergogna?-  lo sponsor del «governo dei migliori». Sia come sia, quel silenzio, che com’è noto è d’oro, consente a zerbini e leccapiedi i voli più spregiudicati.
Gelmini, Brunetta, Giorgetti, Carfagna e chi più ne ha più ne metta – da passato che sono stati, diventano d’un tratto e miracolosamente il futuro. Ci avevano messi sull’avviso, no? Nembo Kid è capace di fare miracoli. Stavolta però colui che non usa cappotti, non suda per il caldo e non trema per il freddo, ha compiuto un miracolo tale, da rivoltare come un calzino la storia dei venditori di fumo: l’uso mirabile delle scamorze, riempie infatti la serata e l’attenzione del popolo è tutta presa dai più azzardati, entusiastici e mirabolanti peani, cui fa da contrappunto il cicaleccio fitto, ma doverosamente contenuto nei toni, di rari scettici sconcertati ma pronti all’ossequio.  
Chi aveva trovato esagerata la lode dell’abilissimo Nembo Kid deve prenderne atto: con le scamorze che tengono banco, nessuno si accorge che al neonato Ministero della transizione ecologica, avvolto finora nel cauto fumo del silenzio, Nembo Kid ha chiamato una controfigura del capo, un Nembo Kid in sedicesimo, del quale si dice tutto – che è iperattivo, che accetta tutti meno gli impostori, che è autore di un milione e mezzo di saggi, articoli e volumi fondamentali – ma si passa sotto silenzio il fatto che il rambo dell’ecologia non conosce per nulla i problemi ambientali e che – udite! udite! – è uno che sa tutto di sicurezza armata del cielo, del mare e della terra.  Il Rambo scelto da Nembo Kid per tirarci fuori dalla tragedia ambientale è insomma un venditore di armi. Siete sconcertati? Gente di poca fede, levate in alto i cuori e apriteli alla speranza: Nembo Kid, esperto impareggiabile nella trasmissione del pensiero, durante la notte ha fatto di Roberto Cingolani un uomo nuovo, uno che sa tutto di ecologia, un ex signore delle armi che ora possiede il segreto di un nuovo miracolo: trasformare la transizione ecologica in un affare per banche, banchieri e Confindustria.

La Sinistra Quotidiana, 14 febbraio 2021

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16221079-vintage-vecchia-sedia-di-legno-nero-in-interno-grungy-la-solitudine-straniamento-concetto-alienazionSono venuto alla luce sul confine temporale che separò l’Italia monarchica da quella repubblicana, Era un altro Paese e la parabola della vita correva tra nascita e morte, in una sorta di produzione a «ciclo continuo», fondata sulla convivenza delle generazioni: figli e nipoti nascevano in casa e in casa – quasi sempre la stessa – morivano i nonni. La trasmissione della memoria era un tessuto da filare in racconti serali, durante cene di povera gente, ricche di scambi, opinioni e ricordi. Negli anni che seguirono, la polverizzazione della famiglia, l’affermazione del modello americano e una rinnovata organizzazione capitalistica della metropoli e dei tempi della nostra vita, regalò ai vecchi il sapore amaro della solitudine, in un mondo che mette ai margini chi esce fuori dai circuiti della produzione. Nella sua terribile durezza, il fenomeno conservava, tuttavia, un che di «naturale», era un dato fisiologico dai connotati patologici: la vecchiaia è in qualche misura sinonimo di solitudine, l’età che avanza ci priva a poco a poco dei compagni e ci lascia fatalmente soli in una realtà che cambia e si fa sempre più estranea.
Il punto più basso di questa china disperante, però, l’abbiamo toccato da qualche anno, quando, in una società sempre più organizzata in funzione delle logiche del profitto, per le quali più sei debole e meno sei tutelato, è emersa d’un tratto, patologica e devastante, una solitudine nuova e contro natura: la solitudine dei giovani, che non sono uguali tra loro, non costituiscono una categoria sociale, ma si trovano in buona parte soli davanti a tempi bui che hanno la tragica durezza degli inverni della storia e della civiltà.
I più giovani, quelli che meglio conosco, gli studenti, sono così soli e occupano ruoli così irrilevanti, che la sedicente «Buona Scuola» di Renzi non ha nemmeno un paragrafo dedicato a loro. Come se la scuola non li riguardasse, Renzi li ha ridotti a spettatori muti della pantomima utilizzata per descrivere il futuro che li attende. I giovani non esistono, ma è in nome loro che la riforma dell’ex «rottamatore» disegna la scuola su modelli del mercato e dei suoi meccanismi: produttività, concorrenza, competitività, leggi della domanda e dell’offerta e sfruttamento della forza lavoro regoleranno, infatti, la vita scolastica, ricorrendo al peggior armamentario ideologico liberista. I giovani però non la vogliono la scuola che Renzi prepara e lottano per far sentire la loro voce che nessuno intende ascoltare. Non la vogliono perché hanno letto il progetto, ne hanno discusso tra loro e hanno capito che non è una scuola, perché non forma più cittadini consapevoli, in grado di ragionare con la propria testa e di affrontare con equilibrio la dura complessità del mondo in cui vivono; è una fabbrica che produce lavoratori e si propone di farne tecnici specializzati e alfieri dell’ammaccato «Made in Italy»; un pianeta misterioso che sospinge il Paese indietro, fino a porti nebbiosi che parevano esclusi dalle rotte della civiltà: porti in cui scuola e lavoro si incontravano negli istituti di avviamento professionale, dove chi non poteva pagarsi l’esame di ammissione alla scuola media era costretto a prepararsi al lavoro. E’ amaro, ma vero: alle giovani generazioni che soffocano per mancanza di occupazione, la scuola della repubblica fa dono dello spettro di un lavoro contrabbandato per studio e formazione e intende tornare all’Italia che Pasolini disprezzò: quella col «popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante».
Forte di una ideologia che è «verità di fede» – la globalizzazione è fenomeno irreversibile – per piegare alle regole del capitale i nostri giovani, padroni e professori vengono fusi in un rapporto spurio, che artifici linguistici definiscono «alternanza scuola-lavoro». E’ questo ciò che Renzi e il PD pensano di imporre alle scuole secondarie superiori, licei compresi, ricorrendo a sotterfugi e formule oblique. Un meccanismo sostanzialmente reazionario, che assegna «qualità formativa» all’attività lavorativa prestata in realtà esterne alla scuola e fornisce ai padroni l’opportunità di far conto sul lavoro gratuito, utilizzando studenti sfruttati invece dei lavoratori. Duecento ore all’anno negli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici e Professionali, la formula dell’«impresa didattica» che trasforma attività di formazione a scuola in mansioni finalizzate alla produzione di reddito, quella della «Bottega Scuola», che inserisce studenti in ambiti aziendali di natura artigianale e, dulcis in fundo, per gli ultimi due anni di scuola, un sistema di convenzioni che decide le regole d’ingaggio per un «Apprendistato sperimentale» già regolato dalla legge 104 del 2013.
Sullo sfondo di questo delirio oscurantista, la solitudine dei giovani, in prima linea in una battaglia disperata per la formazione, ha i contorni della tragedia e l’assenza degli adulti sa di tradimento. Mentre una generazione senza futuro viene trascinata con inaudita violenza verso un mondo da incubo, che nega il diritto allo studio e chiude i lavoratori nei campi di concentramento di uno sfruttamento garantito dalla cancellazione di ogni diritto – ai padroni si consente ormai persino il licenziamento senza giusta causa – gli studenti provano a presidiare come possono gli istituti scolastici attaccati; i giovani protestano, organizzano cortei, ma sono soli, sotto il fuoco di fila della stampa padronale, che criminalizza le «okkupazioni»; soli di fronte a un potere che, non avendo risposte credibili e non potendo fare appello a una autorevolezza che non ha, ricorre alla Digos e al Codice Rocco e presenta gli studenti come sprovveduti in mano alla teppaglia estremista, raccolta nei «collettivi». Della sentenza dell’Unione Europea non parla nessuno; eppure, proprio in questi giorni, l’Italia di Gelmini, Profumo, Carrozza, Giannini e Renzi è stata condannata per aver tenuto 300.000 lavoratori in condizione di precarietà professionale ed esistenziale e aver sottratto per anni agli studenti il diritto alla continuità didattica. Di questo naturalmente si tace e nessuno denuncia le gravissime violazioni di quella legalità di cui ipocritamente ci si riempie la bocca, quando si tratta di criminalizzare e bloccare gli studenti che lottano in nome del diritto allo studio, al lavoro e al futuro.
Di fronte a una così feroce solitudine e a una riforma che in altri tempi avrebbe riempito di sdegno le piazze, i genitori sembrano assenti, frenati probabilmente da problemi di sopravvivenza e dalle paure alimentate da una stampa sempre più reazionaria; in quanto ai docenti, intimoriti dal clima repressivo che si vive nelle scuole e dalle reiterate campagne sui “fannulloni”, anche quelli che riconoscono le ragioni dei giovani stentano a schierarsi e li lasciano soli. Di solitudine, però muore spesso la speranza e lascia spazio alla disperazione, abituale compagna della barbarie che si sta seminando a piene mani. Invano la storia insegna che le grandi tragedie nascono della solitudine dei giovani e dalla diserzione dei vecchi. E’ sempre più raro che qualcuno si fermi ad ascoltarla.

Uscito su Fuoriregistro il 29 novembre 2014, su Agoravox e sul Manifesto, col titolo Nella scuola la nuova solitudine dei ragazzi, il 3 dicembre 2014.

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Con Pierangelo Indolfi ho avuto il privilegio di collaborare, quando era redattore di “Fuoriregistro”. Non c’è bisogno, quindi, che lo presenti e se non conoscete “Fuoriregistro”, trovate un rimedio perché vi siete persi veramente molto. A gente come Pierangelo puoi solo dire grazie. Quello che ospito qui sul mio blog è un dono prezioso e una maniera modernissima di occuparsi della realtà della scuola che ha voluto fare a tutti noi, alla sua Bari, ai suoi ragazzi  e alla sua vecchia rivista. Guardate il filmato, ve lo consiglio vivamente; poco più di mezz’ora, ma non sarà tempo perso. Capirete meglio quali sono le criminali responsabilità di ministri come Berlinguer, Moratti, Gelmini, Profumo, Carrozza e Giannini. Per non parlare del pupo fiorentino.
Save Nicola!

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Ricevo, volentieri pubblico e domando una firma chi legge. Mi preoccuperò di comunicarla personalmente ai redattori dell’appello.
I padroni utilizzano la scuola avendo chiari due obiettivi:
a) senza una buona scuola gli uomini si lasciano facilmente ingannare;
b) la scuola è un luogo in cui è facile attaccare i diritti di tutti, colpendo apparentemente solo quelli di pochi. E’ opinione diffusa, infatti, che gli insegnanti siano solo dei fannulloni privilegiati. Nessuno perciò è solidale con loro.
Penso che tutti dovrebbero firmare.

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Appello-petizione per l’abrogazione del decreto 356. Rispetto per la scuola e per i diritti di chi lavora!

I precari iscritti nelle graduatorie ad esaurimento denunciano con questo testo-petizione, lo stravolgimento delle regole in base a cui è stato espletato l’ultimo concorso a cattedra – regole allora difese strenuamente, per quanto inusitate, dal Ministero e dal TAR – operato con l’emissione del decreto 356 dello scorso 23 maggio, e ne chiedono il ritiro immediato. Non vogliamo negare i diritti di nessun precario, ma crediamo che la certezza minima del diritto sia da riconquistare e riaffermare, in questo Paese, perché altrimenti sarà la guerra di tutti contro tutti, il che andrà ad esclusivo beneficio di chi ha interesse a massacrare lo Statuto dei Lavoratori e a renderli ricattabili e schiavi.
Quel che torna utile, oggi, a una categoria di precari, sarà ritorto contro la stessa domani, a seconda delle opportunità elettorali, politiche o economiche. E’ inaccettabile! I diritti non sono variabili del mercato né merce di scambio! Siamo stanchi di combattere per rivendicare il nostro sacrosanto diritto all’assunzione a suon di ricorsi, controricorsi e logoranti iniziative di lotta (ormai siamo in piazza costantemente dal 2008). Per di più, l’Europa, quella stessa che ci imporrebbe le manovre “lacrime e sangue”, obbliga il nostro Paese, minacciando salate multe, ad assumere quanti abbiano stipulato almeno tre contratti di lavoro continuativi (Direttiva n°70/1999CE).
Basta con gli scontri tra disperati! Devono ridarci tutte le cattedre e le ore tagliate dalla nefasta Gelmini e devono assumere chi da lustri, con abnegazione, garantisce alla scuola pubblica la possibilità di andare avanti… “sgarrupatamente”! Sul futuro del Paese non si improvvisa e non si scherza! Siamo il solo Paese che, insieme all”Estonia, ha tagliato sull’istruzione anziché investire!

INVITIAMO TUTTI GLI INTERESSATI A FIRMARE LA PETIZIONE, A TITOLO PERSONALE O CON LA SIGLA DEL GRUPPO EVENTUALE DI APPARTENENZA, E A DIVULGARLA, NON PER “DELEGARE” AI LORO REDATTORI LA LOTTA, MA PER CONFERIRE ALLA LOTTA COMUNE MAGGIORE FORZA E INTENSITA’. GRAZIE.

TESTO DELLA PETIZIONE:

Poche ore prima dalla tornata elettorale che ha visto il partito del ministro Giannini, il partito dell’austerity e dei sacrifici inutili e unilaterali, subire una pesante sconfitta, il sottosegretario alla P.I. Fusacchia rendeva noto il testo di un atto amministrativo destinato a sconvolgere i difficili assetti ed equilibri del variegato mondo dei precari della scuola. Il decreto in questione, l’ormai famigerato D.M. 356, è stato effettivamente pubblicato, poi, nella tarda serata di venerdì 23 maggio. L’unico articolo di cui esso consta, crea dal nulla una nuova graduatoria di aspiranti al ruolo, individuandoli in quei candidati che hanno superato le prove relative all’ultimo concorso a cattedra, ma che non si sono collocati in posizione tale da risultarne vincitori.
Il decreto sconfessa e stravolge quanto previsto dal bando del concorso stesso, il Ddg. n. 82 del 24 sett. 2012, che, all’art. 13, fa riferimento ai soli vincitori del concorso quali destinatari legittimi di una proposta di contratto a tempo indeterminato. Le stesse obiezioni sollevate dai molti ricorsi che fioccarono, all’epoca, contro il bando, e che sottolineavano la sua incompatibilità con il Testo Unico, furono nella maggior parte dei casi respinte dal TAR, sulla base della presunta necessità di assegnare a docenti “meritevoli” i posti in palio (un numero risibile!), senza dare adito alla formazione di nuove liste di precari.
Appare dunque sconcertante, nella sua incoerenza, oltre che inusitata, la rettifica del bando di un concorso – già fatto oggetto di denuncia, a suo tempo, da parte dei precari, in quanto assurdo e mortificante – che è stato ormai espletato con regole fissate e accettate tanto dai partecipanti quanto da quelli che, invece, non vi hanno preso parte proprio in ragione del fatto che esso non prevedeva l’inserimento in una Graduatoria e che, inoltre, non era abilitante. Non solo. Il decreto 356, con la sua sospetta tempistica, è stato emesso a conclusione delle operazioni di aggiornamento delle Graduatorie ad esaurimento, cioè dopo che molti precari hanno già scelto la provincia in cui trasferirsi pur di ottenere il ruolo, calcolando la propria posizione sulla base dei posti riservati ai soli vincitori del concorso. Il nuovo capovolgimento di regole, ora, rischia di vanificarne il sacrificio non lieve!
I precari proscrivono con fermezza questa modalità operativa del ministero, che piega il Diritto alla necessità di demolire funzionalmente i diritti dei lavoratori, che calpesta la professionalità dei docenti, illusi, allettati o esclusi a seconda delle circostanze e delle congiunture politiche, e che scatena guerre “all’ultimo posto” tra diverse categorie di insegnanti parimenti sfruttati, mentre vengono prospettati tempi biblici per l’assorbimento di chi garantisce il funzionamento della Scuola da più lustri (i 10 anni di cui parla il ministro sono un’eternità: molti docenti rischiano di “morire” precari!), e vengono colpevolmente disattese le direttive di quell’Europa verso cui il ministro Giannini si è proiettata, e che impongono la stabilizzazione del personale che abbia stipulato tre contratti consecutivi di lavoro (70/1999CE).
Considerando, dunque, l’effetto destabilizzante e gli iniqui portati del provvedimento in oggetto, nonché la drammatica condizione in cui versa la Scuola Pubblica, che di certo non ha bisogno di nuovi conflitti, a detrimento della continuità e qualità della didattica, chiediamo con forza il ritiro immediato del decreto 356 e l’avvio di quel processo di “normalizzazione” e uniformazione del reclutamento che i precari inseriti nelle Graduatorie ad esaurimento invocano da tempo, assieme al ritiro dei feroci tagli effettuati nel 2008, che è il presupposto-base di ogni piano di recupero e valorizzazione della Scuola Pubblica Statale, la Scuola che garantisce la mobilità e la giustizia sociale, l’inclusione, il pluralismo, l’emancipazione di tutti.
Vogliamo regole certe e certezza dell’assunzione per tutti i precari!

Coordinamento Precari Scuola di Napoli
Precari organizzati di Torino
Precari Uniti contro i Tagli – Roma

ADESIONI:

Giuseppe Aragno, docente in pensione, storico

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UpkPfA5XLji9ItupHhox8NDchMwP6qDUXvSbyMdXUGo=--Nelle scuole s’è saputo? Per l’11 aprile, su mandato dell’assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori «precari» di scuola statale, tenuta a Roma il 19 gennaio, l’Unione Sindacale Italiana ha proclamato lo sciopero generale del settore. E’ difficile dire in quante scuole la «notizia» stia passando, ma saranno mosche bianche e, per favore, niente storie alla Marchionne sulla pervicace vocazione al conflitto e la reale o presunta «rappresentatività» d’un sindacato. Nemmeno se simili oscenità avessero cittadinanza in democrazia, sarebbe legittimo invocarle a giustifica di un silenzio massmediatico che sa di censura. In tema di «rappresentatività», poi, «pesi e misure» sono ormai volgarmente truccati. Non fosse così, come sarebbe potuto accadere che scuola e università disastrate finissero in mano a una ministra disastrosa come la Giannini? Ce l’ha imposta «Scelta Civica», un partito sparito dalle statistiche sul voto, perché non rappresenta neanche se stesso, ma alle Camere, grazie a una legge elettorale illegale, ha quanto basta di «nominati» per tenete in pugno un filo che regge il pupo fiorentino. E il telesvenditore della Repubblica lo sa: se il pugno s’apre, lui va giù a valanga e toglie il disturbo recitando i versi del suo grande conterraneo: «io venni men così com’ io morisse. / E caddi come corpo morto cade».
Silenzio, quindi, che il nemico ascolta e guai a chi parla! Nessuno sappia che la scuola lotta perché si applichi il dettato Costituzionale che pupi, pupari e compagnia cantante stanno cancellando; lotta per chiedere il potenziamento delle scuole d’infanzia e primarie pubbliche e afferma ciò che tutti sanno: i soldi ci sono e non occorre sceneggiare romanzi d’appendice sull’asta del «parco auto blu»; basta evitare scialacqui per il rafforzamento del «parco cacciabombardieri». La scuola lotta per miglioramenti salariali, dopo l’eterna manfrina dell’«Europa che lo vuole», come Dio volle le Crociate – «alta voce Franci omnes simul exclamaverunt: Deus hoc vult, Deus hoc vult» – e chiede di piantarla col trucco dell’Europa che ci chiede sempre tutta l’unità possibile, poi, in preda a non sai quale precoce arteriosclerosi, dimentica l’europeismo dei diritti, a partire da un contratto europeo sulle retribuzioni. Per questo lotta la scuola, molto più europeista di Monti, Napolitano, Renzi e la Giannini. Lotta – e non sarà uno scandalo, si spera – perché si torni a meccanismi di automatico aggiornamento salariale rispetto alla dinamica dei prezzi e al «costo della vita», che non è un’invenzione bolscevica; lotta per la civiltà del lavoro, che è anche diritto alle ferie o alla loro retribuzione per il personale a tempo determinato; si batte, la scuola, soprattutto per l’applicazione di leggi e disposizioni sui contratti a tempo determinato e la stabilizzazione del precariato utilizzato. Anche qui più europea dei sedicenti europeisti alla Napolitano, che puntualmente ignora nelle sue torrenziali esternazioni che la Commissione Europea si è più volte pronunciata contro l’abuso dei contratti a termine che da anni Berlusconi, Berluschini e comunisti pentiti utilizzano senza limiti, barbaramente, in totale disprezzo delle indicazioni e della normativa UE che qui da noi si applica con rigore se colpisce il lavoro e si ignora bellamente se lo tutela.
Sarebbe da prima pagina la notizia che la Commissione ha più volte chiesto ai tre ultimi governi – Napolitano Monti, Napolitano Letta, Napolitano Renzi – se «per garantire una certa flessibilità negli organici della scuola e far fronte, senza oneri eccessivi per lo Stato, a variazioni imprevedibili della popolazione scolastica sia veramente necessario […] ricorrere ad una successione di contratti a termine senza alcun limite quanto al numero dei rinnovi contrattuali e alla durata complessiva del rapporto». Si potrebbero riempire colonne sotto titoli a caratteri cubitali con le parole di un’Europa che il circo mediatico ignora, forse perché farebbero più danno di cento manifestazioni No Tav e non gli puoi mandare l’esercito di occupazione. Un’Europa che non chiede sacrifici e con inusitata chiarezza dichiara impossibile «ritenere che la legislazione italiana sul reclutamento del personale docente e ATA a termine contenga criteri obiettivi e trasparenti […] risponda effettivamente ad un’esigenza reale e sia atta a raggiungere lo scopo perseguito». E ne ricava la logica conclusione: «il ricorso a contratti a termine successivi per la copertura di vacanze in organico che tale legislazione consente non può pertanto considerarsi giustificato da ragioni obiettive». E allora perché si fa? E’ chiaro come la luce del sole che non si tratta di soldi. E’ che la scuola statale, per quanto ridotta allo stremo dalla sedicente «riforma Gelmini», costituisce ancora un intoppo per un disegno reazionario che utilizza la crisi come corpo contundente. In quanto fucina di pensiero critico, va perciò demolita. E’ questa la condizione «sine qua non» per la realizzazione della svolta autoritaria che l’asse Renzi- Berlusconi spaccia per «riforma istituzionale».
Un tempo si mettevano in piazza i blindati. Ora si massacra il sistema formativo.

Uscito su Fuoriregistro il 2 aprile 2014

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Nella scuola che ha in mente Renzi «si impara davvero». Un giornalista gli chiederebbe se pensa di tornaci, a scuola, lui che ha studiato quando non si imparava nulla, ma uno così acuto non s’è trovato e il «sindaco d’Italia» vola come Copia di imagesun treno: prima di tutto, dice, un forte investimento. Edilizia scolastica, docenti, formazione, sviluppo tecnologico della didattica: tutto coperto d’oro. Nessuno gli chiede da dove prenderà i quattrini, col pareggio di bilancio in Costituzione e i mastini della troika alle calcagna, e lui si scapicolla. Il menu, studiato ad arte, è buono per ogni palato, destra, centro e la sciatta imitazione della sinistra che passa il convento: la valutazione all’Invalsi, il modello anglo-sassone come pietra filosofale, più potere a dirigenti scolastici che non capiscono nulla di pedagogia e didattica, un’ennesima revisione delle procedure di selezione – vince chi lavora meglio e di più a costo zero – e via con le progressioni di carriera, la tecnologia nella didattica, psicologi – una terapia a sostegno della disperazione? – e il mirabolante premio di produzione per i migliori. Non è chiaro – nessuno ha cercato di capirlo – ma c’è il dubbio fondato che a formar cittadini non pensa nessuno; si vorrebbe un gregge e il padrone premierà chi non ragiona e non fa ragionare. Di qui partirono ai tempi loro Berlinguer, Moratti, Gelmini e Profumo – la destra dei berluscones fedeli o traditori e la sinistra passata armi e bagagli dal marxismo al liberismo – e siamo ridotti con gli analfabeti in Parlamento.
Nel gioco delle tre carte il finto tonto vince, incassa il malloppo e tace. Per lui, parlano gli occhi compiaciuti per l’onestà del compare, che paga senza fiatare, e il lampo tentatore di chi intasca un gruzzolo insperato. Quando il terzo lestofante fa lo scettico e cerca il pelo nell’uovo, lui lo guarda ironico, alza la posta e vince ancora. Muto, una smorfia furba e gli occhi eccitati, si gioca tutto come dicesse a se stesso: “ora o mai più” e torna a far bottino. I venditori di fumo danno corpo alla speranza del disperato, gli fanno vedere luci accese dove tutto è buio pesto e va sempre così: i gonzi abboccano all’amo e si fanno spennare. Si ruba in mille modi, ma a volte c’è dell’arte e persino la legge aggiunge al reato una parola che sa di complimento: furto con destrezza. Lo sanno tutti, però, che nemmeno il migliore dei pifferai porterebbe i suoi topi a morire, se non vi fossero condizioni date e sorci ormai pronti a farsi incantare.
«Vuoi anche i voti del centrodestra? Vuoi i voti di Grillo?» chiedono da un po’ i finti tonti, compari di Renzi, e lui vende tappeti: «Assolutamente sì. Non è uno scandalo, è logica: se non si ottengono i voti di coloro che non hanno votato il Partito Democratico alle precedenti elezioni, si perde». Un tempo, a parità di condizioni – compreso il cieco sostegno della stampa – di logico ci sarebbe stata solo la reazione della gente disgustata e il fenomeno da baraccone avrebbe chiuso bottega in un amen. Fino all’anno scorso – è vero pare un secolo – persino uno come Bersani lo cancellò dalla scena, ma s’è lavorato per girare a ritroso le pagine della storia ed ecco i risultati.
Fino a qualche anno fa, un leader convinto di poter convincere in un sol colpo il qualunquista, chi soffre d’orticaria se parli di politica, l’elettore di destra, di sinistra e persino l’astensionista, avrebbe rischiato la camicia di forza. Finché la destra ha rappresentato un pianeta con radici nella storia e un sistema di disvalori che a molti sembravano valori, un leader di destra sano di mente non avrebbe mai pensato di conquistare consensi in un pianeta antagonista, tra gente di sinistra che lottava per una società fondata su valori alternativi e contrapposti a quelli della destra. Oggi no. Da quando la «sinistra parlamentare» ha ripudiato Marx, adottando il pensiero liberista per puntare a centro, c’è stato un inarrestabile e profondo sconfinamento in territori tradizionalmente occupati dalla destra. Il «cambiamento» di Renzi, giunto in piena corsa, diventa perciò per la storia della repubblica il punto culminante di un arretramento culturale e politico più drammatico di quello prodotto da Berlusconi e si riassume in un dato sconvolgente: per la prima volta nella nostra storia, un uomo che esprime valori di destra giunge a guidare un grande partito che ha radici e base di consenso tra quella che un tempo era gente di centrosinistra. Non era accaduto nemmeno con Berlusconi, che, a onor del vero, vaneggiava e vaneggia di comunisti alla Bersani. Renzi non ha soluzioni per la scuola, che silura come Gelmini e Carrozza, né vie nuove per la politica. Giungiamo a lui perché i partiti, i suoi veri compari nel gioco delle tre carte, ridotti a comitati elettorali e camarille, hanno interpretato a loro modo l’invito di Cattaneo a fare gli italiani. Ne son venuti fuori così gli elettori che occorrevano al leader del «tempo nuovo», quelli «che non hanno bollini e non hanno etichette». Il «bestiame votante» che a fine Ottocento inquietava Antonio Labriola.
Il Renzi politico non è figlio di se stesso. L’ha creato il lavoro condotto alternativamente da governi che hanno condiviso un punto fermo – il mitico «centro» – , una legge elettorale incostituzionale e un programma unico, di volta in volta definito, a seconda dei casi, di «destra» o di «sinistra». Un programma che aveva e ha nel mirino i diritti garantiti della Costituzione.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 dicembre 2013 e su “Liberazione” il 31 dicembre 2013

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6afd69fca4d40105ff6471cfaee955a23715ba508864d078c6f087a9_175x175La «scuola breve» – il futuro dell’istruzione, a sentire Carrozza – fa i conti con mille impicci. Gelmini, per dirne una, ha messo al bando la sperimentazione negli istituti «tradizionali», ponendo un vincolo inderogabile: il percorso è quinquennale. Due anni, più due, più uno. Si tratta solo di tagli, ma ora che regna la Troika nelle colonie si dice «spending review». E’ il fascino dell’esotico.
Carrozza ha abrogato la norma Gelmini? Nemmeno per sogno!  Avrebbe nociuto alla cagionevole salute delle «larghe intese» e, ciò ch’è peggio, «tagliato i tagli». Insomma, partita persa prima di giocarla, ma la ministra s’è fatta furba e l’osso non l’ha mollato. Poiché Gelmini l’ha lasciata erede di un limbo senza regole – le imprecisate e mai ben individuate «sezioni internazionali» e i cosiddetti “licei classici europei” – di questa terra di nessuno che invano attende norme, non fuorilegge, ma certo «senzalegge», la ministra ha fatto l’ariete per sfondare le mura cadenti della scuola statale.
E’ evidente, Carrozza ignora le norme vigenti per la macchina che governa, ma i funzionari l’avranno avvisata: alle abolite sperimentazioni, anche quelle passate con l’inghippo delle sezioni «senzalegge», occorre il parere favorevole e obbligatorio del CNPI, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. E’ legge. Ignorarla sarebbe una pessima lezione di educazione alla legalità. Senza fare una piega, Carrozza è andata avanti: niente parere. E’ vero, Profumo ha sciolto il CNPI, ma non l’ha abolito e il 15 ottobre, anzi, il Tar del Lazio – un vero guastafeste – ha intimato al Ministero di farlo rieleggere entro 60 giorni dalla sentenza. Carrozza, però, presa non si sa da quale fregola decisionista, ha tirato diritto per la sua strada e non s’è curata del vincolante parere scritto del CNPI. Dalle sezioni «senzalegge» alla sperimentazione fuorilegge il passo è stato breve e soprattutto ben coperto dal silenzio complice del baraccone mediatico, in cui ormai persino un mussoliniano come Teresio Interlandi farebbe la figura di un dilettante.
Compiuto lo strappo, si tratta ora di trovare un manipolo di Dirigenti Scolastici, tra quelli più pronti a dare una mano, più servizievoli e più ideologicamente schierati. I bravi e zelanti, insomma, che non mancano mai, pronti a far nascere sezioni di «Liceo classico internazionale» all’interno dei licei «tradizionali» marca Gentile. Anche qui, s’intende, regole, impicci e quell’autentica rogna che si chiama democrazia, ma l’esempio, si sa, viene dall’alto e di educazione alla legalità si parla anzitutto per vendere fumo. Che volete che sia, per un buon Dirigente Scolastico, in tempi come i nostri, con l’Europa in delirio per le palle di Letta che sono d’acciaio, seguire l’esempio, mettere in campo gli attributi e pilotare, se necessario, piegare un Collegio Docenti preventivamente terrorizzato dalla spada di Damocle di ventilati cali delle iscrizioni, conseguente precarizzazione, spostamenti di sede e via crucis dei soprannumerari? Occorrerebbe starci nelle scuole, per cogliere il senso di smarrimento del personale docente, vedere gli anziani, giunti al capolinea stremati, timorosi di una nuova riforma, che ancora una volta gli neghi un diritto, li irrida, gli faccia toccare con mano la loro impotenza, mentre un saputello del sindacato di Stato, disteso e ben pasciuto, tutto chiacchiere e cellulari, gli spiega che sbagliano, confondono: non di diritti si sta parlando, ma che dicono? Si tratta solo di aspettative di vita. Non pensa ad altro, buona parte degli anziani: tagliare la corda una volta e per tutte. In quanto ai «giovani», a loro diresti abbia pensato Ungaretti cantando la disperata rassegnazione: «si sta, come d’autunno sugli alberi le foglie».
Dalle mie parti, al liceo «Sannazzaro», pubblico e privato corrono già gomito a gomito: «sezione internazionale», quattro anni e un successo già scritto. Non c’è voluto un grande sforzo: un Collegio dei Docenti convocato dalla sera alla mattina nell’inerzia della rappresentanza sindacale – anche qui regole sotto i piedi – senza il tempo per capire che si approvasse. Un’urgenza insensata, una fretta così ingiustificata, che alla resa dei conti, nonostante la rassegnazione, è finita sul filo di lana: il liceo breve è passato per un voto e con tanti astenuti, mentre circolavano esempi di un orario nuovo, in cui non mancavano le compresenze; colpiva, tra tutti, il caso di due docenti pagati con due stipendi per fare insieme un’ora di religione e di filosofia. Senza contare l’equilibrismo sul filo del pensiero laico, anche stavolta la Gelmini è stata del tutto ignorata e le compresenze, abolite alle elementari, hanno fatto l’esordio al liceo. Una scelta compatibile con gli attuali ordinamenti della scuola? Il Consiglio d’Istituto non ha eccepito e tutto è filato liscio come l’olio.
Perché scandalizzarsi? La ministra Cancellieri siede tranquillamente al suo posto, il partito della ministra Carrozza va al Congresso con le tessere moltiplicate come pane e pesci e il governo poggia sull’accoppiata diavolo e acqua santa, mentre il polverone quotidiano, levato ad arte sulla sorte di un pregiudicato che coi suoi fedelissimi, fa l’opposizione e governa, non scandalizza il Senato, non crea casi di coscienza a Letta e ai suoi ammennicoli d’acciaio. E’ vero, in Germania si tende ormai a ripudiare la scuola breve, che in Francia non è mai esistita, ma chi si azzardasse a sostenere che la sola qualità del liceo di quattro anni sono i quarantamila posti di lavoro che taglia, diventerebbe subito lo scandalo nazionale, paladino senza vergogna della corporazione più potente d’Italia: gli insegnanti, ridotti ormai peggio dei loro colleghi nell’Italia fascista.

E’ uscito su Fuoriregistro l’11 novembre 2013, col titolo Educazione alla legalità e su Liberazione e Report on Line il 12 novembre 2013.

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Aveu_René_3Il marchio di fabbrica non è d’origine control-lata – ai suoi tempi provò la Gelmini – però diciamolo: se la memoria è corta, almeno ci innamoriamo del nuovo ed è subito passione. E’ bastato l’annuncio – sperimentiamo per-corsi liceali «brevi», quattro anni, invece di cinque – ed è già competizione. Isole felici, le scuole «paritarie», ma senti nell’aria che l’obiettivo è la scuola statale e quest’amore per il cambiamento apre il cuore alla spe-ranza. Il successo è sicuro: tra offerte di pari qualità, tira di più quella che costa meno e il tempo ha un prezzo. Il «liceo breve» non solo «sfonderà», ma la crociata contro il «nuovo che avanza» – tempo scuola, catte-dre e lavoro inevitabilmente persi – non giun-gerà fino alla «Terra Santa» e la battaglia sindacale non varcherà il confine della «transizione»: gestione e momentaneo recupero di posti in un organico funzionale d’istituto.
La Ministra Carrozza ha ragione? Dire di no, legando i temi cruciali della «qualità» a una politica salariale seria, vorrebbe dire farsi impallinare al volo dall’accusa di corporativismo e, d’altra parte, chi s’è accorto che il defunto «stipendio europeo» ha avuto funerali strettamente privati? Per rispondere, occorre orientarsi tra i corni di un dilemma: l’«esperimento» tutela veramente la qualità del «prodotto», o riproduce «interventi» senza anestesia, già tentati sulla carne viva dei percorsi formativi? I precedenti inquietano e anche stavolta tutto piove dall’alto e non si dà parola a chi fa scuola. I segnali negativi, insomma, sono molteplici e l’intento mal dissimulato ancora una volta pare quello eversivo di una «lotta di classe dall’alto», tutta «business» per il privato, tagli per il pubblico e favori ai padroni, com’è accaduto per l’obbligo a 15 anni, l’Istruzione e la Formazione Professionale, i diplomi scolastici regionali, i colpi di mano sulla «chiamata diretta» dei Dirigenti Scolastici e via così, fino alle graduatorie della Lega Padana per docenti e personale Ata.
A favore dell’«esperimento» proposto dalle larghe intese Gelmini-Carrozza ci sono anzitutto i 1.380 milioni di euro risparmiati che, però, ci portano sul terreno dei conti e suscitano un quesito fondato: «spending review» o riformismo? La «seconda che dici», replica ovviamente il Ministero ma, come accade sempre quando s’intende celare l’obiettivo vero, ecco la cortina di fumo: la «riforma delle riforme» – o il taglio per eccellenza? – ci farà europei.
Il caso è singolare. Non siamo quasi mai europei, non abbiamo approvato il reato di tortura, che l’Europa chiede, diamo ai docenti stipendi che l’Unione processerebbe per sfruttamento, investiamo per istruzione e ricerca cifre tragicomiche nel contesto europeo, prepariamo il personale docente in una università nota per concorsi a cattedra che l’Europa definirebbe truffa, non abbiamo reddito di cittadinanza, ci teniamo per sacra reliquia il Codice penale fascista che l’Europa metterebbe al rogo, abbiamo Berlusconi perché non ci siamo mai dotati di una legge sul conflitto d’interesse degna dell’Europa, ma eliminiamo l’ultimo anno di Liceo perché in Europa va bene così. Esiste una verità di fede: ciò che accade in «altri paesi europei» è, per sua natura, criterio infallibile di legittimazione. Sorge il dubbio che, di questo passo, la destra razzista vittoriosa in Francia o un nazionalsocialismo redivivo al potere  in Germania sarebbero salutati come modello da imitare.
Per tornare ai corni del dilemma e senza cavillare sulle ragioni «tecniche» – quelle didattiche e pedagogiche di cui nessuno parla più – siamo sicuri che la Germania sia felice della scuola breve? Chi insegna all’estero narra un’altra storia. Dall’Assia, per esempio, gli italiani che insegnano ai tedeschi, testimoni oculari del dibattito che la Ministra sottace o, peggio ancora, ignora, sostengono che i docenti tedeschi invidiano l’anno in più e apertamente criticano la dannosa brevità di un corso di studi che affretta i tempi e non agevola la crescita graduale degli studenti. Non basta. Da un anno, una legge concede alle scuole di modificare il tradizionale percorso, allungando di un anno le superiori. Serve dirlo? Anche lì gara aperta, ma in senso inverso: genitori in fila per allungare. Fascino del nuovo – la scuola «sexy», come infelicemente l’ha definita la Carrozza – o le ragioni dell’istruzione? La risposta andrebbe data dopo discus-sioni serie, senza badare agli euro risparmiati e senza escludere gli addetti ai lavori. Sulla base all’esperienza concreta.
Premesso che un Paese ha una storia e un “modello” è un’istituzione a sé, così singolare, che è difficile e spesso sconsigliabile riprodurlo in contesti culturali e storici diversi, non si può tacere che in Francia, oltre alle università, esistono le «Grandes écoles», più prestigiose delle accademie. Vi si accede solo dopo le «classes préparatoires»,  corsi tenuti in scuole pubbliche e private, in base  a titoli e valutazioni di merito dei docenti dell’ultimo anno di liceo. Poiché gli in-segnamenti durano da due a tre anni, dopo i tedeschi, anche i francesi smentiscono la propaganda sulla «brevità» degli studi. Senza contare poi, per non perdere di vista democrazia e scelte di classe, il fatto che in Francia è così raro trovare all’università studenti contemporaneamente bravi e ricchi, che qualcuno l’ha scritto: la Francia non ha Università. L’intento era provocatorio, ma, al di là del giudizio di merito, è certo, che investendo moltissimo sulle Scuole d’élite, lo Stato non ha soldi per le altre istituzioni d’insegnamento superiore. Per quel che ci compete, qui non si tratta di decidere se, come dice qualcuno, il sistema educativo francese è il fanalino di coda dell’Europa o, come vogliono altri, un alto esempio di efficienza e democrazia. Il punto è che qui da noi, mentre la Francia dubita della democrazia e dell’efficienza di un “sistema” che, come s’è visto, non è affatto breve, mentre la Germania volge addirittura la prua verso i nostri porti, i capitani della nostra «Invincibile Armada» lasciano quei porti, mollano gli ormeggi e fanno rotta verso Nord. Invano la storia ricorda un tragico naufragio.

Uscito su Fuoriregistro, Liberazione e Report on Line il 29 ottobre 2013

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