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Posts Tagged ‘Digos’


Appena caduto il fascismo, l’Italia mussoliniana si intreccia con quella antifascista. La formazione tecnica della polizia finisce in mano a Guido Leto, ex capo dell’OVRA, i magistrati che avevano inflitto secoli di galera e confino agli oppositori non sono epurati, ci teniamo il codice Rocco, i docenti fascisti, persino gli sciagurati del Manifesto della razza e in attesa di libri repubblicani “impariamo la storia” dai testi sui quali studiavano i giovani borghesi negli anni di Gentile.
Non basta. Mentre il personale politico del regime conserva lavoro, stipendio e ruolo sociale – Gaetano Azzariti, ex numero uno del tribunale della razza, giunge alla Corte Costituzionale, prima come giudice, poi come presidente – i partigiani affollano carceri e manicomi e si giunse al punto che i Tribunali della “Repubblica antifascista” assolvono Anfuso, mandante dell’omicidio Rosselli, che, si dice, hanno agito contro lo Stato italiano e le pugnalate francesi sono andati a cercarsele. Quanto a noi ragazzi, per poco non ci parlarono di Matteotti come di un aspirante suicida.
A fare da contraltare a quella miserabile restaurazione pensò per anni un libro curato da Ernesto Rossi e pubblicato da Einaudi nel 1957. Intitolato No al fascismo – le parole che giorni fa hanno indotto la Digos a identificare un cittadino che le aveva utilizzare alla Scala di Milano – il libro colmava i vuoti di una storiografia che non riusciva a stare al passo coi tempi, raccogliendo alcuni scritti, sui quali si formò una generazione di democratici: Ernesto Rossi, L’Italia Libera, Enzo Tagliacozzo, L’evasione di Filippo Turati, Ernesto Rossi, Fuga dal treno, Massimo Salvadori, Il sacrificio di Lauro De Bosis, Carlo Rosselli, Partenza per il fronte, Gaetano Salvemini, L’assassinio dei Rosselli, Egidio Reale, Il volo su Milano, Aldo Garosci, L’attentato di Bruxelles, Umberto Calosso, La battaglia di Monte Pelato, Alberto Tranchiani, L’impresa di Lipari, Manlio Magini, Il processo degli intellettuali.
Pensare che alla Scala la Digos dovesse rendersene conto significa pretendere l’impossibile dalle forze dell’Ordine. Chi, negli anni di delirante parificazione che viviamo, ha mai pensato di spiegare ai solerti funzionari della Polizia Politica che identificare qualcuno per un “No al Fascismo”, vuol dire aprire fascicoli sui padri della nostra Costituzione e sulla prima, felice idea di federalismo europeo?  La Digos non sa di che si parla.
Diverso il discorso per gli “intellettuali” che passa il convento, ai quali è giusto chiedere di tacere, piuttosto che mostrare il ruolo di sputasentenze privi di conoscenze assunto nel pieno di una grave crisi della democrazia. Sentire Carofiglio ridicolizzare chi denuncia la svolta autoritaria che si realizza nel Paese è a dir poco sconfortante. La Digos non fa opinione e non pretende di essere colta, ma l’esercito dei “liberali – Travaglio, Serra, Mieli – dovrebbe sapere che avallare operazioni di polizia volte contro chi torna indignato al vecchio e nobile “No al Fascismo”, significa ignorare chi sia stato e per molti aspetti continui a essere moralmente Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli del Manifesto di Ventotene e tra i più convinti esponenti del federalismo europeo.
A chi occupa gli spazi di informazione non è consentito ignorare o trattare con arrogante distacco Enzo Tagliacozzo, uomo di spicco del primo antifascismo e biografo di Gaetano Salvemini, Massimo Salvadori, antifascista, azionista, perseguitato politico, fratello di Joice Lussu, partigiana e poetessa, che in gioventù ho avuto l’onore di conoscere, Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà, comandante dei primi volontari antifascisti in Spagna, barbaramente ucciso col fratello in Francia da assassini pagati dai fascisti. Egidio Reale, antifascista, fuoruscito, leader della resistenza  e diplomatico italiano; Aldo Garosci, che respirò l’aria della Torino operaia negli anni di Gramsci e Gobetti, fu tra i fondatori di Giustizia e Libertà, esule politico, combattente ferito nella guerra di Spagna e partigiano a Roma, Umberto Calosso, che frequentò Gramsci e Rosselli, fu in Spagna e partecipò alla Resistenza, Alberto Tranchiani, antifascista e fuoruscito, nel 1929 organizzò la fuga dal confino di Lipari di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, Manlio Mangini, antifascista militante dopo la campagna di Russia, confinato a Tito nel Potentino, dove incontrò Marisa Tulli, la più giovane confinata d’Italia, poi compagna di tutta la vita, fu infine, catturato dalle SS e finì a Mauthausen e Gunskirchen.
Carofiglio si ferma a uno staccio di commento giuridico – un sapere fondato sul Codice Rocco –  afferma che la Digos è in regola e nemmeno per un attimo azzarda la proposta: cambiamo la regola. Chiacchiera, ma incredibilmente non sa che prima della tragedia finale, l’ultima opposizione al regime si espresse nei teatri, dove giovani repubblicani urlarono, allora come oggi, “NO al Fascismo”. Poco dopo la libertà morì nel silenzio.   

Agoravox, 15 dicembre 2023 e Sinistra Quotidiana, 16 dicembre 2023

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Cara amica,
il tuo messaggio affettuoso suona per me come un meritato rimprovero. Mi faccio sentire poco e lo so. downloadAnch’io ti penso spesso, però, e spero che le cose non ti vadano troppo male. Non dico bene, perché di questi tempi non è assolutamente possibile; tutto quanto si può fare è difendersi, provando a farsi scivolare addosso il disastro che travolge il Paese. Io mi chiudo a riccio, mi isolo, scribacchio, rifletto e ricomincio a lavorare per i miei due libri il che significa che, di fatto, non ne sto scrivendo nessuno e questo non mi piace. Per le Quattro Giornate potrei certamente considerare chiusa la ricerca e so anche che ne verrebbe fuori un ottimo lavoro. Il fatto è, che il mondo attorno a me somiglia sempre più a un deserto ingombro di macerie e spazzatura e la mia attenzione a volte è assorbita da una riflessione rabbiosa sul come uscire da questo pantano, spesso è presa da una sensazione di doloroso stupore. Non avrei mai immaginato di dover vivere gli ultimi anni della mia vita in un tempo così oscuro e feroce.
Quando la solitudine mi pesa troppo, evado, cerco i compagni, ma puntualmente ne esco avvilito e, se possibile, più inquieto: ognuno coltiva il suo orticello e nessuno sente il bisogno di unire gli sforzi per saldare le lotte. Ieri, a Piazza del Plebiscito, c’era una manifestazione per la sorte tragica della scuola, ma eravamo pochissimi. In città c’era un riunione di antimilitaristi che vogliono far guerra alla guerra (per carità, chi gli dà torto?), c’era la solita congrega di quelli che saprebbero risolvere i problemi della Grecia meglio di Tsipras – e magari hanno pure ragione – c’erano gli occupanti dei vari centri sociali, ognuno attivo nella propria fortezza – chi lotta per l’acqua, chi per la Palestina, chi per Bagnoli e mille altri ancora – ma la scuola moriva sola, ammazzata senza trovare un aiuto nemmeno a volerlo pagare. E’ come se un Gap alla rovescia si muova indisturbato nel Paese. No, noi non conosciamo l’indifferenza che Gramsci odiava, però ci appassioniamo a un problema per volta…
Non avendo con chi prendermela, ho attaccato briga con alcuni agenti della Digos e solo per miracolo non ho finito la serata in Questura. Data l’età, sarebbe stata la prova provata che sono un deficiente; devo dire, però, che alla fine un round l’ho vinto: almeno due agenti della polizia politica sono tornati a casa con qualche dubbio sulla legalità che credono di difendere, mentre uccidono la giustizia sociale  e con la coscienza un po’ meno serena. Certo, quando gli ho detto che la gente li odia, ho temuto il peggio, ma forse lo sanno e non gliene importa. Sta di fatto che non hanno replicato nemmeno quando gli ho detto chiaro che e si sono messi dalla parte sbagliata, perché invece di difendere saltimbanchi pericolosi come Renzi, dovrebbero dare la caccia a chi ha rubato il futuro ai loro figli. Mi ha confortato molto, alla fine, una frase sibilata in un soffio, da uno dei quattro: “prof. ma perché siete così pochi?”.
L’ha capito pure la Digos che dovremmo stare tutti in piazza attorno alla scuola, non lo capiscono i compagni, che magari fanno anche a botte coi celerini, ma solo quando la cosa gli pare veramente molto rivoluzionaria…
Basta, che mi arrabbio troppo.
Mia moglie per fortuna è tornata a una vita normale e la schiena va molto meglio. Il cane fa i conti con il tumore e con gli effetti delle cure, ma in realtà non se ne rende conto, vive una vita tutto sommato felice e riesce a dare ancora molto al suo vecchio padrone, senza chiedere altro che un po’ di affetto. Con la nostra genetica arroganza, noi pensiamo, sprezzanti, che una vita amara sia una vita da cani, ma i cani ci sono di gran lunga superiori per lealtà e onestà nei comportamenti. I cani fanno una vita migliore della nostra. La mia Alice non ha consapevolezza del tempo che passa, della vecchiaia e della morte che giunge. Finché sarà in questa condizione, non ci saranno ragioni per aiutarla ad andarsene.
Mi spiace per ciò che mi dici sulle tue linee telefoniche. Proviamo a crederci: nella barbarie che ormai ci assedia, qualcuno dei gestori a cui ti sei affidata troverà modo di riattivare il servizio. Magari ci riuscirà da un call center hawayano un libico sfruttato che lavora per telecom…
Mi dici che hanno preso un “terrorista”. Ti dico di non sperare che sia uno di quelli veri… i ministri sono tutti a piede libero e organizzano indisturbati nuovi massacri libici.
E’ tardi e sono stanco. Prometto: la prossima volta manterrò la promessa e ti dirò cos’erano e che facevano i Gap. Intanto, animo, amica mia. Passerà anche questo e prima, però, passeremo noi. Forse non è un male.
Un abbraccio e la promessa di farmi vivo.
A presto.

Agoravox, 22 maggio 2015

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16221079-vintage-vecchia-sedia-di-legno-nero-in-interno-grungy-la-solitudine-straniamento-concetto-alienazionSono venuto alla luce sul confine temporale che separò l’Italia monarchica da quella repubblicana, Era un altro Paese e la parabola della vita correva tra nascita e morte, in una sorta di produzione a «ciclo continuo», fondata sulla convivenza delle generazioni: figli e nipoti nascevano in casa e in casa – quasi sempre la stessa – morivano i nonni. La trasmissione della memoria era un tessuto da filare in racconti serali, durante cene di povera gente, ricche di scambi, opinioni e ricordi. Negli anni che seguirono, la polverizzazione della famiglia, l’affermazione del modello americano e una rinnovata organizzazione capitalistica della metropoli e dei tempi della nostra vita, regalò ai vecchi il sapore amaro della solitudine, in un mondo che mette ai margini chi esce fuori dai circuiti della produzione. Nella sua terribile durezza, il fenomeno conservava, tuttavia, un che di «naturale», era un dato fisiologico dai connotati patologici: la vecchiaia è in qualche misura sinonimo di solitudine, l’età che avanza ci priva a poco a poco dei compagni e ci lascia fatalmente soli in una realtà che cambia e si fa sempre più estranea.
Il punto più basso di questa china disperante, però, l’abbiamo toccato da qualche anno, quando, in una società sempre più organizzata in funzione delle logiche del profitto, per le quali più sei debole e meno sei tutelato, è emersa d’un tratto, patologica e devastante, una solitudine nuova e contro natura: la solitudine dei giovani, che non sono uguali tra loro, non costituiscono una categoria sociale, ma si trovano in buona parte soli davanti a tempi bui che hanno la tragica durezza degli inverni della storia e della civiltà.
I più giovani, quelli che meglio conosco, gli studenti, sono così soli e occupano ruoli così irrilevanti, che la sedicente «Buona Scuola» di Renzi non ha nemmeno un paragrafo dedicato a loro. Come se la scuola non li riguardasse, Renzi li ha ridotti a spettatori muti della pantomima utilizzata per descrivere il futuro che li attende. I giovani non esistono, ma è in nome loro che la riforma dell’ex «rottamatore» disegna la scuola su modelli del mercato e dei suoi meccanismi: produttività, concorrenza, competitività, leggi della domanda e dell’offerta e sfruttamento della forza lavoro regoleranno, infatti, la vita scolastica, ricorrendo al peggior armamentario ideologico liberista. I giovani però non la vogliono la scuola che Renzi prepara e lottano per far sentire la loro voce che nessuno intende ascoltare. Non la vogliono perché hanno letto il progetto, ne hanno discusso tra loro e hanno capito che non è una scuola, perché non forma più cittadini consapevoli, in grado di ragionare con la propria testa e di affrontare con equilibrio la dura complessità del mondo in cui vivono; è una fabbrica che produce lavoratori e si propone di farne tecnici specializzati e alfieri dell’ammaccato «Made in Italy»; un pianeta misterioso che sospinge il Paese indietro, fino a porti nebbiosi che parevano esclusi dalle rotte della civiltà: porti in cui scuola e lavoro si incontravano negli istituti di avviamento professionale, dove chi non poteva pagarsi l’esame di ammissione alla scuola media era costretto a prepararsi al lavoro. E’ amaro, ma vero: alle giovani generazioni che soffocano per mancanza di occupazione, la scuola della repubblica fa dono dello spettro di un lavoro contrabbandato per studio e formazione e intende tornare all’Italia che Pasolini disprezzò: quella col «popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante».
Forte di una ideologia che è «verità di fede» – la globalizzazione è fenomeno irreversibile – per piegare alle regole del capitale i nostri giovani, padroni e professori vengono fusi in un rapporto spurio, che artifici linguistici definiscono «alternanza scuola-lavoro». E’ questo ciò che Renzi e il PD pensano di imporre alle scuole secondarie superiori, licei compresi, ricorrendo a sotterfugi e formule oblique. Un meccanismo sostanzialmente reazionario, che assegna «qualità formativa» all’attività lavorativa prestata in realtà esterne alla scuola e fornisce ai padroni l’opportunità di far conto sul lavoro gratuito, utilizzando studenti sfruttati invece dei lavoratori. Duecento ore all’anno negli ultimi tre anni degli Istituti Tecnici e Professionali, la formula dell’«impresa didattica» che trasforma attività di formazione a scuola in mansioni finalizzate alla produzione di reddito, quella della «Bottega Scuola», che inserisce studenti in ambiti aziendali di natura artigianale e, dulcis in fundo, per gli ultimi due anni di scuola, un sistema di convenzioni che decide le regole d’ingaggio per un «Apprendistato sperimentale» già regolato dalla legge 104 del 2013.
Sullo sfondo di questo delirio oscurantista, la solitudine dei giovani, in prima linea in una battaglia disperata per la formazione, ha i contorni della tragedia e l’assenza degli adulti sa di tradimento. Mentre una generazione senza futuro viene trascinata con inaudita violenza verso un mondo da incubo, che nega il diritto allo studio e chiude i lavoratori nei campi di concentramento di uno sfruttamento garantito dalla cancellazione di ogni diritto – ai padroni si consente ormai persino il licenziamento senza giusta causa – gli studenti provano a presidiare come possono gli istituti scolastici attaccati; i giovani protestano, organizzano cortei, ma sono soli, sotto il fuoco di fila della stampa padronale, che criminalizza le «okkupazioni»; soli di fronte a un potere che, non avendo risposte credibili e non potendo fare appello a una autorevolezza che non ha, ricorre alla Digos e al Codice Rocco e presenta gli studenti come sprovveduti in mano alla teppaglia estremista, raccolta nei «collettivi». Della sentenza dell’Unione Europea non parla nessuno; eppure, proprio in questi giorni, l’Italia di Gelmini, Profumo, Carrozza, Giannini e Renzi è stata condannata per aver tenuto 300.000 lavoratori in condizione di precarietà professionale ed esistenziale e aver sottratto per anni agli studenti il diritto alla continuità didattica. Di questo naturalmente si tace e nessuno denuncia le gravissime violazioni di quella legalità di cui ipocritamente ci si riempie la bocca, quando si tratta di criminalizzare e bloccare gli studenti che lottano in nome del diritto allo studio, al lavoro e al futuro.
Di fronte a una così feroce solitudine e a una riforma che in altri tempi avrebbe riempito di sdegno le piazze, i genitori sembrano assenti, frenati probabilmente da problemi di sopravvivenza e dalle paure alimentate da una stampa sempre più reazionaria; in quanto ai docenti, intimoriti dal clima repressivo che si vive nelle scuole e dalle reiterate campagne sui “fannulloni”, anche quelli che riconoscono le ragioni dei giovani stentano a schierarsi e li lasciano soli. Di solitudine, però muore spesso la speranza e lascia spazio alla disperazione, abituale compagna della barbarie che si sta seminando a piene mani. Invano la storia insegna che le grandi tragedie nascono della solitudine dei giovani e dalla diserzione dei vecchi. E’ sempre più raro che qualcuno si fermi ad ascoltarla.

Uscito su Fuoriregistro il 29 novembre 2014, su Agoravox e sul Manifesto, col titolo Nella scuola la nuova solitudine dei ragazzi, il 3 dicembre 2014.

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Qualcuno dirà che è stata saggezza: ferme ai crocicchi dei palazzi del potere, dove s’è messa a morte la giustizia sociale, le forze dell’ordine non si sono viste. Mentre la stampa padronale esalta l’araba piazza Tamir, l’Italia dei diritti negati non poteva concedere spazio a nuovi pestaggi della polizia “democratica”. Sembra un ragionamento che non fa una piega, ma la saggezza non c’entra e non c’entra nemmeno la volontà consapevole di chi comanda, deciso a ridurre l’isolamento morale rispetto a un’opinione pubblica disgustata. E’ stata la necessità di far fronte al crescente dissenso interno verso una politica dai tratti autoritari, che da tempo scatena in piazza la parte peggiore degli uomini in divisa; una politica che il 14 novembre è sfociata nelle aggressioni selvagge a ragazzi inermi, documentate da foto e filmati inaccettabili, che nemmeno la stampa addomesticata ha potuto ignorare. Tra le forze dell’ordine sempre più divise, molti sono ormai gli indecisi e i riottosi. Questo governo non piace a tanti poliziotti e mentre l’ala dura da sola non basta per ora a tenere la piazza, i più moderati, stanchi di far scudo a un governo voluto dai banchieri e tenuto in piedi da un Parlamento del tutto privo di credibilità, recalcitrano e non danno affidamento.
Professore, ma davvero lei crede di avere di fronte un muro compatto e senza crepe? mi ha detto in piazza senza giri di parole una funzionaria della Digos, che ormai mi conosce bene. Se è così, si sbaglia. Quando si fa lavoro diventa sporco, si scelgono uomini e reparti. Non siamo tutti uguali e non son rose e fiori nemmeno tra gli agenti entrati in polizia secondo i criteri d’un tempo e i bestioni arruolati oggi grazie a “corsie preferenziali”; a molti non piace il vantaggio incolmabile assicurato ai militari tornati da esperienze di guerra sui fronti in cui da tempo sono impegnate le nostre forze armate con la scusa di inesistenti interventi umanitari. Non piace, perché ci riempie di fanatici e spostati che in piazza esibiscono in petto le strisce minacciose e multicolori delle campagne militari. C’è guerra ai vertici. Un disaccordo forte che non si lascia trasparire. A molti, peraltro, De Gennaro non piace, è il volto peggiore delle forze dell’ordine, quello mostrato a Genova. E Genova è una ferita aperta non solo per la cosiddetta società civile. Molti tra gli uomini in divisa ritengono che lì le forze dell’ordine si sono davvero giocata la reputazione. E questo non fa piacere a nessuno. In ultimo, c’è un motivo solo apparentemente secondario, una ragione di dissenso e di scoramento molto più banale, ma capace di unire: la crisi colpisce anche noi.
Chi ha avuto agenti a lezione di storia, ai corsi triennali universitari, al tempo delle convenzioni firmate tra accademia e enti pubblici, sa bene che dietro l’apparente muro di violenza e omertà che ci troviamo di fronte ogni giorno in piazza, c’è una nebulosa complessa e multiforme. Sa che c’è un terreno inesplorato che si può aprire alla propaganda e alla lezione della democrazia e non è un caso che sulla scuola si picchi con particolare accanimento. La scuola diventa assai spesso la buccia d banana su cui scivola il potere. ieri in piazza essa ha avuto meriti davvero significativi. Ha dimostrato anzitutto in maniera inequivocabile che non bastano squadristi in divisa per costringerla a tacere e che, anzi, l’inattaccabile governo tecnico, in tema di scuola, versa in stato confusionale: orari, precari, concorso, ha fallito ogni mossa. Non bastasse, in piazza, ed è un punto a favore di grande significato politico, il governo stavolta ha dovuto rinunciare all’unica arma che ancora possiede: la violenza.
Facciamo tesoro di questa esperienza e andiamo avanti decisi. Ci attendono mesi decisivi. Secondo Affari Italiani, il più accreditato dei giornali on line, a tre italiani su quattro il “Monti bis” procura l’orticaria e Montezemolo non raggiunge il 2 %. Tutto è in movimento, tutto è ancora possibile e la “scorta” ai palazzi del potere è molto meno solida di quanto appaia. Affianchiamo i ragazzi in lotta, stiamo con loro in piazza e nelle scuole occupate e intanto le organizzazioni dei lavoratori, quelle che non hanno rinunciato al conflitto, trovino la via per far esplodere le contraddizioni che dall’altra parte si stenta a gestire. C’è nella nostra storia antica, nella cultura di una sinistra schierata nella trincea dei diritti, una tradizione di propaganda tra gli uomini in divisa. Qui non si tratta di assaltare il palazzo d’inverno: E’ il palazzo che pare muovere in armi contro di noi, mentre occupa la via elettorale con oscure manovre di partiti e inaccettabili intromissioni del Capo dello Stato. “La democrazia sta sparendo sotto i nostri occhi”, ha sostenuto con amaro coraggio una studentessa che s’è conquistata la parola a Parma, rivolgendosi a Clini che inaugurava l’anno accademico in una università blindata. Aveva perfettamente ragione. Non è tempo di dubbi: occorre modificare gli equilibri sul terreno dello scontro che ci vogliono imporre e non sarà certo male se, alla resa dei conti, in piazza, tra gli uomini in armi, qualcuno decida di passare dalla parte dei manifestanti. Non si tratta di inseguire miti rivoluzionari. E’ solo che Piazza Tamir non è lontana come pare.

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Ci contano? Certo che ci contano, non sono mica scemi.
Non so altrove, ma qui a Napoli oggi non c’è voluto molto; sono bastate le dita di due mani e l’uomo della Digos era tutto contento.  
Senza girarci attorno. Al corteo, stamattina, c’erano poche centinaia di studenti e quattro, letteralmente quattro, docenti. E non venitemi a dire che è stato solo perché un nubifragio s’è abbattuto sulla città. Non è così, non vi credo. E’ che i rivoluzionarissimi non vanno con la Cgil, la Cgil non mette assieme più nemmeno il gruppo dirigente e i sindacati di base fanno ognuno la sua guerra e conta che hai mostrato la bandiera. Il nubifragio non c’entra. E’ che gli studenti autoconvocati non vanno con quelli organizzati, gli insegnanti di ruolo non si interessano dei precari, il comitato antirazzista non sa che esiste la scuola e la scuola non ha l’indirizzzo delle fabbriche in lotta…
Senza peli sulla lingua: ci meritiamo ampiamente quello che ci hanno fatto e ancora ci faranno.

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Ai politici non va giù, ma la storia, a scuola, la insegniamo com’è: gli italiani non sono “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori“. La grottesca definizione, che si legge ancora sul Palazzo della Civiltà del lavoro, a Roma Eur, la inventò Mussolini nel 1935, mentre “civilizzava” gli etiopi, sepolti sotto nuvole d’iprite, in nome di Roma antica e di un colonialismo straccione di retroguardia.
L’Italia non ha una gran storia e all’estero lo sanno. Il biglietto da visita fu la “piemontesizzazione” del Regno, ottenuta dopo massacri, processi sommari, deportazioni e domicilio coatto. Si disse che la “giovane unità” poteva andare in pezzi, ma si trattò di scontro d’interessi, i dissidenti furono macellati e il mondo civile ne fu nauseato. Mazzini morto in casa Rosselli sotto falso nome, Garibaldi sorvegliato come un delinquente, gli scandali bancari e i rapporti tra politica e mafia non portarono, poi, acqua al mulino del nuovo regno e la crisi di credibilità del nostro paese è molto più vecchia di Berlusconi. Prima abbiamo avuto Crispi con leggi marziali e domicilio coatto, Bava Beccaris decorato al valore per aver sparato a mitraglia sui milanesi scesi in piazza per la fame, le giovani generazioni senza diritto di voto costrette ad ammazzare e farsi ammazzare per la “patria dei galantuomini” e una questione femminile che si riassume in un amen: le donne contavano quanto gli asini e le mucche. Nel tritacarne della “grande guerra” operai e contadini ce l’infilarono con la forza il re e gli industriali, ma quando si trattò di saldare il conto, pagò la povera gente e gli imprenditori furono così egoisti che Giolitti minacciò Agnelli di sciogliere la Confindustria. Per tutta risposta, i padroni del vapore finanziarono il fascismo.

Questa è la nostra storia, così la conoscono all’estero e così noi la spieghiamo agli studenti. Il capitolo giustizia è tra i più tristi con la vicenda atroce di anarchici, socialisti e comunisti segregati nelle isole e nelle galere o sepolti vivi nei manicomi. Ce n’è per ogni momento storico. Romeo Frezzi ingiustamente sospettato di complicità in un attentato, fu arrestato a Roma il 17 aprile 1897 e morì per le percosse subite nel corso di un interrogatorio. Nessuno fu punito. Nel giugno 1914 la polizia, infastidita dai discorsi contro la guerra, aprì il fuoco sui manifestanti. Sette giorni di scontri, tanti lavoratori morti ammazzati, ma i giudici non trovarono un colpevole. Tra il 1927 e il 1943, il Tribunale Speciale condannò 4.596 “sovversivi” a 27.735 anni di carcere. “Carcere duro” si disse allora.
Con la repubblica, nacquero speranze, ma tra il 1948 e il 1950 ci furono 15.000 oppositori politici condannati a 7.598 anni di galera. Tra il 1948 e il 1952 in piazza, da noi, la polizia fece 65 morti. In Francia, in quegli anni, di morti ce ne furono 3 e in Inghilterra e Germania se ne contarono 6. Sono numeri che all’estero conoscono bene, così come è noto un dato impressionante: una legge dello Stato ha riconosciuto che tra il 1948 e il 1966 in Italia ci sono stati 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici che hanno subito persecuzioni politiche.

Col 1968 sembrò che si girasse pagina. A Milano, invece, nel dicembre del 1969, Giuseppe Pinelli, ch’era stato staffetta partigiana, arrestato benché innocente per la strage di Piazza Fontana, morì dopo un inspiegabile volo dal quarto piano della Questura di Milano. “Malore attivo“, decise il giudice D’Ambrosio. Nessuno capì cosa fosse, ma nessuno pagò.
Così va da sempre.
Marcello Lonzi, detenuto per tentato furto, è stato massacrato ed è morto in cella alle Sughere, a Livorno, l’11 luglio del 2003. La sentenza di archiviazione del 2010 ricorda il caso Frezzi: è stato un “forte infarto“. Le perizie, però, hanno accertato fratture, escoriazioni e due “buchi” in testa.
Il 27 ottobre 2006 Riccardo Rasman, un povero psicopatico, si rifiutò di aprire la porta. La polizia non chiamò il centro di salute mentale, entrò con la forza, gli bloccò i polsi con due manette, gli legò le caviglie con filo di ferro e lo pestò – dall’autopsia emerge una ferita alla testa inferta presumibilmente con un corpo contundente – poi lo stese a terra, un agente si sedette sulla schiena e lo sventurato morì per asfissia. Il giudice ha condannato due capi pattuglia e un assistente a sei mesi di reclusione ciascuno con la sospensione condizionale della pena.
Stefano Cucchi, arrestato a Milano nella notte del 15 ottobre 2008, morì una settimana dopo all’Ospedale “Sandro Pertini” per un violentissimo pestaggio e sono in pochi a credere che i colpevoli pagheranno. In compenso, Spartaco Mortola, ex dirigente della Digos di Genova durante il G8 del 2001, condannato in secondo grado a tre anni e otto mesi di carcere e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per l’irruzione alla scuola Diaz, è stato promosso questore.
Qui da noi va così. Dal 2001 al 2010 nell’inferno delle carceri sono morti 1582 detenuti; di essi 775 si sono suicidati. Gli Istituti di pena ammassano reclusi come carne in scatola, ma nessuno muove un dito, così come nessuno parla dei CIE, i lager nei quali, per disposizioni del ministro Maroni, non fanno entrare nemmeno i deputati.

Questa è la nostra storia e, parlando di giustizia, un docente non può non ricordarlo: la legge Reale del 22 maggio 1975 consente alla forza pubblica discrezionalità nell’uso delle armi per necessità operative, estende il ricorso al carcere preventivo anche senza flagranza di reato, in modo da tener “dentro” un cittadino per 96 ore senza un decreto dell’autorità giudiziaria. Nel 1986 la legge n. 663 introduce l’articolo 41 bis che, emendato dall’art.19 del decreto legge n. 306, nel 1992 estende le limitazioni ai detenuti (anche in attesa di giudizio) per criminalità organizzata, terrorismo o eversione, riduce il numero e modifica le regole dei colloqui, limita la permanenza all’aperto (“ora d’aria“) e censura la corrispondenza. A tali categorie di detenuti s’è applicato l’art. 4 bis della stessa legge, che concede i benefici carcerari e le misure alternative alla detenzione (permessi premio, lavoro esterno, affidamento a servizi sociali, semi-libertà, detenzione domiciliare) solo a chi collabora con la giustizia. Di nuovo “carcere duro“, quindi, ma, dicono in molti, quello fascista era più mite,
Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, dopo aver visitato le nostre galere e verificato le condizioni dei detenuti soggetti al regime ex art. 41 bis, ha concluso che le restrizioni rendono i trattamenti inumani e degradanti. I detenuti, privati di ogni attività e tagliati fuori dal mondo esterno, presentano alterazioni spesso irreversibili delle facoltà sociali e mentali.

Nel 2002 il Ministro della Giustizia Castelli volle rendere permanente la validità dell’art.41 bis e il Parlamento con la legge 279 approvò la proposta, sicché oggi non c’è più alcun limite temporale e si va avanti così: una visita di un’ora al mese, sessanta minuti di colloquio, ascoltato e registrato, solo con familiari di grado diretto o conviventi. I volti sono separati da una lastra blindata per impedire, col gelo trasparente del vetro, ogni calore di contatto umano anche quello d’una mano sfiorata. La condanna, la pena e la sofferenza toccano così anche ai parenti innocenti. Lo scambio delle voci non è diretto: la voce, fatalmente alterata, passa per un citofono. Pare che a poco a poco si smarrisca così il ricordo del suono vero. Un ipocrita residuo d’umanità consente che i figli minori di12 anni possano parlare senza vetro e citofono una volta al mese, per dieci minuti.
Il Sant’Uffizio avrebbe provato brividi.
Il fine costituzionale del “recupero” è smarrito: mafiosi e “sovversivi” non sono più riconosciuti come uomini e poco importa se l’isolamento profondo fa impazzire. Il “pacchetto sicurezza” porta voti e più lo inasprisci più ci guadagni. Di qui, la gara a chi fa meglio: limiti alla possibilità di corrispondere con le famiglie, posta controllata, nessuna attività ricreativa, nemmeno se si tratta di studio, nessuna frequenza di corsi scolastici. Il detenuto studia da solo. Anche le celle sono fatte apposta: fitte maglie metalliche filtrano la luce e l’aria e le file di sbarre sono moltiplicate. Non c’è un’utilità pratica, né si garantisce più sicurezza. C’è, com’è stato scritto, “il valore simbolico ed effettivo di una ordinaria continua afflizione“*. Una sola via d’uscita: collaborare con la giustizia, com’era durante il fascismo, quando se la cavava solo chi vendeva nomi e passava al regime.

Questa è la storia. Napolitano e il Parlamento, che si strappano i capelli per Battisti non estradato da un Brasile che non prevede ergastolo e tortura, farebbero meglio a occuparsi di quello che accade a casa nostra. Una casa di cui noi, che siamo insegnanti, non possiamo che spiegare la miseria morale.

* Prefazione di Sergio D’Elia a Nazareno Dinoi, Dentro una vita

Uscito su “Fuoriregistro” e “Report on line” il 10 giugno 2011

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Studenti e centri sociali: ecco il patto del terrore”. Così titolava la stampa nel dicembre scorso, ma chi se ne ricorda più? La “Rete 29 aprile”, i sovversivi travestiti da ricercatori, annidati nelle università massacrate dalla pregiata ditta Gelmini & Co, sono spariti dalle pagine dei giornali. Un nuovo “terrorismo” ruba la ribalta a Giavazzi e Abravanel e l’allarmante democrazia italiana dà il meglio di sé nei cimiteri d’acqua mediterranei, nelle guerre umanitarie tra alleati svergognati e nei pruriti alla Tinto Brass sui disordini sessuali dei nostri arzilli nonni. Non è uno spettacolo politico edificante per i nostri giovani, tutti più o meno disoccupati nella repubblica fondata sul lavoro, ma saremmo negli standard della nostra “libera stampa” e della neoliberista “democrazia dei nominati”, se in tanto buio, non fosse così chiaro che l’apparenza inganna. Normale democrazia da esportazione è un Presidente della Repubblica che ci chiede candidamente di bombardare la Libia, ma altrettanto candidamente sostiene che non si tratta di guerra. La guerra, quella vera, ormai lo sanno tutti, la fanno i nipotini del Presidente coi soldati di latta e i modellini da collezionisti. Qualcuno dovrebbe spiegare perché non c’è un centesimo per la ricerca, mentre si trovano miliardi per andare in giro a seminar la pace a colpi di cannone, ma nessuno ci pensa e siamo ancora nella “normale” democrazia del tempo nostro, quella che ad ogni pie’ sospinto chiama a difesa dei sacrosanti principi del diritto internazionale, poi li fa a pezzi e non c’è nulla da dire. Nella nostra “normale” democrazia esistono sempre due spiegazioni opposte per lo stesso fatto. Se un commando palestinese viola la sovranità di un Paese occidentale e giustizia senza processo un uomo disarmato, non ci sono dubbi: Giuliano Ferrara, Magdi Allam, Scalfari, Bersani, Mieli, Lucia Annunziata, il cardinal Bertone e tutti assieme leghisti, forzisti, futuristi, democratici, radicali, piddisti, casinisti e diprietristi, organizzano fiaccolate e manifestano sdegno per l’inqualificabile gesto d’una banda di barbari terroristi. Se la bella impresa nasce occidentale, va tutto bene madama la marchesa e, per favore, non facciamo domande, non disturbiamo l’Onu, non mettiamo su processi mediatici, non bruciamo bandiere e prepariamoci al peggio: occorrono quattrini per la difesa, perché s’aspetta presto la reazione e, poverini, i mercati turbati fanno capriole, intaccano i profitti e squintarnano le Borse. Marchionne vorrà perciò duemila referendum, Draghi riprenderà la litania sui conti pubblici e lo scialo dei pensionati e Napolitano, per suo conto, d’accordo naturalmente sui dolorosi tagli, si dirà preoccupato per la disoccupazione giovanile quantomeno raddoppiata.

Se l’assassinio pachistano dei crociati a stelle e strisce non sollevasse l’allarme per ogni dissidenza e non fornisse l’occasione per tornare quatti quatti alla campagna sugli studenti, i centri sociali e il “patto del terrore”, saremmo nello standard della nostra “libera stampa” e della concezione neoliberista della “democrazia dei nominati”. Così però non pare. Sarà un caso ma, mentre nel Lazio ormai nero c’è chi si candida per la Polverini, in nome di Mussolini, mentre a Milano impazzano bande di neofascisti e a Napoli si mette mano al coltello minacciando “antifà vi buchiamo”, mentre tutto questo accade e le liste elettorali puzzano di camorra, la Digos non sa trovar di meglio che arrestare gli immancabili anarchici nell’innocente Firenze. Quali anarchici? Quelli dello “Spazio Liberato 400 colpi”, una delle piccole “stelle” della “galassia contestatrice” che tanto preoccupò l’antiterrorismo nei giorni vergognosi dello scorso dicembre, quando fu chiuso il Parlamento e la compravendita dei deputati prese a schiaffi quel tanto che sopravviveva di legalità repubblicana.

A che gioco si stia giocando non è dato sapere, ma la domanda è d’obbligo: chi si vuole intimidire e perché? Chi difende diritti? Chi scende in piazza sdegnato per il razzismo di Stato? Chi è stanco e nauseato dei rapporti tra politica e criminalità organizzata? Chi si prepara a sostenere la flottiglia che parte per Gaza nel nome di Arrigoni e dimostra coi fatti che il silenzio dell’opposizione politica non garantisce la resa incondizionata dell’opposizione sociale?

Diciamolo prima e registriamolo a futuro memoria: quale che sia il gioco, è un gioco sporco.

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C’è chi accenna a rapporti dell’antiterrorismo e accusa studenti e ricercatori: “sovversivi pericolosi” da arrestare. Chi ogni giorno ha tra le mani carte di polizia, note riservatissime e relazioni ignobili di infiltrati e confidenti, sa che la storia ha anche un volto impresentabile, che non riguarda solo i regimi totalitari. Piaccia o no, è il volto del potere. Puoi mettergli a guardia regole e segnare limiti, le zone d’ombra esistono, non le cancelli. Un esempio per tutti: il sindacato. Oggi è normale, per certi versi addirittura “banale”, che esistano confederazioni sindacali. Sarebbe ridicolo se la Digos le indicasse come “covi di terroristi” ed è noto a tutti: per loro natura, “raffreddano” il conflitto e sono utili anche al padronato. Non è andata, però, sempre così.

 Napoli, 1893. Nei vecchi rapporti di polizia il sindacato è una minaccia per gli equilibri sociali: l’operaio deve “chiedere” e, se rivendica un diritto, si ribella. Quando i lavoratori si associano, il Ministero dell’Interno ordina alle questure di insinuare uomini tra gli operai per “conoscere il numero complessivo degli iscritti, le generalità, i connotati e un breve cenno biografico di ciascuno dei capi”. In gran segreto si fanno schedature e a Roma giungono elenchi di “organizzazioni pericolose”. Basta parlare di orario di lavoro, salario e salute, ed ecco l’etichetta: “sovversivo”. Decidono questori, prefetti e funzionari della Squadra Politica. Oggi diremmo Digos. Senza informare gli interessati, “le autorità, prima di ammettere nuovi operai negli stabilimenti e nelle amministrazioni” chiedono “speciali informazioni” e si segnalano così i sindacalisti “più influenti e pericolosi affiliati ai partiti sovversivi”. Sono partiti regolarmente presenti in Parlamento, ma nei rapporti non c’è differenza tra delinquenti e delegati sindacali e la stampa non prova nemmeno a verificare le “veline”. Le società operaie crescono e la Questura s’inventa “cabine di regia” e “manovre anarchiche”. Per mettere nei guai chi lotta per un diritto e disturba i padroni, l’anarco-insurrezionalismo è l’argomento più usato dalle autorità di Polizia di ogni stagione della nostra storia: Italia liberale, fascista e repubblicana. I fascicoli della Questura sono pieni di rapporti fantasiosi e inverosimili di spie e confidenti che vendono a peso d’oro notizie di terza mano, invenzioni e libere interpretazioni di discussioni politiche e sindacali. Senza uno straccio di prova, il prefetto accusa: “si finge di tendere al miglioramento economico degli operai, ma invece si punta a fomentare le passioni, a coalizzarli, con mire evidentemente politiche e avverse all’attuale stato di cose. […] Per far proseliti, poi, si studia di trar partito specialmente dal malcontento che, per una ragione o per l’altra, serpeggia nelle varie classi operaie”.

 E’ un classico. Vale per ieri e oggi. Le cause del malcontento non interessano  nessuno. Contano soprattutto i “sovversivi”. Ogni riunione è un pericolo, le “voci” inverosimili riferite dai confidenti sono prese per buone senza alcun riscontro. Pericolosa è persino una riunione “in una bettola fuorigrottese, ove si legge una lettera pervenuta da Palermo”. Nessuno sa che ci sia scritto, ma conviene credere a un fantomatico piano rivoluzionario al quale, suggerisce un infiltrato a caccia di quattrini, “prenderebbe parte un giovane prete dimorante al Vomero”. Il condizionale la dice lunga e il senso del ridicolo indurrebbe chiunque a più serie riflessioni, ma “in alto” si preme e inquirenti e magistrati si legano in oscure connivenze. Per colpire gli operai, il Questore si muove “nel modo più acconcio” per indurre il proprietario di uno stabile a sfrattare i sovversivi e la Procura “garantisce che dal locale Pretore sarà emessa relativa ordinanza e, nello stesso giorno in cui giunga, fatta eseguire”. Accuse non ce ne sono, ma il Questore trasmette alla Procura Generale copia dei rapporti inviati al Prefetto. La procedura é scorretta, ma serve a costruire prove false. Si giunge al punto di denunciare gli autori di un manifesto che due settimane prima è stato considerato del tutto legale. I lavoratori scoprono un provocatore, ex agente di PS, e lo espellono, ma l’uomo riappare nell’elenco degli iscritti, “ritoccato” dopo il sequestro, e in Tribunale fa la sua parte nel ruolo di falso testimone. Il Questore dà credito ai confidenti e si cerca un’imbarcazione “comandata da un maltese, che dovrebbe arrivare dall’Albania con armi da sbarcarsi lungo la marina di Licata e Porto Empedocle”. Nessuna la trova e due perquisizioni senza mandato non bastano a tirar fuori il carico di armi. Una “velina” della Questura trova, però, spazio su giornali compiacenti e crea un clima di tensione giustificato dalla “necessità di opporsi con energia al movimento che nelle presenti condizioni economiche e morali di queste basse classi sociali, potrebbe da un momento all’altro prendere un carattere apertamente sedizioso e gettare la città […] in preda allo scompiglio”.

Occorrono, scrive il Prefetto, imputati “deferiti al potere giudiziario sotto il titolo di Associazione di malfattori”. Creato l’allarme nella popolazione, scatta la trappola. Il solito confidente consegna alla Squadra Politica un piano misterioso che prevede la sollevazione sincronica di Palermo, Messina e Napoli. La rivolta, si dice, inizierà con “incendi dolosi appiccati nella notte”. Quando un sarto del sindacato torna da Palermo, lo aspetta la Squadra Politica che lo arresta. In città, intanto, il Questore, avuta “notizia sicura che gli incendi si sarebbero praticati nella nottata mediante petrolio e acqua ragia coi quali si sarebbero intrisi gli stoppacci accesi gettati negli scantinati”, mette in moto “pattuglie che percorrono la città in tutti i sensi con ordine di fermare, perquisire e arrestare”. Nel cuore della notte sono presi due individui. “Perquisiti nella persona”, guarda caso, hanno con sé due bottiglie di acqua ragia e un manifesto con la scritta a mano: “Viva la rivoluzione sociale”. Due terroristi e due bottiglie di acqua ragia sarebbero ben povera cosa per una rivoluzione, ma la polizia sostiene che i mille compagni, impauriti, si sono ritirati. Tanto sindacatobasta per portare in tribunale l’intero sindacato. Nella fretta, la Questura sbaglia la data dell’arresto e anticipa d’un giorno la rivolta, ma i giudici lasciano correre. La fantomatica rivolta non c’è stata, ma due bottiglie d’acqua ragia e le chiacchiere del sarto che si “pente” spediscono in galera decine di sindacalisti.

Al processo la condanna è già scritta. Tutto si basa su insinuazioni di anonimi confidenti di fiducia della Questura. La difesa chiede di interrogarli, ma il giudice rifiuta, perché “le informazioni  avute da confidenti trovano riscontro negli atti”. E’ verità di fede e tanto basta: due bottiglie di acqua ragia e dei confidenti. I due “terroristi” negano e l’acqua ragia può essere strumento di lavoro. Nessuno li ascolta. Degli agenti che testimoniano, uno è colto con un foglietto da cui legge appunti e nomi d’imputati; un altro manda su tutte le furie il giudice che lo interroga perché ricorda “cose molto differenti da quelle risultanti nella deposizione scritta”. Un ispettore, infine, messo alle strette dalla difesa, ammette che gli imputati non sono sovversivi pericolosi. Il giudice preoccupato, scrive allora al Questore per fargli “raccomandazioni sul contegno di funzionari e agenti che dovranno essere intesi, non potendo in caso contrario garantire l’esito del processo”. Preoccupato è anche il Crispi, presidente del Consiglio, che intervenuto personalmente e indebitamente, “raccomanda di sollecitare il più possibile il pronunciato della Camera di Consiglio, ritenendo opportuno lo scioglimento del sindacato”. In quanto al sarto, testimone chiave, ritratta le dichiarazioni rese in istruttoria e narra la storia di durissimi interrogatori, di lunghi digiuni e della privazione dell’acqua. La polizia, accusa, lo ha drogato e convinto a firmare una dichiarazione falsa e già preparata. Dopo un’altalena di violenze e lusinghe, avrebbe ceduto in cambio di 500 lire, un passaporto e la sistemazione delle figlie. L’uomo non mente. In archivio c’è la ricevuta della cifra pattuita e la firma di un ispettore. Il processo è una farsa, ma una valanga di condanne si abbatte sul sindacato, che è disciolto, mentre i sindacalisti sono spediti in galera.

È un caso tipico, ma ce ne sono veramente tanti. Nel 1914, quando l’Italia dei padroni, interessati a vendere armi, si prepara alla guerra, l’ostacolo sono gli operai antimilitaristi. A giugno del 1914 l’esercito liquida il conto, sparando sui lavoratori. A Napoli sono ammazzati quattro dimostranti. Due giovani vittime sono operai di 16 anni. La polizia e i bersaglieri negano ogni addebito: hanno sparato una sola volta per legittima difesa. E poiché i quattro morti e un ferito sono trovati in due strade diverse, a Vico Spicoli e a Vico Croce, si falsificano gli atti. Il ferito è immediatamente arrestato e “per imperiose ragioni di ordine pubblico”, un morto viene nascosto “nella sala mortuaria del Trivio”, il cimitero ebraico, sicché per giorni la povera madre cercherà invano il figlio ucciso. Si prende tempo per concordare una versione comune tra i commissariati di quartiere. “Prego redigere un unico rapporto ribadente questo unico punto di vista”, scrive il Questore ai dipendenti: “c’è stato un unico conflitto a fuoco […]. Confido nella solerte abilità ed attendo un preciso rapporto per il quale è opportuno prendere accordi col Colonnello che comandava la truppa”. Un giudice che sta al gioco si oppone – “l’esame necroscopico e gli accertamenti generici escludono che uno degli operai sia morto con gli altri” – ma tutto è sepolto in archivio, anche la verità narrata da un veterinario, finito in ospedale per uno scontro a fuoco in cui è morto un lavoratore. La via dei tumulti non è quella indicata dalla Questura.

 Maroni può dire ciò che vuole, ma le cose stanno così: tra il 1948 e il 1966 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici sono stati ritenuti “perseguitati politici”. In Archivio ci sono ancora i telegrammi della polizia repubblicana che pedina Gaetano Arfè, partigiano e storico di prestigio e Giorgio Napolitano, oggi presidente della Repubblica. Il Ministro di storia non s’intende, ma può controllare. Sandro Pertini è ancora schedato come malfattore. Lo tenne prigioniero a Ventotene un “camerata del noto La Russa”, per dirla col linguaggio dei questurini: Marcello Guida, direttore della colonia penale fascista di Ventotene, ove fu prigioniero anche Terracini, che poi firmò, come segretario della “Costituente”, la carta costituzione, nella quale i missini come il ministro La Russa non si riconoscevano. Bene, Maroni non se ne ricorderà, ma si informi, il 12 dicembre del 1969, quando una bomba fascista fece una strage a Milano, capitale della sua inesistente Padania, il Questore che coordinava le indagini era proprio lui, il fascista Marcello Guida. Fu lui a informare gli italiani che l’attentato era opera dei soliti anarchici insurrezionalisti. Pochi giorni dopo il povero Pino Pinelli, accusato dell’attentato senza alcuna prova, volò dal quarto piano della Questura retta dal Guida. Questo alto funzionario fascista, incredibile Questore della Milano antifascista, aveva fatto bene il suo lavoro. Stavolta non si trattava di montare un processo. No. Il compito era di smontarlo per coprire i camerati.

 Si potrebbe continuare a lungo. Ma a che serve? Maroni e soci tengono ben coperte le verità che scottano e invano gli studiosi chiedono di cancellare il segreto di Stato. Il Ministro ha altro da fare. Non è la verità che va cercando. Punta alla solita montatura sui soliti anarchici. Per ora ha creato i colpevoli e li ha indicati all’opinione pubblica. Poi verrà il reato. Quale? Un po’ di pazienza. Come troveranno un sarto pentito, ce lo faranno sapere.

Uscito il 20 dicembre 2010 su Caunapoli.

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La speranza è che la stampa, dopo le mille battaglie sul “bavaglio”, trovi l’animo di concederci la parola. Comincio così, poi chi avrà voglia di leggere capirà:

Un appello di intellettuali napoletani
La gestione dell’ordine pubblico non ha, e non dovrebbe avere, per sua natura, volto politico. È neutrale, e si pone come garanzia di sicurezza materiale e di tutela dei diritti costituzionali anche e soprattutto nel conflitto sociale. Da mesi la città di Napoli è costretta a subire una gestione della questione sicurezza che forza la dinamica democratica. Una gestione che sembra assumere un ruolo politico di braccio armato del Governo. Lo lasciano credere la vicenda di Terzigno e la gestione della questione-rifiuti, la maniera di affrontare in piazza il dramma della disoccupazione e, da ultimo, l’attacco gratuito e portato all’interno del San Carlo contro gli studenti, gli artisti e i lavoratori del teatro.
In una città come Napoli trattare il dissenso a suon di manganellate e fermi ingiustificati fa pensare a intenti intimidatori e rischia di innescare una escalation della tensione di cui la Questura porterebbe una responsabilità.
È il caso che le autorità riflettano a fondo e tengano conto delle esigenze democraticamente espresse dai movimenti sociali di questa città che ha già troppi problemi e che chiede soluzioni politiche e non una gestione da Stato di polizia.


Giso Amendola (docente Università di Salerno)
Giuseppe Aragno (Università Federico II)
Giuseppina Buono (ricercatrice Università Orientale)
Silvana Carotenuto (docente Università Orientale)
Iain Chambers (docente Università Orientale)
Alessandro Cimino (precario della ricerca)
Gemma Teresa Colasanti (docente Università Orientale)
Erri De Luca (scrittore)
Michele Fatica (docente Università Orientale)
Carmen Gallo (precaria della ricerca)
Angelo Genovese (docente Università Federico II)
Alexander Höbel (ricercatore Università Federico II)
Giovanni La Guardia (docente Università Orientale)
Gerardo Marotta (presidente Istituto Italiano per gli Studi Filosofici)
Maurizio Memoli (docente Università di Cagliari)
Sergio Muzzupappa (ricercatore Università Orientale)
Salvatore Pace (preside del Pansini)
Luigi Parente (docente Università Orientale)
Luca Persico (musicista, 99 Posse)
Antonello Petrillo (docente Università Suor Orsola Benincasa)
Anna Pia Ruoppo (precaria della ricerca)
Consiglia Salvo (attivista movimenti per l’acqua pubblica)
Luca Scafoglio (precario della ricerca)
Daniele Sepe (musicista)
Emilio Surmonte (docente Università di Salerno)
Tiziana Terranova (docente Università Orientale)
Davide Torri (docente Università di Chester, UK)
Aldo Trucchio (docente Università Orientale)
Stefano Vecchio (Direttore Dip.to Farmacodipendenze Asl Napoli 1)
Alex Zanotelli (missionario comboniano)

Perché tanto rumore? Siamo preoccupati per il futuro e c’è un modo solo per spiegare il perché, metter mano alla penna e raccontare.
Giovedì sera, 2 dicembre di quest’anno buio, io c’ero al teatro lirico “San Carlo“. Ero con gli studenti, come da giorni nelle aule dell’università occupata e nelle piazze, dove la loro protesta si salda a quella di ricercatori, precari, disoccupati e lavoratori massacrati da una crisi che non hanno provocato e dovrebbero e pagare. Così hanno deciso il governo e la Confindustria. Loro, i giovani, e con loro, i deboli e gli emarginati. Ancora e sempre gli stessi. I padroni del vapore no. Quelli non pagano.
In piazza, però, la situazione è anomala. La protesta si scontra con forze dell’ordine che, più i giorni passano, più assumono un inaccettabile e pericoloso ruolo politico di braccio armato del governo. In piazza ci si va per difendere la scuola umiliata, il diritto allo studio negato, l’università pubblica privatizzata e il futuro della ricerca cancellato, ma si è costretti a difendersi fisicamente da attacchi violenti, cariche, manganellate e fermi di polizia. Un clima “cileno“, in un momento di evidente crisi delle istituzioni democratiche e mentre un’intera generazione prende coscienza di un dato inoppugnabile e disperante: è stata derubata del futuro.
In piazza si chiede giustizia, si pretende il rispetto di diritti. “Noi la crisi non la paghiamo!“, urlano assieme i giovani, “i diritti non si meritano, si conquistano. Uno slogan immediatamente politico che sfida un sistema, smaschera la ferocia del mercato e incute timore al potere. A chi, inebetito dalle televisioni e scimunito dal pensiero unico, guarda e li lascia inspiegabilmente soli, ai loro docenti, ai genitori silenziosi, rassegnati o complici, i giovani si volgono con rabbia e hanno ragioni da vendere: “Se ci bloccano il futuro , noi blocchiamo la città!“. E’ l’espressione lucida d’una ribellione che parte dal profondo, esprime un disagio reale, ma si sottrae per ora alla violenza. Ed è un miracolo di maturità.
Di questo si trattava giovedì scorso a Napoli: diritto al futuro. Tranquillo e determinato, il corteo è giunto al Teatro lirico “San Carlo”, tempio della cultura, che la settimana prossima aprirà la sua stagione. Fino all’ingresso li ha seguiti e filmati, maldestramente mimetizzato tra i passanti un manipolo di agenti della Digos, cui qualcuno stupidamente ha insegnato che senza divisa si passa inosservato. Ce n’era una, una donna, che portava appresso un cane. L’ho carezzato, per poco non m’ha morso. Ai cani voglio bene e l’ho placato: “senti l’odore della mia Alice?“, gli ho chiesto piano, e m’ha fatto le feste, mentre l’agente, con l’aria furba di chi ti prende per scemo, se lo tirava via e si mentiva passante incuriosita. Ai tempi miei, donne non ce n’erano, ma l’idea sbagliata d’essere molto furbi, quella sì, quella me la ricordo e l’ho detto ai ragazzi: “ci scorta la Digos“. Quasi faceva pena. Che strano mestiere: studenti e docenti sono i loro “delinquenti
All’ingresso del teatro gli studenti hanno parlato con i lavoratori: intendevano esporre uno striscione e raccogliere la solidarietà degli artisti. I tagli che ha subito l’Università rispondono alla stessa logica politica di quelli effettuati a tutto il settore culturale. Tremonti l’ha detto chiaro: “la cultura non si mangia“. E questa è una classe dirigente che ha costruito buon parte della sua fortuna attorno al verbo “mangiare“, nei suoi mille, e talvolta ignobili, significati. Gente che teme la cultura, perché non ama i cittadini. Vuole servi.
Ma qui conviene lasciare la parola a lavoratori e artisti del “San Carlo”.

Comunicato di solidarietà del San Carlo
Napoli, Teatro San Carlo, ore 20:30

Alle ore 18:15 una manifestazione pacifica di studenti degli atenei napoletani stava manifestando contro la riforma Gelmini dell’università. Arrivati all’altezza dell’aentrata principale, gli studenti sono entrati nell’atrio del lirico napoletano per tentare di incontrare i lavoratori, in quel momento impegnato in una prova della Tosca.
In quel momento la polizia e i carabinieri, non chiamati dal San Carlo, sono sopraggiunti caricando gli studenti mentre stavano dialogando con una rappresentanza delle maestranze artistiche, rimasta coinvolte nella carica.

Domenico Di Dato, della produzione Sancarliana, Leopoldo Passero, dei Servizi Trasporti, il primo violino Giuseppe Carotenuto, Giuseppe Benedetto (corno inglese), Vittorio Guarino (trombone), Maria De Simone (cantante): sono solo alcuni dei lavoratori del San Carlo colpiti senza motivo dalle forze dell’ordine.
Altri studenti sono stati poi prelevati e allontanati di forza.
I lavoratori del San Carlo e gli studenti tutti, che hanno partecipato alla manifestazione

DENUNCIANO CON FORZA

l’atto di violenza gratuita delle forze dell’ordine e chiedono il rilascio immediato dei ragazzi fermati di cui ad ora non si hanno notizie.

Laura Valente
Responsabile Comunicazione e Ufficio Stampa.

Stavolta è andata male ai tutori del… disordine. Ci avevano inseguiti e caricati più volte con furia. Una caccia all’uomo. Io me l’ero cavata con un micidiale spintone regalatomi da un brav’uomo in borghese al quale nessuno ha spiegato che un poliziotto che non ha divisa e ti mette le mani addosso senza nemmeno qualificarsi, quando per giunta non ha nulla da contestarti, si comporta come i delinquenti dai quali dovrebbe tutelarti. Intanto circolava, messa in giro ad arte, la voce che uno dei due fermati aveva in tasca l’immancabile coltello… Gli artisti, gente libera, hanno “rotto le uova nel paniere. Ma la frittata era ormai fatta. Assolutamente indigesta. A spiegare meglio che accade nel Paese ci ha pensato poi il Prefetto, che ha subito emesso un’ordinanza per mettere un po’… d’ordine:

niente sit-in («manifestazioni statiche», traduce la nota della Prefettura) e raduni simili che blocchino la viabilità; le proteste «dovranno svolgersi senza intralciare o rendere difficile l’accesso» nel palazzo regionale e anche nelle case private della zona di Santa Lucia; ancora, una sorta di coprifuoco che vieta cortei notturni e troppo mattinieri dalle 22 alle 10.

Un modo come un altro per riesumare la cosiddetta “adunata sediziosa“. I “benpensanti” naturalmente applaudono e, strano a dirisi, c’è ancora chi teme che si stia costruendo un regime. Come si fa a non vederlo? Questa è una vera democrazia.

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Napoli affronta ogni giorno con estrema fatica il grave problema di una criminalità così aggessiva, da sembrare talvolta fuori controllo. Non occorrono inchieste e studi approfonditi, per valutare l’impatto micidiale che le devastanti politiche di smantellamento della scuola e dell’università pubblica hanno su un tessuto sociale disgregato. La città, afflitta dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione, soffocata dal malcostume politico, ridotta spesso a vivere dell’economia del vicolo e avvilita dallo stereotipo della “città di plebe“, subisce ora l’oltraggio di politiche repressive reazionarie, volute da un governo in cui la figura del Ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, assume un ruolo centrale e inequivocabile. Ieri, come risulta chiaramente da un comunicato stampa dei Cobas Scuola, ingenti forze dell’ordine non hanno trovare impiego migliore che la sorveglianza di quella pericolosissima e nota combriccola di “sovversivi” costitutita da professori, studenti e ricercatori che attraversavano la città raccolti in un pacifico e democratico corteo di protesta per chiedere le sacrosante dimissioni del ministro Gelmini. Un ricercatore è stato così “assicurato alla Giustizia“. A piede libero rimane, dopo che un Parlamento di “nominati” non ne ha consentito l’arresto, chiesto dai magistrati per sospette attività camorristiche, l’ex sottosegratario e collega del ministro Maroni, on. Cosentino.
Ecco il comunicato Stampa dei Cobas Scuola.

Oggi 15 ottobre 2010, a Napoli, in varie migliaia hanno manifestato con un corteo regionale in difesa della scuola pubblica: docenti, precari scuola, precari della ricerca, personale ATA , studenti medi e universitari, genitori.
Erano presenti delegazioni di lavoratori di aziende campane in lotta e di pensionati dell’AL.P.I.
Il corteo, attraversato dagli slogan contro la Gelmini di cui si chiedevano le dimissioni, esprimeva la gioia della scadenza riuscita per la forte partecipazione al corteo, tanto che si chiedeva ai responsabili Digos di poter prolungare il corteo fino alla prefettura. Cosa che, purtroppo, veniva rifiutata.
Pertanto il corteo giungeva correttamente alla conclusione in Piazza Matteotti.
Dopo la conclusione un’ ampia delegazione di precari scuola e ricerca, insieme a gruppi di studenti, imboccavano il percorso pedonale di via Cervantes fermandosi, però, dubbiosi dopo meno di dieci metri, anche perché superati velocemente da circa sette, otto agenti in borghese della Digos che correvano verso un gruppo di studenti che si trovavano al lato del corteo improvvisato e fermo, colpendo violentemente quegli studenti con pugni, tanto che sono stati visti alcuni giovani con sangue sul volto e ragazzine terrorizzate. Sembravano cercare alcuni ragazzi in particolare?!!!
A diversi metri di distanza, immotivatamente veniva fermato un precario della ricerca, Salvatore Prinzi, che non faceva neanche parte del corteo abbozzato.
Il precario veniva tenuto per ore in questura senza nessuna informazione alla famiglia e ai compagni, rimasti in attesa in presidio improvvisato. Persino gli avvocati sono stati ammessi o informati fino alle 17,00.
Successivamente, abbiamo saputo che il giovane è stato incriminato per resistenza, oltraggio e lesioni perché un agente avrebbe dichiarato di essere caduto durante il fermo ferendosi e questo sarebbe stato determinato dal precario che si sarebbe divincolato.
Questi eventi sono gravissimi perché rappresentano una novità nelle logiche che hanno fino a ieri guidato chi gestiva l’ordine pubblico.
Non possiamo che ritenere che questi eventi siano dovuti ad una volontà di criminalizzare le lotte sociali.
Chi perde il lavoro, o il diritto allo studio o il futuro non può più neanche protestare, in una situazione dove anche i commercianti di quel tratto di via Cervantes, che hanno assistito alla scena, parlano di un clima di minacce e di timore determinate dalla polizia.
Domani mattina alle nove saremo tutti al tribunale in presidio.

CONFEDERAZIONE COBAS

Uscito su “Fuoriregistro” il 16 ottobre 2010

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