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Posts Tagged ‘Renzi’


Presto la dimensione della sconfitta politica e culturale renderà più chiaro il valore e il costo del «voto utile»: il PD sopravvive a se stesso, ma potrà tornare ancora «utile» quando distruggeranno la Costituzione nata dalla Resistenza. In compagnia di Calenda, infatti, consentirà alla Meloni di garantirsi un risultato tale da evitare il referendum su cui inciampò Renzi.

Sarà tutto legale.

Da Bertinotti e Diliberto, giù fino a Letta, il suicidio della sedicente sinistra giunge al momento estremo. Si tratta solo di sapere se cremare o tumulare il corpo del suicida.

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È vero, sì, la gente non è andata a votare. Si può dire, però, che la legge elettorale era vergognosa, ma chiara: o si faceva una coalizione o la gente di sinistra non avrebbe votato? La coalizione l’ha fatta il PD e buonanotte al secchio.
Ora sì, ora è la situazione è veramente grave. Non lo è però perché torna il fascismo. Ci metto la firma: chi si aspetta di vedere manganelli e olio di ricino può aspettare in eterno. Questa gentaglia imporrà una torsione autoritaria al Paese con il consenso di Renzi, Calenda e pezzi di PD. Tutto regolare e tutto secondo la legge. Come fece Minniti con la Libia e i migranti e con i fascisti di Casa Pound ammessa alle elezioni.
Il disastro vero è questo: prima della Meloni, politiche di estrema destra le ha fatte una destra vestita di un rosa pallido scambiato per rosso fuoco. Ora la gente s’è abituata. I lavoratori non sanno più distinguere tra un diritto e un grazioso regalo dei padroni. La scuola e l’università sono state distrutte dalla sedicente sinistra; la stessa che ha bombardato Belgrado, approvato il federalismo fiscale, il Jobs Act, l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e chi più ne ha più ne metta.
È stata questa sinistra a fare il “lavoro sporco”. Alla Meloni basta completare l’opera. Questo è il disastro: immaginare che la destra resuscitasse il fascismo e non capire che le politiche padronali le stavano facendo i “sinistri” all’acqua di rosa. Nessuno ha voluto ricordare che il Benito, padre di Ignazio Benito La Russa, veniva dalle file del socialismo!

Agoravox, 17 ottobre 2022

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Perdonate se parto da lontano, ma senza il prima non si capisce il poi.
Quando cadde il Governo Conte due, Mattarella non sciolse le Camere. In Parlamento, spiegò, c’era una maggioranza e sarebbe stato folle mandare il Paese al voto, mentre c’erano la pandemia, la crisi economica e gli impegni dell’Italia con l’Europa. Dimenticò di dirlo, ma dopo la riduzione del numero dei parlamentari, andare al voto con la vergognosa legge elettorale voluta dal PD sarebbe stato come prendere per i fondelli gli elettori. Chiamò Draghi alla guida di un «governo del Presidente» e gli assegnò il compito di risollevare l’economia e risolvere coi vaccini la tragedia della pandemia. Misteriosamente dimenticò la legge elettorale e non ci pensò poi nemmeno il «salvatore della patria».
Draghi si presentò subito con un’anacronistica enfasi per un atlantismo acritico da servo sciocco, che di lì a poco divenne comprensibile e deprecabile: dietro l’insistenza apparentemente stupida e dogmatica, c’era la guerra in Ucraina di cui evidentemente conosceva l’imminenza. Nei mesi successivi, la furia bellicista del governo prevalse su tutto, sicché il Covid c’è ancora, l’economia agonizza e il Paese sta molto peggio di come Draghi l’aveva trovato.
Consapevole dello sfascio causato dal suo governo, Draghi, esecutore fanatico degli ordini di Biden, in vista dell’inevitabile tempesta, salì al Quirinale e si dimise. Mai nella storia della Repubblica un Presidente del Consiglio s’era dimesso avendo la maggioranza assoluta. In genere, un capitano che abbandona la nave che affonda finisce in galera. Draghi è stato invece premiato come lo statista dell’anno. Dai tempi di Conte la situazione era peggiorata. Al Covid e alla crisi economica spaventosa s’era aggiunta la guerra. Indire le elezioni in piena estate ai più sembrò un suicidio. A Mattarella no.
Stavolta Mattarella non ha formato un «governo del Presidente» incaricato di varare una nuova legge elettorale. Ha sciolto le Camere e ci ha mandati a votare con una legge che è pugnala alla democrazia. E’ dopo questi eventi inqualificabili che il 25 di questo mese andremo a votare.
Avete ragione: tutto è così vergognoso, che il primo impulso è quello di chiamarsi fuori. Avete ragione ma, per me, reagite nella maniera sbagliata. C’è un’altra via. Una di quelle che il potere accecato non vede e se la seguite, gli potete dare una lezione difficile da dimenticare.
Votare per Letta non si può. Il suo partito ha voluto la legge elettorale che ci tocca. Non perdonategli lo sgarro, non dategli il vostro voto e ricordate che è grazie al PD che la Costituzione è sparita dai posti di lavoro. Ricordate il Jobs Act, l’articolo 18 cancellato, la scuola fatta a pezzi e chi più ne ha più ne metta. Parlare di Bonelli e Fratoianni è inutile: sono alleati del PD e ne condividono colpe e responsabilità.
Per favore, attenti ai furbastri. Dietro l’inaffidabile Calenda, che prima va col PD e poi lo abbandona, sognando un ritorno di Draghi, dietro questo misterioso personaggio, c’è Renzi, che voleva abolire il Senato e poi è diventato senatore. Renzi, nemico della povera gente e della Costituzione, così rispettoso delle donne da essere amico dei loro peggiori nemici; Renzi, passato per mille bandiere e attento solo agli affari suoi.
Vi sto dicendo di votare Berlusconi? No, non sono impazzito. Ricordate che è un pregiudicato, ricordate il mafioso Dell’Utri e le mille promesse mancate. Se siamo ridotti alla fame è anche per colpa sua. Siete donne? Ricordate che idea ha di voi.
Donne, uomini, omosessuali, transessuali, ricordatevi cosa pensano di voi e dei vostri diritti la Meloni e i suoi “Fratelli d’Italia”, con i loro cimiteri di feti, i loro piani sull’aborto, il rifiuto di riconoscere diritti e liberà a chi non rientra nel loro vocabolario sessuale. Meloni, atlantista, che vuole la guerra e la NATO e le navi contro gli immigrati.
Vi fidate di Salvini? Non siate ingenui, per carità. L’hanno preso a pedate gli ucraini imbestialiti, ha fatto fortuna inventandosi sempre un cattivo da punire: prima i meridionali, poi gli immigrati e sottobanco, Pontida, la Padania indipendente e l’autonomia differenziata, che significa più soldi a chi ne ha, più fame a chi ha fame. E ricordatevi che su questa vergogna sono tutti d’accordo: Meloni, Berlusconi, Letta, Calenda e l’intera compagnia cantante.
State pensando a Conte e al reddito di cittadinanza? A volte persino al diavolo riesce di fare un miracolo. Non dimenticate, però, che ha voluto la riduzione dei parlamentari, sicché nei vostri territori non c’è chi vi rappresenti; ha governato per anni con tutti e la legge elettorale non l’ha cambiata. Non dimenticate che, oggi si dice contro la guerra e le sanzioni, ma ha approvato e voluto sia l’una che le altre e se Letta non l’avesse mandato via, ora sarebbe suo alleato.
Molti di voi probabilmente non lo sanno, nessuno ve l’ha detto – tranne rare eccezioni, i nostri giornalisti hanno un’idea approssimativa della democrazia – ma non è vero che non esiste un’alternativa. Se volete dare una lezione a Mattarella, Draghi e chi in questi anni vi ha ridotti alla disperazione, se volete un Paese migliore, l’alternativa esiste: si chiama «Unione Popolare con De Magistris» e ha questo anzitutto di bello: ha candidati che non sono mai stati complici dello sfascio che ci sta travolgendo.
Non volete mandare agli ucraini armi che ci costano un patrimonio? Volete che si cerchi una via di pace e pensate che le sanzioni ci stiano affamando? Credete che chi si è arricchito speculando sulla crisi, debba restituire il maltolto? L’«Unione Popolare» la pensa come voi. L’«Unione Popolare» difende il reddito di cittadinanza e vuole che un’ora di lavoro debba essere pagata almeno con dieci euro lordi. Il partito che c’è, ma viene trattato come non ci fosse, pensa che la NATO sia una spesa enorme, inutile e folle, che non serve ai popoli, ma alle classi ricche ed egoiste, che più hanno e più vogliono avere; pensa che il problema più grave per l’umanità sia il cambiamento climatico e ritiene un crimine il ritorno al carbone che uccide il pianeta. Pensa che bisogna ricorrere subito all’energia prodotta dal sole, dal vento e da tutto ciò che la natura ci offre di sano per noi e per il pianeta.
Voi vedete che la scuola e l’università sono state distrutte da chi oggi chiede il vostro voto. L’hanno fatto apposta, perché vi vogliono ignoranti, perché chi non ha gli strumenti per ragionare con la propria testa è facile da ingannare. Vogliono che siate un bestiame votante, così vi illudete di vivere in una democrazia, mentre da tempo la democrazia è in coma. L’Unione Popolare vuole una scuola statale, libera, gratuita che non imponga l’alternanza col lavoro; una scuola e una università che formino coscienze critiche. Per questo abolirà l’«INVASI» e l’«ANVUR», sono cinghie di trasmissione del pensiero unico.  Potrei continuare a lungo, cominciando dalla Sanità, ma mi fermo qui.
Io voterò per l’«Unione Popolare». Se ciò che ho scritto non basta,  cercate e leggete il programma; sono certo che voterete come me anche voi. Se lo farete in massa, vedrete che cambiare si può. Non disertate i seggi, votate, date fiducia a chi ha i vostri stessi problemi, ma non vuole darla vinta a chi ci sfrutta, ci inganna, ci vende e distrugge il futuro delle nostre giovani generazioni.

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Quando «Fratelli d’Italia» ha definito l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione) un inutile carrozzone, la domanda del mondo della formazione sulla sorte che l’«Unione Popolare» riserva all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) e all’INVALSI si è fatta pressante.
Sia pure confusamente, docenti, personale non docente e studenti, molti dei quali voteranno per la prima volta, intuiscono il rapporto diretto che lega il ruolo di questi organismi, l’inefficienza crescente del sistema formativo e la grave crisi della nostra democrazia. Per dare risposte adeguate, occorrerebbe probabilmente partire da lontano, ma in una campagna elettorale condizionata dalla mancanza di tempo, si punta il dito anzitutto sui dati macroscospici: investiamo su università e scuole pubbliche, assumiamo, cancelliamo l’aziendalizzazione e le rovinose riforme Gelmini e Renzi; basta con classi pollaio, tasse e precariato. Finisce così che, pur essendo un problema di fondo, dimentichiamo le agenzie di valutazione, delle quali non si percepisce immediatamente il ruolo negativo e lasciamo che sia la Meloni a dure che l’INVALSI è un «inutile carrozzone».
E’ un vuoto pericoloso? Sì, perché manca una riflessione sulle conseguenze prodotte dalle misure neoliberiste sul mondo della conoscenza e quindi nella società. Si può supporre che una di queste conseguenze sia, per esempio, l’origine di seri problemi di partecipazione? Penso di sì. Penso che dovremmo anzitutto capire come siamo giunti al punto in cui siamo e quali meccanismi producono l’indifferenza o addirittura l’adesione di studenti e docenti. Individuarli consente di comprendere se e quanto c’entrino con la formazione e come si possa eventualmente smontarli.
Esiste ormai almeno una generazione di giovani docenti e studenti soffocati nei confini disegnati via via da Bassanini, Berlinguer, Moratti, Gelmini e Renzi e formati in scuole e università dominate dalle agenzie di valutazione. Una generazione, forse qualcosa in più di una generazione, cui sono stati sottratti gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare e valutare liberamente con la propria testa, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, di non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.
E’ vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Il lavaggio del cervello che parte dalla scuola, passa per la televisione e i social e non trova freni nella famiglia, un peso non ce l’ha? E che ruolo ha giocato tutto questo nella sconfitta della sinistra? Una sconfitta culturale, prima ancora che politica, come ci dicono chiaramente i milioni di voti, non solo meridionali e comunque di ceti popolari, toccati ai 5 Stelle nel 2018, che si sono poi significativamente incontrati con gli altri milioni di voti finiti alla destra leghista.
In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visone miope. Un regime reprime, ma mira anche a costruire consenso. Per riuscirci, sterilizza la conoscenza intesa come potenziale arma di lotta e manipola il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento addirittura ostile a chi lo combatte. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, gli operai e i braccianti ringraziavano i loro carnefici e se elargivano «benefici», li definivano «padri dei lavoratori».
Torniamo al punto. Sono anni che l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo forma i futuri docenti e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle nuove generazioni. I contenuti di tale insegnamento sono selezionati da un sistema di valutazione che, di fatto, è uno strumento di controllo sulla cultura. E’ vero, scuole e università adeguatamente finanziate dallo Stato, sono un bene comune decisivo, in grado di consentire la crescita sociale e la realizzazione di ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza».
Le cose però non stanno così. Noi riusciamo ancora a vedere – e perciò li combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e calo delle immatricolazioni. L’Italia, ultima in Europa per percentuale di laureati, impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; benché la crescente povertà causi la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani, cioè, ai quali si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è ormai un’astrazione; l’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti e isolata dal contesto sociale, è sempre meno accessibile ai ceti subalterni. La sua decadenza è tra le cause fondamentali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.
Così ridotta, l’Università va rifondata, ma è necessario che la gente capisca. Se diciamo INVALSI, c’è ancora chi sa che si tratta di assurdi criteri di valutazione e prova a boicottare. Se invece diciamo ANVUR, parliamo non solo di una inaccettabile valutazione, ma anche di meccanismi che diventano addirittura controllo sulla cultura; molti però non sanno, pochi si rendono conto e non è facile difendersi. Così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori e un furto per gli studenti. Se non ne denunciamo la reale funzione, non sarà mai chiaro dove si nasconde uno dei principali nemici di una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.
La formazione ha il suo principio-guida nella Costituzione, laddove, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, dice che quest’ultima è fondata sul lavoro e che la sovranità non appartiene al mercato, ma al popolo. Solo seguendo questa bussola, Scuola e Università possono insegnare, per esempio, che le risorse della natura non sono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri; dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Tuttavia Scuola e Università non possono più farlo efficacemente, perché gli equilibri ambientali sono subordinati ormai agli interessi economici che dettano legge anche nel mondo della formazione. Occorre perciò impedire che l’ANVUR continui a costruire sacerdoti del pensiero unico e a spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

Ecco la risposta alla domanda da cui siamo partiti. L’ANVUR è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di lavori che le commissioni non leggono. Per l’ANVUR, una ricerca vale se l’editore conta molto, se c’è chi la cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a un giovane che in tredici anni, dalla laurea al concorso, ha sfornato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. In pratica 200 pagine all’anno per tredici anni. Non bastasse, ha organizzato undici convegni, detto la sua in quarantuno simposi, seminari, workshop e festival nazionali e internazionali, ha valutato come revisore «prodotti di ricerca» su riviste italiane e straniere, ha presentato quattro progetti nazionali e internazionali e ha partecipato ai lavori di otto comitati scientifici. Naturalmente la commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo ha potuto dedicare alla ricerca?
Si sa che il valore della ricerca è la sua qualità, che si misura in base a metodologia, originalità, capacità innovativa e ricchezza creativa. Un progetto di qualità può richiedere anche anni di lavoro. Che credibilità ha un giudizio dell’ANVUR, che, fondata su logiche produttivistiche, impone alla ricerca vincoli temporali? E soprattutto, a che serve una simile valutazione e quali effetti produce sull’insegnamento? La risposta è semplice: l’ANVUR, che conosce il forte legame esistente tra «grandi editori» e «baroni», che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce di fatto ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dalle quali sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.
Potrei continuare, ma ormai dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare vuol dire imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti, ma è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

Agoravox, 12 settembre 2022

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Aderisco pienamente convinto alla manifestazione indetta autonomamente dai docenti per il 30 agosto a Roma e sento il bisogno di motivare la mia scelta solidale.
E’ storia antica: quando la crisi della democrazia apre la porta all’autoritarismo, nel laboratorio sperimentale della repressione la scuola diventa immediatamente la provetta più preziosa, quella da cui il potere si aspetta i risultati migliori. Sarà che, per quanto la massacri, come s’è fatto da Berlinguer a Renzi, non puoi cancellare del tutto la sua funzione di fucina del pensiero critico e la sua natura geneticamente «sovversiva»; sarà che annichilire la scuola, per il «migliore» di turno significa poter contare su un popolo di «senzastoria» ridotto a gregge elettorale; sarà quel che sarà, ecco che ci risiamo: fatte le debite proporzioni, l’esperimento repressivo in atto ricorda le pagine più buie della nostra storia, i tempi in cui qualcuno aveva «sempre ragione» e chi non era d’accordo pagava con lo stipendio e il posto di lavoro. Non è previsto ancora il manicomio, perché nei brevi anni di un vichiano «corso positivo» sono stati chiusi. Draghi incarna però il «corso negativo».
Qualcuno dirà che esagero, ma l’obiezione, più che demoralizzarmi, mi spinge a entrare nel dettaglio della mia posizione favorevole agli insegnanti non vaccinati e radicalmente ostile alla scelte vessatorie e illegali del cosiddetto Governo Draghi. Cominciamo da una domanda: vaccinarsi è diventato un obbligo? Quando? Dov’è la legge che lo impone? Esistono circolari, disposizioni con valore di legge, ordini di servizio ignorati? No, non c’è nulla di tutto questo. Ci è stato detto che vaccinarsi è una libera scelta e noi abbiamo liberamente scelto. In democrazia le opinioni hanno pari valore e non è scritto da nessuna parte che io debba essere d’accordo con le vili cretinate di Draghi.
Dirò di più. Mi sono vaccinato due volte con un vaccino che ha diviso il sedicente «mondo scientifico», che l’ha prima bloccato, poi riabilitato e gli ha attribuito miracoli in relazione a un’età che non era mai la stessa. L’ho fatto, accettando di firmare un documento vergognoso, in cui mi assumevo le responsabilità dei guai presenti e futuri che me ne sarebbero derivati. Anche di quelli ignoti che potrebbero capitarmi di qui a qualche anno. Draghi ha pensato così di evitare di risarcire le vittime del vaccino. L’ho fatto perché a parole era in piedi un patto di reciproco rispetto: da un lato la mia libertà di scelta, dall’altro le difficoltà del momento e la collaborazione Istituzioni – cittadini in un momento difficile della nostra storia.
Mettere in campo discriminazioni, lasciapassare, sospensioni di stipendi, licenziamenti e altre scelte vergognose e campate per aria rompe quel patto e il governo diventa così la caricatura di un esecutivo mussoliniano: si muove nell’illegalità, sperpera quattrini in armamenti, se ne infischia della formazione e della salute e poi, consapevole delle sue infinite responsabilità, colpisce non a caso la scuola. Tutti i regimi autoritari partono di là. Invece di colpire gli insegnanti, Draghi e i suoi ministri – faccio fatica a usare queste parole per certa gente – dovrebbero avere il coraggio di dimettersi. Quest’anno, nonostante l’infuriare della pandemia, il signor nessuno, descritto come un padreterno, ha messo in bilancio quasi 25 miliardi di euro per la Difesa, soprattutto per sistemi d’arma. Non è da escludere: geniale com’è, il banchiere che capisce solo di soldi e in tutto il resto è semianalfabeta, pensava forse di far guerra al Covid a colpi di cannone.
Quanto ha speso per la salute? Un miliardo e mezzo, che lascia tutto com’era. E per la formazione? Venticinque volte meno che per le armi. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere. Mentre tutto resta com’era – classi pollaio, strutture fatiscenti e giù, giù, persino carenza di carta igienica – che si fa? Si va all’attacco degli insegnanti. Tutti i cialtroni investiti di potere sanno bene che se non intimiditi pesantemente, i docenti spiegheranno agli studenti le ragioni del disastro e indicheranno i nomi di chi l’ha causato.
Un senatore romano consiglierebbe a Draghi moderazione, motivando il suo consiglio con la scienza della politica: «ne cives ad arma ruant». Draghi però non capirebbe. La sua scienza è prigioniera di una tragica ignoranza: quella dei mercanti: Il rischio è perciò concreto: ridotti spalle al muro, i cittadini metteranno mano alle armi in difesa della libertà. I prepotenti non ci credono mai, però succede.
E’ una costante della Storia.

Fuoriregistro, 22 agosto 2021; Agoravox, 26 agosto 2021

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Ho atteso con pazienza cinese di poter rispondere – fatti alla mano – alla domanda dei centomila zerbini travestiti da giornalisti, che fino a ieri si chiedevano scandalizzati se si può mai dire no a Draghi. 
Ieri sera a Milano, in vista dell’entrata in vigore della zona arancione, ai Navigli e alla Darsena si sono radunate migliaia di persone e duecento tra vigili urbani e poliziotti hanno assistito impotenti al dilagare degli assembramenti. Il sindaco Sala, evidentemente irritato dalle accuse che gli sono piovute addosso, non le ha mandate a dire:
«Sarebbe stato meglio chiudere nel pomeriggio la Darsena? Ma secondo voi, chi è andato in giro sarebbe stato a casa o sarebbe andato da qualche altra parte? Avete idea di quanti luoghi in città raccolgono la sera persone che si aggregano?».
Evidentemente questa idea non è mai frullata nella testa del divino parto di Mattarella e Sala ha stabilito così il suo record:
«E poi ci lamentavamo quando il Governo Conte decideva dalla sera alla mattina il cambio di ‘colore’. Ora che Draghi comunica la decisione tre giorni prima vedete tutti cosa succede».
Signori zerbini travestiti da giornalisti, come vedete la vostra domanda ha trovato risposta: chi sa dire no a Draghi c’è. Lo fa pubblicamente e con giusta ragione. Finora il Santo miracoli non ne ha fatti, ma di cazzate ne ha fatte molte; poiché nessuno ha trovato il coraggio di dirlo, Sala ha stabilito un record: è stato il primo a dire no a Draghi.
Il castello di carte comincia a vacillare e più i giorni passano più Renzi ricorda Giuda.

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Voi mi direte – e forse  è vero – che solo il tempo potrà dire quale ruolo avrà per davvero il governo di Nembo Kid e che Mattarella non a mai parlato di un «Governo di unità nazionale». Magari è vero, questa formula lui non l’ha usata, ma è una vecchia volpe e sapeva benissimo che la navicella varata avrebbe seguito quella rotta.
Piuttosto, è vero quello che si dice? Davvero quella scelta era la sola via possibile? A me pare di no. Pertini, per nominare un Presidente della Repubblica che non aveva un filo diretto con i principali esponenti del neoliberismo, avrebbe rifiutato le dimissioni di Conte, gli avrebbe detto che i governi – soprattutto se hanno la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato – cadono in Parlamento, non al Quirinale. A Conte sfiduciato non salo avrebbe poi ridato l’incarico, ma l’avrebbe fatto dichiarando ad alta voce, perché Renzi lo sentisse anche dall’Arabia Saudita, che, fallito Conte, avrebbe sciolto le Camere e si sarebbe votato a tambur battente. Voi ve l’immaginate Renzi? Io sì. Bianco nei capelli per il terrore e facendosela addosso, sarebbe andato da Conte come Enrico a Canossa.
Perché non l’ha fatto? Perché sapeva bene che Conti era condannato. Non si tratta di complottismo. I fatti parlano da soli. Renzi è stato come al solito il killer, ma i mandanti erano altrove e gli davano garanzie. Sin dal 3 gennaio, come attesta un articolo di Left che, tranne Renzi, nessuno si è azzardato a smentire, in Umbria, casa Draghi era un covo di pessimi arnesi; Renzi ci aveva messo le tende e di politici ne erano passati tanti, compreso Salvini, che evidentemente la svolta europeista non l’ha maturata dalla sera alla mattina.
Purtroppo la libertà della nostra stampa è morta da tempo e noi siamo costretti a ragionare, seguendo i dibattiti fasulli organizzati nei salotti della Berlinguer, di Mentana, di Floris, Formigli e campioni della stessa qualità. Salotti nei qual, per esempio, non sentiamo mai parlare della politica estera del governo Conti e non ci accorgiamo – a me è sfuggito per molto tempo – che – ci piaccia o non ci piaccia – il governo Cinte, così «inspiegabilmente» mandato a casa, non aveva mai accettato i pressanti inviti venuti dagli USA – Trump o Biden in questo caso non fa differenza – e fatti subito propri dall’UE; inviti volti a rompere ogni legame economico-commerciale con la Cina. Conte seguiva un’altra via: aveva firmato il Memorandum per la Via della Seta e non si era mostrato entusiasta per l’idea di Biden, deciso a costruire un fronte occidentale unito contro la Cina.
Vi scandalizzo, però lo dico: il governo dei «migliori» varato da Nembo Kid, che si porta appresso non so quanti ministri di Conte – scusate, ma non erano scarsi? – e gente come Brunetta, Gelmini, Carfagna e compagnia cantante, che scarsa ha da tempo mostrato di essere, a me ricorda, per le ragioni che lo fanno nascere, quello di Monti ai tempi di Berlusconi, che, guarda caso s’era messo con Gheddafi e Putin.
Vi scandalizzo, però lo dico: Renzi è il sicario, ma i mandanti vanno cercati negli USA, nelle bande di criminali annidati nella NATO e nell’Ue, dove la disciplina liberista mostrata da Conte non è sembrata a prova di bomba. E questo gli è costato caro. Pensate, per esempio, alla vicenda del nodo scorsoio rappresentato dal MES, che Conte non ha voluto mettere al collo del Paese. Questa “indipendenza” non ha dato completo affidamento nemmeno su un altro terreno: quello dello «svuotamento» delle costituzioni «socialiste» del sud Europa, ostacolo ancora serio per gli usurai dell’UE.
Molti dicono che Conte abbia interpretato in maniera sbagliata il «Recovery Found». De Masi, che l’ha letto, dice – e nessuno lo smentisce portando fatti – che è ottimo e certamente migliore di quello francese. Vuoi vedere che anche in questo caso si è trattato di accettare una piena servitù? Questo non spiegherebbe la farsa cui abbiamo assistito? Non farebbe di Draghi quello che è sempre stato, il portalettere del più sfrenato e barbaro liberismo? Non è stato Draghi, il complice di Triche, che pochi mesi fa ha dichiarato morto il Welfare State? Voi dire che, diventato Commissario Europeo per gli affari d’Italia, farà come Paolo sulla via di Damasco?
E’ vero, tutto può essere. Io però non ci credo.

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Un consiglio: cliccate sulla parola Cossiga. Non ve ne pentirete…

Per quello che posso capire e ricordare, la crisi che attraversiamo non ha precedenti nella storia della Repubblica e mi pare che stampa e televisioni, come accade ormai da tempo, indirizzino il  fiume delle loro parole verso aspetti marginali o inesistenti della situazione che viviamo. Il primo e più fuorviante argomento cui si fa ricorso per «disinformare», fingendo d’informare, è un tema di impatto immediato: quello della personalizzazione. Per dirla in estrema sintesi, la terribile crisi che attraversiamo sarebbe figlia dell’incompatibilità tra Renzi e Conte. Una sorta di fiction, nella quale i fatti reali sono assorbiti da quelli immaginari e all’origine della crisi di governo non ci sarebbe altro che uno scontro tra due personalità diverse tra loro. Eppure si tratta di personaggi dalla «storia breve», che non sarebbe stato difficile ricostruire.
Si prenda per esempio il lavoro. Con tutti i suoi limiti, Conte ha fatto dell’Italia il Paese che più a lungo di tutti ha bloccato i licenziamenti e – per quanto consentivano le forze in campo e gli equilibri interni alla maggioranza di governo – ha tentato di alleggerire il terribile peso caduto sulle spalle dei più fragili, distribuendo i soldi che avevamo. E’ vero, non ha varato una patrimoniale – non aveva i numeri per farlo – ma, piaccia o no, ha fatto quanto poteva, scontrandosi duramente con la Confindustria, decisa a ignorare la pandemia, a non interrompere la produzione e a scaricare sui più deboli il costo e la complessità della crisi. Ha ereditato da Renzi e compagni lo sfascio della Sanità ed ha tentato di salvare la vita della povera gente, avendo contro i capi delle Regioni, le organizzazioni padronali e la crisi delle Istituzioni.
In perfetta coerenza con la sua breve, ma feroce storia politica, per tutto il tempo che il governo è stato in vita, Renzi ha fatto sentire al suo interno le istanze della Confindustria e grazie al silenzio complice dell’informazione, nessuno ha ricordato i «successi» del suo governo, dall’abolizione dell’articolo 18 al Jobs Act, alla conseguente istituzionalizzazione della precarietà e del caporalato, alla Buona scuola, alla battaglia condotta contro il reddito di cittadinanza e all’abolizione dell’IMU sulla prima casa. Quanto alla politica economica, Renzi voleva il Mes, Conti l’ha rifiutato. A livello internazionale, però, Renzi era solo – il Mes non l’ha voluto nessun Paese a cui è stato offerto – e mentre Conti otteneva dall’Europa una quantità di miliardi che a Renzi nessuno avrebbe dato, il pupo fiornetino era impegnato a criticare ogni iniziativa di sostegno sociale adottata dal governo Conte, lavorava per distruggere e confidava ai sauditi la sua invidia per la possibilità  degli sceicchi di pagare salari da fame ai lavoratori.
«Differenza di carattere»? No, posizioni antitetiche tra due progetti politici, due modi di affrontare la pandemia e due posizioni in aperto contrasto sulla gestione delle risorse provenienti dall’Europa. Renzi disprezza i lavoratori e i loro diritti, è decisamente subalterno al Capitale internazionale e  locale. Il suo programma è quello della Confindustria, notoriamente nemica di Conti.
Come ha scritto recentemente Bevilacqua, Renzi è «uno dei più temibili uomini di destra mai apparsi sulla scena italiana […]. E’ tra i più diabolici per la sua straordinaria capacità di travestimento, in grado di ingannare anche i suoi sodali, di muoversi alla spalle del proprio schieramento, di tramortire l’opinione pubblica con accorate finzioni,  di fare patti sotterranei col nemico».
Quando si è giunti alla resa dei conti, Renzi ha esaurito il suo compito, svolto molto probabilmente in accordo con Mattarella. Indebolito Conte, screditato un Parlamento già di per sé scadente, si è fatto da parte, pronto a sostenere l’uomo che da tempo aspettava nell’ombra. Cade un governo che Renzi ha costretto a dimettersi, benché abbia ricevuto la fiducia delle Camere. Non si vota – la pandemia e l’infamia dei vaccini brevettati non lo consentono – e dal cilindro di Mattarella appare il nuovo salvatore della patria, Draghi, l’uomo dei derivati, delle banche e dei poteri forti, sul quale pesa l’antico, terribile e sempre valido giudizio di Cossiga, che lo definì un vile affarista. Il tecnico che aprì la via al massacro greco. Per imporlo al Paese, al termine di una sorta di golpe,  non sono stati necessari i carri armati. E’ bastato un senatore che voleva abolire il Senato e s’è messo alla testa di un manipolo di scissionisti.
Mentre contiamo e conteremo morti a migliaia, Piazza Affari vola e Confindustria festeggia. Il salvatore delle banche sarà per la povera gente più pericoloso del Covid.

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Quel giorno – recita la Bibbia – quando il Signore diede a Israele la vittoria sugli Amorrei, Giosué pregò […] e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti: Sole, fermati su Gabaon! […] Un giorno come quello non c’è mai stato né prima né dopo di allora, quando il Signore ubbidì a un essere umano e combatté al fianco d’Israele“.
Ci vollero secoli e la rivoluzione copernicana per mettere in crisi la presunta verità geocentrica. A tutt’oggi, però, nulla cancella la biblica bestemmia che ci presenta il “Dio padre Onnipotente” schierato in guerra, macellaio dei suoi figli.
Un incidente esclusivamente “religioso”, che riguarda l’umana ingenuità? Tutt’altro. Non mancano infatti affermazioni che fanno dubitare anche delle “bibbie” laiche. Spiace per Marx, ma non è sempre vero che nella famiglia borghese “l’elemento connettivo sono la noia e il denaro“. Vero è invece che la noia affligge anche le famiglie proletarie dove purtroppo il denaro manca molto.
Da giovane, quando leggevo i sacri testi con compagne e compagni, ci fu chi trovò inesatta e terribilmente maschilista la convinzione di Marx sulla comunanza della donna. E non aveva torto. Non so se i comunisti sono davvero per tale comunanza (alla quale erano comunque meglio disposti gli anarchici seguaci della dottrina del libero amore), so che in età storica non è vero che essa sia esistita quasi sempre e troverei comunque più rivoluzionario e comunista che fossero le donne a propugnare la comunanza degli uomini.
Per quanto mi riguarda, non esistono pensatori in grado di spiegare tutti i tempi del storia in base a principi e intuizioni che possono segnare un mondo e fornire un metodo prezioso, ma saranno sostituite da dottrine adeguate ai tempi che cambiano.
Nella serie delle “verità bibliche” – religiose o laiche conta davvero poco – si colloca a mio modo di vedere la convinzione diffusa che i politici oggi siano tutti eguali tra loro: pensano esclusivamente ai propri affari, sono tutti ignoranti e malfidati. Più che l’abilità delle destre, è questa verità di fede che distrugge la democrazia. E’ necessario dirlo: la povera gente avrebbe pagato prezzi ben più salati se a governare la tragedia sociale che stiamo vivendo e a far fronte alla pandemia, si fossero trovati Salvini, Meloni e Berlusconi.
Di Conte si può dire tutto il male che si vuole, ma parla – o tenta di parlare – alla ragione. Salvini e i suoi camerati puntano allo sfascio e parlano alla pancia delle masse di disperati che hanno creato. Renzi, poi, è l’uomo della Confindustria e delle Banche. Lo sostengono con ogni mezzo e ha un compito preciso: destabilizzare il Paese e farne terra di conquista.

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Renzi me lo ricordo agli esordi, quando andava in bicicletta davanti alle telecamere ma, girato l’angolo, dove nessuno lo vedeva, da ciclista diventava immediatamente automobilista. Dopo la sceneggiata, raccontava alla gente che, diventato Presidente del Consiglio, non avremmo speso un soldo per la sua sicurezza. Raggiunto lo scopo, rottamò la bicicletta, volle un aereo e noi glielo pagammo. Quando un comune mortale si comporta così, la gente usa dire che ha una «faccia da schiaffi». Gli italiani però sono molto civili e schiaffi Renzi non ne prese.  
Quando gli fu chiesto di ammazzare la Costituzione, non ci pensò due volte e l’11 gennaio del 2016 dichiarò: «Se perdo il referendum sulla riforma costituzionale smetto di far politica. Non è un plebiscito su di me, ma finalmente c’è la responsabilità di chi fa politica dopo che per anni c’è stato il pantano». Non contento, definì questa sua scelta un comportamento da «sistema anglosassone» e precisò: «fai uno-due mandati e te ne vai».
Gli italiani tirarono un sospiro di sollievo, ma Renzi perse, non fece l’anglosassone e non tolse il disturbo. Quando un comune mortale si comporta così, la gente usa dire che ha una «faccia da schiaffi». Gli italiani però sono molto civili e schiaffi Renzi non ne prese nemmeno quella volta.
Da bugiardo qual è, il rottamatore di biciclette tornò a candidarsi e dopo aver dichiarato che il Senato, così com’è, non serve a nulla, divenne senatore e confermò per sua stessa ammissione ciò che tutti sospettavano: Renzi non serve a nulla. Quando un comune mortale si comporta così, la gente usa dire che ha una «faccia da schiaffi». Gli italiani però sono molto civili, Renzi schiaffi non ne prese e ogni mese gli paghiamo un ricco stipendio.
Oggi, in piena pandemia, incurante di morti e sofferenze, l’inutile membro di un organismo a suo dire inutile, non solo ci prende ancora per i fondelli, ma prende per la gola il governo e provoca la crisi. Quando un comune mortale si comporta così, la gente usa dire che ha una «faccia da schiaffi». Certo, la violenza non risolve i problemi, però è bene ricordarlo: di fronte a pericoli mortali, la legittima difesa è un diritto che non si può negare.

Agoravox, 14 gennaio 2021

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