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Archive for giugno 2009

Se il silenzio può essere prigione, tutto ciò che lo rompe – parole, discorsi, libri – può servire a chiudere una cella meglio d’un catenaccio e, non di rado, più che del silenzio, siamo prigionieri del rumore suscitato ad arte da un uso strumentale della parola. D’altro canto, parole occorrono per mentire e parole servono a raccontare la verità: la guerra è una barbarie, certo, ma c’è chi la vuole santa e chi umanitaria. Se è stata partigiana, fu guerra comunista ed oggi, che regna il capitale, si dice terrorista. Sull’antifascismo non c’è chi non dica la sua: Galli Della Loggia piange la “morte della patria”, Violante saluta con rispetto la Decima Mas e, stando a Pansa, gli antifascisti furono solo banditi comunisti. Se chiedi nomi, è un coro: Longo, Nenni, Pertini, Togliatti. Gli assassini di Mussolini e i fondatori della partitocrazia. Eppure la resistenza al fascismo durò oltre vent’anni e visse nel silenzio: un silenzio che ebbe un’etica e rese carcerati i carcerieri.

Umberto Vanguardia

Nell’elenco degli iscritti alla sezione napoletana del Partito Socialista, sequestrato dalla polizia nel novembre del 1893, Umberto Vanguardia è inserito nella sparuta pattuglia degli “impiegati” [1]. In realtà è solo un ragazzo che frequenta il ginnasio. L’età è quella dei sogni e delle passioni egualitarie e Napoli, “con le sue grandi miserie materiali, brulicante di pitocchi, di scugnizzi, di camorristi e di prostitute, e con le sue grandi miserie morali, […] sorridente di sole e purulenta di piaghe” è “un invito permanente a rivoltarsi, ad insorgere, a levarsi contro tutti” [2].
Ripudiato Mazzini per lo scudo sabaudo, ridotta l’esperienza garibaldina a Bixio e ai contadini fucilati a Bronte [3], l’Italia che conta è con Crispi e non sogna, sicché è quasi fatale: il 9 agosto del 1894, Vanguardia, a meno di sedici anni, finisce in manette [4]. La storia della democrazia passa solitamente per tribunali e celle.
Nel maggio del 1898, coinvolto nei tumulti generati dal prezzo insostenibile del paneil giovane, che continua a sognare un mondo migliore, è incluso in un elenco di “sovversivi” responsabili dei moti, sicché, a soli diciannove anni, benché non esista uno straccio di prova che lo accusi, sperimenta il domicilio coatto. Evaso, si consegna a novembre, quando lo stato d’assedio è finito, e torna libero dopo una breve reclusione [5]. Fa le prime prove tra i socialisti, riunendo in lega di resistenza i camerieri di caffé e ristoranti , ma ai primi del Novecento, negli anni dell’idillio tra Giolitti e Turati, passa agli anarchici [6]. Attivo propagandista e redattore di numerosi fogli “sovversivi” [7], nell’estate del 1907 entra a far parte della redazione della “Protesta Umana” e va a vivere a Milano, da dove parte spesso per giri di propaganda contro il domicilio coatto e il militarismo. Ce n’è quanto basta perché il 22 febbraio 1908 la questura di Milano lo rispedisca “in patria” con foglio di via e con l’etichetta di “anarchico pericoloso” [8].
Tornato a Napoli, dà vita al “Sorgete”, un gruppo che si attesta sulle posizioni del “comunismo libero, sintesi sicura di quanto si chiede dall’umanità all’alba della storia: la libertà economica e la libertà politica” e attacca gli “autoritari”, che chiamano “organizzazione” ciò che, in realtà, è solo una “gerarchia che legifera e funziona in vece di tutti gli altri, oppure fa seguire, in nome della massa, una rappresentanza” [9]. E’ un rifiuto netto del “partito politico”, che, tuttavia, non esclude la partecipazione all’attività sindacale, intesa come “quell’accordo, che si forma, in base d’interessi, tra gli individui unitisi per terminare un’opera comune” [10]. Sono i temi di fondo della cultura libertaria, che animano il dibattito tra militanti ed in cui si inserisce a pieno titolo la polemica del Vanguardia contro il “Teatro di Montecitorio” che, “unico nel suo genere di produzione, desta negli animi […] un senso di nausea e di disprezzo” e limita “sfacciatamente ogni libertà, dalla riunione […] al pubblico comizio”, sicché, di sopruso in sopruso, si è giunti al “sequestro preventivo dei giornali, alla loro soppressione, all’arresto dei cittadini per delitto di pensiero, alle fucilate date alle plebi affamate che hanno avuto il torto di chiedere […] a viva voce un loro diritto” [11].
Cresciuto nel fuoco della lotta, il Vanguardia non si limita però alla “battaglia delle idee” e il 13 ottobre del 1909, mentre in città i comizi di protesta per la condanna a morte di Francisco Ferrer fanno i conti con la violenza delle cariche di polizia, rischia il linciaggio, facendo esplodere a scopo dimostrativo un petardo “nella chiesa parrocchiale di Montesanto […] e dandosi poi alla fuga rincorso dai presenti e da Guardie di Città”. Non vi sono feriti – annota il prefetto – ma la “bomba”, che “ha prodotto un po’ di sgomento e nient’altro”, costa al Vanguardia quasi un anno di carcere [12]. Una condanna che non gli impedisce di passare al gruppo dell'”Aurora Libertaria”, e di tornare all’attività sindacale [13]. L’occasione viene dall’aspra vertenza dei tessili della “Wenner” di Scafati dalla quale, però, dopo violenti scontri con la polizia, l’anarchico esce con una denuncia per lesioni e mancato omicidio ai danni d’un delegato di PS [14]. Anima dei “comitati di quartiere” sorti tra gli operai in lotta per il caro-casa, Vanguardia guadagna la fiducia dei compagni e nell’aprile del 1912 diventa segretario della “Lega dei lavoratori dell’Arte bianca”, guidandoli abilmente in una dura vertenza [15]. La guerra, che nel 1914 sconvolge l’Europa, lo vede impegnato nella propaganda antimilitarista, fino a quando la “cartolina precetto” non lo spedisce in prima linea, nel carnaio delle trincee e nell’orrore dei campi di battaglia, tra i fanti del 125° Reggimento [16]. Finita la guerra, riprende il suo posto alla Camera del Lavoro, torna alla testa della “Lega dei panettieri”, che conduce alla vittoria in una difficile vertenza, e dà vita ad un “Circolo popolare” e ad una “Lega Inquilini” che, col “pretesto di combattere le pretese esorbitanti dei proprietari di case”, tenta di “trarre profitto dal pubblico malcontento” per opporre alla marea fascista il lavoro di propaganda e l’attività sindacale [17]. Il primo maggio del 1924, quando la partita appare irrimediabilmente persa, si reca con alcuni compagni in una bettola, sale su un tavolo e canta l’Internazionale [18]. Puntuali scattano ancora una volta le manette e non fa meraviglia se il 22 novembre del 1926, solo pochi giorni dopo l’approvazione delle leggi “fascistissime”, giungano la condanna a quattro anni di confino, l’arresto e la tortura di un viaggio inumano, che lo conduce a Pantelleria, sfinito, incatenato e ammanettato ad altri confinati [19]. L’impatto con la colonia è durissimo. Separato fisicamente da qualsivoglia contatto con la realtà del Paese, sottoposto all’arbitrio delle guardie e ad un’azione di controllo che, prima ancora degli atteggiamenti concreti, tende a colpire un’astrazione – la pericolosità sociale e politica – della quale, agli occhi dei suoi aguzzini, egli rappresenta il modello, Vanguardia, pur di sottrarsi all’inferno in cui sente di precipitare, lascia che la sorella inoltri al duce una domanda di grazia che, di fatto, non ha alcuna speranza di essere accolta. Al regime e al suo “duce”, “che il mondo giustamente onora” e che gli italiani sono “orgogliosi di chiamare Salvatore”, la donna “unica e sola al mondo e derelitta, che vive solo del fratello disgraziato”, non ha nulla da offrire. Io, scrive a Mussolini, “ho solo la speranza che mio fratello alla luce del miracolo che V. E. ha operato per la salute d’Italia, si costruisca una nuova coscienza” [20]. La speranza, però, non rientra nella logica disumana della repressione; Castelli, Alto Commissario per la Provincia di Napoli “non ritiene che il Vanguardia […] abbia fatto ammenda del suo passato” ed esprime “pertanto parere contrario a che l’istanza della Vanguardia Concetta venga per ora presa in considerazione”.
Di fatto, la lettera della sorella non è ancora giunta a destinazione, e già il confinato, tornato in manette e catene, ha ripreso il mare per raggiungere la nuova sede di confino: Ustica, dove il regime prova a seppellire alcuni dei suoi più temuti avversari e dove più spietato è il regime di polizia [21].
L’isola, in cui un delinquente comune giungerà ad assassinare un “politico”, gode di una fama sinistra: vi impazza, rammenterà anni dopo Aldo Garosci, “un famoso aguzzino, brutale e neuropatico, il tenente Guasco, del quale si ricordano parecchi episodi selvaggi. Prigionieri politici e […] comuni (sfruttatori di donne, mafiosi, strozzini) convivono con le guardie in quei quattro palmi di terra […] e tutte queste circostanze, quando anche non vi fosse stata la volontà malvagia di incrudelire, delle guardie, sarebbero già bastate a rendere il soggiorno nell’isola difficile da sopportarsi per dei nervi meno che solidi” [22]. Come non bastasse, Cesare Mori, il “prefetto di ferro” inviato a Palermo da Mussolini con pieni poteri per risolvere il problema dei rapporti tra regime e mafia [23], ritiene che la colonia, in cui “sono tenuti insieme in media 360 confinati politici (tra i più pericolosi sovversivi del Regno) e 160 confinati comuni”, si possa trasformare nel “centro propulsore di un pericoloso movimento” che, avendo “rapporti clandestini col sovversivismo clandestino italiano e straniero”, riesca “di grave nocumento al Regime”. Per “accertare riservatamente” l’eventuale attività politica dei confinati “e poterla tempestivamente stroncare”, il Mori si è affidato a Vincenzo Picone, graduato della milizia, che è “andato a Ustica quale volontario di confidenze alle autorità”, ed è confinato come “politico”. Al servizio di Mori e all’insaputa del Picone, fa da provocatore un comunista confinato, Riccardo Fidel, “capace di commettere atti inconsulti e di palesare fatti o addirittura di inventarli” [24].
Pur agendo separatamente – Picone non si fida affatto di Fidel – i due convincono Alberto Memmi, centurione della Milizia, a muoversi con la massima rapidità perché, a loro dire, i confinati politici di Ustica non solo hanno tra loro oscuri contatti, ma vanno perfezionando pericolose intese con i “sovversivi” che operano in Italia e all’estero e tutto lascia credere che intendano giungere ad una rivolta che agevoli un tentativo di fuga [25]. Dopo indagini inizialmente caute, le autorità di polizia raggiungono la convinzione che i confinati ricevono “regolarmente somme per il Soccorso Rosso”, che nell’isola si appresta “un movimento insurrezionale, allo scopo di permettere ai confinati dei evadere, servendosi di una nave che fu vista accostarsi […] e che poi si allontanò per una direzione insolita, tenendo una falsa rotta” [26]. La notte del 30 settembre 1927, Mori mette a soqquadro l’isola con una serie di perquisizioni negli alloggi dei confinati e dei residenti ritenuti loro complici [27]. Di lì a pochi giorni, questore e prefetto, che intendono soprattutto fiaccare il morale dei confinati, danno corpo alle ombre e formulano i capi di accusa: tra i confinati, sostiene Mori, si sono “costruite clandestinamente, organizzazioni di partito ed una di fronte unico in rapporto con i sovversivi del Regno e dell’estero, aventi lo scopo di evasione e di ribellione contro i poteri dello Stato” [28]. Quanto basta perché, oltre al Picone, invischiato nella vicenda dal Fidel, siano arrestati e denunciati al Tribunale Speciale 56 confinati, tra cui Umberto Vanguardia e antifascisti della statura di Amadeo Bordiga e Giuseppe Berti, degli ex deputati socialisti Giuseppe Romita e Luigi Fabbri, di Giuseppe Massarenti, leader di quello che fu il più forte movimento cooperativistico dei braccianti agricoli, dei libertari Guglielmo Boldrini e Fioravante Meniconi, che ha tradotto e diffuso in Italia Emile Armand, e di Mario Angeloni, che sarà poi segretario del partito repubblicano in esilio, comanderà in Spagna la colonna Rosselli e sarà mortalmente ferito combattendo a Monte Pelato [29].
Arrestato a Ustica il 10 ottobre 1927, Vanguardia è tradotto in catene “alle carceri di Palermo a disposizione del Tribunale Speciale di Roma, siccome imputato ai sensi della legge sulla difesa dello Stato” [30]. Carcere duro per mesi, un’istruttoria che sembra interminabile, la brutalità degli interrogatori, poi di nuovo catene, in viaggio per un ritorno a Napoli che, a giugno del 1928, lo conduce in cella al carcere di Poggioreale. Ancora atti istruttori, ancora l’estenuante pena degli interrogatori, ancora la necessità di difendersi e di non prestare ascolto alla tentazione dei “vantaggi” offerti in cambio di una qualche “collaborazione”. Vanguardia “però tiene”, resiste alla tentazione fortissima di chinare la testa, per riaquistare una libertà ormai indispensabile ad una condizione di salute sempre più precaria, e va avanti con immensa fatica e dignità. Negli anni delle prime battaglie, quando lo soccorreva l’entusiasmo giovanile, aveva orgogliosamente affermato: “Non varranno prepotenze e violenze contro di noi […]; non abbiamo paura e respingeremo senza esitazione qualsiasi mezzo voi adotterete” [31]. E’ stanco e malato allorché, assolto per insufficienza di prove dal Tribunale Speciale, dopo quasi di un anno di carcere è trasferito a Ponza, dove la salute peggiora di giorno in giorno e ne piega progressivamente la resistenza fisica [32].
Quando torna libero, Vanguardia è molto malato e non ha nulla da rimproverare a se stesso, nemmeno l’istanza di grazia firmata per poter morire a casa [33]. Come ogni tiranno, Mussolini, ha un’inconfessabile paura delle sue vittime e non è disposto a fare dell’anarchico un eroe; stavolta, perciò, non ha dubbi: l’ora della liberazione non può, non deve coincidere con quella della morte. La pratica va chiusa. L’uomo che il primo febbraio 1930 lascia i compagni a Ponza, diretto a Napoli, è stanco e sofferente; ha lottato sin quando ha potuto, si è piegato ai suoi limiti, alle sue debolezze, a una fatica che non riesce più a sostenere, ma non ha tradito i suoi ideali. Il 28 dicembre 1931 muore nella sua abitazione al n. 45 di via Bernini, là dove non una lapide ricorda ai giovani la sua passione politica e il suo impegno civile [34].

NOTE

1 – Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASN), Gabinetto di Questura (da questo momento GQ), seconda serie, 1888-1901 (da qui in poi IIS), busta (da questo momento b.) 86 bis, fascicolo (da qui in poi f.) “Fascio dei Lavoratori”, elenco degli iscritti.

2 – Arturo Labriola, Spiegazioni a me stesso, Centro studi sociali problemi del dopoguerra, Napoli, 1945, p. 18.

3 – Sui fatti di Bronte, Benedetto Radice, Nino Bixio a Bronte, con introduzione di Leonardo Sciascia, S. Sciascia, Caltanissetta 1963; Emanuele Bettini, Rapporto sui fatti di Bronte del 1860, Sellerio, Palermo, 1985; Maria Sofia Messana Virga, Bronte 1860: il contesto interno e internazionale della repressione, S. Sciascia, Caltanissetta, 1989; Pasquale Iaccio (a cura di), Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini, Liguori, Napoli, 2002.

4 – Nel corso di una perquisizione, fu rinvenuta una lettera indirizzata alla madre in cui il giovane asseriva di voler diventare un “santissimo Caserio”. Interrogato sul significato di quelle parole, rispose che, dopo aver seguito sulla la stampa il processo politico al socialista Giuseppe De Felice e ai suoi compagni, “aveva concepito in mente l’idea di uccidere S. E. Crispi, causa della rovina della famiglia De Felice e delle sofferenze di migliaia di uomini. Soggiunse che tale sua idea delittuosa non sarebbe passata dallo stato intenzionale a quello di esecuzione”. Archivio Centrale dello Stato di Roma, (da questo momento ACS), Ministero dell’Interno (di qui in poi MI), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale (d’ora in avanti CPC), b. 5312, f. “Vanguardia Umberto”, cenno biografico al 12-11-1895. Sante Caserio, panettiere anarchico e antimilitarista, uccise il Presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Intendeva così vendicare il compagno di fede Auguste Vaillant, al quale Carnot aveva rifiutato la grazia, benché la marmitta esplosiva da lui lanciata in Parlamento non avesse avuto conseguenze mortali. Al processo il Vaillant dichiarò di aver scelto di “ferire un gran numero di deputati piuttosto che uccidere qualcuno. Se avessi voluto uccidere – spiegò – avrei caricato la bomba con dei pallettoni. Ho messo dei chiodi; ho voluto quindi solo ferire”. Turati, che aveva conosciuto Caserio e non fu mai indulgente coi terroristi, scrisse di lui che fu “mite, pensoso, taciturno, notoriamente affettuoso e laboriosissimo”. Filippo Turati, Il loro duello. L’assassinio di Carnot, “Don Chisciotte”, 26 giugno 1894. Su Caserio c’è oggi la voce curata da Maurizio Antonioli per il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003, vol. I, pp. 333-335, che contiene anche un’ottima bibliografia, e il recente Rino Gualtieri, Per quel sogno di un mondo nuovo: i brevi anni di un anarchico lombardo, Euzelia, Milano, 2005.

5 – Cronaca da Napoli, “Avanti!”, 9-7-1898. ASN, GQ, IIS, b. 86 ter, f. “Federazione Socialista Napoletana”, e b. 128, f. “Socialisti”, elenco dei socialisti più pericolosi del Circondario alla data del 12-5-1898. Sul Vanguardia si veda la voce curata da Giuseppe Aragno per il , cit., vol. II, pp. 648-49.

6 – Il comizio d’oggi, “Il Pungolo Parlamentare”, 5/6-12-1901; I camerieri d’alberghi, restaurants e caffé, “La Propaganda”, 5-12-1901; ASN, GQ, IIS, b. 110, f. “Camerieri di Caffé e Ristoranti”, dispacci telefonici del 4 e del 5-12-1901; e ACS, CPC, b. 5321, f. Vanguardia…”, cit., nota 20622 del 31-7-1901 e 4205 del 22-5-1903 da MI a Prefetto di Napoli (di qui in poi Pna).

7 – Nel 1899 fu redattore de “La Giovane Italia, giornale politico democratico che uscì per qualche tempo a Napoli. Ivi, b. 198, f. “La Giovane Italia”, nota 4758 del 2-6-1899. Il 25 marzo 1906 pubblicò a Napoli “La Voce dei Ribelli”, cui seguirono il 15 e il 25 agosto “Ribelli” e il 20 settembre “I Picconieri”. Il 3 agosto del 1906 uscì “Sorgete” che, diventato poi “Sorgiamo!”, pubblicò l’ultimo numero il 12 giugno del 1910. Fu redattore dei fogli milanesi “Agitiamoci”, “Diritto alla Vita” e “La Protesta Umana”. Nel 1915, infine, fondò e diresse a Napoli il periodico “La Battaglia”. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 7694 del 22-8-1906 dal Pna a MI; 3179 del 6-11-1907 dal Console italiano in Canton Ticino a MI; note n. 8405 del 22-2-1909 e n. 6347 del 16-6-1915 da Pna a MI; Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol I, tomo 1, Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), Crescita Politica, Firenze, 1972, pp. 196 e 223-24.

8 – A giugno del 1907 è a Roma, al Congresso nazionale degli anarchici; il 3 novembre parla al comizio di Milano per le vittime politiche ed è poi segnalato a Pavia, Vigevano, Biella, Santhià e Lugano, dove frequenta la “Cooperativa Umanista” diretta da Dante Marchesi. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., note 5229 del 18-6-1907, da Pna a MI, 4932 del 13-11-1907 da Prefetto di Milano (da qui in poi Pmi) a MI, 7618 del 6-12-1907, 1039 del 18 febbraio 1908, 2125 del 22 febbraio 1908, da Pmi a MI; 1328 del 27-2-1908 da Pna a MI, e lettere 3179 del 6-11-1907 e 9936 del 7-11-1908 da Consolato Generale nel Canton Ticino a MI.

9 Il Propagandista, “Sorgiamo!”, 7-10-1909. Il giornale intitolato inizialmente “Sorgete” era espressione del gruppo costituito dal Vanguardia. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., Telegramma espresso di Stato 4937 del 28-81909 da Pna a MI.

10 – Silvia Sortys, Organizzazione e autorità, “Sorgete”, 3-8-1909.

11- Umberto Umberti (pseudonimo di Umberto Vanguardia), Comedianti, “La Voce del Ribelle”, 25-5-1906.

12 – Col Vanguardia furono arrestati anche gli anarchici Michele Balsamo, Carlo Melchionna e Gennaro Mariano Pietraroia. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., fonogramma 8782 del 13-10-1909 da Pna a MI, telegramma 1749 del 14-10-1909 dal Comando Carabinieri, Divisione Napoli Interna a MI, telegrammi 5872 e 5873 del 13-10-1909, nota n. 9445 del 16-10-1909, note 14396 del 5-11-1910 e 1671 del 16-12-1910 e telegramma 5089 del 18-8-1912 tutti da Pna a MI.

13 – Libro dei verbali della Sezione napoletana del Psi, Riunione del 10-9-1910. L’esistenza dei verbali, raccolti in due quaderni, mi fu segnalata anni fa da Gaeatano Arfè, che li aveva ricevuti dal padre Raffaele, segretario della sezione. Arfè ricavò il saggio Per la storia del socialismo napoletano, Atti della sezione del Psi dal 1908 al 1911, in “Movimento Operaio”, 1953, n. 2, pp. 291-293 poi diede i preziosi documenti a Luigi Mascilli Migliorini, il quale cortesemente mi consentì di fotocopiarli. Ne trassi poi, a mia volta, Il saggio I socialisti napoletani a inizio secolo tra intransigenza e blocco popolare, ne “Il Corriere Calabrese”, anno III, n. 3 e 4, luglio dicembre 1993, pp. 29-53.

14 – ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit.., note 12586 del 5-10-1910, 13126 del 12-10-1909 e telegramma n. 3939 del 29-10-1910, tutti da Pna a MI.

15 – Ivi, nota 3735 dell’8-4-1912, telegramma 5089 del 18-81912 da Pna a Mi, e “Roma”, 7-1 e 21-5-1914.

16 – Prima di partire per il fronte il Vanguardia, che era iscritto al gruppo anarchico “Amilcare Cipriani” e fu fermato per propaganda antimilitarista. Ibidem, note 1157 del 2-2-1915, 3776 del 13-4-1915, 6347 del 15-6-1915, 2066 del 25-2-1917 e 2868 del 24-3-1917 da Pna Menzinger a MI; ASN, Qustura, Polizia Amministrativa e Giudiziaria, b. 428, f. “Minieri Giovanni” nota 9705 del 3-9-195 da PS Vomero a Questore.

17 – Ivi, GQ, IIS, b. 672, F. “Panettieri. Lavorati”, Memoriale inviato dal Vanguardia al Questore con le rivendicazioni su orario, salario e funzionamento del Collocamento e fonogramma urgente del 5-12-1919. I lavoranti panettieri proclamano lo sciopero, “Il Mattino”, 6/7-11-1919; Lo sciopero dei panettieri continua, ivi, 7/8-12.1919; I lavoranti panettieri e l’organizzazione, “Il Mezzogiorno”, 28-11-1919; Gli scioperi del giorno. I panettieri, ivi, 9/10-12-1919; L’agitazione dei lavoranti panettieri, “Roma” 5-12-1919 e Una lettera dei negozianti panettieri. Minaccia di serrata, ivi, 15-12-1919. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit, note 3752 dell’8-5 e del 7-11-1924, da Pna a MI.

18 – Ivi, nota n. 3752 dell’8-5-1924, da Pna a MI.

19 – Ibidem, nota 6388 dell’1-12-1926 da Alto Commissariato per la Provincia di Napoli a MI. I condannati al confino non erano mai preventivamente avvisati. L’arresto era effettuato nel pieno della notte e la traduzione in carcere era immediata e brutale. Il detenuto, costretto a vivere poi in una cella malsana, di piccole dimensioni, non aveva alcuna possibilità di parlare con i familiari o con un avvocato. Non poteva leggere – erano vietati tutti i libri – spesso era picchiato e sottoposto ad angherie e torture. Per sgombrare il campo da rinnovate sciocchezze e dichiarazioni in “stile Longanesi” sul “regime temperato” e sul confino inteso come “villeggiatura”, cui si lasciano andare neofascisti travestiti da liberarli, val la pena di riportare alcune testimonianze dirette ed inequivocabili sulla realtà della repressione fascista. Si prenda, ad esempio, l’ingenua denuncia dall’ormai settantatreenne anarchico Giovanni Bergamasco, naturalista, insegnante nelle scuole statali, giornalista e dirigente politico: “Voglio solo richiamare l’attenzione della stampa e delle autorità – scrive il Bergamasco – sui locali immondi, indecenti, sudici, dove vengono trattenuti gli arrestati politici. Mi limiterò, per esser breve, alla Camera di sicurezza del Commissariato di Celio, dove sono stato rinchiuso or ora, in occasione dell’anniversario della nascita di Roma. Il locale è capace di 27 metri cubi e quasi tutto il suo spazio è occupato da un tavolaccio. Vi mancano luce ed aria e fa freddo ed umido. In un angolo è posto un puzzolente recipiente di legno per i bisogni naturali. Non si esce all’aria. Per cibo si ha un poco di pane con companatico. Ma ciò che è peggio, è che il tavolaccio e le coperte son pieni zeppi di schifosi parassiti, che come si sa sono propagatori d’una quantità di malattie contagiose. […] E’ questo forse il modo civile di trattare i politici?”. Ibidem, b. 515, cit., Lettera aperta, mai pubblicata, inviata al “Messaggero”, alla “Tribuna” e al “Giornale d’Italia”, il 28 aprile 1936. In quanto al confino, a ristabilire un minimo di verità, penso basti riportare quanto scrive prima al re e poi a Mussolini Pasquale Ilaria, condannato a cinque anni di confino, per aver spinto la popolazione di Caposele ad inscenare una dimostrazione ostile al regime. Volontario in Libia, capitano nel primo conflitto mondiale, l’Ilaria, che è mutilato, invalido e decorato al valor militare, è così duramente colpito dalle penose condizioni di vita cui è costretto a Tremiti, che chiede a Vittorio Emanuele “di convertire l’arbitraria tortura del suo confino con la pena più umana e più vantaggiosa per l’erario della fucilazione. […] Che Iddio – aggiunge poi – salvi Vostra Maestà, la vostra grande Stirpe e l’Italia”. Ibidem, Confino Politico, b. 531, f. “Ilaria Pasquale”. Il re ovviamente non si degna di rispondergli; anni dopo, contando sulla sua disperazione, Mussolini gli offre la grazia in cambio di un ravvedimento. Una proposta che Ilaria rifiuta perché, scrive, la coscienza, “sua tiranna e sua consigliera implacabile non gli ha mai permesso che il desiderio di liberazione dal tormentoso confino prevalesse sul dovere e sulla dignità di modesto patriota legalitario, cristiano, ch’egli con grandi sacrifici ha cercato di essere”. Ivi, Confino Politico, b. 541, f. “Ilaria Pasquale”, lettere a Vittorio Emanuele III in data 27-10-1937 ed a Benito Mussolini del 15-10-1941, entrambe da Tremiti. Sulle condizioni di vita dei detenuti si vedano AA. VV., Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Editori Riuniti, Roma, 1962 e Ferdinando Cordova e Pantaleone Sergi, , Regione di confino. La Calabria (1927-1943), Bulzoni, Roma, 2005.

20 – ACS, CPC, b. b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit, domanda di grazia inviata il 9-4-1927 da Concetta Vanguardia a Sua Eccellenza il primo Ministro Benito Mussolini; nota 6529 del 6 luglio 1927 dall’Alto Commissario per Napoli Castelil a MI e nota 22697 da Mi a Castelli.

21 – Ivi, nota 4187 del 5-4-1927 dal Pna a MI. Nell’isola furono confinati, tra gli altri, Filippo Turati, Ferruccio Parri, Carlo e Nello Rosselli, Randolfo Pacciardi, Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, arrivato sull’isola tra i primi, il 7 dicembre 1926. Interessanti notizie e una bella foto di gruppo di numerosi confinati sono nel sito internet del Centro studi e documentazione Isola di Ustica, per il quale si veda http://www.centrostudiustica.it.

22 – Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze, 1973, I, p. 102.

23 – Sul Mori si possono vedere Salvatore Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2000 (I ediz. 1994) e Christopher Duggan, La mafia durante il Fascismo, prefazione di Dennis Mack Smith , Rubettino, Soveria Mannelli (CZ).

24 – Centro studi e documentazione Isola di Ustica; Ministero della Difesa. Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1928, Tomo II, Roma, 1981, Sentenza n. 223, pp. 1073-1077; ACS, CPC, b. 1983, f. “Fedel Riccardo Giovan Battista” e b. 3953, f. “Picone Vincenzo”.

25 – Ministero della Difesa. Stato Maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, Tribunale Speciale…, cit. pp. 1075-77.

26 – In istruttoria si fece di tutto per dare un nome alla fantomatica imbarcazione e si giunse ad interessare anche il console italiano a Marsiglia. Pur non potendo escludere che una nave si fosse avvicinata all’isola, i giudici raccolsero “prove serie”, che escludevano “che essa potesse servire per l’invasione dei confinati”. Ivi.

27 – Alfredo Misuri, ex liberale, poi deputato fascista, che denunciò i crimini dello squadrismo e finì anch’egli a Ustica nel 1927, ha lasciato una descrizione vivace di quella notte, ricordando: “il paese posto in stato d’assedio, le mitragliatrici sui tetti” e poi “pattuglioni, […] arresti nelle case e nei cameroni; scene indescrivibili […], mariti strappati dalle braccia delle mogli; mogli minacciate con le pistole; bambini, come quelli del Bordiga, interdetti dall’ultimo abbraccio paterno”. Si seppe poi, egli ha scritto, “che la penosa traversata durò dieci ore e che, all’arrivo a Palermo, i sessanta arrestati furono rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone, ove cominciò per loro un’odissea di molti mesi, pel processone che s’istruì, e che si sgonfiò, dopo la loro dispersione in vari carceri, sino alla definitiva liberazione”. Alfredo Misuri, Ad bestias. memorie d’un perseguitato, Edizione delle catacombe, Roma, 1944, passim.

28 – ACS, CPC, f. “Vanguardia…”, cit. nota 4187 del 17-10-1927 da prefetto di Palermo (d’ora in avanti Ppa a MI, e Tribunale Speciale…, cit. pp. 1073-1074.

29 – Sotto processo finirono 24 comunisti, 13 socialisti, 11 anarchici, tra i quali il Vanguardia, 1 repubblicano e 6 confinati di cui non ho potuto accertare il “colore politico”, Tribunale Speciale…, cit., e ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 4187 del 17-10-1927, cit. (che però fa riferimento solo a 39 denunce). Oltre a Giorgio Angeloni, davanti al Tribunale Speciale furono condotti anche altri tre futuri combattenti di Spagna: gli anarchici Lanciotto Corsi e Italo del Proposto e il socialista Luigi Romanelli. Ivi, b. 137, f. “Angeloni Mario”, b. 1486, f. “Corsi Panciotti”, b. 1703, f. “Del Preposto Italo” e b. 4382, f. “Romanelli Luigi”; Associazione italiana combattenti volontari antifascisti di Spagna, La Spagna nel nostro cuore: 1936-1939. Tre anni di storia da non dimenticare, Tipografia Botti, Milano, 1996, ad nomen, e Dizionario Biografico degli anarchici…, cit., voci curate da Fausto Bucci e Gianfranco Piermaria, per il Corsi (I, pp. 448-49) e Ilaria Del Biondo per il De Proposto (I, pp. 514-15). Su Guglielmo Boldrini, che sostenne con Malatesta la libertà dei lavoratori di iscriversi ai sindacati, e Fioravante Meniconi, Ivi, I, pp. 207-210, e II, pp. 158-159, voci curate rispettivamente da Mattia Granata e Giorgio Sacchetti, e ACS, CPC, b. 697, f. “Boldrini Guglielmo” e 3230, f. “Meniconi Fioravante”. Sulla figura di Mario Angeloni si possono vedere Leo Valiani, Antifascisti italiani nella guerra di Spagna: ricordo di Mario Angeloni, Centro stampa del Comune, Cesena, 1979; Velio Lorenzini, Mario Angeloni, la lotta contro il fascismo e la guerra di Spagna, sl, sn, 1986 e Giuseppe Galzerano, Vincenzo Perrone, Vita e morte, Galzerano, Casalvelino (Salerno) 1999, passim. Sul Massarenti si vedano Luigi Arbizzani (a cura di), Giuseppe Massarenti capolega di Molinella, con un’intervista di Palmiro Togliatti all’organizzatore socialista, Arte Stampe, Bologna, 1967; Sante Violante, Massarenti Giuseppe, in Alberto Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Franco Angeli, Milano, 1984; Giovanni Ferro, Massarenti il riformista, Opere nuove, Roma, 1990: Gianna Mazzoni, Un uomo, un paese: Giuseppe Massarenti e Molinella, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, stampa 1990.

30 – ACS, CPC, b. 5312, fascicolo “Vanguardia…”, cit., nota 4187 del 19-10-1927 dal Ppa a MI.

31 – Umberto Vanguardia, Ai detentori del potere, “La Voce del Ribelle”, 25-5-11906.

32 – Al termine del processo il Tribunale Speciale non poté fare a meno di rilevare la “scarsissima credibilità dei testi di accusa” e ritenere “di molto dubbia consistenza probatoria e di scarsissima efficienza giuridica” l’impianto accusatorio, messo su con lo scopo evidente di infliggere colpi alla resistenza degli antifascisti. La formula assolutoria, tuttavia, non risparmiò agli imputati il peso delle “incapacità giuridiche perpetue” che, per i sopravvissuti, sarebbero state abolite solo molti anni dopo, con la caduta del regime. ACS, CPC, b. 5312, f. “Vanguardia…”, cit., nota 19870 del 24-8-1928 da Alto Commissario per la Provincia di Napoli a MI e Tribunale Speciale…, cit. 1077.

33 – Ivi, Promemoria del 3-2-1930.

34 – Ibidem, nota 8431 del 29-12-1931 da Alto Commissario per la Provincia di Napoli a MI.

 
Uscito su “Fuoriregistro” il 16 dicembre 2006

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Nascosi rabbia, vergogna e disperazione in un angolo buio del cervello e andai avanti senza un’idea precisa. Per un po’ confusi il passato col futuro e vissi senza presente. Il tempo della vita non coincideva col tempo della logica e il modo della certezza presentava evidenti paradossi.
Imparai a diluire la tristezza nelle fatiche ostinate di traduzioni notturne e quando la mia Lesbia mi sostituì col più odioso scienziato del liceo, piansi più volte con Catullo e non volli mettere in versi italiani il suo lacerante “fulsére tibi quondam candidi soles”.


Cercai un lavoro – quale che fosse, tre soldi per non sentirmi un peso – e mi disposi a cogliere in ciò che m’accadeva solo i toni di rosa: questione di sopravvivenza. Iniziai dallo sportello d’una “sala corse”, raccogliendo scommesse, e ci conobbi un “grossista” distributore di medicinali che “non scommetteva per soldi” e cercava un “ragazzo sveglio” per un suo ufficio al centro. Alto, snello, elegante, coi capelli crespi sotto il cappello scuro, aveva un viso tagliente che incuriosiva per il contrasto tra le labbra sottili e il naso largo e schiacciato in mezzo agli occhi neri e un po’ assenti, i modi spicci di chi si è “fatto da sé” e un’aria vagamente schietta che lo rendeva affidabile. Mi feci avanti e lui non perse tempo: referenze, competenze, titolo di studi: nulla di tutto questo. Non giunsi a dirmelo, ma andò così: per un po’ sentii vacillare le mie convinzioni sugli imprenditori – “razza padrona” a qualunque livello – e pensai a “sistemarmi”.
Pochi giorni, quanto bastava per mettermi alla prova, poi il “grossista” annunziò:
– Nessuna carta scritta. Sia ben chiaro!
Mise in fila gli impegni da rispettare, le multe per le inadempienze e chiuse con la paga: molto più che alla sala corse, molto meno di quanto mi sarebbe spettato per fatica e responsabilità. Non ci fu trattativa ovviamente. Avrei accettato per molto meno e, in ogni caso, poter mettere in ordine i conti con me stesso fu un sollievo. Non avevo più dubbi: un vero pescecane, pensai mentre si faceva d’un tratto paterno e mi dava un consiglio:
– Ricordatelo bene e mi ringrazierai. Guarda più in alto che puoi e impara la scienza sociale: prima di tutto te stesso, così non pesi su nessuno. E’ bene solo quello che ti va bene.
– Una regola d’oro
– replicai e soggiunsi ironico – diffonderla però è uno strappo pericoloso.
Finse di non cogliere e lasciò che gestissi da solo vendite e consegne in un bugigattolo d’ufficio situato sopra un ampio locale sotterraneo nel quale giacevano accatastati in un ordine approssimativo medicinali d’ogni tipo.
Di dove giungesse la merce non ebbi mai idea.
– Si “carica” di notte per evitare fastidi e perdite di tempo Traffico, parcheggio. Questa città è impossibile.
Andava bene così. Lavoro nero, certo, sei giorni alla settimana per otto e più ore, ma in perfetta autonomia. La mattina ricevevo telefonate, scovavo la merce, preparavo conti e il pomeriggio facevo brillantemente fronte all’andirivieni di ragazzi in camice nero che ritiravano i pacchi di medicinali in cambio di ricevute da firmare. Il sabato veloce rendiconto: il titolare giungeva dopo pranzo, allegro e puntuale, intascava le ricevute firmate e mi pagava.
Durò tre mesi.
Un sabato l’uomo non venne e non chiamò. Il lunedì, mentre aprivo, si presentarono due agenti e mi ritrovai in questura. Un interrogatorio rapido e ironico. Ero solo un idiota: me lo ripeterono per ore poi mi lasciarono tornare a casa. Per qualche tempo sui giornali tennero banco indagini su medicinali rubati e farmacie implicate in non so quale scandalo presto soffocato. Attesi a lungo il mandato di cattura, ma nessuno mi cercò.


Quando i giornali presero a occuparsi di altro, uscii da un incubo e mi guardai attorno con gli occhi del bisogno.
La città mi sembrò subito diffidente e pericolosa: tutta domande e mai una risposta. Un’anima scura ovunque mi girassi ed una consapevolezza disperata: non è vero che il mondo cambia, siamo noi che lo vediamo diversamente.
Non me n’ero accorto. La gente, che fino a poco tempo prima m’era parsa uguale a sempre, aveva messo sul viso lineamenti spigolosi, labbra sottili, occhi scaltri e indifferenti. Gli uomini tozzi e franchi, calati in tute d’ogni foggia e giacche di panno militare, erano tutti spariti e spariti erano pure quelli spicci e decisi, infilati in camicie larghe con le maniche risvoltate fino a metà avambraccio, il cappello di giornale in cima al viso rugoso e abbronzato.
Spariti, come gli altri, quelli che incontravo al tramonto con le mollette dei panni strette sulla piega dei pantaloni e le vecchie biciclette cigolanti che ancheggiavano, scansando i solchi centenari scavati dagli antichi carri nel vecchio basolato di piperno.
Sotto il cemento colato a fiumi sulle antiche cave, sui materiali di risulta che colmavano i valloni, lungo gli impervi canaloni creati da secoli di pioggia erano sparite persino le ferite della guerra. Strade e veicoli, gente e palazzi sprofondavano però dalle colline al mare. Ferita ben più che dalle bombe, Napoli era irriconoscibile. La destra della speculazione edilizia ne aveva fatto un’altra città. Sconosciuta. L’attraversavo ogni giorno in lungo e in largo senza un progetto di vita, incrociando i senzatetto sloggiati a forza, i disoccupati minacciosi, gli operai delle fabbriche in lotta e le cariche sempre più violente della polizia. Dall’angolo buio del cervello una rabbia scura mi prendeva alla gola, ma imparavo a filtrarla con la sapienza di chi distilla liquori.

Maturavano scelte.
Lo sentivo nell’aria, me lo dicevano i poveracci che chiamavo “compagni” nel fuoco di uno scontro che bruciava, quando presi a seguire i cortei senza badare al perché. Era un mondo nuovo, che la cronaca tradiva: ci aspettavano al varco ed erano i candelotti tirati dai moschetti a provocare gli scontri. L’umanità dolente dei disoccupati espulsi dal processo produttivo, che lottavano per non scivolare fuori dalla società civile, il dramma di sfollati e senzatetto in guerra tra loro per le case popolari, le manifestazioni degli studenti senza scuola, degli operai serrati in file strette e fitte per difendere il posto di lavoro erano un magma incandescente nel quale mi tuffavo gridando slogan, reggendo striscioni, respingendo l’urto sempre più cieco della celere e destreggiandomi abilmente tra cariche e gipponi.
Nuovi “compagni”, legami stretti ed intese sperimentate in piazza mi accoglievano alle assemblee di comitati che sorgevano qua e là, al centro come in periferia. Nuove riflessioni mi agitavano il sonno e diventavo sempre più estraneo alla prudenza delle discussioni serali al Circolo “Curiel”, dove i giovani comunisti prendevano a misurare, senza averne ancora ben chiare le dimensioni, la distanza che separava teoria e pratica della politica A cinquant’anni dalla rivoluzione sovietica, sulla tessera della Federazione giovanile del Pci, Lenin levava il pugno e ricordava: “1917-1967: sulla via dell’ottobre cinquant’anni fatti da noi”.


Di cinquant’anni non potevo rispondere – sebbene carte ingiallite che cominciavo a scovare in archivio inducevano al sospetto – ma degli ultimi ero certo: non avevamo nulla a che vedere con Lenin. E non ero il solo a pensarlo. Sembrava un ritornello: facciamo brillantemente opposizione e opponiamo il progresso alla conservazione. Non altro. Anni dopo, quando il futuro rivoluzionario sarebbe diventato il presente della conservazione, da destra e da sinistra, gli intellettuali con scarpetta e pipa, pantaloni di velluto e sigarillo, le femministe pentite mascolinizzate, gli esperti di scienza dell’immagine, i signori della sciatteria elegante e della erre moscia, i professionisti del gergo rivoluzionario possibilista, gli esploratori della terra di nessuno situata tra potere, opposizione e opportunismo, incantandoci con le false “memorie”, le militanze spericolate e le pacificazione obbligate, ci avrebbero spiegato che Lenin e Hitler formavano due rovesci d’una stessa medaglia e che alla fine avevano perfettamente ragione i politici liberali del cordone sanitario e gli economisti del libero mercato: il capitale non ha alternative.
Ce l’avrebbero spiegato da cattedre e giornali antichi compagni e notissimi mazzieri. Quando il futuro diventa presente, il passato non conta e come negarlo? Solo chi non pensa non cambia mai idea.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 marzo 2003

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Opposti limiti

Rari sogni seguire,
stringendo fili d’oro in pugni chiusi.
Giudicare che presso a la burrasca
il mare è assai più vero.
Domandare ed offrire
la luce d’un sorriso
senza starci a pensare.
Esser lieto per nulla
e morire d’amore
per un’anima chiara.
Questo tu sognerai.
E però i fili d’oro
talvolta troncherai con le tue mani,
i pugni affaticati si apriranno
e mari cercherai sempre più queti.
Senza troppo pensare, indifferente,
la luce d’un sorriso negherai.
Tra questi opposti limiti oscillando,
verrai, poi andrai, figlio di rari sogni
e di spezzati fili.

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Parla e sparla, avvocato Gelmini, ma lo sa bene e glielo dico chiaro: non va al cuore dei problemi e meglio sarebbe misurare interventi e parole.
L’istruzione del merito, come ha voluto definire questo giugno da Erode di cui, stia certa, renderà conto alla storia, ha un merito solo e in questo lei non c’entra davvero nulla: ha mostrato a chi vuole capire quanto vale un’orchestra se il maestro è scadente. Vale poco, avvocato, e mi fa male dirlo. Se agli strumenti ci fossero stati solo professionisti preparati e seri, questo concerto lei non l’avrebbe messo in scena: non si sarebbero prestati a far da mano per lo schiaffo che lei ha inteso dare alla didattica e alla psicopedagogia.

Colpa nostra, avvocato. Colpa di quella nebulosa che continuiamo a chiamare “docente” e che, in tanta parte del suo pulviscolo, non vedeva l’ora di sentirsi le spalle coperte da un’ondata di revanscismo becero e sguaiato per “tornare all’antico“.

L’istruzione del merito, avvocato Gelmini, nasce da una scuola messa n grado di formare. E’ fatta di qualità universitaria, di un’accurata selezione del personale, di docenti aggiornati, di ragionevoli svecchiamenti e di una retribuzione adeguata alla funzione sociale. L’istruzione del merito è figlia di un intimo rapporto tra una politica che conosce e ascolta la gente e una società che si fonda su principi di eguaglianza, solidarietà e giustizia sociale.
L’istruzione del merito, meriterebbe finanziamenti che lei taglia, laboratori che lei nega, il riconoscimento sociale che Brunetta fucila in piazza con la sua tragicomica dottrina del fannullonismo e un istituto familiare che non fosse soffocato dai bisogni e dalla precarietà.

La sua scuola del merito, avvocato, avrebbe bisogno di riaprire il circuito virtuoso che legava studenti e docenti in quella scuola statale che non a caso lei tende a smantellare: la consapevolezza rivoluzionaria che da secoli “la famiglia secolarmente analfabeta di Adolfo mantiene agli studi la famiglia secolarmente universitaria del signorino“.
Le piaccia o meno, avvocato, il punto rimane questo e la sua istruzione del merito ha il solo scopo di ricondurre Adolfo al “suo posto” e imporgli di accettare la suo condizione di inferiorità. Lei, avvocato Gelmini, non s’interessa di scuola. Tutto quello che vuole è che Adolfo torni a pagare per il “signorino”.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 giugno 2009

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Sul crinale del monte, dove la linea nera del cielo si faceva grigia e arancione luminoso, precedendo il sole, la brigata partigiana, inchiodata da nugoli di cani nazisti e dal fuoco d’infilata dei lanzichenecchi in nero faticava a sganciarsi.
La Decima, sussurrò Geko ai compagni con un velo di rabbia sprezzante.
Per quel rastrellamento in Valtellina, s’erano mossi in forze e le staffette sorprese non avevano fatto in tempo a dar l’allarme. Un balzo tra le rocce scheggiate dall’automatica crepitante e furibonda, valeva un metro verso il sentiero sicuro della fuga o costava una grido soffocato e la fine dei sogni.
Fino a che il sole salì dietro la cima, fu un susseguirsi veloce di balzi, di colpi, di grida, di viaggi finiti per sempre e di salvezze guadagnate.

Il sole, finalmente libero in cielo dal levante insanguinato, non trovò che tracce di battaglia feroce. S’avanzavano i neri, per l’atto finale che seguiva lo scontro: non far prigionieri, finire: la limpieza, come ai tempi della Spagna. E la morte trionfava dove aveva fallito.
Geko s’era portato via il compagno e metro su metro, non visto dal nemico attento, era a due metri dal sentiero entro il quale nessun nemico si sarebbe buttato ad inseguire. Non c’era più bisogno di tappare la bocca al ragazzo ferito: ansimava, senza più lamenti, in un rantolo privo di suono. Geko gli aveva tolto armi, giberne e zainetto, ang2[1]aveva tamponato alla bell’e meglio lo squarcio sul petto, sotto la clavicola destra, e più volte aveva sussurrato in quelle ore infinite:
Ce la fai, non parlare.
Mamma!
Una volta sola aveva chiamato in un soffio il ragazzo ferito: Mamma….
E Geko, che la morte non l’aveva nel petto in alto sotto la clavicola a destra, ma nel cuore impazzito di dolore e rabbia, s’era sentito dentro montare la disperazione e l’odio.
Maledetti! – si ripeteva – Maledetti!
Odiava la guerra che faceva, il dolore che dava e riceveva, odiava odiare e impazziva di furore su quel monte che vedeva finire un ragazzo. Odiava e non andava via.
Solo non lo lascio.
Passarono più volte accanto a lui, ma il colpo che attendeva non venne e la bomba a mano che sringeva in pugno non esplose.
Il sole di mezzogiorno era caldo. Il compagno sulle spalle pesava e non respirava. Metro su metro si avvicinava il campo.
Dove sei andato, Geko, quando tutto è finito? Lo sai, lo senti tu che ci sono fascisti a governare la repubblica tua, che fascisti portano alloro alle fosse Ardeatine e chi consegnò gli ebrei ai nazisti ora frequenta impunito la Sinagoga? Dove sei andato, Geko? E dove rischia di finire la solidarietà?


Il racconto per gli alunni è terminato, ma le domande vogliono risposta.
Sono lì che rifletto, nell’aula che ormai s’è svuotata. L’anno finisce. Non uno qualunque: l’ultimo dei miei. Non vado via senza darmi risposte e il bidello lo capisce, come ha sempre capito perché non so dargli altro nome: bidello.
E è con lui che parlo: a lui, per ultimo, prima di andar via un’ultima volta e per sempre.
Quando in petto si ha un cuore generoso – e Geko l’aveva, non può esserci dubbio, gli faccio – si giunge a soffrire sinceramente per un uomo che soffre. E si vuole soffrire con lui, perché soffra di meno. Solidarietà dicevamo un tempo, ricordi?
Certo, mi fa. Ricordo.
Lo sai, io non ho fede.
Annuisce.
Non ho fede, però rimango stupefatto per questo sentimento umano: ha il crisma inconfondibile della divinità. Stupefatto di ciò che, senza soffermarci, chiamiamo banalmente solidarietà. Mi riconcilia col genere umano, nel quale da un po’ una mia condizione di fatica e i tempi che viviamo oscuri mi inducono a vedere solo l’istintiva ferocia.

Mi segue, come se capisse. E perché non dovrebbe?
Qualcosa di divino vive in questo sentimento umano e ci fa da testimoni se un qualche tribunale prova a giudicarci quando, passando tra stelle e pulviscolo celeste, torniamo allo spazio infinito che ci circonda. “Salutate quest’anima divina: fu solidale in vita, abbia pace e rispetto in seno alla materia da cui tutto proviene e alla quale ritorna”.
Questo viatico accompagna l’uomo solidale nel suo viaggio. E, tornando, egli reca in dono una sua nobiltà: fu divino come può esserlo una persona umana. Così è accaduto a Geko nel trapasso: vesti bianche orlate di rosso – la tunica pretesta che l’affascinò da bambino quando non conosceva la prepotenza del potere – si presentarono al suo cuore affaticato, confortarono di parole amiche la sofferenza dell’ultimo andare e una tra le bianche vesti, indossata da un’anima gentile per fattezze e parola, poggiò sul palmo della mano aperta del viaggiatore la pergamena sigillata di cera rossa. L’anima allora partì. E’ questo il paradiso degli uomini di parte che ebbero valori di sinistra
.
Annuisce il bidello.
Io e lui oggi sappiamo dov’è andato Geko.
Di fronte alla scuola un manifesto elettorale chiede voti per fascisti, leghisti e forzisti.
Geko li vede e pensa: Governate per quanto potete. Vi manderemo via. Avete contro la storia che vorreste ingannare.

Uscito su “Fuoriregistro” il 9 luglio 2004

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Non m’importa di sapere se in tema di violenza politica lo statunitense Ronald Reagan, l’uomo che nel 1986 bombardò Tripoli ferocemente in una guerra mai dichiarata, vanti un pedigree più nobile di quello che può esibire il dittatore libico Muammar Gheddafi. La violenza, in ogni caso, fu inutile e il colonnello sfuggì al bombardamento terroristico americano. Allah pare sia grande e, da bambino, il colonnello era del resto sfuggito miracolosamente alla morte, saltando su una mina di Mussolini, dittatore di casa nostra, figlio dell’Italia colonialista e liberale al tempo degli eccidi di Shara Shat e padre di quella fascista: l’Italia dei gas etiopi, delle leggi razziali, delle stragi balcaniche, delle pubbliche esecuzioni e delle mortali deportazioni tripolitane.
Non so – per non dimenticare ciò che siamo – dove sia andata a morire di vergogna l’anemica democrazia italiana negli incontri romani tra la “guida della rivoluzione” islamista e gli uomini della secessione leghista, concordati per meglio pianificare le stragi mediterranee, per ridurre il numero dei deportati negli affollati lager lampedusani e – perché no? – consentire a Marcegaglia e compagni di fare affari d’oro col paladino dei diritti umani.
Non so – e non m’interessa capire – chi sia stato più terrorista. Se il Giappone dei kamikaze o gli Stati Uniti di Hiroshima e Nagasaki, se Nixon e Kissinger, mandanti dell’assassinio della democrazia cilena, o Pinochet, l’esecutore materiale dell’atroce mandato. Non so se più terrorista sia stato Osama Bin Laden, il presunto ideatore del presunto attentato delle torri gemelle, o il suo buon amico George William Bush, presidente USA, ideatore di Guantanamo, mandante di Abu Garib e comandante in capo delle truppe d’occupazione che hanno arrostito Fallujah nel fosforo bianco e finito a colpi d’armi proibite – uranio depotenziato, cluster bomb e bombe termobariche – centinaia di migliaia di iracheni. So che, andando di questo passo, nelle scuole agonizzanti e nelle università ridotte all’elemosina sarà sempre più difficile spiegare ai nostri ragazzi che Gheddafi non giunge per caso tra noi e mostrare, in quei fortilizi della morente democrazia che sono ormai le nostre aule, il filo rosso di sangue che corre tra il tempo e lo spazio nell’Italia sedicente liberale. L’Italia borghese che al bisogno di civiltà libertaria di Malatesta e Merlino oppose Crispi e secoli di domicilio coatto; l’Italia che nel maggio del ’98 sparò a mitraglia col cannone di Bava Beccaris sul popolo inerme ed affamato e, dopo la “Marcia su Roma“, quando si trattò di pagare i costi della “grande guerra” e la terribile crisi del dopoguerra, condannò a vent’anni di galera collettiva i contadini, gli operai e gli artigiani.
Andando di questo passo, non potremo spiegare ai nostri ragazzi che il fascismo non finì col suo duce fucilato e appeso a Piazzale Loreto. A Portella della Ginestra, infatti, il “bandito” Giuliano, che sparò all’impazzata sul bisogno di giustizia sociale della repubblica nascente, era figlio legittimo di Salò e nipote dell’Italia crispina e umbertina, liberale e soprattutto fascista. E fascisti furono gli esecutori materiali d’una sequela impunita di stragi: Piazza Fontana, l’Italicus, Piazza della Loggia, la stazione di Bologna…
Non so e non mi importa sapere chi sia primo in classifica negli atti di terrorismo. Quello che so è che i sacerdoti dello sfascio neoliberista hanno messo in ginocchio la scuola e l’università e sarà sempre più difficile spiegare ai nostri studenti che in questi giorni osceni, nella tragica farsa che oppone e unisce Muammar Gheddafi e quell’azienda Italia che fabbrica morti sul lavoro ed esporta soldati e cannoni chiamandoli democrazia, in questi giorni bui, quello che conta sono gli affari della Confindustria e la guerra tra i poveri che occorre alimentare a tutti i costi, anche quello di moltiplicare le stragi mediterranee e di uccidere le speranze dei “clandestini“, per stringere più saldamente nella morsa della precarietà un popolo che la televisione ipnotizza e la miseria ricatta e annichilisce. Un popolo che, com’è tradizione dei peggiori regimi, regala il suo cieco consenso al padrone di turno.
Non so farle e non m’interessano le graduatorie tra terroristi e santi. Quello che so è che nessuno meglio di Massimo D’Alema, l’uomo della bicamerale e delle bombe sulla sventurata Sarajevo, incarna oggi il dramma d’una sinistra nata rivoluzionaria e finita al Ministero degli Interni. Quella sinistra che negli anni della mia giovinezza, tra il Settantasette e l’Ottanta, fu al fianco del giudice Calogero e della miseria morale che, imbavagliata la Costituzione, seppellì sotto anni di carcere preventivo un dissenso rivoluzionario che agiva alla luce del sole e lo spinse consapevolmente nella via senza ritorno della lotta armata. La sinistra che oggi, più realista del re, dialoga con Gheddafi e s’inchina alla ragion di Stato senza provar ribrezzo di se stessa.
Se la “democrazia” di Fini, è tutto quanto ci resta, come dubitarne? Questo nostro Paese ci diventa nemico.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 giugno 2009

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Chi difende un uomo di colore finalmente è avvisato: quel che rischia è un processo e non soltanto a Napoli. A Siracusa Antonio Pedace l’hanno messo dentro e lo processeranno: resistenza e minacce. Ha preso le difese di un eritreo maltrattato dalla polizia.
L’ho insegnato per anni e la vita m’è stata maestra: c’è un filo teso che corre tra politica e storia. E occorrerà pur dirlo: la furia giacobina non fu solo terrore. Robespierre, membro della “Société des amis des noirs“, lottando per il riconoscimento dei diritti degli uomini di colore, pose ai francesi del suo tempo una domanda più attuale che mai. E la giro a Maroni: “quale persona con un senso sia pur minimo di giustizia – chiese ai francesi Robespierre – può dire a cuor leggero a migliaia di persone noi vi abbiamo riconosciuto dei diritti, è vero, noi vi abbiamo riconosciuto uomini a tutti gli effetti, è vero. Ciò nonostante, d’ora in avanti noi vi risospingeremo nella miseria e nell’avvilimento e vi ricondurremo ai piedi dei vostri padroni?”.
Noi vi abbiamo riconosciuti uomini come noi – denunciava il giacobino – ma continueremo a trattarvi come bestie e vi negheremo il solo diritto che conti nei contratti sociali: la possibilità d’influire in qualche modo sulle scelte che riguardano la vostra vita.
Per aprire la caccia all’uomo, in vista dell’applicazione del “decreto sicurezza“, l’avvocato Gelmini chiede alle scuole i codici fiscali degli alunni delle quinte superiori: ogni studente extracomunitario maggiorenne che non sarà in regola coi permessi, potrà essere espulso così senza colpo ferire. Bossi, Gelmini, Brunetta e compagnia cantante pensano di sottomettere in questo modo la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei potenti e, dopo più di due secoli, ci conducono alla tragica domanda di Robespierre. Il cammino della civiltà incrocia frequentemente i passi insanguinati della barbarie e non di rado uno strappo rivoluzionario è contemporaneamente figlio di prepotenze disumane levate al rango d’ordine legale e padre d’una giustizia nuova, cresciuta come risposta all’ingiustizia. E non ci sono dubbi: di fronte alla barbarie che monta, in un mondo di riformisti d’ogni natura e colore – riformiste le maggioranze, riformiste le opposizioni, riformisti i rossi, i bianchi e i neri – la sola riforma possibile è quella che si riassume in un insormontabile e inespugnabile no.
Piaccia o meno, questa è la lezione della storia.

Uscito su “Fuoriregistro” il 5 giugno2009

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