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Posts Tagged ‘Carlo Rosselli’

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Le prossime settimane ci vedranno impegnati in un dibattito fondamentale dentro e fuori la nostra organizzazione. A questo proposito non possiamo non dire quale è la nostra prospettiva, quale è l’Europa che immaginiamo dopo aver detto perché l’Unione Europea è indigeribile così com’è. Il presente documento sintetizza una posizione espressa da Giuseppe Aragno in diverse assemblee di Potere al Popolo! e vuole essere un contributo alla discussione verso le elezioni europee. Si sottopone il documento alle assemblee metropolitane e provinciali di Potere al Popolo! nonché al coordinamento nazionale chiedendone l’eventuale approvazione affinché una prospettiva politica di costruzione possa diventare patrimonio condiviso e comune di tutte le comunità e dei singoli aderenti a Potere al Popolo!.

EUROPA SOLIDALE O BARBARIE

Premessa

Negli anni della resistenza dei popoli sottomessi dal nazifascismo, gli antifascisti hanno sognato come via di uscita dall’immane tragedia l’unione dei popoli europei sulla base di un’equa ripartizione della ricchezza e di principi di libertà e giustizia sociale. Sin dalla guerra di Spagna, per esempio, Rosselli definì i fascismi «antieuropa» e immaginò,in antitesi, una federazione di Stati europei nata da un processo costituente profondamente democratico: un’assemblea di delegati eletti dai popoli per scrivere e approvare una carta costituzionale federale basata sui principi fondamentali della convivenza tra i popoli, l’eliminazione delle frontiere e delle dogane, le regole da cui far nascere un primo governo federale e un nuovo diritto europeo.

Dopo la seconda guerra mondiale, quel sogno, finito poi nelle mani dei sacerdoti del dogma neoliberista, è stato stravolto e l’unione politica dei popoli è diventata unione economica e monetaria. Negli ultimi anni, sotto i colpi di una incalzante crisi economica, che è diventata crisi della democrazia, l’Unione Europea ha assunto i connotati di un insieme di “patrie nazionali”, di una nuova “antieuropa”, che cancella diritti, sottomette i popoli alle leggi del mercato e sacrifica sull’altare della concorrenza e del profitto l’idea di una “patria umana”, fatta di libertà, cooperazione e fratellanza. La situazione è ormai così grave, che le imminenti elezioni europee ci pongono di fronte a una domanda ineludibile: per uscire da questo incubo, nato soprattutto da trattati di discutibile legittimità, occorre rinunciare al sogno degli antifascisti o,sconfitto l’incubo,si può rimettere mano al progetto nato dalla resistenza europea?

Non è una domanda banale. Poiché si tratta di partecipare a elezioni, chiedere un voto a sostegno di una rottura è doveroso, ma non sarà facile delineare una prospettiva e ottenere consensi se si assumerà una posizione solo negativa, se accanto alla rottura dei trattati non ci saranno proposte concrete, che dimostrino una capacità propositiva e la volontà di rimettere in moto quel processo di fondazione di un’Europa dei popoli che è stato per molti anni tradito. Se, com’è probabile, un «programma costituente» incontrerà il netto rifiuto delle forze garanti dell’Unione delle banche e del capitale, allora l’uscita diventerà comprensibile e sarà giustificata da una consapevolezza: un’Europa intesa come casa comune della democrazia parlamentare, della giustizia sociale, della pace e del progresso non può essere realizzata con le forze che hanno voluto l’Unione così com’è e si ostinano a sostenerla.

Un antifascista disse

Da decenni alla parola Europa si associano tre nomi e una sorta di bibbia: Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e il loro “Manifesto di Ventotene”, che riprese e perfezionò l’idea federalista di Carlo Rosselli. Da un punto di vista storico, infatti, non si può parlare di Europa unita senza ricordare che essa fu pensata anzitutto da antifascisti durante gli anni del fascismo. E’ molto raro, tuttavia, che, tornando a quegli anni e a quel testo, ci sia chi ricordi cosa pensavano Spinelli e i suoi compagni dei falsi europeisti; cosa pensavano cioè di coloro che tutti i giorni alzano la bandiera dell’Europa e però poi fanno tutto, tranne che costruire l’Europa di Ventotene:

«Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle Istituzioni fondamentali degli Stati Nazionali, i quadri superiori delle forze armate, […] quei gruppi del capitalismo che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelli degli Stati, […] hanno uomini e quadri abili, abituati a comandare, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Senza dubbio […] saranno la forza più pericolosa con cui bisognerà fare i conti». Così si legge nel testo del 1941. «Il punto sul quale essi cercheranno di fare leva – prosegue il Manifesto – sarà il sentimento popolare più diffuso e più facilmente adoperabile a scopi reazionari: la rabbia e la disperazione per l’ingiustizia del potere e quindi il patriottismo. […] Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo».

Quel tempo pare sia arrivato. Qual è il messaggio? I nostri nemici sono le forze del capitalismo, che non hanno patria, però fanno appello alla patria tutte le volte che vogliono scatenare guerre tra i poveri. Sembra che Spinelli parli del nostro presente. Se per europeismo si intende difendere questa Europa, non si può essere europeisti. D’altra parte, le domande che ci pongono queste parole sono chiare: come si sconfigge questa Unione? Come si scelgono gli alleati con cui fare la battaglia? La «France insoumise» è un’alleata. Insieme abbiamo una bussola e una teoria: siamo comunisti e crediamo che il capitale non abbia patria e che i popoli non si dividano in europeisti e antieuropeisti, ma in sfruttati e sfruttatori.

Ci ripetono spesso – ed è una narrazione completamente falsa – che «ce l’ha detto l’Europa» e perciò non si può fare in nessun altro modo. Ma è veramente così? Se gli spagnoli, che hanno una Costituzione nata dopo il franchismo, se gli italiani, che hanno una Costituzione nata dopo la caduta del fascismo e la Resistenza, dovessero decidere di non calare la testa di fronte ai diktat dell’Europa, se decidessero di contestare questo principio, allora sarebbero sovranisti? Sì, lo sarebbero; difenderebbero, però, non una astratta e falsa sovranità nazionale ma la concreta e giusta sovranità dei lavoratori e delle classi subalterne sul loro destino, sul loro diritto di decidere su tutto quello che riguarda la loro vita.

Una Costituente, una Costituzione

Nel 1980 Spinelli fonda il «club del Coccodrillo». Perché un uomo che apparentemente sta per vincere la sua battaglia – in fondo l’Europa sta nascendo in quegli anni – decide di raccogliere le intelligenze internazionali più sensibili ai problemi dell’antifascismo e dell’Unione europea dei popoli? Lo fa perché l’organismo che nasce in nome suo e del Manifesto che aveva firmato a Ventotene manca di una Costituzione. Manca e mancherà di una Costituzione, perché quattro anni dopo, nel 1984, benché fosse stato approvato dal Parlamento europeo, il suo progetto di Trattato costituzionale farà naufragio urtando contro gli scogli delle assemblee parlamentari e dei governi nazionali. Cos’è la Costituzione per un organismo statale? E’ un insieme di valori fondanti sui quali si regola la convivenza dei popoli. Senza una Carta costituzionale approvata dai popoli, può esistere una Europa unita? Spinelli pensava che no, non può realmente esistere. E non aveva torto.

D’altro canto, se l’Europa non si dà una Costituzione, qual è la gerarchia tra le leggi? Si può cavillare quanto si vuole su formule inventate ad arte per confondere le idee, come si è fatto con il sovranismo, ma la legge fondamentale della Repubblica è la Costituzione. E questo principio vale per ogni Paese. La Merkel non può imporre alla Germania una regola europea contraria alla Costituzione tedesca. Non si deve obbedire a leggi europee, se esse sono in contrasto con la legge fondamentale del mio Stato.

L’articolo 1 della nostra Costituzione, che andrebbe letto avendo lo sguardo attento al suo valore storico, afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro e nella sua formulazione originaria non si parlava di lavoro ma di lavoratori. Se si pensa che l’80 % di coloro che scrissero e approvarono la Costituzione erano antifascisti e si legge questo articolo in termini di diritti riconosciuti, diventa chiaro che l’orientamento dell’Assemblea Costituente era di taglio profondamente sociale. Ed è altrettanto chiaro che se una regola proveniente da un organismo politico esterno alla Repubblica, che non è stato mai legittimato da una carta costituzionale votata e approvata dal nostro popolo, pone dei limiti ai diritti dei lavoratori, entra evidentemente in rotta di collisione con un principio della nostra Costituzione e non ha per noi alcun valore.

Questo non è sovranismo. In questo caso, quella che la propaganda di sedicenti europeisti presenta come una rivendicazione nazionale è di fatto una giusta reazione alla cancellazione di diritti garantiti dalla Costituzione. La resistenza contro il fascismo è nata anche perché ci si voleva riappropriare di diritti dei lavoratori che il fascismo aveva cancellato. È pensabile, del resto, che l’Unione dei popoli europei tenda a negare i diritti del lavoro? Rifiutare una simile Unione non significa volere tornare al nazionalismo. Vuol dire difendere diritti ed estenderli.

Le leggi, del resto, esistono in ordine gerarchico tra di loro. A noi la parola gerarchia non piace, ma in questo caso è necessaria perché non si può obbedire contemporaneamente a leggi che sono in contrasto tra loro. Si obbedisce a quella di grado superiore e tutte devono essere compatibili con essa, ovvero la Costituzione. Una circolare non ha valore di legge, una legge vale più di una circolare, ma tutte le leggi devono essere in linea con i principi costituzionali.

È vero, si è convenuto che le fonti del diritto della Comunità europea sono di primo grado, ma nessuno potrà seriamente sostenere che un trattato sia valido anche se viola i principi della Costituzione. Non c’è trattato che possa obbligare l’Italia a fare guerre di aggressione.  La mancanza di una Costituzione europea è stata di fatto sempre un problema per l’Europa unita, tant’è che sia pure ventiquattro anni dopo la nascita del «club del Coccodrillo», nel 2004, si è giunti alla firma di un Trattato per la Costituzione dell’Unione europea. Per avere un valore reale, quella Costituzione aveva naturalmente bisogno di una ratifica. Là dove poteva essere ratificata da organismi Istituzionali – in Italia, per esempio – la sedicente Costituzione è passata. E’ passata poi in Spagna con un referendum, ma è stata bocciata dai successivi referendum e rifiutata dai Federalisti europei.

Nella Francia nel 2005, l’anno del referendum sull’Europa, si diede vita al «grand debat», alla discussione pubblica che coinvolse larghi strati della popolazione. Le scuole del Paese erano aperte la sera – le aprivano e le chiudevano i cittadini – e la gente discuteva del proprio destino.

La stampa italiana presentava quel dibattito come uno scontro tra europeisti e nazionalisti. Non era affatto vero. Lo scontro riguardava i diritti. I francesi votarono no perché si resero perfettamente conto che li stavano espropriando di diritti. Quel testo non aveva i caratteri di una Costituzione: presentava principi neoliberisti come valori fondanti dell’organismo sovranazionale, si occupava solo di temi economici, santificava il capitalismo, mancava di ogni riferimento al ripudio della guerra, agevolava l’intervento di eserciti europei, cancellava diritti dei lavoratori, smantellava lo stato sociale e negava garanzie agli immigrati.

A conti fatti, la sedicente Costituzione non passò in Francia, non passò in Belgio e più tardi fu bocciata in Irlanda. La risposta dei vertici dell’Unione – e qui Spinelli aveva visto lontano – fu terribilmente antidemocratica. Si decise di annullare i referendum programmati e di redigere un nuovo testo che sarebbe stato approvato dai parlamenti nazionali. Di fatto i trattati assunsero così valore costituzionale. Un autentico inganno, un inganno di carattere eversivo nei confronti delle popolazioni.
Questo è il modo in cui ci sono stati sottratti diritti e conquiste ottenuti con lotte che sono spesso costate sangue. Nessuno ci ha regalato nulla e per quanto sia il prodotto di una mediazione, la Costituzione ha un’anima sociale dentro la quale trovano garanzia i nostri diritti sociali. Nel momento in cui la si manomette, inserendo tra i suoi articoli il pareggio di bilancio, si trasforma il Parlamento in una sede per ragionieri che fanno la partita doppia, il dare e l’avere, e poiché i conti sono in rosso, non puoi muovere un dito, non puoi fare niente. Che significa non poter far niente? Che è vero, sì, la Costituzione prevede il diritto alla salute, però per assicurarlo, lo Stato deve spendere soldi; poiché l’Europa glielo proibisce, la gente che non ha la possibilità di farlo a proprie spese non può curarsi.

Bisogna ubbidire all’Europa, ci dicono. E dov’è scritto? Dov’è scritto che la nostra legge costituzionale, così come le leggi costituzionali di altri Paesi membri dell’Unione, debba cedere il passo a un trattato? Soprattutto a un trattato che ne viola un principio e ha una caratteristica negativa inaccettabile: non è stato approvato dai popoli dell’Unione.

Con l’articolo 11 della nostra Costituzione l’Italia ripudia la guerra. È un principio fondante della Repubblica. Qualora ci si trovi di fronte a una crisi internazionale l’articolo prevede una limitazione della sovranità – la Costituzione parla di sovranità, ma non è certo sovranista – e consente di mandare uomini in armi fuori dai confini nazionali. Essi devono essere però sotto l’egida dell’ONU e operare per fermare la guerra, non per farla. Che c’entra questo con la NATO, con i bombardamenti in Libia, con Sarajevo bombardata da aerei italiani? E come si concilia con il ripudio della guerra?

Ci dicono che sono settant’anni che non si fanno guerre. Niente di più falso. Le bombe tirate sulla testa dei libici cos’erano? La verità è che aerei europei – e noi assieme agli altri – hanno bombardato la Libia, l’hanno resa un inferno, costringendo la popolazione a scappare e l’Europa ha negato l’accoglienza, facendo morire i profughi nel Mediterraneo, negandogli il diritto di sopravvivere, internandoli, alimentando il razzismo. Tutto questo è in sintonia con gli ideali di chi volle un’Europa unita? Ed è compatibile con la nostra Costituzione?

Come si è giunti a tal punto e come si è avverata la profezia di Spinelli? Nel 2011 due illustri sconosciuti, guarda caso, uomini del capitalismo, proprio come temeva Spinelli, hanno assunto un ruolo decisivo per il nostro Paese. Si chiamano Draghi e Trichet. Chi sono? Qualcuno li ha eletti? Qualcuno li ha incaricati di decidere quale sarà il futuro politico di un Paese dell’Unione? No, nessuno li ha eletti, eppure hanno potuto inviare una lettera al governo italiano per elencare i provvedimenti che doveva prendere. Quali provvedimenti? Tagliare le pensioni, tagliare la Sanità, cancellare uno a uno diritti costituzionalmente riconosciuti.

Se contestare questo potere è sovranismo, benissimo, possiamo definirci sovranisti. Se difendere i diritti dei lavoratori, minacciati dal capitalismo che si è impadronito di un’idea antifascista per trasformarla nella base ideologica di una Istituzione sovranazionale feroce quanto il fascismo, io sono sovranista. Stupisce l’uso della parola fascismo per parlare di questa Europa? Non dovrebbe. In un libro pregevole, Pietro Grifone, un antifascista confinato come Spinelli, ricostruendo la storia della finanza nel nostro Paese, mostrò come il modello politico del capitale finanziario fosse il fascismo stesso. La lettera di Draghi e Trichet conduce difilato a Salvini. Altro che europeismo. Chi, infatti, ha prodotto il neofascismo gialloverde in Italia se non quella lettera illegale che di fatto ci impose la cancellazione dei diritti?

Ecco, dunque, la nostra responsabilità, la responsabilità di Potere al Popolo!. Chiedere la ripresa di un processo costituente per un’Assemblea Costituente Europea, per una Costituzione Europea, per un Parlamento Europeo con pieni poteri e un Governo Europeo votati dai popoli europei. Solo di fronte a un eventuale rifiuto di questo processo che conserva un principio di orizzontalità pienamente democratico si potrà poi costruire, insieme alle altre forze europee nostre alleate, percorsi e pratiche di uscita da un sistema asfissiante.

Noi non dobbiamo fermarci alle formule vaghe, alle polemiche su sovranisti ed europeisti. Possiamo farlo, perché conosciamo e riconosciamo come nostri fratelli e sorelle gli sfruttati di tutti i Paesi dell’Unione e i migranti perseguitati e scacciati; consideriamo nemici gli sfruttatori di tutti i Paesi.

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Senza i ricordi e i documenti in possesso della scrittrice Yvonne Carbonaro, che completano le notizie ricavate dagli archivi, quest’articolo non l’avrei scritto e non conosceremmo l’avventurosa e significativa storia di un uomo, che ci aiuta a far luce sulla dimensione politica organizzata di una rivolta di cui purtroppo conosciamo ancora troppo poco.
Fino a pochi mesi fa, infatti, Biagio Carbonaro era un nome in un elenco di combattenti o, se si vuole, un insieme di domande senza risposte. Comunista schedato, pareva lontano dal mondo di Lenin e non era chiaro come avesse beffato la sorveglianza fascista e per quali vie fosse giunto all’appuntamento con la rivolta napoletana. Di lui si sapeva solo che, nel 1936, poco più che ventenne, seguendo la profetica intuizione di Carlo Rosselli – «oggi in Spagna, domani in Italia» –  era sparito con l’anarchico Vincenzo Mazzone, per riapparire a Barcellona tra i difensori della Repubblica assalita dai nazifascisti.
Chi è in realtà Carbonaro? Nato a Tunisi da genitori siciliani il 23 maggio 1915, Biagio frequenta Maurizio Valenzi, protagonista della Resistenza antifascista in Europa e futuro sindaco della nostra città e si forma alla politica nella comunità italiana. Non è comunista, ma anarchico libertario e non violento ed è così ostile al fascismo, da attirare l’attenzione dell’Ambasciata sicché a Roma, il Casellario Politico Centrale si arricchisce di un dossier che porta il suo nome e si riempie di note di polizia e «soffiate» di «confidenti», Come spesso accade, sono le carte dell’onnipresente polizia fascista e quelle custodite nell’Archivio Generale della Guerra Civile, a Salamanca, a raccontarci la vita di un «sovversivo» che, in un tempo come il nostro, fatto di muri eretti contro i disperati e ponti caduti come simboli di separazione, diventa un esempio prezioso di quella nobiltà della politica che ai nostri giovani si presenta purtroppo come trama d’interessi per lo più inconfessabili.
Grazie ai verbali trimestrali, allegati all’ordine di arrestarlo appena metta piede in Italia, possiamo seguire passo dopo passo la vita avventurosa del giovane antifascista, guidata da sentimenti ormai rari da trovare: dignità, amore per la libertà e consapevolezza che la legalità che non si accompagna alla giustizia sociale diventa prepotenza.
A novembre del 1936, quando giunge a Barcellona, Carbonaro è assegnato ai carri armati della Colonna Ascaso, milizia internazionale che accoglie i libertari della «Centuria Malatesta» e i volontari di «Giustizia e Libertá». Benché ferito sul fronte di Huesca, il giovane combatte fino al 1939, quando i franchisti dilagano. Fuggito a Marsiglia con l’intento di raggiungere l’Italia, si presenta al Consolato per rinnovare il passaporto, ma scopre di essere nella «lista nera» fascista e sfugge abilmente all’arresto, rientrando a Tunisi clandestinamente. Lì, nell’estate del 1943, come mostrano i documenti in possesso dalla figlia, lo trova il capitano Andre Pacatte, responsabile dei servizi segreti Alleati, che, in vista della campagna d’Italia, cerca uomini fidati per stabilire contatti con gli antifascisti. Carbonaro, reduce della guerra di Spagna e uomo di provata fede antifascista, è particolarmente adatto alla rischiosa missione. Pacatte lo contatta e il giovane accetta.
Giunto clandestinamente in Italia prima dello sbarco a Salerno, l’antifascista passa per Amalfi e Maiori, arriva a Napoli, entra in contatto con comunisti e anarchici, li spinge a preparare la rivolta, formando gruppi armati e partecipa all’insurrezione. Un’attività che cancella il mito degli scugnizzi e fa degli antifascisti i protagonisti di una rivolta che assume così i suoi reali connotati: quelli di uno scontro organizzato, che ha un’identità politica e si svolge in una città eroica e consapevole.
Dopo le Quattro Giornate, da ottobre del ‘43 a febbraio del ’45, in via Crispi 106, sede dei servizi segreti alleati, Carbonaro incontra periodicamente il capitano Pacatte.  Fornito di un lasciapassare che gli consente di circolare liberamente nei territori occupati e di un documento che, in caso di arresto da parte tedesca, gli riconosce il grado di sergente maggiore dell’esercito USA, l’antifascista compie numerose operazioni concordate con l’ORI, l’Organizzazione della Resistenza Italiana, guidata da Raimondo Craveri, e porta in salvo a Napoli perseguitati politici ed ebrei rifugiati nel Vaticano e in chiese e conventi romani.
Finita la guerra, Carbonaro, che ha dato  un notevole contributo alla causa della Resistenza, esce di scena con la discrezione di chi lotta per grandi ideali: senza chiedere onori e riconoscimenti. E’ giusto perciò che la figlia si accinga a ricordarlo con una biografia significativamente intitolata Mio padre, un eroe rimasto nell’ombra.

Repubblica, 28 settembre 2018

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scansione0038Due parole, prima di riproporre un vecchio articolo scritto per Repubblica.
Ho accompagnato Ada fino all’estremo confine del suo viaggio e mi ha aiutato una certezza: ci rivedremo. Come lei, non ho il conforto della fede e sono solo davanti al dolore, ma una religione ce l’ho anch’io e nel libro sacro degli spiriti indocili c’è scritto chiaro: nel conflitto inestinguibile tra istinto e ragione, l’animo umano trova la sua vera ricchezza e attraversa senza fatica confini e steccati. Non ci sono muri che fermano valori e ideali. Non sarà vero – lo so, non c’è religione che possa dimostrare le sue verità di fede – ma io sono certo che Ada è tornata tra i suoi compagni di lotta e ha trovato ad accoglierla con un sorriso e un abbraccio il suo primo e immortale maestro: Giacomo Matteotti, guarito delle sue ferite, affiancato da Cesare Grossi, il padre rivoluzionario che lei venerava, la madre, Maria Olandese, da cui tanto imparò, e Renato, il fratello, eroico combattente a Teruel.
Non farò l’elenco degli uomini e delle donne che la stanno festeggiando. Sarebbe un’interminabile fila di grandi e piccoli nomi, una mille e una notte di storie incantevoli, tutte da raccontare se le forze lo consentissero. E’ una schiera di spiriti eletti che non conoscono gerarchie, ma sono gelosi custodi di antichi e immortali valori.
Prima o poi, molti dei sedicenti “grandi” si presenteranno alla porta che Ada ha appena attraversato, ma i titoli dei giornali ossequienti, le chiacchiere dei conduttori, gli stolti cinguettii e le numerose presenze nei salotti televisivi, non basteranno a ottenere un lasciapassare e nessuno li accoglierà festante. Ada ha appena attraversato senza sforzi un inesplorato mare tra due terre, un Mediterraneo su cui regna sovrana la legge della solidarietà. Nessuno dei “grandi” riuscirà a superare le sue onde e tutti saranno travolti. Eolo in persona scatenerà l’inferno e se pure, per avventura, trovassero sulla rotta disperata una loro Lampedusa, Gramsci, Amendola e Rosselli, pronti a lasciar passare ogni immigrato, quale che siano la sua origine e il colore della sua pelle, li ricacceranno indietro senza esitare, in nome dell’eterna legge del contrappasso.
Nessuno di quanti oggi mandano navi a fermare migranti varcherà qual confine. Ada non è morta e non morirà. E’ il potere che muore, non chi l’ha combattuto. La morte colpisce solo i suoi servi, i servi del potere, e non c’è religione che non condivida questo dogma umano.

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Ada Grossi. La voce alla radio che denunciava i crimini fascisti

Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C´è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un´infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l´omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. «Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola». A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: «scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre». Umana, ma estranea, Buenos Aires, l´accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d´una famiglia diventata un riferimento per i “sovversivi“.
Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel ‘36, quando s´apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l´Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L´ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di “Radio Libertà”, la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Caballero: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l´ira impotente di Mussolini. «Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo», e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell´epopea e il valore inestimabile d´una testimonianza sulla dimensione etica dell´agire politico, smarrita nell´opulenza malata del consumismo.
Evasa dal “secolo breve“, Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi a una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l´ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò. Se la incontri, non è più la ragazza “castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico” che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant’anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l´esistenza. «E´ incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!», esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra “l´odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento”. «Gours, Argelés-sur-Mer – ricorda Ada –. Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano». Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l´involontario elogio di un questore che, nell´aprile del ‘37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che «a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s´è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati». Per metterla a tacere, si impiantò persino “una stazione disturbatrice presso la Prefettura“.
«Filo da torcere gliene abbiamo dato», sottolinea Ada compiaciuta, mentre “corregge” il questore: «La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti». Il verbale di un interrogatorio subìto dalla madre in Questura, a Napoli, nel ‘41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d´inverno e roventi d’estata, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato «nel campo di Argelés con un permesso speciale», la guerra, l´armistizio con la Francia e un nuovo calvario: «io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l’altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc».
E´ un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell´infermeria del campo – «mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla» – , la madre, «compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno», il padre che «privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all’ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella». Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, «barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale». E torna in mente Machado:
«Cadde morto Federico
sangue alla fronte e piombo alle viscere
Sappiate che fu a Granada il delitto
Povera Granada!».
La “sua” Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l´entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. «Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo». Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre. Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c´è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. «Il regime aveva radiato mio padre dall´albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c´era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto». E ripete orgogliosa: «Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi – conclude amara –ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali». Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l´affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L´Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un´epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l´uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo “passato contemporaneo”. La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all´archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.

La Repubblica ediz. Napoli, 4 febbraio 2008 e Fuoriregistro, 5 febbraio 2008.

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N14_ARAGNO

Il Novecento è stato un secolo di molti, troppi coni d’ombra, dove la ricerca storica ha faticato a portare la luce. E, all’interno del “secolo breve” italiano, uno dei momenti che contiene più coni d’ombra è quel ventennio fascista che Valerio Romitelli consigliava, qualche anno fa, di «fare a pezzi»1. Per quanto si sia scritto molto negli ultimi cinquant’anni, molto è ancora il lavoro da fare e Giuseppe Aragno ce ne dà prova in questo agile volume dedicato alla vita di uomini, ma anche di donne, sconosciuti ai più. Un libro dedicato agli sconfitti e agli esclusi della prima metà di quel secolo che ha visto la nascita delle grandi ideologie e, soprattutto, la follia e la distruzione di due guerre mondiali2.  Quella di Aragno potrebbe definirsi una contro-storia, oppure una microstoria: il contraltare alle biografie dei “grandi uomini”, dei condottieri e dei leader. Una serie di medaglioni, di tanti Domenico Scandella, la cui vita nel Friuli del Cinquecento fu raccontata con maestria anni or sono da Carlo Ginzburg3

Il racconto, lo studio e l’interpretazione di queste vite è proprio il nodo gordiano di tutto il libro: chi sono le persone di cui Aragno cerca di ricostruire la vita, spulciando nelle carte dell’Archivio Centrale dello Stato, nei periodici dell’epoca e in una vasta bibliografia secondaria? Per le autorità – sia dell’Italia liberale che dell’Italia fascista e finanche, in alcuni casi, dell’Italia repubblicana – questi uomini e queste donne non sono altro che dei pericolosi sovversivi, dei reietti o dei pazzi. Uomini e donne da schedare, controllare, incarcerare e punire. Per lo storico, invece, la vita di queste persone semplici acquista la sua enorme drammaticità e la storia si trasforma in storie di vita vissuta. Storie individuali e collettive, avventure esistenziali e politiche, memoria popolare di un antifascismo vissuto come lotta quotidiana per la dignità e come incapacità di convivere con l’ingiustizia. Sono le biografie di quelli che, come ricorda lo stesso Aragno, citando Gaetano Arfè, «forse non trionfano mai, ma certamente non sono mai vinti»4
Giuseppe Aragno non è nuovo a questo tipo di ricerche. Studioso del movimento operaio e dell’antifascismo nella realtà di Napoli5, nel 2008, insieme ad A. Höbel e A. Kersevan, ha pubblicato Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani e nel 2009 il saggio Antifascismo popolare. I volti e le storie, che si può considerare l’antecedente diretto del libro che stiamo recensendo in questa sede6. La violenza come metodo di repressione e la lotta popolare contro il fascismo sono da tempo al centro delle sue indagini storiografiche e delle sue riflessioni.
In Antifascismo e potere, Aragno ricostruisce le vite di cinque uomini, di due donne e di un’intera famiglia. Il libro si apre proprio con una delle due donne, l’anarchica Clotilde Peani (Torino, 1873 – Napoli, 1942?)7, rinchiusa nell’ospedale psichiatrico provinciale di Napoli perché considerata una sovversiva pericolosa e pazza. L’altra donna è la ribelle, instancabile ed appassionata Emilia Buonacosa (Napoli, 1895 – 1976)8. Attivissima a Milano assieme gli anarchici durante il biennio rosso, Emilia Buonacosa, come molti antifascisti, fuggì in Francia con l’instaurazione della dittatura.
Nel 1937 la ritroviamo a Barcellona a difendere la Repubblica spagnola. Ritornata in Francia, nell’ottobre del 1940 fu consegnata dai nazisti agli italiani e confinata a Ventotene. Liberata solo nell’agosto del 1943, Emilia Buonacosa continuò la sua attività militante anche dopo il 1945, ma la sua lotta non venne mai riconosciuta dallo Stato, che continuò a considerarla una pericolosa sovversiva.
Simili e allo stesso tempo diverse sono le storie dei cinque uomini presenti in questo libro: Nicola Patriarca, Umberto Vanguardia, Giovanni Bergamasco, Pasquale Ilaria e Luigi Maresca. Colpisce la storia di Nicola Patriarca (Mosca, 1893 – ? )9, lavoratore italiano nato in Russia, che nel 1938 sfuggì alle purghe staliniane e si rifugiò in Italia, dove fu accolto a braccia aperte dal regime fascista. Come in molti altri casi, Mussolini approfittò della presenza di un ex comunista per rinvigorire la propaganda antisovietica diretta alle classi lavoratrici, che crebbe notevolmente dopo l’adesione dell’Italia al Patto anti-Comintern e la costituzione dell’asse Roma-Berlino nel novembre del 1936.
Rispetto a molti altri transfughi dell’Italia interbellica, fulminati sulla via di Damasco dal fascismo mussoliniano e convertitisi ad un anticomunismo viscerale, come Nicola Bombacci o Angelo Scucchia10, Kolia Patriarca aveva condiviso fino in fondo i valori della rivoluzione bolscevica e continuava a condividerli. Dopo solo alcuni mesi dall’arrivo in Italia, difatti, per via di qualche frase critica espressa nei confronti del regime fascista e riguardo alle vere condizioni dei lavoratori italiani, Patriarca fu mandato al confino a San Costantino Calabro, dove si perdono le sue tracce.
La vita di Umberto Vanguardia (Napoli, 1879 – 1931)11 è sinonimo di militanza e di abnegazione. Giovanissimo, fu attivo nelle prime organizzazioni che diedero vita al Partito Socialista Italiano a Napoli nel biennio 1893-1894. Arrestato in più d’una occasione dalle forze dell’ordine, come nel 1898, in seguito ai moti popolari che sconvolsero la città partenopea, Vanguardia abbandonò il PSI nel 1902 e si avvicinò agli anarchici, collaborando alla redazione e alla direzione di diversi periodici del mondo libertario italiano, come «La Voce dei Ribelli» di Napoli, «La Protesta Umana» di Milano e «Sorgete» di Napoli. Nell’aprile 1912 venne nominato segretario della Lega dei Lavoratori dell’Arte bianca. Dopo la guerra lo ritroviamo di nuovo a Napoli, dove si dimostrò attivissimo nelle lotte del biennio rosso. Gli arresti paiono essere stati un Leitmotiv nella sua vita. Nel 1926, dopo l’instaurazione della dittatura fascista e le leggi fascistissime, all’arresto seguì l’immediato invio al confino. In gravissime condizioni di salute, Vanguardia venne scarcerato nell’autunno del 1931, ma solo pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, morì a Napoli.
Figlio di un benestante che perse tutto con la rivoluzione bolscevica, Giovanni Bergamasco nacque in Russia negli anni Sessanta dell’Ottocento, ma già nel 1884 si trasferì in Italia. Considerato anarchico pericolosissimo, tanto da essere arrestato in più d’una occasione, nel congresso del Partito Socialista che si tenne a Genova nell’agosto del 1892 seguì la linea di Gori e Malatesta. Successivamente, Bergamasco collaborò attivamente alla nascita del socialismo napoletano e nel novembre del 1901 venne eletto consigliere comunale per i socialisti nella città partenopea. Vicino a Bordiga prima e durante la Grande Guerra, Bergamasco aderì all’USI nell’agosto del 1918. Dopo il biennio rosso, rimase fedele ai suoi ideali, ma politicamente fu quasi inattivo. Nel 1927, in gravissime condizioni economiche, chiese un sussidio a Mussolini, ma, quando gli venne concesso, lo rifiutò. A tal proposito è molto interessante la riflessione di Aragno, che nota: «Né eroe, né martire, Bergamasco fa i conti con la vita, cerca un compromesso, medita la resa, ma si rivolta contro se stesso d’istinto e non cede, benché gli costi caro e la vita diventi un inferno, perché la dimensione in cui si sente vivo è quella della dignità»12. Considerato una specie di pazzo grafomane, tra la fine degli anni Venti e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Bergamasco entrò ed uscì innumerevoli volte dalle carceri fasciste e dai manicomi per la distribuzione di manifestini antifascisti nei rioni popolari di Napoli, per aver scritto le parole “W la libertà” sulla saracinesca di un negozio sfitto o per dei semplici fermi periodici della polizia fascista. Il 14 luglio del 1940, a un mese dall’entrata in guerra dell’Italia, Bergamasco venne arrestato a Roma per aver sputato contro un manifesto di Mussolini e venne mandato al confino con una pena di cinque anni. Prima alle Tremiti, dove era stato già confinato nel 1896, e poi nel marzo del 1942, a settantanove anni compiuti, finì i suoi giorni a Lauro, in Irpinia, dove il 29 giugno dell’anno successivo morì nell’ospedale di Avellino.
Diverso il caso di Pasquale Ilaria, uomo d’ordine, capitano dell’Esercito Italiano, volontario in Libia, invalido ed eroe di guerra decorato al valor militare, ma antifascista convinto, tanto da essere inserito nell’elenco dei sovversivi pericolosi da arrestare se necessario; cosa che accadde nel giugno del 1939, quando Ilaria venne arrestato e condannato al confino per cinque anni alle isole Tremiti13. Particolare è anche il caso di Luigi Maresca, liberale ed europeista, malgrado fosse un convinto nittiano, finì per sposare immediatamente una posizione antifascista. Un antifascismo, scrive Aragno, che era «figlio naturale del fascismo e della sua pretesa di imporsi non solo come regime reazionario e classista, ma anche, e soprattutto, come riferimento per le coscienze»14. Licenziato dal posto di lavoro e schedato come sovversivo nel gennaio del 1928, Maresca riuscì a scappare in Francia nel maggio dello stesso anno e poi in Belgio, a Charleroi, dove lo raggiunse la famiglia. In modo analogo a un altro antifascista napoletano esiliato in Belgio, quell’Arturo Labriola che fu teorico del sindacalismo rivoluzionario a inizio secolo e poi Ministro del Lavoro durante l’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920, nell’ultimo gabinetto guidato da Giolitti, l’antifascismo di Maresca sembra vacillare nel 1935, con la guerra d’Etiopia, quando «il groviglio di amor patrio e nazionalismo […] sembrano avere la meglio sui sentimenti democratici»15. Maresca, però, al contrario di Labriola, rimarrà in esilio in Belgio, rifiutando l’offerta del regime fascista. In Italia rientrerà nell’estate del 1940, dopo molti tentennamenti e in mezzo all’Europa devastata dalla guerra. Ristabilitosi a Napoli, Maresca fu comunque considerato un sovversivo e vigilato costantemente dalla polizia fascista. I conti con il fascismo li chiuse alla fine di settembre del 1943, partecipando alle Quattro Giornate di Napoli, uno dei primi episodi della Resistenza al nazifascismo in Italia.
Infine, il caso di un’intera famiglia, i Grossi, composta dal padre Carmine Cesare, dalla madre Maria Olandese e dai tre figli: Ada, Aurelio e Renato16. Dall’Italia, nel 1926 la famiglia Grossi era emigrata per ragioni politiche in Argentina, dove il padre, ma anche i giovani figli, avevano svolto, a cavallo tra anni Venti e Trenta, una rilevante attività nel mondo dell’antifascismo italiano. L’11 agosto del 1936, a meno di un mese dallo scoppio della Guerra Civile in Spagna, la famiglia Grossi decise di ritornare in Europa per difendere la Repubblica spagnola. Si stabilì a Barcellona, dove una nutrita comunità di italiani, tra cui Carlo Rosselli e Camillo Berneri, era giunta per prendere le armi contro il fascismo. La famiglia Grossi partecipò a molte delle attività organizzate dagli anarchici della CNT per resistere all’avanzata delle truppe franchiste, appoggiate dai tedeschi e, soprattutto, dagli italiani, che dal gennaio del 1937 iniziarono durissimi bombardamenti sulla città di Barcellona che continuarono fino al gennaio del 193917. Il padre e la figlia Ada diedero vita a Radio Libertà, sulle cui onde si raccontava il dramma della guerra agli italiani, mentre Aurelio e Renato si arruolarono nell’esercito repubblicano, combattendo prima a Malaga, poi a Teruel, infine sull’Ebro. La “guerra nella guerra”, con la repressione stalinista dei trotskisti del POUM nel maggio del 1937, toccò da vicino anche la famiglia Grossi, che ne visse le conseguenze, come la chiusura di “Radio Libertà”18. Nel gennaio del 1939, a ridosso della caduta di Barcellona e di tutta la Catalogna, i Grossi scapparono in Francia insieme a mezzo milione di rifugiati spagnoli. E, come questi, furono internati nei campi francesi: la madre e la figlia Ada nel campo di concentramento di Argéles sur Mer, mentre il padre e i due figli maschi in quello di Saint Cyprien. Dentro al dramma della guerra e dell’internamento vissuto dalla famiglia Grossi, il dramma maggiore lo visse il figlio Renato. Spostato alla fine del 1939 nell’ospedale psichiatrico di Lannemezan negli Alti Pirenei francesi per «deperimento organico ed alterazioni nervose»19, venne trattato come una cavia, tanto da finire in coma per tre giorni nel giugno del 1940. Nell’agosto del 1941 fu rimpatriato in Italia, dove, considerato «affetto da demenza [e] da mania religiosa»20, oltre che un pericoloso sovversivo per la sua partecipazione alla guerra di Spagna con il bando repubblicano, fu internato nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Napoli fino ad «essere menomato fisicamente e psichicamente» con «atroci terapie da shock elettrico»21. Non fu diversa, purtroppo, la sorte degli altri membri della famiglia Grossi. Tranne la figlia Ada, che nel campo di Argéles sur Mer sposò nell’ottobre del 1940 il repubblicano spagnolo Enrique Guzmán de Soto e andò a vivere con lui a Madrid, dove parteciparono alla resistenza contro il regime di Franco, tutti gli altri membri della famiglia, al loro rientro in Italia nella primavera e nell’estate del 1941, furono confinati a Ventotene e Melfi. Gli innumerevoli tentativi della madre di far uscire il figlio dall’ospedale psichiatrico e di far riunire la famiglia si scontrarono con le risposte negative degli zelanti prefetti fascisti e dello stesso Mussolini. Solo nel settembre del 1943 Renato Grossi venne liberato ed affidato alla madre, la quale aveva riacquistato la libertà poco prima dell’armistizio. Ma Renato non si riprese mai più da quei tre durissimi anni di trattamenti psichiatrici immotivati e crudeli e visse fino alla morte, avvenuta nell’agosto del 2001, tra le cure della famiglia e i periodi di ricovero nelle cliniche.
Antifascismo e potere è un libro di grande interesse non solo per la «storia di storie» che contiene – storie, vale la pena sottolinearlo, che fino ad ora non erano mai state raccontate22 –, ma per più ragioni. Innanzitutto, per la centralità data alla biografia, cosa non frequente nella storiografia italiana, rispetto ad altre scuole storiografiche come quella anglosassone. Aragno dimostra quello che, una ventina d’anni fa, evidenziava Serge Noiret nell’introdurre la biografia di Nicola Bombacci: l’individuo non può e non deve considerarsi come un semplice «oggetto sociologico senza nome», ma come un canale per percepire e decifrare la cultura di un’epoca. L’individuo, sarebbe a dire, deve pensarsi e concepirsi come l’unico luogo storico nel quale si danno incontro, al di là di ogni schematismo storiografico, tutte le forze economiche e morali che contribuiscono a fare la storia23.
In secondo luogo, per il ruolo assegnato alle donne in questa serie di biografie. La vita di Clotilde Peani, di Emilia Buonacosa, di Ada Grossi e di Maria Olandese dimostrano il ruolo non secondario delle donne nella lotta antifascista e, più in generale, nella politica novecentesca. Come notano Claudia Locchi e Iara Meloni in una breve biografia dell’antifascista bolognese Nerina Zotti, da parte degli ufficiali di Pubblica Sicurezza «alle donne è riconosciuta una scarsa capacità di autodeterminazione, e le motivazioni profonde per cui un’attivista fa politica sono spesso ricercate nella diretta influenza del marito, del padre, del fratello» portando all’assurdo presupposto «dell’inconciliabilità delle donne con la politica»24. Una considerazione che, purtroppo, non ha riguardato solo gli ufficiali della pubblica sicurezza, ma anche parte della storiografia degli ultimi sessant’anni.
In terzo luogo, Antifascismo e potere propone una riflessione sul fenomeno della psichiatria come strumento di repressione politica. La drammatica storia di Renato Grossi, ma anche quelle di Clotilde Peani e Giovanni Bergamasco, ne sono una prova. E rimandano al capolavoro di Gianni Nebbiosi, psichiatra e cantautore che nel 1972, con la collaborazione di Giovanna Marini, compose ed incise E ti chiamaron matta, un album che volle essere un j’accuse ai manicomi e che aprì, in un certo qual senso, le porte alla legge Basaglia.
Infine, queste biografie dimostrano la centralità di una categoria chiave per la comprensione del Novecento: la passione per la politica. Una passione che è stata così forte da travolgere intere vite. Una passione che fu qualcosa di distinto dagli interessi e, spesso, ben lontana dal potere25. Una passione, che a noi, uomini del XXI secolo, sommersi in un’apatia da cui pare essere così difficile uscire, ci sembra una cosa lontana, d’altri tempi e d’altri luoghi. Una passione che però fu tangibile, presente e reale, come la vita di questi «umili eroi della storia di cui troppo raramente ci ricordiamo» ci ha dimostrato26

Note

1 ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni pubbliche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 217.
2 Al riguardo, vedasi quattro volumi che analizzano queste questioni e questo nodo storico da punti di vista diversi come BRACHER, Karl Dietrich, Il Novecento secolo delle ideologie, Roma, Laterza, 1984; HOBSBAWM, Eric J., Il Secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995; MAZOWER, Mark, Le ombre dell’Europa, Milano, Garzanti, 2000; TRAVERSO, Enzo, A ferro e fuoco. La guerra civile europea, 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
3 GINZBURG, Carlo, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 1976.
4 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere. Storia di storie, Foggia, Bastogi, 2012, p. 106.
5 Tra gli altri, ricordiamo, ARAGNO, Giuseppe, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Roma, Bulzoni, 1980; ID., Siete piccini perché siete in ginocchio. Il Fascio dei lavoratori, prima sezione napoletana del PSI, 1892-1894, Roma, Bulzoni, 1989; ARFÈ, Gaetano, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, Napoli, La Città del Sole, 2005.
6 ARAGNO, Giuseppe et alii, Fascismo e foibe. Ideologia e pratica della violenza nei Balcani, Napoli, La Città del Sole, 2008; ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo popolare. I volti e le storie, Roma, Manifestolibri, 2009.
7 ID., Antifascismo e potere, cit., pp. 9-13.
8 Ibidem, pp. 53-72.
9 Ibidem, pp. 14-22. a cura di Steven FORTI.
10 Sui transfughi dell’Italia interbellica ed in particolare sulla figura di Nicola Bombacci e di Angelo Scucchia, vedasi FORTI, Steven, El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras, Tesi di dottorato in storia contemporanea,Università Autonoma di Barcellona, Barcellona, 2011, cap. I. Vedasi anche ID., «Partito, rivoluzione e guerra. Il linguaggio politico di un transfuga: Nicola Bombacci (1879-1945)», in Memoria e Ricerca, 31, 2/2009, pp. 155-175.
11 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., pp. 23-40. Antifascismo e potere. Storia di storie.
12 Ibidem, pp. 81-106. La citazione si trova a p. 102.
13 Ibidem, pp. 73-80.
14 Ibidem, pp. 41-52. La citazione si trova a p. 44. a cura di Steven FORTI.
15 Ibidem, p. 46. Su Labriola, vedasi, tra gli altri, MARUCCO, Dora, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Torino, Einaudi, 1970 e DI CAPUA, Giovanni, Un libertario nelle istituzioni. Arturo Labriola dall’antifascismo alla Repubblica, Napoli, Edizioni Simone, 1999.
16 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., pp. 107-145.
17  Vedasi, tra gli altri, il catalogo della mostra Quan plovien bombes/Quando piovevano bombe (Barcellona, Generalitat de Catalunya-Museu d’Història de Catalunya-Memorial Democratic, 2007) curata da Laura Zenobi e Xavier Domènech e presentata nella primavera del 2007 a Barcellona e, durante il 2008, in varie città italiane. Riguardo ai durissimi bombardamenti che colpirono il capoluogo catalano durante la Guerra Civile e di cui fu responsabile l’Aviazione Legionaria fascista, nell’ultimo lustro sono stati pubblicati alcuni libri e diversi saggi. Nel maggio del 2011 l’Associazione Altraitalia presentò una denuncia contro lo Stato italiano per crimini contro l’umanità causati da questi bombardamenti. Dopo quasi due anni e il diniego del Tribunale di Madrid, nel gennaio del 2013 il Tribunale di Barcellona ha accettato il ricorso presentato dall’Associazione Altraitalia e ha aperto una causa contro 21 piloti dell’Aviazione Legionaria fascista. Il fatto è di grande importanza, tenuto conto che è la prima volta che in Spagna si apre una causa riguardo a fatti accaduti durante la Guerra Civile. Vedasi, GARCÍA, Jesús, «Reabierto el frente judicial por los crímenes de la Guerra Civil» in El País, 23 gennaio 2013, URL: http://ccaa.elpais.com/ccaa/2013/01/23/catalunya/1358933175_968312.html [consultato il 7 febbraio 2013].
18 Vedasi, GALLEGO, Ferran, Barcelona, mayo de 1937. La crisis del antifascismo en Cataluña, Barcelona, Debate, 2007.
19 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., p. 130.
20 Ibidem, p. 134.
21 Ibidem, pp. 112, 135. a cura di Steven FORTI.
22 Tranne nel caso di Umberto Vanguardia su cui recentemente si è pubblicata la biografia di GIULIETTI, Fabrizio, Umberto Vanguardia. Azione e propaganda di un anarchico napoletano (1879-1931), Napoli, Galzerano, 2009.
23 NOIRET, Serge, Massimalismo e crisi dello stato liberale. Nicola Bombacci (1879-1924), Milano, Franco Angeli, 1992, p. 21.
24 LOCCHI, Claudia, MELONI, Iara, Nerina Zotti tra le righe. La vita di una sovversiva nelle carte della Questura di Bologna, in BETTI, Eloisa, TAROZZI, Fiorenza (a cura di), Le Italiane a Bologna, Bologna, Editrice Socialmente, 2013, p. 134. Antifascismo e potere. Storia di storie.
25 Riguardo a questa interessante questione, vedasi HIRSCHMANN, Albert O., Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano, Feltrinelli, 1979 e, soprattutto, le riflessioni contenute in ROMITELLI, Valerio, L’odio per i partigiani. Come e perché contrastarlo, Napoli, Cronopio, 2007.
26 ARAGNO, Giuseppe, Antifascismo e potere, cit., p. 140.

* Steven FORTI è Dottore di ricerca per l’Universidad Autónoma de Barcelona con una tesi centrata sulla questione del transito di dirigenti politici di sinistra al fascismo nell’Europa interbellica, le ricerche di Steven Forti (Trento, 1981) si focalizzano sulla storia politica e del pensiero politico nel XX secolo, con particolare attenzione allo studio biografico ed all’analisi del linguaggio politico. Collaboratore di varie riviste di storia contemporanea in Italia e Spagna (Memoria e Ricerca, Spagna Contemporanea, Storicamente, Nous Horitzons, Atlántica XXII), è stato uno dei fondatori di PRAXIS (Asociación de Jóvenes Investigadores en Historia y Ciencias Sociales) ed attualmente è membro del CEFID (Centre d’Estudis sobre les Epoques Franquista i Democràtica) e dell’Asociación de Historia Contemporánea spagnola. Nei prossimi mesi si pubblicheranno i suoi primi due libri: El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras e Historia de las Comisiones Obreras de la construcción de Cataluña (1964-1992).
http://www.studistorici.com/progett/autori/#Forti

FORTI, Steven*, «Recensione: Giuseppe ARAGNO, Antifascismo e potere. Storia di storie, Foggia, Bastogi, 2012, 151 pp.», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: Processo penale, politica, opinione pubblica(secoli XVIII-XX), 29/08/2013, http://www.studistorici.com/2012/08/29/forti_numero_14

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6269781250_6aa9a0fee3[1]Il prossimo 25 aprile, in una città mobilitata contro il ricatto del debito e la distruzione dello stato sociale, Madrid celebrerà la «festa nazionale per la liberazione da tutti i fascismi» e renderà omaggio alle donne e agli uomini accorsi in Spagna in difesa della Repubblica minacciata da Franco. Sarà l’occasione per una riflessione sulla lotta antifascista di resistenza, sull’attualità e il valore del 25 aprile in un’Europa paradossalmente «unita» eppure divisa come non pareva potesse più esserlo. E’ difficile immaginare in quante scuole e università italiane ci sarà spazio per ricordare e quanti giovani, nel clima politico che viviamo, conoscano Rosselli, Pesce o Vincenzo Perrone, caduto per mano franchista a Monte Pelato, e le ragioni per cui migliaia di ragazzi e ragazze nel 1936 partirono dall’Italia per combattere una guerra che non pareva riguardarli. Tra presente e passato s’è ormai creato un pericoloso «corto circuito» e non c’è nulla purtroppo che somigli a un gregge quanto un popolo che ignora la sua storia.
Lo dicono in tanti: «in Europa c’è la crisi». Pochi, tuttavia colgono probabilmente la contraddizione storica da cui essa scaturisce. Figlia del«Manifesto” scritto da Spinelli, Rossi e Colorni, confinati a Ventotene, e perciò «geneticamente» antifascista, l’Europa unita, infatti, non solo ha smarrito i suoi autentici connotati, ma si va sempre più trasformando nel suo esatto contrario. Nata per impedire l’«oppressione degli stranieri dominatori», è uno strumento di oppressione di alcune élite su masse popolari escluse dai processi decisionali; concepita come antidoto alla degenerazione degli ideali di indipendenza nazionale in quel nazionalismo imperialista che intralciava la libera circolazione di uomini e merci, con la vicenda libica sembra ormai tornata all’imperialismo. In quanto alla libera circolazione, porte spalancate per le merci, soprattutto se speculano sulla qualità, sul costo del lavoro e sui diritti negati, ma per quanto riguarda gli uomini, entro e fuori dai suoi confini, l’Europa mortifica le ragioni stesse della sua esistenza. Da anni ormai una umanità dolente paga sulla propria pelle il naufragio di quel capitalismo che dopo il crollo del muro di Berlino aveva annunciato l’età dell’oro e la «fine della storia». Mentre gli immigrati sono respinti o internati e chi domanda asilo solo raramente trova accoglienza, entro i confini della «terra promessa» l’egemonia dei «paesi creditori» su quelli debitori disegna ormai il quadro di una vera colonizzazione interna. Non bastasse questa grave miseria morale, l’Europa unita, in mano ad élite che governano senza mandato, snatura se stessa, adottando un modello di «democrazia senza partecipazione» e ripudia persino Montesquieu. A rendere più profonda la rottura con l’ispirazione solidaristica dell’idea federalista, a fare dell’Europa un’atroce «zona franca» nella corsa al ribasso sui diritti dei lavoratori hanno pensato poi, negli ultimi anni, l’olocausto mediterraneo e la Grecia, asservita agli interessi delle banche. Un disprezzo così profondo per la vita umana, richiama alla mente le riflessioni di Hannah Arendt, sulla «banalità del male» e la filosofia della storia che tra le due guerre mondiali scrisse le pagine più buie della vita dell’Occidente. Dietro il dramma che si profila minaccioso e chiaro all’orizzonte, si intuiscono le ragioni insondabili del profitto che antepongono all’umanità sottomessa gli interessi parassitari di quel capitale finanziario che vide nel fascismo la sua naturale tutela.
In questo quadro, recuperare alla memoria storica la dimensione internazionale dell’antifascismo e della Resistenza, ovunque sia possibile – scuola, università, dibattito culturale, movimenti di lotta alla globalizzazione dello sfruttamento – significa far crescere intelligenze critiche e combattere il pensiero unico. C’è un passo del «Manifesto di Ventotene» in cui l’esperienza di chi ha vissuto la repressione fascista e ha combattuto la sua battaglia per i diritti e la dignità si volge al futuro con uno sguardo così penetrante, da sembrare profetico. E’ un passo che andrebbe studiato L’Europa dei popoli uniti, vi si legge, non nascerà senza contrasti. I «privilegiati […] cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata di sentimenti e passioni internazionalistiche». Gli antifascisti non hanno dubbi: «quei gruppi del capitalismo […] che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati» – scrivono con mano ferma – «già fin da oggi, sentono che l’edificio scricchiola e cercano di salvarsi. […] hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando […], si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari e li abbiano paralizzati, deviati convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti».
Tornare all’antifascismo e alla sua lunga stagione di lotte condotte tra incomprensioni, fratture e scontri dolorosi come accadde per la guerra di Spagna non vuol dire cercare rifugio nel passato di fronte alle sconfitte del presente, ma cogliere la lezione che viene dai fatti: c’è nell’antifascismo europeo un filo rosso che lega il passato al presente e disegna una via per il futuro. Il cammino aperto in Spagna da giovani accorsi da ogni Paese a sostegno della libertà e dei diritti calpestati, non si è fermato a Guernica o a Barcellona, nonostante la ferocia dei primi bombardamenti terroristici. Molti dei combattenti italiani di Spagna presero anni dopo la via dei monti e combatterono la guerra partigiana, testimoni troppo spesso dimenticati di una vicenda che segna in maniera indelebile la storia del Novecento. La guerra di Spagna, ebbe a scrivere Pierre Vilar, «come fatto culturale ebbe un valore universale». Il valore che Carlo Rosselli, un grande antifascista, seppe riassumere in una frase che sembra scolpita nella storia: «Non vinceremo in un giorno, ma vinceremo».
Molte cose sono cambiate, ma l’Europa in cui viviamo sembra restituire alla sfida di Rosselli il valore di un monito a futura memoria. E’ necessario che il filo della memoria non si spezzi. Non a caso Madrid che lotta in piazza, sente il bisogno di ricordare: nella memoria storica c’è spesso il senso più profondo del presente. E’ una lotta che qui da noi dovrebbe fare della scuola statale non solo il punto di sutura tra tempo della storia e tempo della vita, ma un baluardo che va difeso. Costi quel che costi.

Uscito su “Fuoriregistro” il 17 aprile 2013

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Se un 25 aprile di “liberazione” nasce malato di suggestioni autoritarie, forse non è un paradosso in una città che vive solo di luce riflessa, dimentica di se stessa e della sua storia, tra la spazzatura che si rassegna e il confronto elettorale che appassisce, si svuota e cede alla tentazione del plebiscito. Nella città di Amendola, il 25 aprile dovrebbero tornare alla mente Matteotti, Rosselli, Gramsci e Gobetti e invece mai come oggi si ricordano le ultime, amare riflessioni di Gaetano Arfè, napoletano e maestro di tante generazioni, che intuì la minaccia incombente e ci ammonì: “fortunato il paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, ha scritto Brecht. Io aggiungo: sciagurato il paese che non sa rimanerne degno.

“Scuola e Resistenza”, numero unico del “Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola”, uscì quando la sorte del fascismo era ora ormai segnata e l’impegno morale era soprattutto quello d’una vittoria che non fosse vendetta. Nella copia che ho qui davanti, tra le mie mille carte, la data non si legge, ma è sicuro: il giornale uscì alla macchia fra giugno e luglio del 1945. Quattro facciate fitte, articoli scritti col sangue e la passione civile: il ricordo commosso di docenti caduti lottando contro la barbarie fascista, la questione ormai attuale della “epurazione dei libri di testo fascistizzati”, l’invito a sfidare il regime morente, “macabro fantasma” che si sforza di delinquere per credersi e affermarsi vivo – “Non giurate! […] Insegnanti! Opponete un incrollabile rifiuto” – il sogno di “un’Italia risorta” in cui la scuola “sarà il fondamento, l’elemento innovatore” perché “l’educazione forma l’uomo vero ed eleva il popolo; essa è l’unica condizione di libertà e di eguaglianza e di progresso”. Ancora si combatteva, ma a Napoli i partigiani delle Quattro Giornate conoscevano già la delusione del dopoguerra e i giudici fascisti, tutti scampati all’epurazione, erano già al lavoro. Oggi si vede il danno ma non c’è rimedio, la storia l’inventa Pansa e nessuno ricorda più, ma Eduardo Pansini, pittore e partigiano, padre di quell’Adolfo caduto combattendo tedeschi e fascisti, su al Vomero, alla Masseria Pezzalonga, era stato chiamato a rispondere dei suoi “misfatti”: violazione di domicilio il capo d’accusa. Per sparare ai tedeschi aveva sfondato la porta di casa d’un fascista.

Oggi si vede chiaro. Quell’Italia risorta fu messa subito sotto processo e c’è chi, come me, se li ricorda ancora i manifesti elettorali con l’ex federale Sansanelli in corsa alle elezioni ormai repubblicane. Qui da noi, oggi, nella città che avviò la lotta armata contro la dittatura, basta guardarsi attorno: la scuola pubblica è ferita a morte. Non è cosa da poco. E’ il confine tra la civiltà repubblicana e la rinnovata barbarie che vedi all’orizzonte. In quanto al resto, è paradossale, ma l’epurazione che non fece il comunista Togliatti, è diventata l’ossessione d’una destra che ha smarrito se stessa e quel senso dello Stato di cui menava vanto. Passa sotto silenzio, ma è per certi aspetti sconvolgente, l’iniziativa dell’onorevole “Gabriella Carlucci che chiede una commissione parlamentare d’inchiesta per verificare l’imparzialità dei libri di testo scolastici”, senza porsi il problema dell’imparzialità di un intervento parlamentare in tema di libertà d’insegnamento e ricerca.

Storici improvvisati versano lacrime strumentali sul “sangue dei vinti”, leader d’una presunta sinistra recitano il “mea culpa” non si sa bene per quali colpe, la Costituzione nata dalla Resistenza è calpestata ed è passata una riforma della scuola, per la quale davvero si potrebbero usare le parole che scrivevano nel 1945 gli insegnanti in armi, pronti alla battaglia decisiva contro la dittatura: “L’istruzione è la vera liberatrice dello spirito umano, che eleva e libera l’uomo e lo rende conscio dei doveri, dei diritti, delle sue fondamentali rivendicazioni; ma il fascismo temeva il popolo; voleva il gregge, la massa, la folla, da sfruttare, da gettare al macello. Allora comprò letterati e falsi profeti, per traviare l’opinione, tarpare le ali al libero ricreatore insegnamento”. Era il 1945, ma diresti sia oggi. “L’insegnante fu asservito e domato colla miseria, l’insegnamento fu come la classe dominante imponeva e la gioventù crebbe informata a principi falsi, a ideologie assurde e funeste come si voleva. L’attuale catastrofe è l’ineluttabile risultato”. Attuale, sì. E sfido a capire quando. Ieri o domani?

Gli articoli sono tutti anonimi – era in gioco la vita – ma il nome dei caduti conduce spesso al Sud, a quei professori della nostra terra coinvolti nella Resistenza e caduti per mano nazifascista. Oggi un napoletano avrebbe fatto fatica a partecipare: prima che ai tunisini, il suo “fora d’ì balle” Bossi l’ha dedicato a noi. Un solo “pezzo”, l’ultimo, un “Appello”, reca in calce una firma – Luisa, maestra e partigiana – e si rivolge alle compagne di lavoro per incitarle alla lotta: “Uniamoci, ribelliamoci, seguiamo l’esempio delle colleghe più ardite, aiutiamole nella loro e nostra lotta, altrimenti saremo indegne di partecipare alla vita della futura scuola dell’Italia libera”.

Non saprò mai chi fosse Luisa, ma ci giurerei: tornerebbe a scriverlo oggi questo suo coraggioso appello e muterebbe solo poche parole. “Per difendere – correggerebbe – il futuro dell’Italia libera”. E occorrerebbe ascoltarla questa nostra dimenticata e coraggiosa maestra. Tutto, in questi giorni bui, tutto, dalla riforma Gelmini al progetto di legge Carlucci, al razzismo leghista, tutto sembra chiamare davvero a una resistenza civile. E mentre cresce l’ingiustizia sociale e in nostri giovani non hanno futuro, ti pare di ascoltare la voce dei nostri grandi maestri, la voce di Giovanni Bovio, filosofo e principe del foro napoletano che, vedendo avvicinarsi la bufera, così implorava governanti e giudici: “I chierici ci fecero dubitare di Dio; i signori feudali ci fecero dubitare di noi stessi, se uomini fossimo o animali; la borghesia ci fa dubitare della patria da che ci ha fatti stranieri sulle terre nostre; per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro. Non fate noi delinquenti e voi giudici!.

E’ tanto che si aspetta. Troppo. Ora, però, basta guardarsi attorno, in questa nostra città nobile e sventurata, ed è subito chiaro: non c’è più molto tempo.

Uscito su Repubblica (Napoli) il 23 aprile 2011

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Ada Grossi è napoletana e testimone della guerra di Spagna. C´è un fascicolo personale conservato a suo nome tra carte di polizia, ma il silenzio della storia non è riuscito a chiuderla nella polvere del passato. Ada parla al cuore, prendendoti per mano, e racconta un´infanzia sconvolta da eventi più grandi di lei: Mussolini, la dittatura, l´omicidio Matteotti, le minacce al padre, Carmine Cesare Grossi. «Era socialista, ricorda, amico di Croce e noto avvocato nello studio di De Nicola». A nove anni, nel 1926, il salto nel buio: «scuola, parenti, amici, tutto alle spalle, rammenta con rinnovata emozione, e tutto perso per sempre». Umana, ma estranea, Buenos Aires, l´accoglie col padre, i fratelli, e la madre, Maria Olandese, soprano che ha cantato alla corte dello zar, ma la ragazza diventa donna tra gli stenti e la solidarietà dei fuorusciti, la propaganda antifascista e il calore d´una famiglia diventata un riferimento per i “sovversivi“. Ada è un personaggio straordinario. Se racconta la sua vita a studenti che in genere non amano la storia, i ragazzi si incantano, rapiti da una loro lontana coetanea che, nel ‘36, quando s´apre lo scontro mortale col nazifascismo, a soli 19 anni, attraversa l´Oceano e accorre con la famiglia in Spagna al fianco dei repubblicani. L´ascoltano ammirati come se ancora leggesse i comunicati di “Radio Spagna Libera”, la famosa emittente di Barcellona creata dal padre per il governo Negrin: Ada è la voce della Spagna aggredita che giunge nelle case degli italiani e scatena l´ira impotente di Mussolini. «Non vinceremo subito, ha ammonito Rosselli, ma vinceremo», e lei ripete la sfida, sorprende il regime e, sotto le bombe sganciate dai Fiat Br20 su città inermi, denuncia la furia omicida degli aggressori e affida alla storia le ragioni della democrazia. Un racconto che ha per gli studenti il fascino dell´epopea e il valore inestimabile d´una testimonianza sulla dimensione etica dell´agire politico, smarrita nell´opulenza malata del consumismo.

Evasa dal “secolo breve“, Ada Grossi vive qui tra noi la sua ultima stagione, in una città senza memoria, in un paese in cui il degrado della vita pubblica apre spazi a una equiparazione tra fascismo e antifascismo che può realizzarsi solo colpendo al cuore l´ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò. Se la incontri, non è più la ragazza “castagna di capelli o quasi bionda, occhi celesti chiari, carnagione colorita e una ben timbrata voce di soprano lirico” che il padre descrive in una lettera bloccata dalla polizia. A novant´anni, è una vecchia signora dagli occhi celesti e profondi che si emoziona se si trova davanti le carte conservate nel suo fascicolo dalla polizia fascista, di cui non conosceva nemmeno l´esistenza. «E´ incredibile, ci sorvegliavano proprio attentamente, passo dopo passo!», esclama meravigliata, mentre si trova tra le mani momenti di vita che il regime le rubò: lettere mai lette e un giornale argentino in lingua italiana che narra “l´odissea di Carmine Cesare Grossi e della sua famiglia finiti nei campi di concentramento”. «Gours, Argelés-sur-Mer – ricorda Ada – . Non è facile descrivere la tragedia dei combattenti internati in Francia dopo la fuga disperata verso i Pirenei. Camminammo a piedi per giorni, braccati dai caccia che ci mitragliavano». Un velo di tristezza, poi la donna sorride per l´involontario elogio di un questore che, nell´aprile del ‘37, scrivendo da Napoli a Mussolini, ammette che «a causa della velenosa propaganda comunista di Barcellona, s´è avuto un certo risveglio di elementi locali noti per i loro precedenti politici e subito arrestati». Per metterla a tacere, si impiantò persino “una stazione disturbatrice presso la Prefettura“. «Filo da torcere gliene abbiamo dato», sottolinea Ada compiaciuta, mentre “corregge” il questore: «La radio, però, non era comunista. Eravamo socialisti. Mio padre scriveva i testi, io leggevo e la gente ci seguiva. Quando giunsero a Barcellona, gli stalinisti italiani ci estromisero proprio perché eravamo socialisti». Il verbale di un interrogatorio subìto dalla madre in Questura, a Napoli, nel ‘41 la commuove e si abbandona ai ricordi: la famiglia dispersa in veri e propri lager, la fame, la sete, le baracche di lamiera gelide d´inverno e roventi d´estate, il matrimonio con un repubblicano spagnolo celebrato «nel campo di Argelés con un permesso speciale», la guerra, l´armistizio con la Francia e un nuovo calvario: «io tornai in Spagna con mio marito, racconta Ada, e coi falangisti fu dura. Papà fu confinato a Ventotene, mamma e mio fratello Aurelio a Melfi. Renato, l´altro mio fratello, depresso per la sconfitta e gli stenti, finì in manicomio, distrutto dagli elettrochoc».

E´ un mondo che emerge. I fratelli al fronte con le truppe repubblicane, lei che cura con la madre i malati nell´infermeria del campo – «mancavano le medicine, ricorda, e si moriva per nulla» – , la madre, «compagna inseparabile, che condivise gli ideali del marito e affrontò ogni avversità con animo sereno», il padre che «privato dei clienti, malmenati dai fascisti, e sorvegliato a vista, tenne nello studio fino all´ultimo, in bella mostra, un ritratto di Matteotti e sfuggì agli squadristi solo perché un cocchiere lo prese al volo sulla sua carrozzella». Se parla della Spagna, il primo pensiero di Ada è per Garcia Lorca, «barbaramente torturato e ucciso perché omosessuale». E torna in mente Machado: «Cadde morto Federico/sangue alla fronte e piombo alle viscere / Sappiate che fu a Granada il delitto / Povera Granada!». La “sua” Spagna però non è solo ferocia. Rivivono, nelle sue parole, lampi della libertà che ha respirato e difeso, l´entusiasmo dei volontari, la fuga da Barcellona mentre i falangisti entrano in città dal Montjuic. «Perdemmo tutto, anche i libri ai quali mio padre teneva moltissimo». Il bilancio è pesante: Aurelio ferito a un occhio, Renato morto in manicomio e case, terre, tutto perso per sempre. Caduto il fascismo e tornati liberi a Napoli, dove non c´è chi non accampi meriti, i Grossi si fanno da parte. «Il regime aveva radiato mio padre dall´albo e lui, ricorda la figlia, per tornare avvocato, dovette ricorrere in tribunale. Mancavamo di tutto, ma non c´era nulla da chiedere: avevamo fatto solo quello che era giusto». E ripete orgogliosa: «Noi eravamo socialisti. Al governo però ci andarono i democristiani, i fascisti rimasero ai loro posti e oggi – conclude amara – ci sono Fini e Berlusconi. Noi, però, abbiamo vissuto secondo i nostri ideali». Ada vive a Napoli con Aurelio in una casa popolare e paga l´affitto grazie a una modesta pensione spagnola. L´Italia non sa che esiste, lei non chiede che sappia e mi perdonerà se lo scrivo: ha fatto più di quel che doveva. Marx non ha torto, non si può giudicare un´epoca in base alla coscienza che essa ha di se stessa e non sbaglia Vilar: il racconto è la forma naturale con cui l´uomo prende coscienza del tempo. Bene. Ada ha raccontato il suo “passato contemporaneo”. La repubblica che ha contribuito a far nascere, e che medita di cambiare se stessa, non sbagli due volte, non la consegni all´archivio senza averla ascoltata. La storia prima o poi presenta il conto.

Uscito su “La Repubblica” ediz. Napoli, 04 febbraio 2008 e su “Fuoriregistro” il 5 febbraio 2008.

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Un tempo carnevale era il cosmopolitismo e la partecipazione collettiva del mondo greco ai riti per Dioniso, o il gioco orgiastico dei Saturnali latini che simulava la sovversione dell’ordine sociale. Il punto politico, però, era chiaro: il carattere rituale della festa cancellava la connotazione di “classe” e – lo sapevano tutti – piuttosto che aprire, carnevale chiudeva lo scontro sociale. Di bello ci rimane il gioco delle parti, l’illusione dell’emancipazione dalle regole e del ribaltamento di ruoli e gerarchie. Una “finzione felice” che dissolve il potere nella caricatura, come voleva l’antica, feroce saggezza d’una società piramidale e classista, fondata sul sangue e sul censo, che concedeva divertita agli emarginati l’effimero e innocuo piacere del cambiamento.

Lontani dal significato reale di quello che va in scena, noi ci divertiamo: Venezia mostra dame mascherate, lustrini e cicisbei vanesi con parrucche incipriate, Acireale muove i suoi carri di cartapesta e cartone romano, coi fiori, le luci e la forza dell’acqua che dà il movimento, Tricarico se la gode con le antichissime “scaramucce” tra le maschere variopinte dei tori e delle mucche. Da un po’ il carnevale, a Napoli, lo fanno le “occupazioni” dei “bravi ragazzi fascisti” che odiano il SIM, lo “Stato Imperialista delle Multinazionali”, e senza saperlo, sposano così le tesi delle Brigate Rosse, attaccano la Charitas che, a sentirli, alimenta la guerra dei poveri favorendo gli immigrati, sognano l’autarchia e il ritorno alla geopolitica degli “anni Trenta”, con le “cannoniere” in rotta dal Mediterraneo all’Oceano Indiano.

E’ solo un carnevale, un garbuglio cristiano che ha radici pagane e natura quasi “animale”, però stiamo attenti a non ribaltare l’antica logica e a non assegnare alla caricatura il valore della realtà. I quattro gatti emersi dal buio del passato non sono la causa, ma la conseguenza di un problema e ci farebbe certamente male seguire la tentazione di sciogliere il nodo inscenando un contro-carnevale fatto di “bella ciao”, di antifascismo messo in campo nei giorni comandati e dello scontro coi celerini come rito sacrificale e mimo di un Saturnale; la sconfitta della sinistra è anzitutto culturale e non sarà una maschera a cambiare la realtà. Se ancora sappiamo leggere e far di conto, su un dato possiamo convenire: dove si crea un vuoto di progettualità politica, là fatalmente s’infila chi un programma ce l’ha. Conta davvero poco se dietro la finzione del “fascismo del terzo millennio”, dietro un “sansepolcrismo” da rigattiere, si coglie il ghigno del “fascismo vero”, col razzismo, l’omofobia, il disprezzo per la donna e tutto il fango che ci va annegando. Napoli è un ideale banco di prova e una sede particolarmente adatta ad un laboratorio politico in cui sperimentare la nuova e più barbara concezione della vita che a tratti balena a livelli ben più alti di Casa Pound, che, per suo conto, vale quanto s’è visto dietro la maschera gettata a Piazza Navona. Una concezione della vita che trova consensi crescenti nella disgregazione sociale di cui le classi dirigenti, il governo col suo leader e parte dell’opposizione sono la naturale e logica espressione. Chi pensa di uscire dal tunnel senza una profonda riflessione politica, faccia pure a botte con la polizia, e saggi le forze in vista dell’assalto al manipolo fascista: le destre non attendono altro, mentre il veleno leghista e il virus del populismo infettano il corpo sociale e il vuoto politico prodotto dall’inerzia della sinistra, offre spazi impensati alla reazione. Nulla di meglio per alimentare l’offensiva battente che l’ala più retriva della borghesia ha sferrato da tempo per cancellare i valori dell’antifascismo e i diritti dei lavoratori. Una sinistra schiettamente alternativa avrebbe ben altro da mettere in campo ed è evidente: il rinascente fascismo uscirà battuto nel Paese solo se gli sapremo fare attorno la terra bruciata. O si parte dal basso e si torna a parlare alla gente, o non c’è dubbio: la partita è persa. E non basteranno gli slogan d’un antifascismo che non sia progetto politico e pratica collettiva quotidiana; non basterà correre a destra e a manca, ovunque nasca un’emergenza, per prendere “eroicamente” la manganellata di prammatica o la denuncia di rito. Certo, dietro tutto questo c’è lo sfascio della sinistra organizzata in partito, ma si vede anche – pesa terribilmente e occorre avere l’animo di dirlo – un contrasto sociale sclerotizzato e frantumato in mille rivoli, che non cerca la sintesi, non sa più riflettere sulle cause delle sconfitte, non si studia di saldare le diverse realtà di lotta che rappresentano i mille rovesci di un unico problema. C’è gente che apre la via, gente che stenta ma esiste, dai precari della scuola, a chi si batte per i “beni comuni”, ai lavoratori delle mille aziende “vaporizzate”; il fronte è forte ma spezzettato. Saldiamolo, lavoriamo per questo, e il neofascismo ripiegherà di corsa nelle fogne da cui è riemerso.

Carlo Rosselli, un antifascista che pose mano alle armi e pagò l’impegno e il coraggio con la vita, spezzata a tradimento da un pugnale fascista, ci ha insegnato che la retorica delle bandiere e degli slogan non serve a nulla. Lasciamo il suo carnevale a Casa Pound e costruiamo un percorso di lotta, parliamo alla gente dei problemi che vive e conosce e non ci sono dubbi, anche stavolta Rosselli avrà ragione: non vinceremo subito, ma vinceremo.

Uscito su “Fuoriregistro” il 2 ottobre del 2009 e su “Report On Line” il 3 ottobre 2009.

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L’autunno scorso, quando un’onda colorata di giovinezza ha invaso le strade del Paese e ha occupato scuole e università, rivoltandosi contro Berlusconi, buona parte dei sapienti professori se n’è stata a guardare e non ha colto al volo l’occasione per sostenere la protesta con la lezione sulla disuguaglianza appresa dalla rivoluzione francese e da Robespierre, che di tiranni s’intendeva: “hanno riconosciuto la sovranità della nazione, ma l’hanno cancellata. Non erano, per loro stessa ammissione, che mandatari del popolo e si sono trasformati in sovrani, cioè in despoti. Perché il dispotismo non è altro che l’usurpazione del potere sovrano” [1]. Qualcuno, preoccupato del suo orticello, qualche altro preso all’amo del “diritto allo studio” e suggestionato da un legalitarismo miope e pragmatico che copre spesso mille ingiustizie, i più intimiditi dal potere nascosto sotto etichette strumentali, generiche e onnicomprensive che uniscono o dividono a seconda che sia scirocco o tramontana e, quando cerchi di capire di che si tratti, ti lasciano in mano solo un pugno di mosche. Non mi fido di certe formule magiche costruite ad arte per confondere le idee – genitori, utenti, consumatori – prive di luce e consistenza. Mille volte meglio, come insegna un maestro, la parola “dura, affilata, che spezzi e ferisca“, che sappia “tagliare e colpire crudelmente come fa il chirurgo perché la maggior pietà del chirurgo è di non aver pietà“[2]. E, ateo come sono, voglio dirlo, prendendo ancora una volta in prestito le parole di un cattolico: odio quella “saggezza umana” che sa “rimandare la giustizia a più tardi, con la scusa che oggi è imprudenza“, la odio, come l’attitudine gesuitica alla menzogna, perché essa è ben più profondamente atea che lo sbuzzar preti e profanare chiese“[3].

Ci siamo divisi, mentre i nostri ragazzi, con improvvisa e sorprendente lucidità, chiamavano a raccolta; abbiamo “fatto lezione” come impone un “ordine costituito” anche quando si presenta come disordine morale e smantella la Repubblica in nome di mal dissimulati interessi di parte. Lo sciopero, che i nostri nonni scelsero come strumento della lotta di classe per evitare di ricorrere a ben altre armi, è stato attaccato e non abbiamo incrociato le braccia a tempo indeterminato. Abbiamo consentito che si cancellasse il diritto al lavoro dei precari, che si consegnasse al boia gente che ha bussato alla nostra porta per chiedere aiuto e non abbiamo messo a soqquadro il Paese. La scuola è ferita a morte e in nome di un agghiacciante “diritto del sangue” che ci sprofonda negli anni bui del razzismo, sorgono ovunque campi di concentramento. Che aspettiamo a dire basta?

Abbiamo sbagliato. Bisognava stare con loro, con i nostri ragazzi e occupare assieme le scuole e le università. Bisognava stare con loro e aiutarli a capire che colpiscono le scuole perché vogliono distruggere l’uomo. “Distruggerlo di dentro. E per distruggerlo da dentro basta una cosa sola: tenerlo sotto il segno del terrore” [4].

Siamo di fronte a quelli che Carlo Rosselli definì “abissi insondabili” che si aprono tra governati e governanti anche quando la maggioranza dei governati sembra stare dalla parte di chi governa. Abissi “che si riveleranno […] all’improvviso per vie imprevedibili” [5]. E’ “ proprio della dittatura la soppressione dell’opinione pubblica” egli proseguiva. Il corpo sociale, infatti, perde così “ogni autonomia di movimento; è come un corpo senza nervi nel quale la tirannia affonda cento volte il bisturi senza provocare reazioni” [6].

Ognuno valuti in che misura tutto questo ci possa riguardare. In quanto a me, che insegno storia, ricorderò ai miei studenti quanto ho appreso da don Milani: “se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura” [7]. Con coscienza serena, spiegherò poi che Bruto e Cassio agirono per legittima difesa: Cesare aveva in animo di uccidere la Repubblica.

Note

1) Maximilien Robespierre, Dei mali e delle risorse dello Stato, 29 luglio 1792, in Oeuvres Complétes,Tomo VIII, Discours, (troisième partie: Octobre 1791-Septembre 1792), a cura di Marc Bouloiseau, George Lefebvre, Albert Soboul, Presse Univeritaires de France, Paris, 1954, riportato in Marco Armando (a cura di), Dizionario delle idee. La politica e la morale della Rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 30.
2) Lorenzo Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Mondadori, Milano, 1970, riportato in Don Milani. Ideario, a cura Maria Laura Ognibene e Carlo Galeotti, Eretica Stampa Alternativa, Viterbo, 2007, p. 57.
3) Idem, I care ancora, a cura di Giorgio Pecorini, Città di Castello, Emi, 2001, riportato da Don Milani. Ideario, cit., p. 38
4) Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, ivi., p. 14.
5) Carlo Rosselli, La battaglia non si risolverà in commedia, “Giustizia e Libertà”, 13-7-1934, riportato da Carlo Rosselli, Scritti Politici a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnara, Guida, Napoli, 1988, p. 287-290.
6) Ivi.
7) Lorenzo Milani, Lettere…, cit. riportato in Don Milani Ideario, cit., p. 39.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 maggio 2009

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