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Archive for marzo 2017


Eddy, giovane autore di questo articolo e imputato in quello che giustamente chiama “processo politico”, lo conosco bene e sono completamente dalla sua parte. Sottoscrivo senza riserve le sue parole e gli esprimo la mia incondizionata solidarietà.

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Il giorno 31 Marzo 2670777017 il Tribunale di Napoli ha citato a giudizio me ed altri compagni/e come imputati nello specifico in riferimento ad uno dei procedimenti penali che ci vedono coinvolti. Uno dei tanti procedimenti che vedono coinvolti diversi compagni e compagne della città e nel paese.

Secondo l’accusa, in riferimento ad una mobilitazione del 10 Settembre 2013, “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso” con cortei, prolungati blocchi e interruzioni del traffico e servizi della rete locale dei trasporti avremmo “perseguito in concorso tra persone, agendo quali promotori, capi, organizzatori”, facendoci carico inoltre di diverse contravvenzioni, con la “finalità di costringere il Presidente della Regione Campania e la sua Giunta a ricevere le nostre delegazioni” e quindi le istanze e le rivendicazioni delle vertenze rappresentate (lavoratori licenziati, cassaintegrati, disoccupati Bros, comitati territoriali).

In primo luogo le nostre lotte sono condotte da tante donne e tanti uomini liberi che non hanno capi, in secondo luogo sotto accusa, è il principio e la natura stessa della lotta politica e di classe, come riscontrabile in tanti altre vicende giudiziarie.

In un paese in cui si spendono miliardi di euro per guerre imperialiste e spese militari, per opere inutili e dannose, si smantella e taglia su salari, pensioni, scuola, sanità e servizi sociali, in cui milioni di persone che vivono nella povertà e tante altre la raggiungono con licenziamenti e disoccupazione dilagante, in cui i salari sono da fame mentre quotidiani sono gli scandali ed i crimini prodotti da assassini in giacca e cravatta, dove si continua a morire di tumori per disastri e devastazioni ambientale, discariche ed inceneritori, ci sono cataste di procedimenti giudiziari, di condanne penali e pecuniarie legate alle lotte sociali e politiche che si stanno accumulando in questi anni: partendo dai compagni ancora in carcere come Davide Rosci, i tanti detenuti politici, dalle accuse ai disoccupati organizzati, passando per la criminalizzazione dei movimenti di lotta per la casa, del movimento No Tav, con il caso emblematico di Nicoletta Dosio, degli studenti universitari di Bologna, dei licenziati politici come la vicenda di Pomigliano, fino alla gogna mediatica e giudiziaria che ha visto coinvolto il coordinatore nazionale del Si Cobas, Aldo Milani, strumento sindacale per l’autorganizzazione delle migliaia di lavoratori della logistica in lotta ecc…

E’ evidente quindi che il contrasto alla repressione non passa esclusivamente dal mettere in piedi una necessaria e buona difesa tecnica giudiziaria, ma è soprattutto la creazione di un largo e articolato fronte di solidarietà e di movimento di opinione per condizionare e neutralizzare il braccio della repressione, per trasformare la repressione in solidarietà e forza contro l’escalation  repressiva e contro questo subdolo tentativo di cancellare il principio della lotta politica, della lotta di classe, del diritto di sciopero, equiparando le lotte sociali che combattono per migliori condizioni di vita e di lavoro ad azioni estorsive.

Respingiamo categoricamente con sdegno tutte le accuse che vorrebbero personalizzare e trasformare le lotte sociali e il conflitto di classe in un atto delinquenziale finalizzato a costringere o estorcere. Categorie invece che rappresentano a pieno proprio quella parte di società e quel sistema che rifiutiamo e combattiamo. Per questo consideriamo questi dei veri e propri processi politici.

Oggi la fase politica, storica, economica di crisi strutturale di questo sistema, impone ai padroni ed alla borghesia di trasformare i conflitti sociali in qualcosa di tecnico/giuridico ed i bisogni sociali in problemi di sicurezza. Sono li a dimostrarlo perfettamente la criminosa gestione dell’ordine pubblico del nuovo Ministro degli Interni, o meglio Ministro di Polizia, del “Partito Democratico” Marco Minniti che da un lato garantisce il diritto di parola al fascista Salvini dall’altro riserva decreti di sicurezza basati sui daspo metropolitani. O ancora le recentissime dichiarazioni del Questore di Roma, ex- Questore di Napoli, che in riferimento ai sequestri di persona di centinaia di attivisti diretti alla manifestazione contro i trattati europei a Roma dichiara tranquillamente di aver solo “verificato orientamento ideologico delle persone fermate”.

Chiunque si metta di traverso ai loro piani criminali trova una risposta repressiva. Non è lo stato a diventare più cattivo, è la crisi che avanza; e la crisi non è un errore, ma una tendenza del modo di produzione capitalistico che noi vogliamo abbattere.

Noi abbiamo scelto proprio di ricomporre e riorganizzare la classe che loro vogliono divisa, debole e frammentata. Abbiamo scelto di non girarci dall’altra parte della storia e di voler lottare per un mondo nuovo e diverso dalla barbarie odierna. I tribunali ci colpiscono singolarmente, ma quotidianamente siamo al fianco di tanti e tante che lottano contro guerre, devastazione ambientale, precarietà sociale, smantellamento dei diritti sociali, licenziamenti e la barbarie umana che avanza alzando muri e frontiere contro immigrati e trasforma mari in cimiteri di sangue.

Non ci fermeranno certo processi, restrizioni e condanne che padroni e tribunali vorrebbero utilizzare per isolarci. Se un tribunale deciderà una condanna, in questo come in altri processi, perché organizzare le lotte significa costringere le istituzioni a dare risposte concrete ai bisogni sociali, perché unire le lotte e gli sfruttati per un mondo libero da sfruttamento, oppressione e miseria significa essere delinquente per questa legge… sono fiero e cosciente di esserlo.

Se è questa l’accusa sia chiaro dichiariamo che non abbiamo nulla da nascondere: rivendichiamo la legittimità delle nostre scelte e delle nostre azioni.

Eddy – imputato nell’udienza del 31 Marzo al Tribunale di Napoli, laboratorio politico iskra.

Popoff, 31-3-2017

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Chi sia Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania, ce l’hanno raccontato a chiare lettere le sue inqualificabili parole alla vigilia del referendum. Se dici che il personaggio è squallido, rischi di offendere lo squallore. Per quanto mi riguarda, non credo che, lasciandosi andare alle dichiarazioni che ascolterete tra poco, De Luca pensasse che il microfono fosse spento. Chi intende la politica come prevaricazione e passa per mille bandiere pur di conservare poltrone  e potere, mira soprattutto a intercettare i peggiori istinti degli elettori.
De Luca probabilmente sapeva perfettamente che il microfono era acceso. Quello che contava per lui era di poter dare del pazzo e dell’incapace all’avversario politico, attribuire poi ad altri il suo pensiero per rafforzarlo e spingere al dileggio, indurre al disprezzo, alimentare l’odio, fare delle parole un manganello mediatico e sostenere a tutti i costi e in ogni modo una campagna di diffamazione, che si accompagna all’uso strumentale del potere. Un potere di cui l’esponente del PD si serve come un corpo contundente, per colpire, ferire e se possibile distruggere, senza badare minimamente alle ricadute che i suoi comportamenti hanno sui cittadini. Aspettare quattro mesi senza assegnare fondi che è obbligato a consegnare alla città di Napoli e aggravare così le già difficili condizioni dei cittadini, significa per lui semplicemente mettere in difficoltà chi, senza quei soldi, non può amministrare. Questo è il suo scopo e lo persegue tenacemente, pervicacemente, secondo le regole di una vita politica sempre più imbarbarita.
In quanto al Questore, tirato in ballo, dio solo sa se per caso, o per accordi presi, naturalmente smentisce. Strano a dirsi, però, si guarda bene dal puntare il dito su comportamenti diffamatori, mentre un dato di fatto appare a questo incontrovertibile: dei due, uno mente, Napoli, però, se li deve tenere entrambi e  poi ci si lamenta che i cittadini si allontanano dalle Istituzioni. E che altro dovrebbero fare?
Dopo la lunga ma necessaria premessa, ecco il fuori onda. Fuori onda, naturalmente, è anche il PD. Ma questo non fa più notizia.

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Da tempo la forza dei sindaci fa paura a chi ci ha trascinati nella miseria e c’è solo un modo per indebolirli: trasformarli in bersaglio della rabbia popolare. Ti taglio le risorse, i problemi marciscono e tu sei responsabile di tutti i mali. Per le strade dissestate, per i disabili maltrattati, per i mezzi pubblici che non ci sono, per tutto ciò che non va – tuonano i giornali dei padroni, aizzando la piazza – per tutto quello che ha combinato il governo dei padroni, ecco i colpevoli: i sindaci.
La forza dei sindaci dipende anche e soprattutto dalla capacità di riflettere di chi li ha votati. Prima di marciare compatti sui palazzi municipali, fermiamoci a pensare e ricordiamo che chi oggi punta il dito, ieri accumulava debiti, scialacquava e vendeva la città a faccendieri e malavitosi. Cambiamo il bersaglio, indirizziamo i colpi sugli amici di Marchionne, sui complici dei padroni, sul PD e sui servi sciocchi dell’UE.
Non abbocchiamo all’amo e ragioniamo. Se a Melendugno, i sindaci sono stati manganellati, una ragione c’è e la gente l’ha capito…

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Dove sono i microfoni e i giornalisti, i cronisti d’assalto e le colonne di prima pagina che puntano il dito? Perché per le cariche di Melendugno non si chiedono Commissioni d’inchiesta? Quando si parla di violenza sovversiva per un pugno di giovani, stanchi di subire angherie, ci vorrebbe poi, se non altro, il coraggio della coerenza e bisognerebbe chiedere conto al Governo della scene vergognose che si tenta di ignorare e coprire.
Quali interessi toccano i manifestanti di Melendugno, per costringere Gentiloni, proconsole dell’Europa, non solo a mettere in campo le forze antisommossa in difesa della «Trans Adriatic Pipeline-Tap», ma a passare a vie di fatto contro i noti e pericolosi bolscevichi salentini, travestiti da sindaci con fascia tricolore? Perché si applica alla Puglia il modello di violenza di Stato sperimentato in Val di Susa contro la No Tav? E quanti secoli di galera, grazie all’uso sapiente del Codice fascista di Rocco, si sommeranno assieme alle manganellate sulle spalle di cittadini onesti per insegnare a tutti gli altri che bisogna obbedire, credere e combattere? Se qualcuno non l’ha capito, lo sappia: qui da noi ormai chi si oppone alla continua, inaccettabile espropriazione dei diritti, o impara a star zitto, o  rischia percosse e galera. E se si tratta di intere collettività, meglio mettere in conto l’esproprio delle risorse: il PD non ti manda soldi – né romani, né europei – e ti seppellisce sotto il peso di debiti che non hai contratto.   
Senza pretendere di improvvisare lezioni di storia, val la pena di ricordare che l’Azerbaigian, il Paese da cui giungerà il gasdotto che mette sottosopra il Salento, è giovane – si è staccato dall’URSS nell’ottobre del 1991 – ma ha un singolare record: nel 1848, a Baku, vi è nato il primo pozzo dell’Europa contemporanea. Chi conosce la storia sa che quando dici petrolio, dici guerra ed è certo perciò che lì, a Baku, in Azerbaigian, ha origine l’infinita sequela di guerre e di tragedie legate al possesso dell’«oro nero». In questo senso, c’è una verità che non si dice: a San Foca non sbarca solo un veleno sul quale tra qualche decennio si porrà la pietra tombale del segreto di Stato. A San Foca sbarcano la guerra e suoi obiettivi, quella guerra nella quale siamo dentro fino al collo nonostante la Costituzione; sbarca un colpo assestato alle energie alternative e sbarca quel modello autoritario di gestione dei beni comuni che l’Unione Europea, garante di interessi inconfessabili, impone all’Europa dei popoli che non rappresenta. Popoli che ormai – anche questo è bene dirlo chiaro – hanno ormai nei Consigli Comunali legalmente eletti il loro autentico Parlamento. Un Parlamento  che ha sede nelle piazze. Al momento, la sola, vera casa della democrazia.
Qualcuno si chiederà che c’entra la guerra. C’entra. I più giovani non lo ricorderanno, ma la guerra ci accompagna ormai dal lontano 1991, da quando in Iraq scatenammo i Tornado. E’ la guerra per le risorse energetiche, non solo il petrolio, ma il gas, i cui fronti insanguinati conducono all’immenso macello mediorientale, alla tragedia libica e a quella siriana. Questo sbarca a San Foca. Conflitti di cui gli immigrati sono vittime quanto gli impotenti manifestanti di Melendugno, perché storicamente, nello scontro tra imperialismi contrapposti, ci possono essere dubbi sui vincitori, ma c’è una certezza: perde sempre la gente, perdono i lavoratori, i precari, i disoccupati e perde la democrazia. Si pensò all’Unione Europea per evitarle le guerre e battere i fascismi, ma di guerre se ne fanno oggi più di quante non se ne facessero prima di Maastricht. In quanto ai fascismi, con i soldi di Bruxelles si tiene in piedi il nazismo in Ucraina.
Si dirà che l’«oro nero» non c’entra, perché il sensibile spostamento verso le energie rinnovabili sta riducendo il peso relativo del petrolio, ma non è vero. Basta poco per capire che guerra e risorse vanno di pari passo nella storia dell’uomo, sicché c’è sempre uno stretto dei Dardanelli che uno chiude e l’altro forza. In questo senso, il conflitto siriano, cui più di ogni altro è legata la partita su gas e petrolio, non è una «guerra nuova»; dietro ci sono gli idrocarburi sepolti in tre giacimenti al largo delle coste siriane, che, sommati alle risorse presenti in un’ampia rete di giacimenti mediterranei, costituiscono un’opportunità per abbattere la subordinazione dell’Unione Europea al gas russo e aumentare l’indipendenza di Israele in tema di risorse energetiche. Altro che organismo sovranazionale che impedisce la guerra. A San Foca sbarca una Unione per la guerra, che va in rotta di collisione con la Russia, guarda caso, paladina di quella Siria che, nei piani di Putin, dovrebbe essere il ponte tra Russia ed Europa. Due gasdotti alternativi, insomma, sui quali non mette conto fermarsi troppo, se non per dire che noi dovremmo puntare su energie alternative e che, in perfetto stile coloniale, Gentiloni manganella i sindaci e i cittadini che li hanno eletti, per difendere multinazionali e affaristi che hanno le mani sporche di sangue.
Questo è. A questo dovremo piegarci o disobbedire. Se dalle piccole storie locali è possibile, infatti, capire la cosiddetta «grande storia», bene, Bagnoli con il suo commissariamento, i nostri ragazzi manganellati e criminalizzati, il governo cittadino costretto a vivere in apnea nonostante la sana amministrazione, sono, su scala ridotta, la prova dell’abisso morale in cui ci sprofondano il PD e i suoi complici. E’ necessario perciò che Melendugno senta di non essere sola, è necessario che i movimenti e le lotte che percorrono il Paese da un capo all’altro della penisola, si saldino e comincino a far sentire forte e alto il loro no. Non più e non solo, quindi, una «città ribelle», ma tante, tantissime realtà territoriali decise a reagire alla violenza eversiva che viene dall’alto. Abbiamo un’arma sperimentata: la Costituzione, che hanno tentato invano di cancellare. C’è ancora, invece, il colpo non è riuscito. Costituzione in pugno, quindi, diamo battaglia. E’ questa la nostra guerra. L’unica consentita e la sola che vogliamo combattere.

Ultima Voce, 30 marzo 2017

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barcone rovesciatoNoi pensavamo che le ragioni per cui un Governo – anche l’attuale banda di abusivi fuorilegge spernacchiata dai risultati del Referendum – si potesse appellare all’articolo 77 della Costituzione per questioni di urgenza assoluta, come per esempio la necessità di ridurre del 99 % il bilancio delle Forze Armate, di fronte alla miseria dilagante. Sbagliavamo.
Noi pensavamo che, per rafforzare la sicurezza delle città, occorresse spendere fior di quattrini per la scuola e che la vivibilità dei territori dipendesse dai colpi assestati ai due livelli della criminalità organizzata: quella politica anzitutto, annidata soprattutto nei partiti di governo, nelle assemblee dei «nominati» e quella che forma i corpi militari della politica, volgarmente noti come mafia, camorra e sacra corona. Sbagliavamo.
Noi pensavamo che la sicurezza delle piazze dipendesse soprattutto dal ritorno alla legalità repubblicana, violata dal governo e dal Parlamento dei «nominati» e dall’espulsione immediata di manigoldi, cialtroni e ladri di democrazia dalle Istituzioni. Sbagliavamo.
Noi pensavamo che l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale dipendesse dall’eliminazione della disoccupazione dilagante, della precarizzazione della vita, dell’umiliazione dei lavoratori e dalla restituzione dei diritti negati. Sbagliavamo.
Noi pensavamo che il rispetto della legalità repubblicana si potesse ottenere anzitutto mediante il ripristino delle condizioni minime di legalità sociale. Pensavamo che l’occupazione arbitraria del Parlamento fosse un reato gravissimo, ben più grave di quello commesso da chi occupa immobili abbandonati al loro destino da Istituzioni di cui ogni cittadino perbene si vergogna. Pensavamo che non si potesse nemmeno parlare di decoro urbano, se non si fosse posta mano al decoro della vita politica, ridotta a un verminaio. Sbagliavamo.
Questo governo illegittimo, espressione di un Parlamento ridotto a Camera dei Fasci e delle Corporazioni, sostiene che la sicurezza e il decoro delle città dipendono dall’«accattonaggio con impiego di minori e disabili», dai «fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi  pubblici» e lo «stazionamento» in luoghi turistici. In poche  parole, il centro storico di ogni città italiana. Forte di questa sua verità da alcolizzati, giunge ai sequestri di persona di centinaia di manifestanti allo scopo di verificarne l’orientamento ideologico, ripristina provvedimenti fascisti e ci pone tutti di fronte a un autentico paradosso: dopo che un intero Paese li ha invitati a togliere il disturbo e a lasciare libere le aule della politica, Minniti, l’uomo delle bombe sui Balcani, impone agli italiani di allontanarsi dalle loro strade e dalle loro piazze.
A chi fa tante inutili chiacchiere sull’ordine una domanda va fatta: come si fa a non vedere quanta violenza stanno subendo i nostri giovani? Come si fa a puntare il dito sui cosiddetti centri sociali e a fingere di non vedere dove sono i banditi che hanno messo a ferro e fuoco la nostra democrazia?

Fuoriregistro, 26 marzo 2017; Agoravox, 27 marzo 2017.

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Ecco, nelle parole della mia amica Marcella Raiola, l’Italia ipocrita dei benpensanti, che condanna scandalizzata i “violenti” e assolve i violentatori:

ego te absolvo«Ora, dunque, i giudici non solo pretendono, a quanto leggo, di stabilire quanto il comportamento della vittima abbia “giustificato” lo stupro, ma anche di fissare e riscontrare oggettivamente una fenomenologia stereotipata e standardizzata della reazione all’atroce offesa: senso di sporco, grida avvertibili da almeno 500 metri, pianto dirotto e via imponendo, azzerando la personalità delle singole donne, negandone l’individualità, la storia personale, il carattere, il grado di sensibilità; facendoci, insomma, “tutte uguali”, come prescritto dalla peggiore istanza e formula del maschilismo più brutale.
Capisco che la legge abbia bisogno di contrassegni e di evidenze, per mandare in galera qualcuno, anche se mi pare che solo per i casi di stupro venga tirata fuori e applicata tutta la più cavillosa e garantista casistica di giudizio, in un paese dove solitamente la giustizia fa acqua da tutte le parti e va in prescrizione di tutto, ma giudico quest’altra incredibile sentenza come uno stupro giudiziario a tutte noi e alla dettagliata, stratificata narrazione delle violenze patite, alla riflessione, cioè, sul vissuto violento, che ha spesso individuato nella rimozione e nell’ostentazione ostinata e fiera di autocontrollo alcune delle forme del rigetto di un atto devastante, e di recupero del sé perduto. Il bipede che l’ha fatta franca ha violentato una donna già vittima di abuso da parte del padre, il che imponeva ai giudici ben altro percorso ricostruttivo e analitico. Auguro a chi ha fatto della legge la copertura “civile” della peggiore sopraffazione di incorrere nello stesso giudizio e di sperimentare sulla propria pelle la perversione del diritto».

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Come buona parte della nostra sedicente «classe dirigente», Marco Minniti è troppo analfabeta della democrazia per sapere che non inventa nulla quando mette in campo i suoi strumenti di controllo politico e sociale del territorio. La concezione delle città, intese come focolai esplosivi di rivolta sociale, è così radicata nella storia delle classi, che persino la bella e monumentale Parigi, con le sue larghe vie è figlia della necessità di tenere a bada un popolo che aveva più volte rovesciato regimi. Nell’Italia crispina e poi fascista, per lunghi, lunghissimi anni, le relazioni mensili dei prefetti sullo stato dell’ordine pubblico hanno fatto riferimento a provvedimenti pensati per colpire coloro che in qualche modo deviavano dal «comune sentire» liberale e fascista. Ciò, per non parlare delle infamie repubblicane.
Il 25 marzo, come ai tempi della venuta di Hitler in Italia, gli «europeisti» alla Minniti, ministro di un governo coloniale insediato da Draghi, saluta la Troika in un clima che rinnega in una sola volta Spinelli e lo spirito della Resistenza europea al nazifascismo, da cui nacque l’Unione Europea da tempo pugnalata alla schiena dagli ospiti che si preparano a far festa a Roma.
Com’è sempre accaduto quando un’idea nobile finisce nelle mani ignobili del capitale finanziario, anche stavolta i tutori di un ordine eversivo e violento si preparano a colpire «sovversivi», dissidenti e chiunque canti fuori dal coro dell’integralismo razzista dell’UE, un mostro che ormai non ha nulla da spartire con i popoli che ha sottomesso. La procedura è identica a quella già altre volte sperimentata: ammanettare anche solo l’idea del conflitto sociale, colpire tutto ciò che somigli al pensiero critico, zittire tutti con le buone o con le cattive, innocui mormoratori, personaggi sospetti, poveracci o figure incompatibili con il pensiero ordoliberista. Tutti potremo incappare nella trappola di sanzioni che, per rapidità di procedura, discrezionalità di irrogazione e assenza di sensibilità umana, fanno carta straccia della Costituzione repubblicana e diventano il manganello pronto a colpire e a imporre olio di ricino a volontà, per togliere dalla circolazione «gli elementi manifestatisi pericolosi per la sicurezza pubblica e l’ordine sociale». Le parole sono di un Prefetto fascista, ma vanno benissimo per il progetto del nostro democratico governo europeista.
Minniti non lo sa ma grazie a lui l’idea di «ordine pubblico» che governa la repubblica antifascista è ora una fotocopia della nota n. 1888 del 5 marzo 1932 sulla «disurbanizzazione di immigrati privi di possibilità di lavoro»; una «nota» preziosa per i suoi colleghi fascisti, che «rimpatriavano» famiglie scomode, marito, moglie e persino bambini, rastrellavano «minorenni traviati», prontamente accolti in barbari istituti correzionali, colpivano i braccianti che si ostinavano a non capire le ragioni dei padroni e osavano protestare, i poveri, i vagabondi, gli omosessuali, i dissidenti e persino gli esponenti della Chiesa Battista, quando si azzardavano a far festa attorno all’albero di Natale. Fu la nota 1888, che oggi potremmo ribattezzare «nota Minniti», l’arma che indusse i malcapitati protestanti a occuparsi – pena il confino – di argomenti tesi a «valorizzare il regime» e la sua «superiore civiltà romana». Agli Imam oggi minacciamo l’espulsione, ma in tutta onestà non cambia poi molto.
In questo clima di paura e tensione, qualcuno può davvero sinceramente credere che il 25 marzo Altiero Spinelli festeggerebbe l’Unione Europea di Minniti? Qualche democratico in buona fede può immaginare Ernesto Rossi, esponente della Resistenza romana, ucciso dai fascisti della «Banda Koch», che saluta amichevolmente gli esponenti dell’Unione Europea alleata del fascista Erdogan e azionista di maggioranza del nazismo ucraino? C’è chi può onestamente illudersi che l’antifascista tedesca Ursula Hirschmann e il suo sogno federalista potrebbero convivere con gli assassini dei suoi ideali, in una Unione Europea che nega i diritti e si è ridotta a fortilizio della barbarie capitalista, responsabile del genocidio mediterraneo e della tragedia ucraina?
No. Il 25 Spinelli, Colorni, Ursula Hirschmann ed Ernesto Rossi sarebbero in piazza con la «sinistra populista». Al delirio razzista dell’olandese Dijsselbloem, Rossi opporrebbe la sua fede nell’uomo e la sua concezione della vita. Io, direbbe, trovo «inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po’ prima o un po’ dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all’eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Io ho non ho paura della morte, ma ho sempre avuto timore della ‘cattiva morte’». Così direbbe a chi lo ha definito alcolista e puttaniere, poi sfilerebbe in corteo, sfidando Minniti e quella polizia che, non avendo numeri identificativi e il freno di una legge seria sulla tortura, quando vogliono i ministri «europeisti» si comporta come a Genova nel 2001.
Sabato a Roma i democratici antifascisti saranno nelle piazze proibite. Gli antieuropeisti, invece, gli autentici populisti, se ne staranno eroicamente nascosti dietro le zone rosse presidiate della polizia. A dimostrazione del fatto che gli uomini della Troika non hanno nessuna intenzione di ascoltare i popoli, di rispettare la nostra Costituzione antifascista, di modificare, cancellare e riscrivere trattati imposti con la violenza. La Grecia massacrata, del resto, è sotto gli occhi di tutti.

Contropiano, 23 marzo 2017

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MinzoliniNon ripeterò ciò che penso della legalità senza giustizia sociale e l’ho già detto mille volte: in Italia non ci sono più deputati e senatori. Quelli che abbiamo non li ha votati nessuno e sono entrati nelle Camere con una legge incostituzionale. I fatti parlano per me e non vale la pena soffermarsi.
Mi limiterò a un’osservazione: sarebbe stato bello leggere un’Ansa con le dimissioni di Marco Minniti, “eroe di Napoli” e difensore di una legalità repubblicana che il suo partito fa a pezzi ogni giorno. Due parole, un messaggio telegrafico: “stavolta mi dimetto”.
Sarebbero state di conforto in questo momento triste le dimissioni di Grasso, un commiato indignato dell’inquilino del Quirinale, l’addio dell’onnipresente Cantone e l’uscita di scena disgustata dei destri ministeriali alla Alfano. Si sarebbe riscattata con una protesta plateale la senatrice Angelica Saggese, che si coprì di ridicolo quando, in coro con Grasso, Alfano e Cantone, chiese dimissioni e divieto di dimora per  Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, condannato in primo grado e poi assolto.
Non è andata così. sono stati tutti zitti e sono tutti dov’erano, usurpatori di un potere che non gli tocca, avvinghiati in un abbraccio, che equivale a uno sputo indirizzato agli stenti della povera gente e un intollerabile oltraggio per chi è in carcere e sconta una pena.
Si è fatto un gran parlare di violenza, si sono messi sotto accusa alcuni giovani per una sassaiola, si sono nuovamente chieste le dimissioni del sindaco di Napoli e mobilitate le Questure contro inesistenti terroristi; nessuno ha il coraggio di dire che il vero santuario del malaffare, l’autentica negazione della politica, il laboratorio di ogni violenza è il covo dei “nominati”, il Parlamento, ridotto davvero a bivacco di manipoli, come minacciò, ma non giunse a fare, Benito Mussolini.
Da troppo tempo una violenza autentica, criminale e distruttiva colpisce duramente la popolazione, in un Paese che non ne può più e se dico che chi semina vento raccoglie tempesta, non minaccio nessuno. Prendo atto dell’insanabile frattura che divide ormai i governati dai governanti.

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«Nessun essere umano è illegale», scrivono gli amici e compagni dell’«ex OPG Je so’ pazzo».

Domanda: nemmeno Salvini?

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AgoravoxAl di là di quello che si può pensare dell’Amministrazione, è impossibile non prendere atto di un gravissimo dato di fatto: continua scientificamente organizzato l’attacco premeditato a Napoli, ai lavoratori, ai cittadini napoletani e al loro sindaco, legalmente eletto per due volte. Ciò che non si può dire del Governo di cui fa parte Minniti, che vive della fiducia di un Parlamento nato da un imbroglio certificato dalla Consulta.
Nel mirino non ci sono come si vuol far credere, i cosiddetti “centri sociali”, presentati come il “male assoluto”, che sarebbe di per sé una cosa gravissima. Nel mirino c’è De Magistris e tutto questo è intollerabile. L’uscita dalla Magistratura non è bastata. Ora si vuole che esca anche dalla politica, perché, comunque l si voglia vedere, si è posto di traverso sulla strada del PD. Non si può accettarlo e non si può permetterlo. Non possiamo lasciare il gioco in mano a gente come Mara Carfagna e Vincenzo De Luca e ignorare che si sta tentando di stringere in una morsa tutto ciò che si muove in direzione contraria a quella imposta dal capitale finanziario. I “centri sociali” costituiscono una delle componenti più autonome e nello stesso tempo più positive della cosiddetta “città ribelle” e hanno contribuito ad arricchire il processo di “liberazione”, in atto nella capitale del Sud. E’ incredibile che persino i 5Stelle non facciano sentire la loro voce.
Nei limiti del possibile e conservando ognuno la propria autonomia, occorre far quadrato, rompere l’accerchiamento, opporre una narrazione diversa, che smonti quella orchestrata ad arte da una stampa sempre più serva. Non possiamo permettere la criminalizzazione dei Centri sociali, non possiamo subire in silenzio un’offensiva costruita sulle menzogne. Le forze sono quelle che sono e di fronte abbiamo davanti un gigante, ma q esto non vuol dire che bisogna rassegnarsi. Mentre ringrazio Contropiano e Agoravox, che mi ospitano, invito a leggere e – qualora si condivida – fare circolare ogni tentativo di dar voce al dissenso.

http://www.agoravox.it/Ma-i-Questori-si-cambiano.html

http://contropiano.org/interventi/2017/03/16/mi-sorge-un-dubbio-questori-si-cambiano-089935

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G8 GENOVA: VITTIMA DIAZ, SENZA SCUSE FATTI RIPETIBILIMi sorge un dubbio: i Questori si cambiano, o si ricorre a cloni di un funzionario nato con l’unità d’Italia? Un dubbio legittimo per chi passa la vita tra carte di polizia riservate e miserabili note di confidenti. La storia ha talora volti impresentabili. Uno, piaccia o no, è quello del potere. Gli metti a guardia limiti e regole, ma sulle zone d’ombra non sorge luce. Prendi il sindacato, per esempio. Oggi sarebbe comico vederci un “covo di terroristi”, ma nel 1893 a Napoli è una minaccia per l’ordine pubblico: un operaio può elemosinare, non lottare per un diritto. Se lo fa, è un “sovversivo” e la Questura lo mette dentro. Quando i lavoratori si associano, il collega di Minniti ne infiltra le organizzazioni per “conoscere il numero complessivo degli iscritti, le generalità, i connotati e un cenno biografico dei capi”. Sono furbi, i Questori. Si muovono nell’ombra, fanno schedature e mandano a Roma le liste dei più “pericolosi”. Se l’operaio parla delle otto ore, del salario e dello sciopero, ecco l’etichetta: “sovversivo”. Senza informare gli interessati, le “autorità”, segnalano i sindacalisti “più influenti affiliati ai partiti sovversivi”. La Questura ricama, la stampa fa da cassa di risonanza, ed ecco nascere “cabine di regia” e “manovre anarchiche”. Per colpire chi disturba i padroni, l’anarco-insurrezionalismo è un’arma vincente nell’Italia liberale, fascista e repubblicana. Gli schedari della Questura sono pieni di rapporti fantasiosi e inverosimili di spie e confidenti che vendono a peso d’oro notizie di terza mano, libere interpretazioni o invenzioni di trame rivoluzionarie. Costruita la trama, parte la denuncia: “si punta a fomentare le passioni, a coalizzare, con mire evidentemente politiche e avverse all’attuale stato di cose”. Perché? Per “trarre partito dal malcontento che serpeggia nelle varie classi operaie”.

In questi giorni, leggendo i giornali e ascoltando il Questore, mi è sembrato di essere in archivio tra le carte del 1893. Allora come oggi, le cause del malcontento non interessano  nessuno. Contano i “sovversivi”. Quasi sempre presunti. Si costruiscono teoremi e si fanno girare inverosimili soffiate di confidenti. Così, per tornare al passato, fa paura persino una bevuta “in una bettola fuorigrottese, ove si legge una lettera pervenuta da Palermo”. Nessuno sa che c’è scritto, ma è certo: è un piano rivoluzionario al quale, suggerisce un infiltrato a caccia di quattrini, “prenderebbe parte un giovane prete dimorante al Vomero”. Il condizionale la dice lunga e il senso del ridicolo consiglierebbe più serie riflessioni, ma “in alto” si preme. Per colpire gli operai, la Questura induce il proprietario di uno stabile a sfrattare i sovversivi, la Procura “garantisce che dal locale Pretore sarà emessa relativa ordinanza e, nello stesso giorno in cui giunga, fatta eseguire”. Per le accuse è presto, ma il Questore trasmette in via riservata alla Procura Generale copia dei rapporti destinati al Prefetto. La procedura é inusuale ma serve allo scopo e si giunge al punto di denunciare gli autori di un manifesto che due settimane prima è stato giudicato del tutto legale. I lavoratori scoprono un provocatore, un ex agente di PS, lo espellono, ma qualcuno lo inserisce nell’elenco degli iscritti “ritoccato” dopo il sequestro, e in Tribunale fa la sua parte di testimone. Falso naturalmente. Per un po’ si cerca un’imbarcazione “comandata da un maltese, che dovrebbe arrivare dall’Albania con armi da sbarcarsi lungo la marina di Licata e Porto Empedocle”. Nessuna la trova e le perquisizioni senza mandato non tirano fuori carichi di armi, ma la “velina” della Questura giunge a giornali compiacenti e crea un clima di tensione giustificato, scrivono le Autorità, dalla “necessità di opporsi con energia al movimento che nelle presenti condizioni economiche e morali di queste basse classi sociali, può da un momento all’altro gettare la città in preda allo scompiglio”.
Occorrono imputati “deferiti al potere giudiziario sotto il titolo di Associazione di malfattori”. Cos’, scrive il Prefetto; poi, Creato l’allarme, il solito confidente tira fuori un misterioso piano di rivolta imminente a Palermo, Messina e Napoli. Inizierà, si dice, con “incendi dolosi appiccati nella notte”. La Questura, avuta “notizia sicura che gli incendi si sarebbero praticati nella nottata mediante petrolio e acqua ragia” di cui sarebbero intrisi “stoppacci accesi gettati negli scantinati”, mette in moto “pattuglie che percorrono la città in tutti i sensi con ordine di fermare, perquisire e arrestare”. Nel cuore della notte sono presi due individui, che, guarda caso, hanno con sé due bottiglie di acqua ragia e un foglio con la scritta a mano: “Viva la rivoluzione sociale”. Due terroristi e due bottiglie di acqua ragia sarebbero ben povera cosa per una rivoluzione, ma la Squadra Politica sostiene che mille compagni, impauriti, si sono ritirati. Nella fretta, la Questura sbaglia la data dell’arresto e anticipa d’un giorno la rivolta, ma per i giudici va bene così. La fantomatica rivolta non c’è, ma due bottiglie d’acqua ragia e le chiacchiere di un sarto arrestato, che si “pente” bastano e avanzano.
Al processo, tutto si basa su insinuazioni di anonimi confidenti della Questura. La difesa chiede di interrogarli, ma il giudice rifiuta, perché “le informazioni dei confidenti trovano riscontro negli atti”. E’ verità di fede. I due “terroristi” negano: l’acqua ragia è strumento di lavoro. Nessuno gli dà retta. Degli agenti che testimoniano, uno è colto con un foglietto da cui legge appunti e nomi d’imputati; un altro manda su tutte le furie il giudice che lo interroga perché ricorda “cose molto differenti da quelle risultanti nella deposizione scritta”. Un ispettore, infine, messo alle strette dalla difesa, ammette che gli imputati non sono sovversivi pericolosi. Il giudice preoccupato, scrive allora al Questore per fargli “raccomandazioni sul contegno di funzionari e agenti che dovranno essere intesi, non potendo in caso contrario garantire l’esito del processo”. Preoccupato è anche Crispi, Presidente del Consiglio, che ingiunge al Prefetto “di sollecitare il più possibile il pronunciato della Camera di Consiglio, ritenendo opportuno lo scioglimento del sindacato”. In quanto al sarto, il testimone chiave ritratta le dichiarazioni rese in istruttoria e narra la storia di durissimi interrogatori, di lunghi digiuni e della privazione dell’acqua. La polizia, racconta, l’ha convinto a firmare una dichiarazione falsa e già preparata. Dopo un’altalena di violenze e lusinghe, ha ceduto in cambio di 500 lire, un passaporto e la sistemazione delle figlie. L’uomo non mente. In archivio la polizia ha dimenticato la ricevuta della cifra pattuita firmata da un ispettore. Il processo è una farsa, ma Il sindacato è disciolto e i sindacalisti sono spediti in galera.

Un caso eccezionale? No. Nel 1914, quando l’Italia prepara la guerra, l’ostacolo sono gli operai antimilitaristi. A giugno del 1914 l’esercito liquida il conto, sparando sui lavoratori. A Napoli sono ammazzati quattro dimostranti. Due sono operai di 16 anni. Polizia e bersaglieri sostengono di aver  sparato una sola volta per legittima difesa e poiché i morti si sono trovati in due vie diverse, si “aggiustano” gli atti. Un testimone ferito, arrestato, si rimangia le accuse e “per imperiose ragioni di ordine pubblico”, uno dei due morti è nascosto “nella sala mortuaria del Trivio”, il cimitero ebraico. Mentre per giorni la povera madre cerca il figlio ucciso, si prende tempo e si concorda una versione tra i Commissariati di quartiere. “Prego redigere un unico rapporto ribadente questo solo punto di vista”, scrive il Questore ai dipendenti: “c’è stato un unico conflitto a fuoco. Confido nella solerte abilità ed attendo un preciso rapporto per il quale è opportuno prendere accordi col Colonnello che comandava la truppa”. Un giudice nota che “l’esame necroscopico e gli accertamenti generici escludono che uno degli operai sia morto con gli altri”, ma tutto è sepolto in archivio, anche la verità narrata da un veterinario, finito in ospedale per uno scontro a fuoco in cui è morto un lavoratore. La via dei tumulti non è quella indicata dalla Questura.
Si può dire ciò che si vuole, ma le cose stanno così: negli anni settanta una legge della Repubblica ha dichiarato “perseguitati politici” 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici che tra il 1948 e il 1966, hanno dato fastidio. In Archivio ci sono ancora i telegrammi della polizia repubblicana che pedina il mio amico Gaetano Arfè, partigiano, storico di prestigio e direttore dell’Avanti, che è in contatto con quell’autentico pericolo pubblico che risponde al nome di Giorgio Napolitano. Chi non ci crede, controlli. In archivio Sandro Pertini è ancora schedato come malfattore. Lo tenne prigioniero a Ventotene un camerata del noto Almirante, per dirla col linguaggio dei questurini: Marcello Guida, direttore della colonia penale fascista di Ventotene, ove fu prigioniero anche Terracini, che poi firmò la nostra Costituzione. Chi non se ne ricorda, si informi. Scoprirà che il 12 dicembre 1969, quando una bomba fascista fece strage a Milano, all’epoca italiana e oggi capitale della Padania, il Questore che coordinava le indagini era Marcello Guida. E fu lui, Guida, a mentire agli italiani sostenendo che l’attentato era opera di anarchici insurrezionalisti. Pochi giorni dopo il povero Pino Pinelli, volò dal quarto piano della Questura retta dal Guida, alto funzionario fascista e incredibile Questore della Milano antifascista. Malore attivo, si disse, ma non è chiaro che voglia dire.
Si potrebbe continuare a lungo, giungere a Genova e Cucchi, ma a che serve?

Sbaglierò, ma in questi giorni sento puzza di montatura. Per ora si sono indicati ignoti colpevoli all’opinione pubblica. Poi verranno il reato e i nomi. Senza aspettare un sarto che si penta, si può azzardare una profezia: i nomi li hanno già fatti i giornali e in quanto al reato, da noi vige ancora il codice del fascista Rocco, con la devastazione e il saccheggio pensati per gli oppositori del regime. Nessuno lo dice ma mentre scrivo c’è un ragazzo che sconta 14 anni di carcere per un bancomat distrutto. Un lavoratore uccisi sul lavoro ti costa un anno e il carcere non lo vedi manco da lontano.

Agoravox e Contropiano, 16 marzo 2017

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