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Posts Tagged ‘Tremonti’

In inglese, che, com’è noto, da novembre è la lingua ufficiale del governo italiano, si dice “spending review“. Non è una novità del tecnici. Sta per l’ormai politicamente scorretta “razionalizzazione” e nel linguaggio corrente di chi non conosce gli agi della “Bocconi” e l’oro di Banca Intesa, significa semplicemente “tagli”. Per l’ex ministro Gelmini – che delle sforbiciate di Tremonti fu la spietata esecutrice, la scuola non è in grado di sostenerne di nuovi, ma il governo è di parere contrario. Trincerandosi dietro cortine fumogene e miserevoli giochi di parole, dichiara di voler “valorizzare le risorse”, ma si prepara di fatto a tagliare, dimenticando la sbandierata “centralità dell’istruzione”.
Nessuno è in grado di prevedere quanto ancora durerà la paralisi dell’intelligenza critica causata dall’uscita di scena di Berlusconi, ma il quadro è sempre più allarmante. Celebrati i mesti funerali della Sanità pubblica, un Paese in lutto assiste impotente ai ripetuti suicidi di disperati senza futuro, mentre il governo si accinge ad assestare il colpo di grazia alla scuola. Tra i cacciabombardieri e la formazione della nostra gioventù la banda Monti, sostenuta dall’inedito trio Alfano – Bersani – Casini, non dimostra incertezze e riduce nuovamente i fondi per la scuola, rivelando così le nascoste finalità del suo programma: garantire il profitto e cancellare i diritti.
Non bastassero tasse, balzelli, pensioni ridotte a un miraggio, figli eternamente sfruttati o disoccupati da aiutare, a piegare la debole resistenza dei docenti pensano l’umiliazione di stipendi da fame, la prussiana bandiera di un efficientismo quantitativo, sterile quanto mortificante, lo strapotere dei dirigenti, la pagella per i docenti, la congerie di sterili adempimenti burocratici e, dulcis in fundo, l’Invalsi e la valutazione immediata di quell’investimento sul futuro che si chiama insegnamento, di cui, intanto, si sta cancellando la libertà.
La democrazia è a rischio. E’ tempo di prenderne atto, cogliendo i segnali deboli, ma univoci che ci vengono dall’Europa. Dopo il voto, i giornali del potere propongono un’analisi strumentale e irrazionale degli avvenimenti greci, francesi e tedeschi, per farci temere il rischio incombente di una neonata opposizione degli estremi, per indurci a credere che uscito di scena Sarkozy, indebolita la triade che strangola la Grecia e la Merkel che perde ovunque i tedeschi votino, insomma, battuta l’Europa iperliberista, ci attendono il caos, la valanga antisistema, il trionfo dell’antipolitica. E’ una menzogna da cui guardarsi e la scuola può avere in questa decisiva battaglia un ruolo fondamentale. Portiamo in classe i giornali, confrontiamone le analisi con la lezione che viene dalla storia, dalla Carta Costituzionale, dal Manifesto di Ventotene, dagli obiettivi della Resistenza europea al nazifascismo, leggiamo loro la legge Bolkestein e paragoniamola allo Statuto dei lavoratori. Abbiamo mille strumenti didattici per spiegare ai nostri giovani che il voto degli elettori europei non alimenta una pericolosa forza antisistema, che fa paura e distrugge speranze e vite umane. E’ il contrario: quel voto mette in discussione l’illegittimo potere della finanza come espressione di un pensiero unico, dice no a chi ci terrorizza con un debito che non abbiamo contratto e dovremmo pagare, mette in crisi quel tanto di democrazia conquistato col sangue nella lotta di liberazione dal nazifascismo. Spieghiamo loro cos’era l’Europa dei popoli, così che capiscano che quello di ieri è stato un voto europeista contro populismo e autoritarismo. Francesi, greci e tedeschi, non chiedono nuove frontiere e divisioni, ma un’Europa veramente unita, che sottometta la finanza ai diritti dei cittadini. Deve essere chiaro soprattutto che quando diciamo finanza, diciamo destra estrema e non di rado fascismo. Il voto di ieri, perciò, non va contro l’Unione Europea, ne chiede semplicemente un’altra. Quella vera: l’Europa dei popoli.

Uscito su “Fuoriregistro” il 7 maggio 2012 e su “Paese Sera” l’otto maggio 2012

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Non sa bene di che parli – non è colpa sua e con un po’ d’impegno qualcosa imparerà – tuttavia ne parla. Si limita alle formule della propaganda, ma parla e ogni volta fai fatica a capirlo. L’ultima esternazione la riferisce l’Adnkronos e lascia di stucco: non ci sono soldi per dotare le scuole italiane delle necessarie tecnologie, ha scoperto il neoministro rettore, poi, sibillino ha subito chiosato: “questo non accade solo in Italia“. “Occorrerà chiederle a Sarkozy e alla Merkell, come fa la Grecia“? si son chiesti interdetti i giornalisti, mentre prendevano appunti, pensando alle difficoltà del momento e ai rapporti tesi tra i Paesi europei, ma Profumo non ha consentito riflessioni approfondite e ha continuato deciso, come impone il pugno di ferro nel guanto di velluto o, se preferite, lo stile di questa compagnia di guitti che c’è chi si ostina a chiamare governo. Prima o poi occorrerà ringraziare Berlusconi, Bersani e Casini che fanno il gioco delle tre carte: ieri facevano a gara per distinguersi tra loro in centro, sinistra e destra, oggi cantano a coro le lodi e i peccati “veniali” di un aborto politico che si chiama “salva Italia” e massacra gli italiani. Quelli, s’intende, che da sempre lavorano e pagano. Agli altri garantisce un salvacondotto che grida vendetta: evasori, guerrafondai, speculatori, mercanti d’armi, nullafacenti e mariuoli noti e ignoti, che hanno fatto la storia del debito nel nostro sventurato Paese, sono tutti al sicuro.
Partito a ruota libera, Profumo, ha voluto aggiungere la sua seconda strabiliante scoperta: a scuola “ci sono però ancora sacche di inefficienza da rivedere“. A scuola, naturalmente, perché il mondo da cui proviene – l’accademia – è un modello d’efficienza, efficiente è la classe politica nella quale s’è andato a rifugiare ed efficientissimo il governo di cui fa parte. Un governo che, dopo aver confermato gli ineccepibili tagli di Gelmini e Tremonti, spara a raffica innovative imposte indirette.
Sempre più tecnico e scientifico, ma sempre più fatalmente politico, Profumo ha esposto ieri la sua idea di uscita dalla crisi. Voi pensate che la via maestra per recuperare fondi da utilizzare per il miglioramento tecnologico di quel moribondo che si chiama scuola siano gli investimenti sottratti all’aeronautica militare, pronta a sperperare trenta miliardi in cacciabombardieri per far guerre ripudiate dalla Costituzione? Se lo pesante, sbagliate. Per aiutare la scuola italiana, ha sostenuto serafico il ministro, occorre “reingegnerizzare le risorse per evitare le inefficienze”. Che dice, che vuol dire? E’ presto detto: Occorre “valorizzare i docenti” e per farlo, si sa, bisogna valutarli. Profumo non sa non sa che Gelmini ne ha fatto un cavallo di battaglia e si lancia nell’apologia della sua nuovissima politica: la “valutazione, centrale in ogni processo di cambiamento, non deve essere vista come un atto sanzionatorio nei confronti dei docenti, ma in funzione di un miglioramento della qualità della scuola, tramite prove strutturate e standardizzate, che consentano confronti tra i risultati”.
Forte di questa batteria di luminose amenità, l’uomo di Monti, ha tirato fuori l’inglese. Quando può, lo fa con piacere. Gli studi glielo consentono, king George glielo consiglia e Monti, si sa, pretende il massimo di internazionalismo: quello borghese. Sia stile o sia ceto, la classe è classe e può colpire profondamente la sprovveduta fantasia dei docenti, depressa dal provincialismo della Gelmini. La ricetta anglosassone, insomma, non poteva mancare e il ministro non ha perso tempo: “attraverso la valutazione” ha sostenuto infatti solennemente “le scuole potranno esprimere pienamente la propria autonomia responsabile tramite la trasparenza del proprio operato, in linea con le migliori esperienze internazionali. Questo processo va inserito in un contesto più ampio, che contempli l’intero orizzonte della ‘smart city’, cioè di una città in cui i servizi ai cittadini siano accessibili, trasparenti, condivisi“. Sarà che non tutti sono all’altezza dell’inglese di Profumo, sarà che stiamo andando alla malora, a qualcuno è sembrato di cogliere nelle parole del ministro un novità davvero decisiva. Il caso Magri ha fatto scuola e il Paese si modernizza. Tra i servizi accessibili e condivisi, ai numerosissimi docenti ormai disperati sarà garantito quello “fine vita“. Così hanno letto, alcuni, le promesse del ministro: gli insegnanti si potranno suicidare tranquillamente. Il Miur darà gli indirizzi necessari e avranno persino facoltà di scelta. Il viaggio all’estero, però, sarà a carico degli aspiranti suicidi. Il governo Monti, si sa, assicura tutti i diritti. Il fatto è che, come le risorse, anche i diritti sono tutti all’estero. E’ consentito accedervi, certo, siamo in democrazia, ma occorrerà pagarsi il viaggio. Anche per il suicidio, sarà lotta di classe.

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Immagino che la sera spegnerebbe il televisore con un moto di ripulsa sconfortata, subito dopo i titoli del Tg3, nella penombra del suo studio che non ho più rivisto. La sera ci sorprendeva inattesa, come accade di questi tempi, quando il sole d’un tratto si inclina veloce all’orizzonte, per sparire in un preludio di autunno che il caldo micidiale non potrà fermare. Non so che direbbe e, per quanto profonda, non c’è amicizia che consenta di dare la parola a chi non c’è più. Di “libera stampa“, Arfè s’intendeva come pochi e di cialtroni che vendono fumo la sera tra pubblico e privato non si stupiva più. E’ singolare, diceva, l’ambigua passione per i dettagli e il disinteresse voluto per i problemi concreti. E come dargli torto, se in questo disastrato settembre di borse crollate e di vite tagliate, la prima pagina, parlando di scuola, è toccata all’abbraccio tra Lupi e Gelmini? Vera o presunta, la “storica pace”, dopo gli scontri estivi, ha tenuto il campo e “fatto ombra” all’agonia reale della scuola. Il problema di chi ci governa non è, come sarebbe lecito aspettarsi, il crollo verticale degli investimenti che si somma al taglio indiscriminato di risorse per l’ordinario e ai milioni di euro dirottati dal pubblico al privato. Lupi, portavoce degli interessi oscuri di Comunione e Liberazione ce l’ha con Gelmini non perché ha falcidiato gli organici e licenziato persino banchi, lavagne e cattedre. Ce l’ha, perché assume 66 mila precari. La smorfia disgustata di Arfè la conosco così bene, che mi pare di vederla e mi torna in mente chiaro il suo richiamo alla Costituzione. Il dio dei socialisti onesti l’ha risparmiato, chiamandolo a far compagnia al suo Turati, mentre il diritto al lavoro, garantito dalla Costituzione, tocca nervi scoperti dei ciellini e, a dar retta a Lupi e compagni, in futuro sarà difficile diventare docente per chi oggi comincia l’ università. Chi abbia torto o ragione tra i due ras lombardi, per la povera gente, non conta un bel nulla. Tutto quello che c’è dietro gli attacchi violenti, le liti, gli abbracci e i patti di pacificazione è che ormai si governa così, tra guerre per bande che mettono diritto contro diritto, generazione contro generazione, bianco contro nero, lavoratore contro disoccupato. Il Paese si sfascia, la casa crolla e la Costituzione è cartastraccia, con buona pace di Napolitano che si occupa di guerre e manovre finanziarie, qui ammonendo, là invadendo il campo, sempre, ovunque e comunque, ignorando il Parlamento e la sofferenza della povera gente.
Non ho dubbi. Uno storico del valore di Arfè lo vedrebbe lucidamente: sono vere tutt’e due le cose. E’ vero che i precari hanno diritto al lavoro, non meno vero è che ai giovani spetta un futuro. E’ vero e nessuno dovrebbe poter scegliere tra diritti contrapposti. I diritti sono vita per le democrazie. Negarne uno, in nome di un altro, significa ferire a morte la civile convivenza e la giustizia sociale. Nessuno potrebbe, ma lo fanno e non si trova una via per poterli fermare. Tutto questo accade perché dopo la bancarotta del socialismo, il delirio neoliberista che ha causato il disastro, fa la diagnosi e suggerisce le cure velenose che intossicano sempre più un Paese sofferente e sconcertato. La scuola, quella vera e concreta, quella che Arfè amava e ch’era stata la vita di suo padre, la scuola fatta di ragazzi, famiglie, personale docente e non docente, già prima di Gelmini e Tremonti, con Berlinguer, Moratti e Fioroni, ha vissuto di stenti. Quando è arrivata Gelmini a fare da curatore fallimentare, una scuola su due risultava costruita in zone a rischio sismico e fuori norma, un numero impressionante di edifici scolastici era privo di agibilità statica e spesso anche di documentazione igienico-sanitaria; introvabili risultavano gli attestati di prevenzione incendi. Sono poi venuti a mancare gesso per lavagne, sapone nei bagni, asciugamani usa e getta e carta igienica, difficile s’è fatto l’accesso alle cassette per il pronto soccorso e non serve proseguire. Ce n’era quanto bastava per temere il collasso che i dati Inail sugli incidenti del 2008 mostravano incombente: 92.060 infortuni occorsi ai ragazzi (+1,6% rispetto al 2007) e 13.879 ai docenti (+1,8 per cento).
Qui più o meno si fermava la conoscenza diretta del problema quando Arfè se n’è andato. Su questo mare di guai, cancellato ogni principio didattico per far spazio ai conti della spesa, si inseriscono le classi pollaio, in spregio di ogni legale rapporto tra aule e alunni e il sacrificio degli insegnanti precari grida invano vendetta. Mentre i ragazzi iniziano tra le proteste, Lupi e Gelmini non trovano di meglio che puntare all’ennesima guerra tra poveri, per vincere scontri di potere che con la scuola non c’entrano nulla. La Costituzione, diceva Arfè, sarebbe un baluardo, ma più il tempo passa, più si indebolisce. Di mio, ci aggiungo solo che forse basterebbe organizzarsi dal basso e cominciare a dire dei no. No, noi questo non lo faremo. Ripugna alla coscienza e non è legale. Quante volte, a lezione da grandi storici, ho ascoltata l’amara considerazione: questo è un Paese in cui, durante il fascismo, dell’intero corpo docente, all’università, solo in dodici rifiutarono di giurare per Mussolini. “Fortunato quel paese che non ha bisogno di eroi, ha scritto Brecht. Gaetano Arfè, maestro d’altri tempi che se n’è andato il 13 settembre di quattro anni fa, intuendo dove andavamo a parare e guardandomi con disperata compassione, lucidamente corresse: “Io direi: fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno“.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 settembre 2011

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Sotto gli occhi di tutti, Draghi e Trichet dettano, Tremonti scrive e legge in Consiglio dei Ministri, Berlusconi ci mette la faccia che non ha, il ricatto targato SIM, Stato Internazionale delle Multinazionali della Finanza – più o meno il “delirio” di Curcio, – passa alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni con la benedizione del presidente della nuova Repubblica Sociale. La povera gente? A quella non resta scelta: rischiare di farsi massacrare dalla forza armata – non è questa la via obbligata? – o farsi massacrare certamente e senza scampo dalla socializzazione delle perdite causate dai sanguisuga della Finanza e pagare la barca di debiti contratta da una manica di cialtroni che prima inocula il virus e poi prescrive l’antibiotico. 

Due inetti, due servi, due banchieri centrali europei, pagati per difenderci dalla speculazione, dopo anni di sonno profondo e chiacchiere sull’età dell’oro del postcomunismo e sulle taumaturgiche, terapeutiche e infallibili virtù del mercato libero, dal 2008 dettano il passo alla vita dei lavoratori: “unò, dué, unò dué, unò dué! In marcia, poltroni!

Ieri conoscevano a memoria il libero mercato, oggi giurano sulla necessità che sia lo Stato a ripianare i fallimenti privati coi soldi pubblici. Questa scienza economica che sa di marioleria, questo capitale da rapina che sa di golpe, questa banda del buco che ha svaligiato i forzieri, ora mette mano alle vite di chi non c’entra nulla. Colata a picco la Borsa, la banda punta ora un’arma alla schiena del lavoratore: pensione e salario in cambio della vita. Questa è la “scienza nuova“ dell’economia borghese: rigorosamente privato il profitto, militarmente socializzate le perdite.

Si gioca con le parole. Va di moda il default, s’impazzisce per lo spread, il rating impazza e non c’è chi non chiuda la triste giornata senza un pensiero riverente alla riapertura delle borse e alle scelte dell’Eurotown. Tutto procede così velocemente che presto l’attenta Gelmini ammodernerà la riforma con un’ora settimanale di Religione economica. Mentre la barca affonda e mancano i salvagente, in tutta l’Europa “civile” i padroni che Trichet mette in salvo sull’Arca della Bicciè, guardano divertiti il diluvio e la tragica fine della povera gente impreparata, che non ha ancora trovato un Noè. Nel secolo della vantata fine delle ideologie, un principio ideologico insensato, una furia crociata, un nuovo e cieco integralismo, decidono della sorte di miliardi di persone: “Io sono il mercato, Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio all’infuori di me”.

Privatizzare è la parola d’ordine e l’obiettivo finale è la privatizzazione della vita umana. C’è un principio di vita? Il mercato l’acquista a prezzi stracciati e poi vende l’uomo-merce al miglior offerente. Il 2013 è un anno importante: pareggeremo il bilancio. E’ l’unica parità possibile. Di parità tra gli uomini nessuno parla più e chi s’azzarda a farvi cenno è un vero terrorista. Pari sono i padroni. Ciò che rimane è solo profitto.  

Abbiamo sbagliato a gridare al fascismo. Sbagliato molto. E ancora ci mancano strumenti di lettura adeguati. In più – e questo è il peggio – tanti, tantissimi tra noi, cercano soluzioni nelle “storiche dottrine”. Tra noi, reperti archeologici del Novecento, scorie pericolose dell’equilibrio del terrore atomico, umilmente però si può nutrire qualche dubbio e, fatte le debite eccezioni, registrare un pauroso deficit di capacità critica e un rifiuto di guardare le cose per quello che sono. Dopo una serie di sconfitte epocali che non abbiamo provato a spiegare, il “Manifesto” del nuovo ‘48 agita ancora uno spettro e ci ammonisce: “c’è un fantasma che si aggira…”. Il fatto è, però, che, dopo 160 anni, non si tratta di rivoluzione proletaria, ma di una pericolosissima reazione capitalistica. Forse sì, forse è una convulsione estrema e i padroni sono alla canna del gas, ma non c’è da farsi illusioni: tenteranno di farci morire della loro stessa morte e potrebbero riuscirci. Com’è andata non so; forse leggono Marx alla rovescia e capiscono prima e meglio di noi, forse c’è qualcosa che non va nella teoria, ma noi? Noi abbiamo provato a spiegare dov’è che s’è sbagliato? Noi siamo certi di sapere dov’è che il giocattolo s’è rotto? Sono ancora in tanti quelli che pensano di poter uscire da questo evidente e inspiegato rovescio per le vie ordinarie. Io nutro più di un dubbio.

Ho seguito per un po’ la vicenda islandese. Lo so, un piccolo Paese, un altro mondo, altre condizioni… E però il piccolo Paese la sua piccola rivoluzione l’ha fatta, la gente s’è ribellata e ha scelto la sua via: non socializza le perdite e sta meglio. Paga chi ha di che vivere, hanno detto, e – ciò che più conta – hanno mandato a frasi fottere la banda del buco: BCE, UE, FMI e soci. Lo so, i nostri economisti ci spiegano che così ci affamano. Io vorrei sapere chi affamano. I cassintegrati, i disoccupati, i clandestini di Nardò, quelli che muoiono nel Mediterraneo, i giovani senza futuro? Ma come fanno? Di fame non si muore due volte. E allora? Penso che di voti e referendum ci stiamo suicidando. Penso che occorrano strumenti teorici e il massimo di unità possibile. Occorre disegnare e proporre un modello di società diverso per costruire alleanze internazionali e cambiare rapporti di forza e di potere. Contemporaneamente, credo che occorrano nuovi e concreti strumenti di lotta. E dico di più: assieme alla ricerca d’una via politica, occorre organizzare una guerriglia. Chi aspetta il regime che verrà, attenderà in eterno. Il regime c’è già e non è nemmeno un problema locale. C’è e noi siamo spalle al muro. Pochi passi ancora in questa direzione, poi l’incendio esplode. Teniamoci pronti. Occorrerà badare ai pompieri.

Uscito su “Onda Libera” il 9 agosto 2011

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Il 2 ottobre 1925, quando a Palazzo Vidoni si giunse alla firma, Edmondo Rossoni, capo del sindacalismo “rosso” ormai in camicia nera, cantò vittoria. Illusione o menzogna, dichiarò che il comune interesse nazionale avrebbe costretto Confindustria a una linea di “superiore disciplina”. Il patto, da cui nasceva ufficialmente il sedicente “sindacalismo” fascista, non negava l’idea di classe.
L’assumeva, anzi, la faceva sua, per definire un contesto che oggi diremmo “concertativo” e disegnare una gerarchia. Agile e comprensibile, s’ispirava a un prototipo di “politica del fare”, tornata ai suoi nefasti nel clima velenoso del dilagante “autoritarismo democratico”. Cinque articoli: una parte sociale, sopravvissuta a se stessa solo perché accettava la cancellazione di tutte le altre, era riconosciuta come rappresentanza unica dei lavoratori da imprenditori che, in compenso, si appropriavano dei rapporti sindacali, ottenevano lo svuotamento della contrattazione e la conseguente sparizione delle Commissioni interne. Non si trattava di un complesso accordo sindacale, ma di un decisivo passo politico. Un sindacalismo di funzionari trovava la sua legittimazione nel riconoscimento della controparte e non in quello dei lavoratori, cancellava ogni altra sigla e – bere o affogare – non lasciava scelte ai lavoratori: aderire, per non subire la ritorsione.

Dopo l’accordo sindacale di ieri, Vico trova una clamorosa conferma e la civiltà fa luogo nuovamente alla barbarie. Sacconi non vale Bottai, ma la lezione l’ha appresa bene: l’interesse nazionale coincide con quello dell’impresa e nel mondo del lavoro c’è una scala di valori. Meglio di lui, lo disse Mussolini: in azienda c’è solo la gerarchia tecnica. Oggi come ieri, in vista delle manovre “lacrime e sangue” di Tremonti, i colpevoli del disastro annunciato prodotto da un mercato che specula su stesso e mette la vita e i diritti della povera gente al servizio del Pil, si trova modo di vietare lo sciopero, si affida agli imprenditori il compito di certificare le deleghe e si riduce il Contratto nazionale a una pantomima messa in scena per oscurare il peso decisivo di una contrattazione aziendale che potrà legittimamente stravolgerne il contenuto a seconda degli interessi delle aziende. Si apre così l’era nuova del “sindacato aziendale”.
Peggio del peggiore corporativismo. Certo, manchiamo ancora di una “Carta del Lavoro” e beffardamente sopravvive a se stesso lo Statuto dei lavoratori, ma Susanna Camusso dà voce ad un sindacalismo di classe mummificato: contenta di una rinnovata collocazione “privilegiata”, non capisce, o finge di ignorare, che si è voltata pagina alla storia. A partire dall’accordo del 28 giugno, se mai vorrà provare a rifiutare il ruolo di cinghia di trasmissione delle scelte del capitale, se, per improvviso impazzimento, uscirà dall’acquiescenza, la Triplice sindacale sarà frantumata.
In quanto rappresentanza unica dei lavoratori, non si è semplicemente piegata alla dottrina Marchionne. Ha accettato senza riserve l’intimo significato del pensiero di Alfredo Rocco che, qui da noi, fu alla base dello Stato totalitario: la proprietà privata e il capitale hanno una funzione insostituibile nella vita sociale e il sindacato esiste solo per disarmare e addormentare i lavoratori.

Uscito su “Fuoriregistro” il 29 giugno 2011 e su “il Manifesto” il 3 luglio 2011

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Quando lo capiranno sarà tardi. E’ un territorio vasto e incontrollato. Naufragano tra gli scogli di Lampedusa, il Canal di Sicilia e le aule delle scuole e delle università di tutto il Paese. Li batte la cultura e non lo sanno. E’ la storia già scritta che decide, i fatti già avvenuti e i crimini consumati, contro i quali non c’è forza che tenga. Berlusconi, Bossi, La Russa, Gasparri, Tremonti, D’Alema, Veltroni, Casini. Non si tratta solo della paccottiglia plastificata del berlusconismo. E’ un suicidio di massa. Muore di leggi razziali l’abbozzo di genocidio tentato da Maroni, si spegne per rigetto il segregazionismo di Fini, Turco e Napolitano. Cede di schianto la pretesa che una banda di mercanti formi un Parlamento, che la libera coscienza dei popoli si sottometta agli interessi di un potere che pretende di decidere persino sulla vita e sulla morte.

Se ne sono sentite tante in questi giorni, che non ci sono dubbi. La partita contro la cultura e la formazione, aperta dai tagli di Gelmini e Tremonti è stata la Waterloo di un regime fondato sull’ignoranza. Carlo Galli, politologo e “opinionista” di quelli che vanno per la maggiore, ha sputato, nel consenziente silenzio degli “intellettuali” presenti la storica sentenza: “è il vento del Nord che si leva a Milano, là dove cominciò la Resistenza“! Una bestialità che fa il pari solo con la miseria morale e l’ignoranza mostrate in Emilia dal prof. Tremonti: “Quando sono venuto a Bologna tempo fa mi hanno detto che c’erano state le primarie e che aveva vinto Merola. Pensavo di essere a Napoli e invece ero a Bologna. Se continua così, a Bologna, il prossimo sindaco si chiamerà Alì. E i babà se li porterà via Merola“.

Ovunque nel Paese, tra scuola e università, l’attacco alla cultura urta contro focolai di resistenza e in cattedra ci sono ancora professori antifascisti che, per nulla intimoriti da Bossi, Garagnani e i minacciati provvedimenti fascio-leghisti, ricordano ai giovani il valore della libertà conquistata sui monti partigiani. A Napoli, che ha così risposto a Tremonti, alle amministrative hanno perso assieme Berlusconi e Bersani e, comunque vada, emerge la dignità della gente libera. Fu un napoletano di cui Tremonti ignora persino l’esistenza, Armando Diaz, a decretare la fine degli Asburgo: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo – affermò dopo Vittorio Veneto – risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Era ed è antica e immutabile legge: quando un potere non ha più funzione storica, non c’è forza che tenga. E’ per questo che la vittoria del “napoletano” Merola, a Bologna, fa di Tremonti il simbolo d’un regime che implode. E così lo consegna alla storia: tragicomica marionetta dai fili spezzati.

In Spagna, intanto, a Madrid, i “giovani indignati” occupano la Puerta del Sol e la rivoluzione del Nord Africa sbarca in  Europa. Ciclamini, minimizzano pennivendoli e burattini, ma sono terrorizzati. Potrebbe essere una nuova primavera della storia. Fosse così, e tutto induce a sperare, c’è da giurarci: presto i giovani vorranno saldare i conti.

Uscito su “Fuoriregistro” il 19 maggio 2011.

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Fuoriregistro” è una bellissima rivista on line. “Scuola militante”, un pianeta da esplorare, mille cose da leggere. Eccone una:

 

Disabili, centinaia di sentenze condannano i tagli della Gelmini“, titola “Repubblica“. In soli sette mesi il Miur ha collezionato 4 mila sentenze di condanna in ogni parte del Paese e la Gelmini è costata all’amministrazione quattro milioni di spese legali.
Nessun Paese al mondo terrebbe ancora dov’è il duo Gelmini-Tremonti. Ha devastato la scuola – i giudici lo dicono chiaro – ma il “no” che non ammette repliche, che sfida e dice apertamente basta, per orgoglio se non per altro, il rifiuto che le gazzette di regime definirebbero “sovversivo“, il no come obiezione di coscienza, questa pacifica. sacrosanta e benedetta rivolta morale purtroppo non viene.
La Gelmini non cade nel mercato parlamentare, non va a casa spedita per raccomandata dalla casta dei “nominati”, ma è andata gambe all’aria più volte in Tribunale. Di queste ripetute sentenze si parla molto poco, si predilige il terreno dello scandalo pruriginoso e il “no” non viene. Le scuole smantellate sono aperte, qualche genitore animoso dà battaglia, qualche docente si oppone come può alla marea montante d’uno sfascio che non ha precedenti, ma i partiti d’opposizione fanno melina, le organizzazioni sindacali non dichiarano sciopero ad oltranza, la maggior parte dei docenti tace e tutto va avanti come nulla fosse.
Repubblica” è chiarissima: “Alunni disabili privati del sostegno per mesi, classi che ne ospitano “troppi” e, come se non bastasse, sovraffollate. Per far quadrare i conti nella scuola pubblica, il governo Berlusconi ha di fatto tagliato il sostegno agli allievi più deboli: i portatori di handicap“. Segue l’elenco delle condanne, l’azione delle associazioni che difendono i diritti dei disabili e denunciano lo scempio, ma la protesta vera, il rifiuto fermo e deciso, quello che blocca tutto e dice e basta, quello non viene e, pare, non verrà.
I “tagli indiscriminati alla spesa per l’istruzione statale, con conseguente sovraffollamento delle classi“, le preoccupanti “forme di concentrazione di soli alunni con disabilità in totale violazione della normativa apparentemente integra sull’inclusione scolastica“, la vergognosa campagna contro la scuola pubblica, nulla pare più muovere il pantano nel quale affondiamo.
In gioco non è la sorte della scuola, ma il futuro dei figli. Cosa occorre che accada perché la gente della scuola si unisca in un sol blocco e dichiari coi i fatti che la misura è colma?

 Uscito su “Fuoriregistro” il 30 marzo 2011

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Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico. Non sarà la Procura di Milano a chiudere la partita col neoliberismo all’italiana e, assente in Parlamento un’opposizione pronta a una battaglia di democrazia, la piazza fa supplenza.
Semaforo rosso per ogni soluzione autoritaria d’una crisi economica e sociale, che chiude nell’unico modo possibile la seducente “età dell’oro” promessa dal capitale dopo la caduta del muro di Berlino.
C’è un filo diretto tra il massacro di Marchionne alla Fiat e la decimazione del Ministro Gelmini. Si vede chiaro e bisogna far fronte, reagire e scompaginarlo: è un pericoloso progetto politico. Non si tratta solo di pugnalate alla ricerca, di università privatizzata, di 140.000 posti tagliati tra docenti e Ata, di un bando di espulsione di massa dei precari, dell’aumento delle cattedre che superano le 18 ore e degli alunni per classi che sono ormai 35. E neanche è questione del mortale squilibrio tra aumenti peggiorativi e peso insostenibile delle riduzioni: ore di lezione, insegnamenti, materie, sforbiciate al sostegno e impoverimento di ogni risorsa. Non è solo questo, che pure grida vendetta. E’ che la scelta è chiara: da un lato c’è il lavoro colpito e l’esercito dei disoccupati, buoni per diventar crumiri, dall’altro ci sono i diritti negati e la creazione del “bestiame votante” che legittimi un involucro democratico vuoto di contenuti. Chiuso il cerchio, gli estremi si toccano e la proletarizzazione crea le nuovo classi “subalterne” rassegnate a un futuro di servitù.
Del ministro Gelmini si son perse le tracce. Vive di comunicati-stampa e sfugge il contradditorio. Oggi smentisce “le indiscrezioni apparse […] su un quotidiano, secondo cui esisterebbero diversi punti di vista” col collega Tremonti, ieri, contornata dai baroni che le danno il là, dava per “finita l’era dei baroni“, ieri l’altro faceva scudo col corpo al “suo” Berlusconi, nella furiosa guerra che s’è inventato coi magistrati, e sosteneva con l’arroganza del potere sinora impunito: “tutto questo fango si tradurrà in ulteriore consenso“. A quale fango si riferisca, dopo la minorenne fatta uscire dalla Questura di Milano, nessuno saprebbe dire, nemmeno lei, ma non ci sono dubbi: la scuola, è l’ultima preoccupazione del ministro, che coi docenti non parla, dopo che in quattro provincie le hanno rifiutato il suo delirante “progetto di valutazione” e va avanti come uno schiacciasassi: imporrà con la forza una indecente “meritocrazia“.
Ovunque la scandalosa, oscena suddivisione della ricchezza, causata da quel neoliberismo di cui il governo si riempie la bocca, produce disastri. Fingere di non vederlo sarebbe un suicidio. Qui da noi – è un pericoloso paradosso – tutto si tiene e sta assieme grazie al ricatto separatista di Bossi e Maroni. Ma non occorre un’aquila per vederlo: ciò che unisce i leghisti divide il Paese e tutto potrebbe crollare da un momento all’altro. Non c’è più tempo. Frattini ha giocato per giorni con le parole e i rivoltosi tunisini, in lotta per la libertà, sono diventati “terroristi“, come suggeriva Ben Alì, che da noi è stato alleato privilegiato della criminale politica di espatri voluta da Maroni e in Tunisia il dittatore che fugge di fronte all’ira d’un popolo vessato. A Tunisi, come da noi, lo scontro tra studenti e governo è stato violentissimo e, come da noi, gli uomini della dittatura – anche quelli che oggi frenano lo sviluppo democratico della rivolta – ce l’hanno con la scuola. “E’ gente irresponsabile. Invito i sindacalisti corretti a ritornare alla ragione“, tuonava ieri il ministro Ibrahim, di fronte ai licei e agli istituti universitari che non si fidano e continuano a lottare. Accadeva anche qui, quando Berlusconi e Gelmini sostenevano in coro che la “scuola vera” studia, non protesta. Una menzogna tipica delle dittature. “L’anima, diceva giustamente Plutarco, non è un vaso da riempire, ma un fuoco da suscitare“. Noi non saremmo scuola oggi, se l’animo nostro non fosse acceso dalla continua violenza che ci colpisce.
Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico.

Uscito su “Fuoriregistro” il 25 gennaio 2011

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La speranza è che la stampa, dopo le mille battaglie sul “bavaglio”, trovi l’animo di concederci la parola. Comincio così, poi chi avrà voglia di leggere capirà:

Un appello di intellettuali napoletani
La gestione dell’ordine pubblico non ha, e non dovrebbe avere, per sua natura, volto politico. È neutrale, e si pone come garanzia di sicurezza materiale e di tutela dei diritti costituzionali anche e soprattutto nel conflitto sociale. Da mesi la città di Napoli è costretta a subire una gestione della questione sicurezza che forza la dinamica democratica. Una gestione che sembra assumere un ruolo politico di braccio armato del Governo. Lo lasciano credere la vicenda di Terzigno e la gestione della questione-rifiuti, la maniera di affrontare in piazza il dramma della disoccupazione e, da ultimo, l’attacco gratuito e portato all’interno del San Carlo contro gli studenti, gli artisti e i lavoratori del teatro.
In una città come Napoli trattare il dissenso a suon di manganellate e fermi ingiustificati fa pensare a intenti intimidatori e rischia di innescare una escalation della tensione di cui la Questura porterebbe una responsabilità.
È il caso che le autorità riflettano a fondo e tengano conto delle esigenze democraticamente espresse dai movimenti sociali di questa città che ha già troppi problemi e che chiede soluzioni politiche e non una gestione da Stato di polizia.


Giso Amendola (docente Università di Salerno)
Giuseppe Aragno (Università Federico II)
Giuseppina Buono (ricercatrice Università Orientale)
Silvana Carotenuto (docente Università Orientale)
Iain Chambers (docente Università Orientale)
Alessandro Cimino (precario della ricerca)
Gemma Teresa Colasanti (docente Università Orientale)
Erri De Luca (scrittore)
Michele Fatica (docente Università Orientale)
Carmen Gallo (precaria della ricerca)
Angelo Genovese (docente Università Federico II)
Alexander Höbel (ricercatore Università Federico II)
Giovanni La Guardia (docente Università Orientale)
Gerardo Marotta (presidente Istituto Italiano per gli Studi Filosofici)
Maurizio Memoli (docente Università di Cagliari)
Sergio Muzzupappa (ricercatore Università Orientale)
Salvatore Pace (preside del Pansini)
Luigi Parente (docente Università Orientale)
Luca Persico (musicista, 99 Posse)
Antonello Petrillo (docente Università Suor Orsola Benincasa)
Anna Pia Ruoppo (precaria della ricerca)
Consiglia Salvo (attivista movimenti per l’acqua pubblica)
Luca Scafoglio (precario della ricerca)
Daniele Sepe (musicista)
Emilio Surmonte (docente Università di Salerno)
Tiziana Terranova (docente Università Orientale)
Davide Torri (docente Università di Chester, UK)
Aldo Trucchio (docente Università Orientale)
Stefano Vecchio (Direttore Dip.to Farmacodipendenze Asl Napoli 1)
Alex Zanotelli (missionario comboniano)

Perché tanto rumore? Siamo preoccupati per il futuro e c’è un modo solo per spiegare il perché, metter mano alla penna e raccontare.
Giovedì sera, 2 dicembre di quest’anno buio, io c’ero al teatro lirico “San Carlo“. Ero con gli studenti, come da giorni nelle aule dell’università occupata e nelle piazze, dove la loro protesta si salda a quella di ricercatori, precari, disoccupati e lavoratori massacrati da una crisi che non hanno provocato e dovrebbero e pagare. Così hanno deciso il governo e la Confindustria. Loro, i giovani, e con loro, i deboli e gli emarginati. Ancora e sempre gli stessi. I padroni del vapore no. Quelli non pagano.
In piazza, però, la situazione è anomala. La protesta si scontra con forze dell’ordine che, più i giorni passano, più assumono un inaccettabile e pericoloso ruolo politico di braccio armato del governo. In piazza ci si va per difendere la scuola umiliata, il diritto allo studio negato, l’università pubblica privatizzata e il futuro della ricerca cancellato, ma si è costretti a difendersi fisicamente da attacchi violenti, cariche, manganellate e fermi di polizia. Un clima “cileno“, in un momento di evidente crisi delle istituzioni democratiche e mentre un’intera generazione prende coscienza di un dato inoppugnabile e disperante: è stata derubata del futuro.
In piazza si chiede giustizia, si pretende il rispetto di diritti. “Noi la crisi non la paghiamo!“, urlano assieme i giovani, “i diritti non si meritano, si conquistano. Uno slogan immediatamente politico che sfida un sistema, smaschera la ferocia del mercato e incute timore al potere. A chi, inebetito dalle televisioni e scimunito dal pensiero unico, guarda e li lascia inspiegabilmente soli, ai loro docenti, ai genitori silenziosi, rassegnati o complici, i giovani si volgono con rabbia e hanno ragioni da vendere: “Se ci bloccano il futuro , noi blocchiamo la città!“. E’ l’espressione lucida d’una ribellione che parte dal profondo, esprime un disagio reale, ma si sottrae per ora alla violenza. Ed è un miracolo di maturità.
Di questo si trattava giovedì scorso a Napoli: diritto al futuro. Tranquillo e determinato, il corteo è giunto al Teatro lirico “San Carlo”, tempio della cultura, che la settimana prossima aprirà la sua stagione. Fino all’ingresso li ha seguiti e filmati, maldestramente mimetizzato tra i passanti un manipolo di agenti della Digos, cui qualcuno stupidamente ha insegnato che senza divisa si passa inosservato. Ce n’era una, una donna, che portava appresso un cane. L’ho carezzato, per poco non m’ha morso. Ai cani voglio bene e l’ho placato: “senti l’odore della mia Alice?“, gli ho chiesto piano, e m’ha fatto le feste, mentre l’agente, con l’aria furba di chi ti prende per scemo, se lo tirava via e si mentiva passante incuriosita. Ai tempi miei, donne non ce n’erano, ma l’idea sbagliata d’essere molto furbi, quella sì, quella me la ricordo e l’ho detto ai ragazzi: “ci scorta la Digos“. Quasi faceva pena. Che strano mestiere: studenti e docenti sono i loro “delinquenti
All’ingresso del teatro gli studenti hanno parlato con i lavoratori: intendevano esporre uno striscione e raccogliere la solidarietà degli artisti. I tagli che ha subito l’Università rispondono alla stessa logica politica di quelli effettuati a tutto il settore culturale. Tremonti l’ha detto chiaro: “la cultura non si mangia“. E questa è una classe dirigente che ha costruito buon parte della sua fortuna attorno al verbo “mangiare“, nei suoi mille, e talvolta ignobili, significati. Gente che teme la cultura, perché non ama i cittadini. Vuole servi.
Ma qui conviene lasciare la parola a lavoratori e artisti del “San Carlo”.

Comunicato di solidarietà del San Carlo
Napoli, Teatro San Carlo, ore 20:30

Alle ore 18:15 una manifestazione pacifica di studenti degli atenei napoletani stava manifestando contro la riforma Gelmini dell’università. Arrivati all’altezza dell’aentrata principale, gli studenti sono entrati nell’atrio del lirico napoletano per tentare di incontrare i lavoratori, in quel momento impegnato in una prova della Tosca.
In quel momento la polizia e i carabinieri, non chiamati dal San Carlo, sono sopraggiunti caricando gli studenti mentre stavano dialogando con una rappresentanza delle maestranze artistiche, rimasta coinvolte nella carica.

Domenico Di Dato, della produzione Sancarliana, Leopoldo Passero, dei Servizi Trasporti, il primo violino Giuseppe Carotenuto, Giuseppe Benedetto (corno inglese), Vittorio Guarino (trombone), Maria De Simone (cantante): sono solo alcuni dei lavoratori del San Carlo colpiti senza motivo dalle forze dell’ordine.
Altri studenti sono stati poi prelevati e allontanati di forza.
I lavoratori del San Carlo e gli studenti tutti, che hanno partecipato alla manifestazione

DENUNCIANO CON FORZA

l’atto di violenza gratuita delle forze dell’ordine e chiedono il rilascio immediato dei ragazzi fermati di cui ad ora non si hanno notizie.

Laura Valente
Responsabile Comunicazione e Ufficio Stampa.

Stavolta è andata male ai tutori del… disordine. Ci avevano inseguiti e caricati più volte con furia. Una caccia all’uomo. Io me l’ero cavata con un micidiale spintone regalatomi da un brav’uomo in borghese al quale nessuno ha spiegato che un poliziotto che non ha divisa e ti mette le mani addosso senza nemmeno qualificarsi, quando per giunta non ha nulla da contestarti, si comporta come i delinquenti dai quali dovrebbe tutelarti. Intanto circolava, messa in giro ad arte, la voce che uno dei due fermati aveva in tasca l’immancabile coltello… Gli artisti, gente libera, hanno “rotto le uova nel paniere. Ma la frittata era ormai fatta. Assolutamente indigesta. A spiegare meglio che accade nel Paese ci ha pensato poi il Prefetto, che ha subito emesso un’ordinanza per mettere un po’… d’ordine:

niente sit-in («manifestazioni statiche», traduce la nota della Prefettura) e raduni simili che blocchino la viabilità; le proteste «dovranno svolgersi senza intralciare o rendere difficile l’accesso» nel palazzo regionale e anche nelle case private della zona di Santa Lucia; ancora, una sorta di coprifuoco che vieta cortei notturni e troppo mattinieri dalle 22 alle 10.

Un modo come un altro per riesumare la cosiddetta “adunata sediziosa“. I “benpensanti” naturalmente applaudono e, strano a dirisi, c’è ancora chi teme che si stia costruendo un regime. Come si fa a non vederlo? Questa è una vera democrazia.

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C’è ancora chi parla di folclore, fa spallucce e se la ride, ma Adro, per fermarsi all’Italia e non allungare lo sguardo alla Svizzera e ai suoi “topi“, è solo la punta di un iceberg e non c’è nulla da ridere. Contro l’Europa pacifica che pacificamente si mobilita per difendere diritti e civiltà da un crescente imbarbarimento, c’è n’è un’altra, forse ancora minoritaria, certamente pericolosa, che resuscita i fantasmi della discriminazione razziale, lo spettro delle diseguaglianze sociali e minaccia il ricorso alla forza contro la forza della ragione.
Qui da noi, sul palcoscenico dell’Italia razzista, fa da protagonista la scuola in versione leghista, ma nell’ombra, dietro le quinte, il vero prim’attore di un ritorno all’Italia del ’38 è Maroni, il costituzionalissimo ministro che, con la persecuzione dei rom, i campi di concentramento e la caccia ai “clandestini” nel Mediterraneo, meglio di tutti incarna le rinascenti tentazioni neonaziste della destra e più di tutti riceve gli elogi di un’ambigua e sconcertante opposizione.
Solo dodici anni fa, come racconta senza smentite Wikipedia, le forze dell’ordine lo denunciarono perché coinvolto nelle indagini su Corinto Marchini, indagato per attentato all’unità dello Stato. Nel corso di una perquisizione a un locale della sede federale di Milano della Lega Nord, benché deputato della Repubblica, il capo dei verdi di Padania s’era scagliato contro i poliziotti. Chiunque sarebbe finito in galera, Maroni no. Il “patriota” leghista si fece eroicamente scudo della Corte Costituzionale di “Roma ladrona“, da cui prende un lauto stipendio di deputato dal lontano 1992, e se la cavò con un nulla di fatto. Oggi, il Maroni, ex capo delle Camicie Verdi della Padania leghista, è ministro dell’Interno. Con discutibile coerenza, però, il Maroni – per dirla com’è senza badare alla forma – ha continuato a sputare nel piatto in cui mangia, partecipando in tutti i modi possibili al delirio leghista. Condannato in primo grado nel 1998 a 8 mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale si è visto ridurre in appello la pena nel 2001: 4 mesi e 20 giorni perché, nel frattempo, il reato di oltraggio era stato abrogato. Il mutuo soccorso parlamentare – questa sì questa è Roma ladrona – gli ha consentito di ottenere in Cassazione la commutazione della condanna al carcere in una pena pecuniaria di cinquemila euro. Tanto evidentemente valeva la dignità dell’agente contro il quale si era scagliato. Come risulta dalla voce a lui intestata da Wikipedia e mai smentita, i guai giudiziari dell’attuale responsabile dell’ordine pubblico sono però proseguiti. In quanto ex capo riconosciuto delle eroiche Camicie verdi, egli è presente, infatti, in un processo per attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato aggravata dalla creazione di una struttura paramilitare, assieme a una quarantina di nobiluomini leghisti. Maroni, però, che, a quanto pare, fa parte della nobile schiera di chi ha come motto l’immortale “armiamoci e partite“, è tornato a farsi proteggere da “Roma ladrona”, sicché nel 2005 ha ottenuto una riforma legislativa “ad personam” che ha ampiamente ridimensionato i primi due reati. Sistemate così “leghisticamente” le cose, l’eroe della sedicente Padania ha ricevuto la sua brava medaglia al valore e ora – incredibile a dirsi – guida quelle forze dell’ordine con cui s’è scontrato anni fa, ai tempi della rinnegata??! secessione. Come le guida? Armandole contro i cittadini onesti che protestano, come dimostra il filmato che segue, girato a Terzigno. Viene in mente la celebre domanda di Cicerone: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?

contropiano

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