Morti a migliaia. Abbiamo portato la guerra ovunque per badare ai nostri sporchi interessi; abbiamo bombardato popoli inermi senza pietà, abbiamo armato macellai e ucciso la pietà.
Migliaia, centinaia di migliaia di morti, dilaniati dalle bombe al fosforo, distrutti dall’uranio depotenziato, fatti a pezzi dai missili dei nostri aerei “democratici”.
Morti a migliaia e non bastano. Ora ammazziamo anche i superstiti, gli sventurati in fuga dalla guerre che abbiamo voluto, dai criminali che abbiamo sostenuto, dalla barbarie che abbiamo coltivato e alimentato, armandola e scatenandola.
Morti a migliaia. Soffocati nei camion, annegati nel Mediterraneo, consegnati ai carnefici da cui scappavano. Ovunque gente annichilita nei campi di concentramento, martirizzata dai manganelli e dai gas di fronte ai nostri muri di filo di spinato, ai nostri confini chiusi, alla sbirraglia scatenata. Così stiamo mettendo a tacere per sempre coloro che abbiamo spinto alla disperazione.
I terroristi siamo noi, siamo noi gli autentici e impuniti tagliagole. Noi i veri integralisti, noi gli assassini della verità.
A me non basta più puntare il dito sui colpevoli, accusare gente come Napolitano, che si porta sulla coscienza la Costituzione democratica, assassini, come buona parte di chi governa da anni l’Italia e l’Europa. La mia coscienza mi domanda sempre più insistentemente che intendo fare per fermarli, che farò per evitare che figli e nipoti – uomini e donne che domani ci ricorderanno – non dicano di noi ciò che abbiamo potuto dire noi della stragrande maggioranza degli europei degli anni Trenta e Quaranta: voltarono la testa da un’altra parte.
E’ tempo di agire seriamente e di tirare il dado senza esitazione. E’ tempo di reagire, a costo di trovarsi soli e pagare i prezzi che vanno pagati, quando la legalità diventa tragedia e copre l’oscena ferocia del potere. Ormai non resta altra via se non quella aspra, difficile e dolorosa della dignità e dell’onore. Come Matteotti, Amendola, Gobetti, Gramsci, Pertini, i fratelli Rosselli, Terracini, Salvemini e tanti altri, noi dobbiamo costringere i turpi criminali a trascinarci in manette davanti ai loro complici tribunali; li dobbiamo mettere spalle al muro, dobbiamo farci arrestare se occorre, processare e, come i nostri nonni, dovremo usare le aule giudiziarie come arma di denuncia, trasformarci da accusati in accusatori, da “imputati” in giudici. Non resta altro. A partire da settembre, quando la scuola incatenata dovrà scegliere tra la resa e la disobbedienza, ognuno di noi avrà l’occasione per dire basta. E’ tempo di tornare al ciclostile e costruire dissenso, ma questo lavoro si fa anzitutto con l’esempio. Bisogna dire no e pagarne le conseguenze. Solo così i giovani si muoveranno.
Archive for agosto 2015
E’ una strage voluta. Che si dirà di noi?
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Amendola, fratelli Rosselli, Gobetti, Gramsci, imputati-giudici, Matteotti, Pertini, Salvemini, Strage voluta, Terracini on 29/08/2015| Leave a Comment »
“Guarire” gli italiani dalla lotta politica
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged consenso, fascismo, Gobetti, Gramsci, Renzi on 27/08/2015| Leave a Comment »
La crisi d’identità di ciò che resta della sinistra appare ormai singolarmente complementare alla ”concezione terapeutica” della funzione di governo che ispira la rozza, ma efficace prassi politica di Renzi. La sinistra si sente “malata” e Renzi si comporta come il medico con il paziente.
Se il fascismo, per dirla con Gobetti, voleva “guarire gli Italiani dalla lotta politica”, utilizzando come medicina la “fede nella patria”, Renzi “cura” la crescente paura dell’imprevisto, con ripetute iniezioni di ottimismo. L’Italia fascista si resse su una cambiale firmata in bianco: il regime professava “nuove convinzioni” e lasciava credere che tanto bastasse a modificare la realtà dei fatti. Renzi promette ciò che sa di non poter mantenere, sposta in avanti l’ora dei conti e raccoglie il temporaneo trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Il fascismo ci condusse al disastro. Renzi rischia di ripetere l’impresa. Intanto, ieri come oggi, la fuga in avanti cancella conquiste e diritti in nome di una presunta “malattia” ed esaurisce la complessità delle dinamiche sociali in una “professione di convinzioni”.
Una sinistra attestata con orgoglio sulla barricata del suo sperimentato sistema di valori, più che balbettare formule teoriche, ricorderebbe l’efficacia della pratica, smonterebbe con l’analisi della realtà e la produzione di “fatti nuovi e alternativi” l’infantile fiducia ottimistica in un mondo semplificato secondo le misure di Renzi. Una sinistra convinta di se stessa tornerebbe a credere alla storia più che al progresso e costruirebbe la sua prima trincea negli Enti locali; provocando la crisi, dov’è decisiva, e ovunque affermando la superiorità di una sana “anarchia” contro le false dottrine democratiche di un centralismo sempre più autoritario, che sta smantellando la Costituzione.
Se qualcosa vuol “vivere a sinistra”, occorre che la gente di sinistra – molto più numerosa e attiva di quanto si creda – faccia vivere nelle realtà locali le mille articolazioni della prassi sociale e lotti per “prendere i Municipi”. Per farlo, occorre aprire lo scontro con la borghesia non con l’intento di “escludere”, ma con l’occhio attento alla dinamiche interne alle classi sociali, per intercettare e includere le sempre più ampie fasce proletarizzate. In questo senso ci sono due punti fermi dai quali partire: la storica “polemica contro gli italiani”, di Gobetti, in un antifascismo che era antiautoritarismo. e il diritto a reagire, individuato da Gramsci, quando l’eversione viene dall’alto, da ceti dominanti che mettono arbitrariamente mano alle regole che essi stessi si sono dati. Gobetti sostenne che l’antifascismo, prima di essere ideologia, è un istinto. Bene. E’ quell’istinto che deve indurci a difendere la Costituzione da un governo che la stravolge. Anche qui, non si tratta di violare la legge, ma di esercitare il sacrosanto diritto che Dossetti rivendicò nel dibattito dell’Assemblea Costituente.
Di fronte a quella metà del Paese che non vota perché non si sente rappresentata, ci sono due strade: le rigide formule ideologiche, che dividono, allontanano la gente e consentono a Renzi di trasformare l’astensione in un micidiale strumento di potere, o la “disobbedienza” come base programmatica di una sinistra che batta in breccia la menzogna sulle false “maturità democratiche” straniere. Prima tra tutte quella tedesca. Una sinistra che si affermi, partendo dalle lotte dei movimenti nelle realtà locali, costruendo un nuovo modello di governo, che passi per una “cessione di potere” delle Istituzioni a comitati di lotta e realtà di base. Una sinistra che attinga a piene mani dalla sua storia, come accade in Grecia: mutualismo, cooperazione, solidarietà, autogestione. Su questa base di rinata consapevolezza, si potranno poi raccogliere mille esperienze in una sola forza che si scagli contro i proconsoli dell’Europa delle banche.
Dal momento che il ”nuovo” è rappresentato da Renzi, soprattutto come “falsificazione narrativa”, meglio rifarsi a schemi e approcci “antichi”. Se è vero che Gobetti non aveva torto e “il fascismo fu soprattutto un’indicazione di infanzia”, non è meno vero che l’antifascismo, il seme da cui nasce la Repubblica, fu prova di maturità, fu il tarlo del cosiddetto “consenso”, consentì la Resistenza e costituì la prova storica che il fascismo non è stato “l’autobiografia della nazione” ma era e rimane il baluardo su cui s’infranse un regime. L’Italia di Renzi, che ripropone ed esaspera il concetto di nazione, che riporta all’ordine del giorno la guerra, che impone la collaborazione delle classi, cancella la partecipazione popolare alla lotta politica e asservisce la scuola, cancellando la libertà d’insegnamento, l’Italia di Renzi non è fascista nel senso storico, ma si prefigura come la manifestazione di un male genetico della democrazia borghese di fronte alle gravi crisi finanziarie: una feroce reazione liberal-liberista. A questo punto, se qualcosa vuol vivere a sinistra, occorre tornare almeno a due punti fermi ai quali ancorarsi: la cultura antifascista e i valori e le pratiche di quel socialismo che è stato storicamente la sola alternativa possibile alla barbarie.
Fuoriregistro e Contropiano, 27 agosto 2015
Antifascismo dimenticato
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged "Il Manifesto", Afda Grossi, Bracco, De Nicola, Giorgio Almirante, Il Mundo. il Paìs, La Sinistra Quotidiana, Spagna on 22/08/2015| Leave a Comment »
Il Manifesto, che me l’aveva chiesto, non l’ha poi pubblicato. Ringrazio la “Sinistra Quotidiana”.
Addio ad Ada Grossi, la voce libera dell’antifascismo
ago 22, 2015
Il “Mundo” e il “Paìs” l’hanno ricordata ai lettori: Ada Grossi, figura di rilievo dell’antifascismo, la voce di «Radio Libertà», che da Barcellona parlò all’Italia della Spagna libera, è morta a Napoli l’8 agosto scorso, nel silenzio indifferente di un Paese che ha commemorato persino il fascista Almirante.
Nata nel 1917, ebbe un’infanzia segnata da eventi terribili: l’ascesa di Mussolini, Matteotti ucciso, la dittatura, contro la quale fu subito il padre, Cesare Grossi, socialista, noto penalista e amico di Enrico De Nicola e Roberto Bracco. A nove anni, nel 1926, Ada fuggì in Argentina con la famiglia: la madre, Maria Olandese, promettente soprano, che a Pietroburgo aveva cantato per lo Zar, il padre e i fratelli, Renato e Aurelio. Più umana dell’Europa unita, Buenos Aires accolse gli immigrati; i ragazzi proseguirono gli studi e il padre trovò da vivere come rappresentante di vini. Una vita segnata dagli stenti, che non impedì a Cesare Grossi di rafforzare l’opposizione al fascismo, assieme alla moglie, preziosa collaboratrice nella gestione di una sorta di “Soccorso Rosso”, e diventare un riferimento per i fuorusciti. In questo ambiente, fatto di solidarietà tra esuli e amore per la libertà, si formò Ada, che nel 1936, a 19 anni, scoppiata la guerra civile, accorse con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani.
A Barcellona, diventata «speaker» della sezione italiana di «Radio Libertà», creata dal padre su mandato del governo repubblicano, Ada ruppe il silenzio imposto dalla censura fascista e portò nelle case degli italiani la voce della Spagna aggredita, scatenando l´ira impotente di Mussolini. Rosselli aveva appena lanciato il suo monito – «Non vinceremo in un giorno, ma vinceremo» – e lei rilanciò la sfida, denunciando la furia criminale degli aggressori nazifascisti. Anni fa, raccontando a un pugno di studenti la sua storia, Ada affidò ai giovani di un tempo diverso dal suo un incancellabile esempio di quella «dimensione etica» dell´agire politico, ormai cancellata dalla crisi di valori di una società priva di memoria storica. Quei giovani ne ricavarono un libro stupendo.
Tornata dalla Spagna negli anni Settanta, Ada Grossi ha vissuto tra noi fino alla fine, in un Paese in cui la degenerazione della vita pubblica apriva spazi a una destra rozza, ma efficace, che colpiva al cuore l´ethos politico da cui nacque la repubblica: pace, libertà, solidarietà e giustizia sociale, i valori per cui da giovane s’era battuta…
Chi desidera proseguire, può cliccare sul link: “La Sinistra Quotidiana“
Lettera aperta (à bénéfice d’inventaire)
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Ada Grossi, Aitor Fernández-Pacheco y Guzmán, Alfredo Giraldi, AltraItalia, El Mundo, El Pìs, famiglia Grossi, Ida Mauro, Luana Martucci on 18/08/2015| Leave a Comment »
Ricevo e volentieri pubblico una “lettera aperta” del nipote di Ada Grossi. Di mio aggiungo solo che capisco e condivido pienamente ognuna delle sue osservazioni e registro alcuni dati sconcertanti: “Repubblica” mi ha chiesto un articolo, ma mi ha posto limiti incredibili (3600 battute spazi inclusi: poco più di un necrologio, insomma). In quanto al Manifesto, che pure mi ha chiesto di ricordare Ada, deve aver smarrito l’articolo che ho inviato… La nota più dolente, però, viene dalla diserzione degli antifascisti napoletani. Tutti, nessuno escluso: quelli cosiddetti “di base” e quelli “istituzionali”: movimenti, partiti e Amministrazione. Al cimitero, quando l’urna cineraria di Ada è stata collocata nella tomba accanto ai genitori, eravamo presenti in quattro: io, il nipote Aitor, spagnolo che vive a Parigi, Sylvia, la figlia madrilena di Ada e Ida Mauro, una studiosa che vive e lavora a Barcellona. Sembra impossibile e posso anche sbagliare, ma credo che Aitor abbia ragione: Ada e i suoi familiari pagano ancora il prezzo della loro indipendenza di pensiero e la loro militanza nel campo socialista e anarchico che per tanti “compagni antifascisti” è stato e rimane quello del “nemico di classe”. Non dimenticherò mai quello che è accaduto e nessuno mi toglierà più dalla testa che tra tanti che parlano e spesso straparlano di antifascismo, gli antifascisti autentici sono davvero pochi.
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Buongiorno a tutti.
Voglio, dinnanzi tutto, ringraziare fraternamente Ida Mauro, Alfredo Giraldi, Laura Martucci e l’associazione AltraItalia per la loro sensibilità nella rivendicazione senza contropartite, né distorsioni, della figura di Ada Grossi e dei Grossi in generale, così come il professore Giuseppe Aragno, diventato oramai un amico, per il duro, non sempre riconosciuto – ma spesso vampirizzato – lavoro di ricerca e di rivendicazione della verità storica intorno alla famiglia Grossi e all’Antifascismo napoletano, fatto di tantissimi eroi, piccoli e grandi, che la Storia avrebbe dimenticato se non fosse stato per il suo lavoro rigoroso. Tengo a sottolineare che il professor Aragno dispone del “placet” della nostra famiglia (o di quello che ne rimane) per costituirsi in esponente di riferimento per tutto ciò che riguarda le vicende dei Grossi.
Aggiungo ai ringraziamenti il personale del Memorial Democràtic de Catalunya, rappresentato dal suo Direttore il signor Palou-Loverdos.
Siccome, dopo tutto, Ada Grossi era mia nonna e sembra che in questo ballo di articoli, omaggi ed interventi di esponenti diversi – per non dire spesso dispari e purtroppo, in certi casi, addirittura deliranti o peggio: tendenziosi – sia a volte difficile poter dire la mia, colgo la triste occasione del decesso di Ada per esporre una serie di considerazioni personali a suo riguardo – facendo quasi a meno sinora della possibilità di poter, finalmente, elaborare il lutto come lo intendo – di cui spero il lettore saprà perdonare la redazione in un italiano poco più che aprossimativo, data la mia nazionalità spagnuola e cultura fondamentalmente francese.
Sarò forse borioso, ma l’importante e di farmi capire.
Osservo con tristezza alcuni fenomeni inquietanti, endemici, non tanto perché siano impostati stavolta intorno alla figura di mia nonna e della mia famiglia, ma perché si tratta di manifestazioni rivelatrici di un modo di fare che obbedisce, in sostanza, alla pratica triste di sfruttare il contro-potere via l’anti-potere (o che si presume tale) per finanziare il discorso del Potere, o di tante atomizzate espressioni del potere: Il potere di punire e di premiare, il potere di distorcere, il potere di ricordare o di lasciar marcire nell’oblio, il potere di appropriarsi del lutto o dell’operato altrui a mo’ di mattonella per edificare la medesima tribuna nel senso della versione ufficiale della Storia, essendo l’ufficialità un cumulo di menzogne plausibili che si erigono in verità suprema.
Qui abbiamo un mostro bicefalo con due schieramenti ben complici, dentro ai quali qualsiasi essere umano debba venir integrato o, altrimenti, dimenticato o distrutto, senza scordarci che l’integrazione forzata è una forma di distruzione dell’identità individuale, per quanto nega la capacità intrinseca dell’essere umano di decidere “per se”. Uno stupro di “conversione” che nemmeno lo Stato fascista ha operato coi suoi nemici, come nella barzelletta dell’Ebreo que va a Belfast e che viene interrogato alla volta da un tipo del Sinn Fein e da un lealista orangista:
– Sei Cattolico o sei Protestante ?
– No, sono Ebreo.
– Già, ma sei Ebreo Cattolico o Ebreo Protestante?
L’importante è negare l’esistenza delle Terze Vie, quelle che non ubbidirono né agli ordini del Rais, né alle istruzioni dei Comitati Centrali, invece sempre ben considerate attualmente – e con la dovuta preoccupazione – nei calcoli elettorali, quando si tratta di valutare l’impatto della – apparentemente – passiva “maggioranza silenziosa”. Con i Grossi, e attraverso la figura di Ada, si tratta di distorcere l’esistenza di una minoranza attiva, non integrata, non integrista, non integrabile “tale quale”, come se fosse una pedina, nelle eroiche masse del panegirismo stalinista e delle sue successive, ma pur sempre gargantuesche, decaffeinizzazioni, togliattiane o carrilliste esse fossero e così via: Non credo alla sincerità della spogliarellista, ne al suo erotismo di plastica.
Nel caso della famiglia Grossi, la Terza Via è consistita nella semplice logica di tradurre l’impostazione di etica umanista, non serva di fanatismi ideologici, nella logica conseguente dell’azione. Il loro solo “-ismo” collettivo come famiglia combattente è stato l’Antifascismo, un fronte che volendosi unitario è stato poi capitalizzato da chi, sempre ed ancora, insiste nel mettere in testa al plotone dell’Antifascismo la bandiera della vittoria dell’8 maggio del 45, quella che cancella tanto le purghe avvenute in Spagna (e altrove) dal ‘37 fino alla disfatta – chiusura di Radio Libertà e “processi” tentati contro mio bisnonno l’avvocato Cesare Carmine nel campo di Gurs compresi- quanto elimina opportunamente la dozzina di orologi da polso nell’avanbraccio del soldationk che posiziona la citata bandiera di Stalin sul tetto del Reichstag sulla leggendaria foto di propaganda sovietica.
Il giornale spagnuolo EL MUNDO, di destra sensazionalista di stile “hard-fighetto”, mette in atto un articolo che sintetizza in modo cristallino la logica bicefala di quanto esposto prima: Il “patto tra gentlemen” che profitta a tutti, agli Stalinisti e agli Anticomunisti.
Si basano su una serie di distorsioni storiche di fonte “ignota” – io so benissimo quale – che portano mia nonna Ada a diventare una specie di “tigressa rossa”, che avrebbe salutato a Radio Libertà la vittoria di Guadalajara sulle truppe del contingente fascista italiano, avvenuta grazie al concorso di fantasmatiche masse di carri armati sovietici (questo è il processo di stalinizzazione forzata che si paga a modo di “tassa” per esistere virtualmente: Ma i carri sovietici arrivarono più tardi, e di concorso sovietico a Guadalajara non ci fu nemmeno l’ombra: fascisti che pensavano di fare una passeggiata militare in una specie di Abissinia europea si fecero stravolgere dai ben decisi anarchici di Cipriano Mera).
Il discorso è chiaro: Stalinizzata Ada Grossi, stalinizzata ”avant la lettre” la vittoria di Guadalajara, si dispone già di un personaggio fabbricato e schierato col comunismo, quale Uomo di Marmo di Wajda, rivendicabile dall’”ufficialità” polverosa dei perdenti del 48, tutti gli alibi compresi. Un po’ di Brigate Internazionali qui (sembra fossero l’agenzia viaggi monopolistica per venire a combattere in Spagna: Questo si, i Grossi se ne andarono da Barcellona a marzo del 1939 e non un anno prima, senza omaggi Komintern) un po’ di Carlo Roselli qua (mia nonna non lesse mai un discorso di Roselli) e abbiamo già creato l’icona appropriabile ed utilizzabile… Che EL MUNDO, può sfruttare per il suo anticomunismo di natura, li dove anarchici, trotzkisti o terze vie “altrimenti” e fottutamente conseguenti fino alla fine – come quella della famiglia Grossi – non sono orwellianamente mai esistite o costituiscono, casomai, “un point de détail dans l’Histoire” come direbbe Le Pen, tra i due papponi monopolizzatori della Storia, della “destra” e della “sinistra”.
Ada Grossi, cosi stal-impacchettata, diventa già rivendicabile, “politically correct and integrated, Ldt.” (come-volevasi-dimostrare), affinché l’eterna tribuna stalinista, paleo o neo che sia, possa rendere omaggio a se stessa, così come la destra può continuare con la sua demonizzazione “réac” d’ufficio.
Se non sei né Burger King né MacDonald’s, te lo facciamo diventare lo stesso: Scegli o taci.
Non cito EL PAIS se non per dire che codesto giornale, diventato da tempo un misto tra Sorrisi & Canzoni e le Selezioni del Reader’s Digest, fa di Ada Grossi una specie di Marco di De Amicis, partita “da se”, “indignata” (ora tutto è stile hesseliano, dans l’air du temps) per un “breve lasso di tempo” (in realtà, 10 anni) in Argentina (A soli 9 anni ! Da sola!) forse a cercare la sua mammina cara nella Pampa prima di andare in Spagna a combattere, sí, ma soltanto con la voce (pacifista indi, rivendicabile dalla socialdemocrazia “light” che odia “gli spargimenti di sangue o di detersivo”). “Radio Libertà emetteva dall’Italia” (sic!), immagino Mario Appelius fosse un nobile e leale concorrente inter pares. Ada Grossi, già anziana, “era timida” e “passeggiava da sola” nel quartiere a Napoli, sotto lo sguardo (si suppone che intenerito, forse chissà, anche lacrimoso) di fantasmatici vicini del rione.
Ebbe comunque il tempo, secondo alcuni (ancora fantasmatici) storici di influire, nel dopoguerra, nella redazione dell’articolo 21 della Costituzione (nientemeno! E questo dalla Spagna franchista e col marito Enrique in carcere, caspita !). Sicuramente fece ancora in tempo di aiutare Armstrong a sbarcare sulla Luna, chissà. Non si merita un articolo ne EL PAIS se, almeno, non si sono fatte tutte queste cose “veramente importanti”.
Creare un alone iconico e fantasioso che sia pubblicitariamente rivendicabile, il tutto per seppellire l’unica verità intorno alla figura di Ada Grossi, indissociabile da quella dei suoi genitori e dei suoi due fratelli: Nella modestia che porta ad accompagnare spontaneamente il pensiero con l’azione, senza bandiere vittoriose, né benedizioni dei potenti del momento, da soli e per propria iniziativa, avendo perso tutto per non guadagnare altro che la dignità che emana dal silenzio, la famiglia Grossi risulta troppo esemplare, troppo modesta, troppo indipendente, troppo inclassificabile e indi, troppo scomoda per potersela appropriare così come essa fu.
Non sia che altri, guidati dal loro senso etico, ne prendano esempio, mandino affanculo le eterne bandiere rosse de “la rivoluzione domani, compagno, oggi no, già sai come funziona” e così un business di truffa politica che dura da quasi un secolo finisca qui, “per mancata clientela”. Capisco sembri meglio fare i Frankenstein-panegiristi che chiudere bottega.
Il lutto altrui non è una successione di sufflè, consommabili e rinnovabili. Ci vuole il cuore, che non sa di calcoli ne di buone ragioni. Altrimenti, meglio che i corvi, così discreti quando non si avventurava carogna da inghiottire, se ne stiano oggi in silenzio.
Aitor Fernández-Pacheco y Guzmán, nipote di Ada Grossi.
Paris (France).
De Magistris e la città derenzizzata
Posted in Interventi e riflessioni, tagged De Magistris, derenzizzata, Napoli, Renzi on 14/08/2015| 1 Comment »
Dopo la sfida sulla Napoli derenzizzatta, il discorso si affina. Si gioca a carte scoperte e senza politichese.
Un progetto chiaro, un sistema di valori pienamente condivisibili, un metodo che coinvolge pienamente la base e alcuni incontestabili dati di fatto. La città che non vota più per disgusto – più o meno il 50 % degli aventi diritto – ha trovato un riferimento, che non è e non vuole essere semplicemente l’uomo che “sfida il sistema” e il leader carismatico. De Magistris costituisce oggi il perno attorno a cui tendono a raccogliersi con pari dignità un insieme di forze rappresentative delle lotte e della volontà di cambiamento che in città si tocca con le mani. La sfida è sul rifiuto del neoliberismo, la lotta per la legalità repubblicana contro un sistema autoritario. Nulla di plebiscitario e nulla di improvvisato. Per quanto mi riguarda è l’esito naturale di un incontro tra percorsi diversi che, pur provenendo da esperienze di vita lontane tra loro, giungono a condividere un obiettivo decisivo: la difesa dei diritti dei lavoratori, delle libertà politiche e civili. Un moderno antifascismo, contro una moderna forma di eversione e lo strapotere della finanza, la cui forma di governo privilegiata è quella autoritaria e neofascista, incarnata in un crescendo dai governi Monti, Letta e soprattutto Renzi.
A Napoli ognuno ha nelle proprie mani le chiavi di un’officina in cui costruire il futuro della città e un laboratorio sperimentale che può diventare modello nazionale.
Mettiamoci all’opera!
Intervista a Luigi De Magistris su Contropiano.
Agoravox, 14 agosto 2015
A Piano di Sorrento per Ada e l’Escola del Mar
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Ada Grossi, Escola del Mar, Giovanni Ruggiero, Ida Mauro, Piano di Sorrento, Sylvia Grossi on 11/08/2015| 1 Comment »
Domani alle 21 a Piano di Sorrento, grazie all’ospitalità del sindaco, prof. Giovanni Ruggiero, assieme a Ida Mauro, avrei dovuto parlare di scuola e dei galantuomini fascisti che a Barcellona bombardarono l’Escola del Mar. Il programma però ha subito una variazione obbligata e nella penisola sorrentina ricorderemo anche Ada Grossi. Sarà con noi Sylvia, la figlia madrilena, che in questi giorni mi ha domandato più volte che fine hanno fatto gli antifascisti in Italia e soprattutto nella città in cui Ada e i suoi sono nati. Ieri ai funerali dell’ultima donna che partecipò alla guerra di Spagna eravamo in quattro: io, la figlia Sylvia, il nipote Aitor e Ida, che vive a Barcellona, ma è in vacanza a Sorrento. E’ incredibile, ma così: sia pure mettendo assieme un cumulo di sciocchezze, “El Mundo” ha ricordato i cinque napoletani.
Mentre ringrazio il prof. Ruggiero e la bella cittadina sorrentina, non ho dubbi: fosse morto un “repubblichino”, avremmo visto in piazza bandiere rosse e militanti decisi a sbarrare il passo ai fascisti, i quali, va detto, avrebbero certamente organizzato a Napoli un’adunata.Per Ada, invece, non s’è mosso nessuno. E qui mi fermo, per carità di patria
Ricordo di Ada
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged Ada Grossi, Carlo Rosselli, Cesare Grossi, Giacomo Matteotti, Maria Olandese, Renato Grossi on 09/08/2015| 10 Comments »
Due parole, prima di riproporre un vecchio articolo scritto per Repubblica.
Ho accompagnato Ada fino all’estremo confine del suo viaggio e mi ha aiutato una certezza: ci rivedremo. Come lei, non ho il conforto della fede e sono solo davanti al dolore, ma una religione ce l’ho anch’io e nel libro sacro degli spiriti indocili c’è scritto chiaro: nel conflitto inestinguibile tra istinto e ragione, l’animo umano trova la sua vera ricchezza e attraversa senza fatica confini e steccati. Non ci sono muri che fermano valori e ideali. Non sarà vero – lo so, non c’è religione che possa dimostrare le sue verità di fede – ma io sono certo che Ada è tornata tra i suoi compagni di lotta e ha trovato ad accoglierla con un sorriso e un abbraccio il suo primo e immortale maestro: Giacomo Matteotti, guarito delle sue ferite, affiancato da Cesare Grossi, il padre rivoluzionario che lei venerava, la madre, Maria Olandese, da cui tanto imparò, e Renato, il fratello, eroico combattente a Teruel.
Non farò l’elenco degli uomini e delle donne che la stanno festeggiando. Sarebbe un’interminabile fila di grandi e piccoli nomi, una mille e una notte di storie incantevoli, tutte da raccontare se le forze lo consentissero. E’ una schiera di spiriti eletti che non conoscono gerarchie, ma sono gelosi custodi di antichi e immortali valori.
Prima o poi, molti dei sedicenti “grandi” si presenteranno alla porta che Ada ha appena attraversato, ma i titoli dei giornali ossequienti, le chiacchiere dei conduttori, gli stolti cinguettii e le numerose presenze nei salotti televisivi, non basteranno a ottenere un lasciapassare e nessuno li accoglierà festante. Ada ha appena attraversato senza sforzi un inesplorato mare tra due terre, un Mediterraneo su cui regna sovrana la legge della solidarietà. Nessuno dei “grandi” riuscirà a superare le sue onde e tutti saranno travolti. Eolo in persona scatenerà l’inferno e se pure, per avventura, trovassero sulla rotta disperata una loro Lampedusa, Gramsci, Amendola e Rosselli, pronti a lasciar passare ogni immigrato, quale che siano la sua origine e il colore della sua pelle, li ricacceranno indietro senza esitare, in nome dell’eterna legge del contrappasso.
Nessuno di quanti oggi mandano navi a fermare migranti varcherà qual confine. Ada non è morta e non morirà. E’ il potere che muore, non chi l’ha combattuto. La morte colpisce solo i suoi servi, i servi del potere, e non c’è religione che non condivida questo dogma umano.
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Ada Grossi. La voce alla radio che denunciava i crimini fascisti
Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C´è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un´infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l´omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. «Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola». A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: «scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre». Umana, ma estranea, Buenos Aires, l´accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d´una famiglia diventata un riferimento per i “sovversivi“.
Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel ‘36, quando s´apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l´Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L´ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di “Radio Libertà”, la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Caballero: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l´ira impotente di Mussolini. «Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo», e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell´epopea e il valore inestimabile d´una testimonianza sulla dimensione etica dell´agire politico, smarrita nell´opulenza malata del consumismo.
Evasa dal “secolo breve“, Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi a una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l´ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò. Se la incontri, non è più la ragazza “castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico” che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant’anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l´esistenza. «E´ incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!», esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra “l´odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento”. «Gours, Argelés-sur-Mer – ricorda Ada –. Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano». Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l´involontario elogio di un questore che, nell´aprile del ‘37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che «a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s´è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati». Per metterla a tacere, si impiantò persino “una stazione disturbatrice presso la Prefettura“.
«Filo da torcere gliene abbiamo dato», sottolinea Ada compiaciuta, mentre “corregge” il questore: «La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti». Il verbale di un interrogatorio subìto dalla madre in Questura, a Napoli, nel ‘41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d´inverno e roventi d’estata, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato «nel campo di Argelés con un permesso speciale», la guerra, l´armistizio con la Francia e un nuovo calvario: «io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l’altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc».
E´ un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell´infermeria del campo – «mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla» – , la madre, «compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno», il padre che «privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all’ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella». Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, «barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale». E torna in mente Machado:
«Cadde morto Federico
sangue alla fronte e piombo alle viscere
Sappiate che fu a Granada il delitto
Povera Granada!».
La “sua” Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l´entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. «Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo». Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre. Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c´è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. «Il regime aveva radiato mio padre dall´albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c´era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto». E ripete orgogliosa: «Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi – conclude amara –ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali». Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l´affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L´Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un´epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l´uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo “passato contemporaneo”. La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all´archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.
La Repubblica ediz. Napoli, 4 febbraio 2008 e Fuoriregistro, 5 febbraio 2008.
8 agosto 2015: con Ada Grossi s’è spenta la voce di Radio Libertà
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Ada Grossi, Radio Libertà on 08/08/2015| 13 Comments »
L’Italia razzista
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Adolf Hitler, Bettino Ricasoli, Businco, carlo Luigi Farini, fascismo, Franzi, Giorgio Napolitano, Landra, Matteo Renzi, razzismo, Salvini, Savorgnan on 08/08/2015| 1 Comment »
Non mi stupisce che Matteo Renzi un giorno parli del Sud dei piagnistei con toni da Salvini, e l’altro di un piano miracoloso che in breve risolverà quella “Questione meridionale” che già Mussolini aveva dichiarato definitivamente chiusa. Non è vero che la storia non abbia nulla da insegnare a nessuno. La verità è che spesso gli allievi sono scadenti.
Molti pensano che Salvini sia un’anomalia e che il razzismo fascista fu il prezzo pagato all’alleanza col Reich di Adolf Hitler, ma non è andata precisamente così. Per lo più, i settentrionali che ebbero ruoli di primo piano nel processo di unificazione nazionale nutrirono un autentico disprezzo per la gente del Sud; per Ricasoli, i meridionali erano “un lascito della barbarie alla civiltà del secolo XIX”; buona parte della stampa piemontese dell’epoca li definiva figli di una terra “da spopolare” e c’era persino chi propose di mandarne gli abitanti “in Africa a farsi civili”. Una razza inferiore, insomma, da educare col bastone. “Qui stiamo in un Paese di selvaggi e di beduini”, affermò il deputato Vito De Bellis e, di rincalzo, Carlo Luigi Farini, luogotenente del re nelle terre del Sud e, di lì a poco, Presidente del Consiglio, nel dicembre 1860, dimenticata la “passione unitaria“, non esitò a scrivere a Minghetti: “Napoli è tutto: la provincia non ha popoli, ha mandrie […]. Con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchian di numero nei parlamenti, se non stiamo bene uniti a settentrione“.
Partiti da queste convinzioni, i galantuomini della Destra storica produssero infamie come la Legge Pica, i villaggi bruciati assieme agli abitanti, i processi sommari, le fucilazioni senza processo, le deportazioni e il carcere a vita. Un fiume di sangue che battezzò la “nazione unita” prima del macello di proletari che alcuni chiamano “Grande Guerra”.
In realtà, un filo rosso lega tra loro gli eventi della storia e dietro il razzismo c’erano e ci sono ceti dirigenti, interessi di classe e la ricerca di un alibi per la feroce difesa di privilegi. In questo senso, non basta ricordare che il 5 agosto del 1938 il fascismo scoprì la superiorità della “razza italiana” e mise mano alle leggi razziali. Occorrerebbe aggiungere un dato particolarmente significativo, sul quale, invece, si preferisce tacere: Businco, Franzi, Landra, Savorgnan e tutti gli altri “scienziati” che compaiono come autori o sostenitori del Manifesto della razza, conservarono la cattedra dopo il fascismo; qualcuno fece addirittura una brillante carriera e tutti continuarono a “formare” le giovani generazioni.
Buona parte di ciò che accade oggi ha profonde radici in un passato con il quale non abbiamo mai fatto seriamente i conti. Il giornale che pubblicò il famigerato “Manifesto” del 1938 – “La difesa della razza” – ebbe come segretario di redazione un equivoco personaggio, che alcuni anni fa Giorgio Napolitano, presidente della “Repubblica nata dall’antifascismo”, volle commemorare in Parlamento: il fascista Giorgio Almirante, futuro capo di gabinetto del ministro Mezzasoma a Salò, nella tragica farsa passata alla storia col nome di “Repubblica Sociale”. Un uomo, per intenderci, coinvolto successivamente in oscuri rapporti con bombaroli neofascisti, che sfuggì al processo, facendosi scudo dell’immunità parlamentare e sfruttando, infine, un’amnistia.
Un caso eccezionale? Assolutamente no. Caduto il fascismo, i camerati di Almirante pullulavano nei gangli vitali della Repubblica “antifascista” e non fu certo un caso se l’amnistia di Togliatti si applicò solo a 153 partigiani e salvò 7106 fascisti. Magistrati, Prefetti e Questori avevano fatto tutti carriera nell’Italia di Mussolini e nel 1955, quando si giunse a tirare le somme, i numeri erano agghiaccianti: 2474 partigiani fermati, 2189 processati e 1007 condannati. Quanti finirono in manicomio giudiziario non è dato sapere, ma non ci sono dubbi: ce ne furono tanti.
In quegli anni cruciali trova le sue radici la sottocultura che ispira la linea “politica” di Salvini. Anni in cui la scuola di polizia fu affidata alla direzione tecnica di Guido Leto, capo dell’Ovra prima di Piazzale Loreto, e Gaetano Azzariti, che aveva guidato il Tribunale fascista della razza, prima collaborò con il Guardasigilli Togliatti, poi fu nominato giudice della Corte Costituzionale, di cui, nel 1957, divenne il secondo Presidente, dopo la breve parentesi di De Nicola. Confermato il Codice Penale del fascista Rocco, Azzariti, ex fascista, fu incredibile relatore sulla competenza della Consulta a valutare la costituzionalità delle leggi vigenti prima della Costituzione repubblicana.
Di lì a qualche anno, nel dicembre del 1969, quando Pino Pinelli volò dal quarto piano della Questura di Milano, essa – è inutile dirlo – era affidata a un fascista, quel Marcello Guida che a Ventotene era stato carceriere di Pertini, Terracini e dello stato maggiore dell’antifascismo. E’ questo il mondo dal quale, senza che probabilmente se ne renda conto, proviene la concezione della politica che esprime Renzi. Il mondo che, dal 1948 al 1950, secondo i dati inoppugnabili di una legge varata nel 1968, creò 15.000 perseguitati politici, condannati a 27.735 anni di carcere dai giudici che la repubblica aveva ereditato dal fascismo. In proporzione, molto peggio di quanto fecero in vent’anni Mussolini e i suoi.
C’è un dato ancora che va ricordato: a partire da settembre, grazie alla riforma della scuola, su questa realtà cadrà una pietra tombale e chi vorrà insegnare la storia nelle nostre scuole dovrà fare i conti col rischio del licenziamento. Diciamolo chiaro: siamo ben oltre il livello di guardia.