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Posts Tagged ‘Fioroni’

“Non ho fatto nulla per peggiorare la situazione dei precari nella scuola” ha dichiarato Profumo, respingendo l’accusa di aver cancellato le loro speranze, .che gli ha rivolto il prof. Carmine Cerbera prima di togliersi la vita. I casi sono due: o il ministro soffre di amnesia e non ricorda la disperata rabbia dei precari che a settembre, accampati davanti al Ministero, invano gli chiesero udienza, per convincerlo a non cancellare le graduatorie permanenti, o il concorso l’ha voluto a sua insaputa il Direttore Generale Luciano Chiappetta.

Aveva ragione Don Milani: “La politica è orribile quando chi la fa crede d’essere dispensato dal sentir bruciare i bisogni immediati di quelli cui l’effetto della politica non è arrivato” e non c’è dubbio: il dramma di Cerbera è figlio di un clima di arroganza, persecuzioni e disprezzo per il corpo docente che non ha precedenti nella nostra storia. Per un anno, incurante dei costi umani delle sue scelte, il ministro ha fatto della pretesa “necessità dei tagli” l’alibi per un vero e proprio massacro della scuola poi, d’un tratto, s’è messo a sperperare i soldi dei contribuenti con un concorso inutile, iniquo e fuorilegge. Senza godere del voto di un solo elettore, scialbo, incompetente e autoritario, Profumo ha sbandierato il mussoliniano binomio “carota – bastone” ed è diventato ad un tempo il peggior ministro dell’Istruzione e il carnefice delle giuste speranze dei lavoratori della scuola. E’ un primato cinicamente voluto e ampiamente meritato: passeranno alla storia la farsa del “referendum” sul valore legale del titolo di studio, il crescente sovraffollamento delle classi, l’inaudito attacco al diritto allo studio, ai disabili, al tempo pieno, il polverone delle “24 ore” levato ad arte per coprire la privatizzazione ormai quasi approvata e il progetto di annientamento degli insegnanti precari.

Si chiude oggi un cerchio aperto molti anni fa e basta percorrere a volo radente le tappe del calvario di studenti e lavoratori della scuola, per capire che il “ministro tecnico” è giunto al capezzale della scuola agonizzante dopo provvedimenti inqualificabili. E’ del 15 marzo 1997 la legge 59 che trattò la scuola come una qualunque attività produttiva e decretò la fine di numerose istituzioni scolastiche in base a indecenti parametri numerici. Da quel momento, serva o no al territorio in cui opera, una scuola muore se non ha “una popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni“. Per gli istituti “sottodimensionati” è stata “pena capitale” e di lì sono nate feroci unificazioni orizzontali tra scuole dello stesso grado esistenti in ambito territoriale e accorpamenti verticali in istituti “comprensivi” che, fu promesso, avrebbero rispettato esigenze educative e progettualità del territorio. Mentre un’autonomia pezzente apriva la via alla fuga verso il “privato” e iniziava lo stillicidio dei posti perduti, nelle zone “a rischio” la criminalità organizzata ringraziava per l’inatteso regalo: la scuola sbaraccava là dove più necessaria appariva la sua presenza. Per usare il linguaggio aziendale caro a Profumo e soci, tra miseri risparmi e crollo della qualità, il rosso in bilancio sul piano etico ebbe così un’irresistibile impennata.

In una sorta di “cupio dissolvi“, tra giugno e luglio del 1998 seguirono a ruota il regolamento che perfezionò il dimensionamento e il Decreto 331 che sconvolse la già disastrata rete scolastica e le regole per la formazione delle classi e degli organici. In nome del dio del risparmio e in base ai soliti parametri quantitativi, si unificarono istituti di diverso ordine o tipo, si cancellarono sezioni staccate e plessi, si proibì di costituire una classe quando le iscrizioni previste erano meno di 30. Il numero degli alunni per classe, anche in presenza di portatori di handicap, violò così ogni norma di sicurezza in scuole da sempre malconce. Cancellate senza ritegno classi su classi e lasciati i docenti senza lavoro, gli studenti, ridotti a carne da macello, furono sparpagliati nelle “scuole viciniori” e in quanto alle “eventuali iscrizioni in eccedenza“, si pensò bene di dividerle tra “le sezioni della stessa scuola“. A parole si mise l’alt sul limite estremo di “28 unità per sezione“, ma il confine fu poi violato e saltò persino l’impegno di escludere dalla spartizione le sezioni con alunni in situazione di handicap, che subito giunsero a 25 ragazzi stipati in classi per lo più inadeguate e fatiscenti.

Bisogna far quadrare i conti, non ci sono soldi“, fu il ritornello, ma per le private di quattini ce ne furono sempre. Agli studenti ormai non badava nessuno e nelle scuole cominciarono a “sparire” i docenti. Sulla via dell’aziendalizzazione, l’8 marzo 1999 il DPR 275 inserì nel linguaggio comune la “domanda delle famiglie“, cui la scuola finì col soggiacere, confezionando la sua “offerta” ai fini di un ambiguo “successo“. Il calcolo dei “crediti” giunse a coprire il rischio dell’analfabetismo e nacquero attività di ogni tipo, dalla concorrenza sul mercatino delle pulci, alla “giornata del cuore”. In un tripudio di scuole parificate, legalmente riconosciute e pareggiate, tutte a carico dello Stato alla faccia dei famosi “risparmi”, ai giovani docenti esclusi e in difficoltà si offrì lavoro sottopagato e spesso gratuito in cambio di “punti” per un’assunzione che non sarebbe mai venuta. In quanto alle famiglie, le più abbienti trovarono una vasta gamma di diplomifici pagati coi soldi dello Stato. Il valore legale dei titoli di studio non fu toccato, ma fece fortuna il mercato dei “crediti”. Era iniziata l’età dell’oro delle convenzioni con università private, enti e agenzie sorte come fossero funghi, per dare il loro “ineludibile apporto” alla realizzazione delle più stravaganti aspirazioni. La bandiera della “qualità” annunciò il mito del merito, a cui, nella pratica quotidiana, diede, in realtà il colpo di grazia la riduzione in servitù dei supplenti, persi nel gioco al massacro di assunzioni a cottimo e licenziamenti, e dei docenti appartenenti a classi di concorso che presentavano esuberi di personale, i “soprannumerari“, costretti a corsi di riconversione professionale, pena il licenziamento.
Aperta la breccia e trasformati i presidi in riluttanti o complici “dirigenti”, nel mirino entrò presto la dignità dei lavoratori.

Chi andasse a cercare oggi nomi e partiti, troverebbe schieramenti variopinti: Scalfaro, Berlinguer, Prodi, Flick. Centrosinistra per lo più. Gli ingenui stupiranno, ma è un dato storico: dove si ferma la destra, perché occorrerebbe la forza, ecco in soccorso l’inganno della sedicente “sinistra riformista”.
Profumo è ultimo dopo Moratti, Fioroni e Gelmini, ma molto ci ha messo del suo, ispirandosi al modello Marchionne e creando un clima di irresponsabile e crescente insicurezza. Nessuno come lui ha cancellato diritti acquisiti nel corso di una vita in nome di un becero giovanilismo ed è chiaro che non lo sa: chi ha ragione non invecchia. E’ stata la precarietà condotta alle estreme conseguenze la molla che ha indotto Carmine Cerbera al suicidio, questo è certo, ma non meno certo è che a togliere ogni certezza ai docenti precari è stato Profumo. Farfugli se vuole la sua impossibile difesa, il ministro. Uno più uno fa due e le conclusioni può tirarle chiunque. 

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 novembre 2012

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L’immagine dell’Italia giunta dalla Germania è un film-denuncia che dalle nostre parti non ha superato la censura. Da noi l’informazione, serva o prezzolata, tratta i tedeschi come se avesse a che fare coi nazisti della «società del crollo» nell’«ora zero», sguazza nella polemica, evoca lo spettro della “Grande Germania” e in casa nostra non guarda. Ci voleva perciò un Parlamento straniero per ricordare a un popolo di senzastoria che il 25 aprile seguì la Resistenza e si concluse a Piazzale Loreto. Se Berlusconi fu un Mussolini, anche un cieco lo vede: è lì dov’era e tiene in piedi questo governo di pedagogisti che nessuno ha eletto, ma apertamente dichiarano di voler educare il Parlamento, in nome di un decisionismo tecnocratico che fa carta straccia della Costituzione. C’è un arbitro è vero, Napolitano, ma è distratto. Dopo aver “preso a cuore” i guai di un ex ministro, accusato di falsa testimonianza, è intervenuto impropriamente su temi di stretta competenza del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, andando ben oltre i suoi poteri, poi, forte del silenzio del Parlamento, ha scatenato un putiferio contro magistrati che rischiano la pelle in trincea combattendo la mafia e s’è concentrato su una speciosa difesa delle sue prerogative.
In questo clima, Monti, uscito allo scoperto, sostiene che ha il dovere di salvare l’Italia e perciò deve anzitutto educare il Parlamento. Da qui, da quest’dea ossessiva d’una funzione pedagogica e didattica dell’azione di governo, i guai che toccano alla scuola. I tecnici, infatti, che stupidi non sono, sanno che per centrare in pieno l’obiettivo, educare e se necessario privatizzare il Parlamento, bisogna disarticolare le strutture che educano il cittadino. Scuola e università in altre parole, sono il vero macigno da rimuovere, poi la strada sarà tutta in discesa.
Si spiegano così le tappe forzate di un’aziendalizzazione del mondo della formazione, che parte dalla scuola e mira all’università. E’ vero, qualcuno in modo flebile e tardivo prova a resistere ma, tutto è abilmente coperto dal taglio ai diritti contrabbandato per riforme, dal polverone levato ad arte attorno a micidiali manovre, imbellettate d’inglese à la page e presentate come spending review. Nel silenzio delle Camere che mostrano ormai segni di assuefazione alla pedagogia di Monti, la proposta Aprea, tenuta in serbo dopo mille bufere, nei convulsi passaggi Prodi-Berlusconi Monti, è giunta con Profumo in vista del traguardo. Mentre l’accademia s’attarda in calcoli di bottega e a un fronte comune con la scuola ci pensano in pochi, i colpi partono duri come mazzate e vanno tutti a segno. L’aumento delle contribuzioni studentesche, manda in soffitta il diritto allo studio e mette alla porta i figli della povera gente per farne – nella migliore delle ipotesi – lavoratori rasseganti e docile bestiame votante. In quanto alla scuola statale, prima è diventata genericamente pubblica, poi è stata tramortita dall’autonomia squattrinata e dal “privato paritario” di Berlinguer. Il resto l’hanno fatto la crociata della Moratti per spostare risorse dello Stato al privato e il “giravite” sabotatore del cattolico Fioroni. Contro la Gelmini la battaglia campale l’hanno data da soli gli studenti; i docenti erano a casa, la società civile alle prese con l’immancabile colpo di sonno dei momenti decisivi e a chi diceva che, fabbrica o scuola, la guerra è proprio la stessa, s’è dato del demente. Ormai la logica di mercato portata nelle scuola e l’educazione alla democrazia che Monti propone agli scandalizzati tedeschi hanno davanti un’autostrada.
Ne abbiamo viste tante: il maestro unico e prevalente, il tempo scuola confuso col tempo pieno, il dirigente scolastico che non sa di scuola ma è bravo perché batte la concorrenza vendendo fumo, ma stavolta siamo al dunque e non serve nemmeno la foglia di fico dell’«Europa che ce lo chiede». L’Europa, anzi, ci mette in guardia: l’Italia ha un grave problema di democrazia. Però pare tardi.
Ora che l’autonomia è ridotta all’autogoverno della miseria materiale e dell’indigenza culturale e l’inevitabile crisi del sistema formativo agevola processi di disgregazione, indebolendo la tenuta democratica della repubblica, ora si ufficializza un’aziendalizzazione pensata ben prima della crisi, che non ha cause economiche e mira a colpire la scuola come presidio di democrazia. E’ per questo che si svuotano di contenuti la facoltà d’intervento concreto di docenti e studenti nella vita delle istituzioni scolastiche, per questo che si ragiona di governance garantendo poteri straordinari ai dirigenti scolastici, con l’apporto di privati e sponsor, di fronte a corpi docenti frantumanti, divisi in fasce e spinti alla solita guerra tra morti di fame: io ti “valuto”, tu ci perdi. Diventata azienda, la scuola garantirà la linea “educativa” della “proprietà”. Come accade in tutte le aziende degne di questo nome.
Il risparmio, insomma, si fa sui diritti e passerà: in questo contesto nasce storicamente ogni tragedia politica. L’esito sarà violento? Impossibile dirlo, però m’hanno colpito le parole d’un libro che ho appena recensito: “la violenza è già in campo. E’ quella di un sistema economico e politico colluso, la violenza di strutture che si muovono sul piano mediatico e non sulla realtà quotidiana, la violenza delle rivendicazioni del singolo individuo a discapito della collettività, uno contro tutti, tutti contro uno, tutti contro tutti”*.

* AA.VV., Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Derive e Approdi, Roma.

Uscito su “Fuoriregistro” il 7 agosto 2012 e sul “Manifesto”, col titolo Italia di incapaci, Monti pedagogista, l’11 settembre 2012

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Immagino che la sera spegnerebbe il televisore con un moto di ripulsa sconfortata, subito dopo i titoli del Tg3, nella penombra del suo studio che non ho più rivisto. La sera ci sorprendeva inattesa, come accade di questi tempi, quando il sole d’un tratto si inclina veloce all’orizzonte, per sparire in un preludio di autunno che il caldo micidiale non potrà fermare. Non so che direbbe e, per quanto profonda, non c’è amicizia che consenta di dare la parola a chi non c’è più. Di “libera stampa“, Arfè s’intendeva come pochi e di cialtroni che vendono fumo la sera tra pubblico e privato non si stupiva più. E’ singolare, diceva, l’ambigua passione per i dettagli e il disinteresse voluto per i problemi concreti. E come dargli torto, se in questo disastrato settembre di borse crollate e di vite tagliate, la prima pagina, parlando di scuola, è toccata all’abbraccio tra Lupi e Gelmini? Vera o presunta, la “storica pace”, dopo gli scontri estivi, ha tenuto il campo e “fatto ombra” all’agonia reale della scuola. Il problema di chi ci governa non è, come sarebbe lecito aspettarsi, il crollo verticale degli investimenti che si somma al taglio indiscriminato di risorse per l’ordinario e ai milioni di euro dirottati dal pubblico al privato. Lupi, portavoce degli interessi oscuri di Comunione e Liberazione ce l’ha con Gelmini non perché ha falcidiato gli organici e licenziato persino banchi, lavagne e cattedre. Ce l’ha, perché assume 66 mila precari. La smorfia disgustata di Arfè la conosco così bene, che mi pare di vederla e mi torna in mente chiaro il suo richiamo alla Costituzione. Il dio dei socialisti onesti l’ha risparmiato, chiamandolo a far compagnia al suo Turati, mentre il diritto al lavoro, garantito dalla Costituzione, tocca nervi scoperti dei ciellini e, a dar retta a Lupi e compagni, in futuro sarà difficile diventare docente per chi oggi comincia l’ università. Chi abbia torto o ragione tra i due ras lombardi, per la povera gente, non conta un bel nulla. Tutto quello che c’è dietro gli attacchi violenti, le liti, gli abbracci e i patti di pacificazione è che ormai si governa così, tra guerre per bande che mettono diritto contro diritto, generazione contro generazione, bianco contro nero, lavoratore contro disoccupato. Il Paese si sfascia, la casa crolla e la Costituzione è cartastraccia, con buona pace di Napolitano che si occupa di guerre e manovre finanziarie, qui ammonendo, là invadendo il campo, sempre, ovunque e comunque, ignorando il Parlamento e la sofferenza della povera gente.
Non ho dubbi. Uno storico del valore di Arfè lo vedrebbe lucidamente: sono vere tutt’e due le cose. E’ vero che i precari hanno diritto al lavoro, non meno vero è che ai giovani spetta un futuro. E’ vero e nessuno dovrebbe poter scegliere tra diritti contrapposti. I diritti sono vita per le democrazie. Negarne uno, in nome di un altro, significa ferire a morte la civile convivenza e la giustizia sociale. Nessuno potrebbe, ma lo fanno e non si trova una via per poterli fermare. Tutto questo accade perché dopo la bancarotta del socialismo, il delirio neoliberista che ha causato il disastro, fa la diagnosi e suggerisce le cure velenose che intossicano sempre più un Paese sofferente e sconcertato. La scuola, quella vera e concreta, quella che Arfè amava e ch’era stata la vita di suo padre, la scuola fatta di ragazzi, famiglie, personale docente e non docente, già prima di Gelmini e Tremonti, con Berlinguer, Moratti e Fioroni, ha vissuto di stenti. Quando è arrivata Gelmini a fare da curatore fallimentare, una scuola su due risultava costruita in zone a rischio sismico e fuori norma, un numero impressionante di edifici scolastici era privo di agibilità statica e spesso anche di documentazione igienico-sanitaria; introvabili risultavano gli attestati di prevenzione incendi. Sono poi venuti a mancare gesso per lavagne, sapone nei bagni, asciugamani usa e getta e carta igienica, difficile s’è fatto l’accesso alle cassette per il pronto soccorso e non serve proseguire. Ce n’era quanto bastava per temere il collasso che i dati Inail sugli incidenti del 2008 mostravano incombente: 92.060 infortuni occorsi ai ragazzi (+1,6% rispetto al 2007) e 13.879 ai docenti (+1,8 per cento).
Qui più o meno si fermava la conoscenza diretta del problema quando Arfè se n’è andato. Su questo mare di guai, cancellato ogni principio didattico per far spazio ai conti della spesa, si inseriscono le classi pollaio, in spregio di ogni legale rapporto tra aule e alunni e il sacrificio degli insegnanti precari grida invano vendetta. Mentre i ragazzi iniziano tra le proteste, Lupi e Gelmini non trovano di meglio che puntare all’ennesima guerra tra poveri, per vincere scontri di potere che con la scuola non c’entrano nulla. La Costituzione, diceva Arfè, sarebbe un baluardo, ma più il tempo passa, più si indebolisce. Di mio, ci aggiungo solo che forse basterebbe organizzarsi dal basso e cominciare a dire dei no. No, noi questo non lo faremo. Ripugna alla coscienza e non è legale. Quante volte, a lezione da grandi storici, ho ascoltata l’amara considerazione: questo è un Paese in cui, durante il fascismo, dell’intero corpo docente, all’università, solo in dodici rifiutarono di giurare per Mussolini. “Fortunato quel paese che non ha bisogno di eroi, ha scritto Brecht. Gaetano Arfè, maestro d’altri tempi che se n’è andato il 13 settembre di quattro anni fa, intuendo dove andavamo a parare e guardandomi con disperata compassione, lucidamente corresse: “Io direi: fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno“.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 settembre 2011

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Il prossimo anno scolastico in Molise mancheranno all’appello 600 studenti. Lo riconosce con disinteressato distacco Miur e lo conferma la Cgil, che rincara la dose: il calo è ben più grave, più di 2000 sono gli alunni “persi” negli ultimi anni. La faccenda non interessa nessuno: Viale Trastevere dorme, Gelmini, presa dalla crociata per la “terra santa”, s’è messa in adorazione del signore e il celebre giravite di Fioroni lavora per smontare il partito di Bersani, che attraversa come può lo scandalo delle primarie.
Il centro della vita politica ormai non è il Parlamento. Si vive di telefonate. Masi a Santoro per mettere in mora la libertà d’informazione, dio padre onnipotente a Gad Lerner per censurare i “postriboli” televisivi – da quale pulpito viene la predica! -, Emilio Fede per far la cresta sulla spesa e procurare prestiti d’onore a Lele Mora, la falsa nipote del dittatore Mubarak per gli inviti a cena a Villa Certosa, il Presidente del Consiglio alla Questura di Milano per risolvere il caso d’una sua amica minorenne accusata di furto e un eletto stuolo di fanciulle per il rituale passaggio dai riti di Dioniso all’impegno politico. Quanta parte del nostro ceto politico abbia imparato il mestiere negli ozi pompeiani della Villa dei Misteri, nelle periferie dei viados e nelle accoglienti camere da letto d’un apprendista tiranno, non è facile dire, ma non ci sono dubbi: i titoli per le “quote rosa” d’una battaglia tardo femminista li assicurano ormai gli audaci calendari delle modelle procaci, i casting di sculettanti ballerine di fila, le fotocamere di noti paparazzi e le ambite comparsate nel degrado televisivo. Dai banchi del governo, ai consigli regionali, il campionario dei “prodotti pregiati” è sotto gli occhi di tutti, ma lo scandalo che prende a schiaffi la nostra dignità non è fatto solo di alcove e festini. Scandalizza la miseria culturale e morale che esprime fatalmente il “Circo Barnum”, di travestiti della politica.
Il ministro Frattini, noto esportatore di democrazia all’italiana, s’è schierato col macellaio Mubarak contro un popolo in lotta per la libertà e il Parlamento non s’è levato in armi. Confortato dal successo dell’indecorosa sortita, l’imbarazzante ministro ha superato se stesso, portando al Senato i panni sporchi della sua famiglia. Meglio ha saputo fare, però, il degno compare Sacconi, arruolato da Marchionne nella lotta ai diritti e per un nuovo welfare, fondato sullo schiavismo auspicato dai padroni del vapore.
In questo clima, la repubblica delle escort va celebrando i funerali del sistema formativo. La riforma universitaria è appena entrata in vigore e già, coperta da scandali d’ogni genere, la polemica monta di nuovo. Gli studenti delle lauree triennali sono stati, infatti, esclusi dalle tesi di laurea sperimentali e dalla partecipazione ai progetti di ricerca. Non bastasse, gli scatti d’anzianità per i docenti sono stati bloccati e gli ultimi tre anni di servizio cancellati: c’è un “buco” di tre anni che forse non sarà possibile colmare. La pietra tombale la poggia sul feretro il rapporto del Comitato Nazionale per la valutazione del sistema universitario, che ci colloca tra gli ultimi Paese al mondo per investimenti pubblici nell’istruzione universitaria. A dar retta agli “esperti” del nostro evanescente Parlamento, la scuola è un’azienda decotta, coi conti in rosso. Una zavorra di cui liberarsi.
I toni sprezzanti, tipici dei regimi autoritari, rimandano direttamente alle sponde del Mediterraneo in fiamme, al Nordafrica e ai Balcani dove, studenti e professori in testa, le popolazioni, stanche di subire, si sono ribellate. La “legalità” non è sinonimo di giustizia e spesso è vero il contrario. Il 14 dicembre, a Roma, la frattura tra legalità e giustizia è apparsa così intollerabile che i giovani hanno assalito i palazzi del potere. I moralisti a pagamento hanno subito puntato il dito su “terroristi” e “cattivi maestri”, sicuri che chiacchiere di pennivendoli, specialisti della disinformazione e forze antisommossa bastino a imporre l’ingiustizia. Tunisi e il Cairo, però, stanno lì a dimostrare che non è vero. A lungo andare, la globalizzazione dello sfruttamento suscita sdegno, unisce le piazze e chiama alla rivolta.

Uscito su “Fuoriregitro” il 31 gennaio 2011. L’immagine è di Daniela Romano

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E’ uscito su “Fuoriregistro” tempo fa. Non è “fresco di stampa” ma potrebbe “rinfrescarci” la memoria. Nessuno la pronuncia più l’orribile parola: “bipartisan”. Pare non sia esistita e non trovi un cane disposto a riproporla. Eppure, fino a poco tempo fa, l’uso sfiorava l’abuso e c’era l’inflazione. Nel clima torbido da “resa dei conti”, tra congiure di palazzo, dossier e verità mediatiche, ognuno può presentarsi come meglio crede e molti sono i “vecchi” che si dicono “nuovi” e “duri” e “puri”… Andiamoci cauti, quantomeno. E vigiliamo. Il cenno sarà improprio, ma un senso ce l’ha. Il fascista Gaetano Azzariti, uno che fu Presidente del Tribunale della razza, scrisse con Togliatti la legge sull’epurazione dei suoi camerati e, dulcis in fundo, divenne poi Presidente della Corte Costituzionale! Quanti Azzariti si stanno sistemando tra padri e padrini della “Terza repubblica”? E c’è chi ricordi che i genitori “nobili” dell’ignobile lavoro della Gelmini sono stati tutti democraticissimi come Berlinguer e Fioroni. Dove sono? Che fanno? Non è che in tanta smania di “rinnovamento”, ce li ritroviamo di nuovo ministri?

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Le piaccia o meno, ministro Gelmini, a sentirla parlare è facile capirlo: lei s’è formata nella nostra scuola, ha respirato l’aria che abbiamo respirato, ha pregi e limiti dei nostri studenti e può capitare: lei sbaglia bersaglio. Dietro le sue ragioni, dietro la novità del maestro unico, la riscoperta delle miracolose virtù terapeutiche del grembiulino, dietro la favola della meritocrazia, non ci sono, come forse lei crede davvero, i quarant’anni che ci separano dal Sessantotto, ma i vent’anni che dalla sua adolescenza scivolano in malo modo sino a noi e ci precipitano addosso come una valanga.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, la ragione con cui spiega le sue ragioni le dà torto: non è stato il Sessantotto a rovinare la scuola, ma ciò che di oscuro gli si è contrapposto in un Paese che lei ha trovato libero nascendo e il governo di cui fa parte pensa di asservire.
Le piaccia o meno, ministro Gelmini, il progetto che intende realizzare non è suo. Lei chiude un cerchio aperto da altri negli anni della sua prima giovinezza. Dietro di lei ci sono l’autonomia scolastica e le mille deroghe alle norme un tempo vigenti in materia di contabilità dello Stato; dietro di lei ci sono le funzioni vitali dell’Amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione affidate a istituzioni scolastiche ferite a morte da quella feroce ristrutturazione aziendale che furono i “piani di dimensionamento“.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, dietro di lei, che forse non ricorda, ci sono la flessibilità, i criteri puramente aziendali di ottimizzazione delle risorse umane, la privatizzazione dei rapporti di lavoro, l’inflazione di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi, la subordinazione delle istanze formative a quelle della Confindustria e del mercato del lavoro, un bilancio che tiene più in conto i cannoni che le scuole, i capi d’Istituto svincolati dalla didattica, lo scempio delle risorse economiche trasferite dal pubblico al privato, la mortificazione retributiva e la precarizzazione del personale docente.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, lei giunge a governare istituzioni scolastiche brutalmente sacrificate a cieche ragioni di bilancio e poste di fronte a una feroce alternativa: sopravvivere, a danno della “concorrenza” in una lotta senza quartiere per la difesa dei “requisiti dimensionali“, o perire sull’altare del risanamento di una spesa pubblica che continua ad accollarsi i costi inaccettabili della politica e i debiti e le disfunzioni di un capitalismo straccione. Un capitalismo malato, tanto più avido e parassita, quanto più apparentemente vittorioso dopo il crollo del muro di Berlino e la bancarotta della sinistra passata armi e bagagli nel campo delle destre. Il suo campo, Ministro.

Le piaccia o no, dietro di lei, ministro Gelmini, ci sono l’effimero trionfo della legge del profitto e il mito dell’età dell’oro, che avrebbe dovuto segnare la vittoria del “bene borghese” sul “male socialista“.

Questa è la storia. E lei lo sa, la storia non finisce. Le piaccia o meno, la storia siamo noi.

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Dietro il fumo sollevato da Fini, che a Berlusconi una mano gliel’ha data più d’una volta in vent’anni, lo sfascio si vede chiaro. La scuola, per cominciare. C’è un mistero truccato da ministro – “il mio nome è nessuno”, diceva l’omerico Odisseo – che generosamente regala gemme di sapienza. Giorni fa, con l’aria di chi legge la bibbia, ha dichiarato: “Le riforme sono più importanti delle risorse”. Un esempio classico della celebrata “politica dei fatti”: per smantellare un Paese non occorrono capitali. Basta cambiar le regole, insistere sui luoghi comuni del merito e della responsabilità, cancellare il tempo pieno, ridurre il tempo scuola, ignorare le regole sulla sicurezza, imbavagliare gli insegnanti di ruolo, licenziare i cosiddetti “precari”, fucilare la sperimentazione dopo processi sommari al Sessantotto, et voilà, il gioco è fatto. Gioco al massacro, non ci sono dubbi, ma chi c’è nel Paese che stia sulle barricate coi precari? Che fanno i docenti di ruolo in attesa che venga il loro turno? Chi salda le lotte? Chi chiama la gente a raccolta? Feltri, Belpietro, Minzolini? “Repubblica”, che per anni ha sostenuto l’aziendalismo di Berlinguer e Fioroni e ha sparato a zero sulla storia e l’identità della sinistra e oggi è tentata dall’avventura col “compagno Fini”?    

La sola rivoluzione possibile pensa di farla la Lega e la minaccia Bossi, quando s’accorge che la storia boccia il suo “federalismo degli egoismi”. “Ci sono 10 milioni di persone pronte ad andare a Roma“, ripete a Pontida il tragicomico Alberto da Giussano, nell’inerzia complice del ministro dell’interno, Roberto Maroni cui – è incredibile – nessuno ha ancora chiesto di informare il Parlamento sulle iniziative prese dal suo dicastero: quali e quante  sono le perquisizioni effettuate nelle sedi leghiste? quali le indagini svolte, i provvedimenti presi, i fascicoli aperti, le ipotesi di reato inviate alla magistratura? Nulla. Maroni insegue emigranti nel Mediterraneo, costruisce campi di concentramento per incensurati e, mentre gli imprenditori sfidano impunemente le sentenze dei magistrati e i sindaci onesti cadono, ammazzati come cani, per strada, dal crimine organizzato, rilascia interviste deliranti sui suoi personali successi. Su Bossi e sulle minacce dei suoi camerati leghisti, mancia competente a chi scovi uno straccio di provvedimento adottato per difendere la Repubblica.

Gelmini, per tornare a Odisseo e all’omerico signor nessuno, dopo aver massacrato centinaia di migliaia di precari, dichiara serafica che sì, “È difficile fare previsioni”, ma nell’arco di 6-7 anni “c’è la ragionevole certezza che gli attuali 220mila precari saranno assorbiti dal sistema d’istruzione. Che resterà del sistema formativo nel nostro Paese di qui a sette anni, è difficile dire. Viene in mente Cartagine dopo il trionfo del catoniano “delenda est”: terra bruciata e cosparsa di sale. In attesa di sistemarsi nel deserto “assorbente” che Odisseo va costruendo, preziose intelligenze, risorse irrinunciabili di esperienza e professionalità saranno andate intanto smarrite per sempre.

Gelmini e soci hanno il vento il poppa. Un sistema di valori s’è sciolto come neve al sole e c’è una ripresa impetuosa dell’estremismo padronale. Storicamente questo fenomeno è stato sempre il preludio di inenarrabili tragedie. E’ certo, tuttavia. Anche nel buio della notte più profonda, il sole dell’alba sale all’orizzonte. Sorge, con questo sole ancor freddo e invisibile, una risposta coraggiosa che non sarà possibile piegare; si aguzzano ingegni, si vincono paure, ci si unisce, la saggezza dei vecchi rasserena il cuore dei giovani, che prestano braccia all’esperienza. Nasce la resistenza. E’ legge della storia. Vorrei esserci, quando le ragioni del diritto avranno la meglio sulla notte della ragione, ma lo scrivo a futura memoria: quando la vittoria verrà, dio ci  scampi dalla clemenza.

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Per la Gelmini, dopo la scuola, è il turno dell’università. Su una cosa concordano tutti, maggioranza e opposizione, e non fa meraviglia: “è necessario avvicinare il sistema formativo al mondo del lavoro“. Fosse una malattia, sarebbe un vero e proprio accanimento terapeutico. Dopo trent’anni di quest’idea malata, la scuola-azienda, cantata e decantata dai sostenitori del libero mercato come la panacea di tutti i mali, s’avvia a uno sfascio senza precedenti, ma Gelmini, il curatore fallimentare del nostro sistema formativo, non conosce altra terapia: ordine, concorrenza e produttività su scala industriale. Non è bastata nemmeno la crisi del capitalismo, il tracollo della Grecia, la bancarotta fraudolenta delle banche private americane, le ripetute richieste di ossigeno venute dal mercato alle casse dei singoli paesi. Nulla da fare. Scuola e università non hanno scampo e attraversano impotenti le forche caudine dell’economia borghese: più dirigenza, una governance sempre più autoritaria, pochi quattrini per soddisfare le richieste del mondo del lavoro e produrre asini rassegnati. Si va avanti così, tra l’imbarbarimento d’una società schiavizzata, la precarizzazione dei lavoratori, la mortificazione della ricerca, lo sprezzo per la didattica, l’odio per la sperimentazione e progetti che hanno fini e caratteristiche di pura razionalizzazione aziendale.
Sulla carta, l’autore della tragedia risulta la Gelmini, ma il disastro è tutto interno ai sedicenti intellettuali dell’accademia, fiori di serra nati, cresciuti e pasciuti in quella sorte di Circo Barnum che da qualche lustro la “sinistra di governo” continua a chiamare università. Sinistra, all’occorrenza, destra se, come ormai tutti sanno, per destra s’intende lo sfascismo cui la sinistra è approdata armi e bagagli dopo il classico percorso dell’opportunismo rosso borghese, quando l’operaismo, l’anarco-sindacalismo e le pose rivoluzionarie facevano carriera. Un percorso stupefacente, figlio della nobile tradizione del trasformismo italico – Padania compresa – che ha saputo produrre indifferentemente il comunista!? “ministro delle grandi riforme” Luigi Berlinguer, il salottiero Sofri, la cupa Lucia Annunziata e l’onniscienza di Israel; un percorso che ha visto socialista Galli della Loggia e sessantottini Mieli, Liguoro e Cofferati. Gente che oggi è tutta liberal e riformista.
Passo dopo passo, Gelmini dopo Fioroni, Fioroni dopo Moratti, e via così fino a Berlinguer, la scuola prima, l’università poi, sono state strangolate da un principio ideologico che trasforma il merito in risparmio, confonde i tagli con gli investimenti, produce precarietà e si chiama riforma: “battere in breccia gli ideali utopici e assembleari dei sessantottini“. Ne è nata una descolarizzazione confindustriale che ha trapiantato, nel regno della riflessione critica, la gerarchia delle aziende e del mercato in cui il merito si misura dall’aumento del prodotto lordo. Un ridicolo criterio quantitativo come misura di un’astrazione qualitativa e, ad un tempo, la sterilizzazione dell’intelligenza critica.
Gelmini finalmente può chiudere il cerchio e privatizzare. Tutto quanto di male si poteva fare alla scuola e all’università è stato già fatto. Ancora un poco e il ministro firmerà il certificato di morte.

Uscito su “Fuoriregistro” il 27 luglio 2010.

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Fu il miraggio di una collaborazione con le forze della sinistra “liberale” a suggerire a Turati la formula ambigua che affidò la soluzione dei problemi del Mezzogiorno a una “egemonia della parte più avanzata del Paese sulla più arretrata, non per opprimerla, anzi, per sollevarla e per emanciparla“. La scelta – una delle più infelici del riformismo di Turati – consolidò il fronte borghese e spaccò il movimento operaio a tutto vantaggio degli imprenditori. E’ una lezione da cui la sinistra non ha mai ricavato le conseguenze. Lo dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, le idee che sulla scuola circolano in rete. C’è ancora chi riduce il dramma della scuola alle politiche d’un trio famigerato – Moratti/Fioroni/Gelmini – e s’illude che mentre il Sud sia spettatore passivo, il Nord “resistente“, stia salvando il millennio di storia cancellato dalla Moratti, il programma di Geografia che copre il globo terracqueo e l’esame di quinta, trasformato giuridicamente in progetto di fine anno. Può darsi che sia vero. Perché non crederci? Può darsi che non si tratti, com’è costume italico, di quelle che Mazzini chiamava “le passioncelle locali“, le diffidenze e gli interessi particolari. Crediamoci. Nel Lombardo-Veneto leghista, nel Regno di Sardegna e in qualche granducato tosco-emiliano avanguardie di docenti illuminati hanno recuperato i mille anni di storia che si son persi invece fatalmente nelle terre dei “lazzari, che, ci credereste?, della protesta con i rotoli di carta igienica non sanno nulla e, se sanno, non sono convinti. Terre barbare, in cui, negli anni eroici dell’unità, i “cafoni” massacravano Pisacane e il poeta scriveva: “Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti“. Terre sventurate, in cui il genovese biondo e generale, tra fischi di pallottole e camicie rosse, gridava al colonnello eroico: “Bixio, qui si fa l’Italia o si muore!“. L’Italia di Garibaldi che, per farsi conoscere a dovere da chi ancora stentava a capire, mandò Bixio a Bronte e passò per le armi i braccianti malandrini, sanfedisti ed “eversivi“, pronti a occupar le terre dei padroni, che, guarda caso, erano invece amici dei garibaldini.
Può darsi che il millennio sia stato recuperato, ma nella foga si sono certamente smarriti i centocinquant’anni della “Questione meridionale” e siamo tornati ai tempi del ravennate Carlo Luigi Farini, luogotenente del re nelle terre del Sud e, di lì a poco, Presidente del Consiglio, che, nel dicembre 1860, dimenticata la “passione unitaria“, scriveva a Minghetti:

non ci sono cento unitarii in sette milioni di abitanti. Ne pur di liberali c’è da far nerbo. E Napoli è tutto: la provincia non ha popoli, ha mandrie: qualche barone o di titolo o di gleba le mena [ . .]. Or con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchian di numero nei parlamenti, se non stiamo bene uniti a settentrione“.

E’ difficile capire se nei fatidici mille anni siano compresi quelli più recenti, ma come tacerlo? E’ quantomeno singolare ridurre le responsabilità del dramma della scuola al trio Moratti, Fioroni, Gelmini, quando la loro “filosofia“, con buona pace dei filosofi, è già nelle note esplicative che accompagnano il testo del bilancio di previsione del 1980, e che Spadolini trasmise al ministero del Tesoro nel 1979: razionalizzazione nell’utilizzazione del personale, produttività della spesa per l’istruzione, diminuzione del costo economico.
Non occorrono intelligenze nordiche per capire che l’Italia s’è fatta senza rivoluzione, con patti scellerati tra padroni delle terre e padroni di manifatture, sicché da Nord a Sud non c’è chi possa chiamarsi fuori e dar lezioni. Insieme, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, studenti e lavoratori hanno dato battaglia. Bombe e attentati li hanno messi a tacere. La spinta al cambiamento s’è fermata e la caduta del muro di Berlino ha messo in discussione un equilibrio fragile e sempre più precario. Un equilibrio che s’è rotto quando a dettar le regole sono stati i mercati e l’Europa delle banche; quando i bilanci “europei“, senza migliorare il “prodotto scuola” e senza tirarci fuori da presunti disastri economici, sono bastati a indebolire le scarse potenzialità di un sistema formativo costretto a operare in condizioni di crescente isolamento. La scuola, oggi, è lo specchio di un Paese scosso dalle fondamenta, afflitto dal degrado del Mezzogiorno, dal fiorire dell’azienda-mafia che dilaga anche al Nord, dalla ripresa di antichi pregiudizi antimeridionalisti e dalla protesta leghista, che pone sul tappeto una pretesa differenza di cultura di razza fra gli abitanti delle diverse aree del Paese.
In queste condizioni, l’illusione delle “due scuole” è rovinosa e può solo consolidare il clima di contrapposizione che, per dirla con Santarelli, un grande storico troppo presto dimenticato, ha le sue radici nella “forza eversiva dei fatti: l’integrazione capitalistica euro-occidentale, il salto o i salti di qualità tecnologico-produttivi dell’economia settentrionale“. Non è un caso che il dibattito sulla scuola, si polarizzi sulla contrapposizione pubblico-privato, che diventa un’astrazione e rischia di farsi il riflesso d’uno specchio deformante. In realtà, ciò che in altri settori non è facile da cogliere, guardando alla scuola si fa molto più chiaro: l’attacco alla formazione ha ovunque la stessa pesantezza, ma l’effetto dei colpi non può essere uguale. Un dualismo ormai incancrenito rischia di produrre fratture micidiali. È la conseguenza estrema e, per molti versi prevedibile, d’un ritardo in cui gli aspetti “quantitativi” si risolvono ormai in un “gap qualitativo” che, nei fatti, segna una divaricazione non più rimediabile.
Non si può difendere la scuola dello Stato se non si coglie la molteplicità delle conseguenze “geografiche” che l’attacco produce, se si ignora il terreno sul quale ci si muove. Sarebbe un suicidio dimenticare che il sottosviluppo di alcune aree del Paese non è ormai più funzionale nemmeno allo sviluppo delle altre, ma alle logiche del profitto e alle esigenze del capitale. Ci sono oasi felici nel deserto meridionale e dune sabbiose nella verdeggiante piana padana. Non c’è una questione locale. C’è un sud del Nord e un nord del Mezzogiorno. Da decenni c’è una continuità nelle scelte politiche di fondo, soprattutto economiche, che non consente salvezza né alla società del Nord, che senza il Sud non può governare i ritmi velocissimi del cambiamento, né a quella del Sud, che senza il Nord non sa come fermare l’arretramento. Abbiamo di fronte un progetto scellerato che rischia di giungere a compimento. La diversità stessa della qualità della vita produce rinnovati squilibri. E questi, a loro volta, inevitabilmente approfondiscono quelli preesistenti. Per ora pagano le classi povere, pagano i lavoratori , pagano gli immigrati. Alla fine del percorso, come accadde col fascismo, pagherà il Paese nel suo insieme. In termini di civiltà.
Non due Italia e due scuole, quindi, ma una tragedia nazionale.

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Sono così, c’è poco da stupirsi. Vanno diritto dove li conduce l’ interesse di parte e fanno abilmente quello che crede di volere un paese ubriaco, che più lo prendi a schiaffi e più, riverente, s’inchina. “Un goccio ancora“, ripetono invitanti, e aspettano che crolli, perché lo sanno bene: più distruggi la scuola, più un Paese s’ubriaca. Più ubriaco è un Paese, meglio vive un regime.

Falchi rapaci e buoni falconieri, volano basso e, se minaccia tempesta, non assaltano il cielo per volare più in alto. Il rifugio è assicurato: ci pensa il silenzio complice d’una opposizione pronta a dare il cambio.
Non c’è medaglia che non abbia rovescio: ognuno ha il suo conflitto d’interesse, ognuno la sua tresca, ognuno il suo cliente per lo scambio.

Da ministro della pubblica Istruzione, per compiacere il papa, Fioroni si fece in quattro e finanziò la scuola privata, tagliando i viveri a quella pubblica; oggi, che sie de sui banchi dell’opposizione, trova indecente che il governo ignori l’obbligo scolastico per far piacere ad Emma Marcegaglia.

Sono così, c’è poco da sperare. Tutti fanno le pulci a Berlusconi, nemici o amici, ma è il gioco delle parti: comandano i padroni e il governo obbedisce. Berlusconi per sfuggire ai processi, i “nominati” per meritare il premio fedeltà.

Il commendator Cazzola, sindacalista ardito e poi pentito, svicolato lemme lemme dalla Cgil fino a Berlusconi, è amico dei socialisti Brunetta e Sacconi, passati a loro volta senza patemi da sinistra a destra. Da qualunque parti la prendi, questa è gente che ti porta difilato alla prima, “famigerata” Repubblica, gente che a vario titolo – e con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti – governa l’azienda Italia dagli anni lontani del vituperato socialismo di classe a quelli recenti del mercato e del profitto.

Uomini nuovi, com’è nuovo chi cambia idea quando gli torna utile cambiarla, Giuliano Cazzola, Renato Brunetta e Maurizio Sacconi s’intendono di scuola a meraviglia. L’ultimo colpo, in ordine di tempo, mentre il Paese naviga a vista tra prostitute, complotti e processi, è quello messo a segno giorni fa da Cazzola, spalleggiato validamente dai due amici: il lavoro a 15 anni con l’obbligo scolastico che termina a… 16 anni.

Miracoli di socialisti e sindacalisti pentiti, in questo tempo nuovo di “revival” del craxismo. Mentre i lavoratori licenziati diventano un esercito di disperati, il governo annuncia la buona novella: con un emendamento alla legge Finanziaria – l’unica ormai a occuparsi di scuola con un qualche interesse – l’obbligo di istruzione, che nacque tra l’altro per sottrarre al lavoro i minorenni, è soddisfatto anche se lo studente si mette a lavorare.

Si opporrebbero assieme il liberale Coppino e il socialista Turati, che si rivolta tomba, ma Sacconi, che non sa di che si parli, sostiene di aver ragione: senza nemmeno provare a capire perché 126.000 ragazzi italiani dai 14 ai 17 anni lavorano al nero invece di andare al scuola, il ministro taglia la testa al toro e si affida all’apprendistato professionalizzante. Lo sfruttamento minorile e la discriminazione di classe assumono così valenza didattica e valore culturale.

Da bravo socialista, benché sia un po’ confuso tra fannulloni e bamboccioni, Renato Brunetta si dice ovviamente d’accordo e Maria Stella Gelmini, che in tema di scuola, cultura e formazione non cede il campo nemmeno a Gentile, non ha dubbi: è “favorevole ad ogni iniziativa che permetta un rapido inserimento dei giovani nel mondo del lavoro […] e favorisca la transizione tra scuola e lavoro, consentendo così ai giovani di disporre delle competenze necessarie per trovare un’occupazione“.

E come contraddirla? Dalla scuola al Parlamento, dal Parlamento al Governo, nessun inserimento è mai stato più veloce e competente.

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clip_image001Succede a Napoli e, poiché ci vivo, non faccio fatica a capire: è l’incipit di un’offensiva destinata a durare. I neofascisti di “Casa Pound” occupano un vecchio monastero per farne un sedicente “centro sociale”. Grazie a Bassolino e soci, la sinistra s’è sciolta da tempo come neve al sole e, incontrastato, spira un vento fortissimo di destra. Com’è costume italico, i soliti “intellettuali” in cerca di “collocazione“, fanno sponda e aprono la breccia: “è necessario dialogare“, sostiene su “Repubblica” Marco Rossi Doria, seguendo il manuale del revisionismo e l’arte antica dei “gattopardi“. Il personaggio è noto, ma è bene ricordare: rivoluzionario ai tempi di Potop, poi “maestro di strada” a costi esorbitanti e risultato zero, sindaco mancato alla testa di un’insalata russa riunita sotto le bandiere d’una lista civica fatalmente “trasversale“, è passato dalla strada al palazzo col ministro Fioroni e ha contribuito allo smantellamento della scuola statale.
Il “dialogo” offerto dà frutti immediati. Forte di tanto appoggio, “Casa Pound si scatena. La prima, prevedibile risposta è un agguato squadrista a uno studente antifascista. Indignato, reagisco all’indecente proposta che legittima di fatto il neofascismo e falsifica la cronaca e la storia in nome di malintese e presunte ragioni d’una sedicente “cultura della democrazia“, chiedo un po’ di spazio a “Repubblica“, e denuncio la manovra.
Rossi Doria si tace, timoroso che addosso gli piombi una valanga. Il 9 ottobre, però, puntualmente ospitato da “Repubblica Napoli“, torna alla carica, inventandosi fantomatici centri sociali di destra, in una città inesistente, fatta solo di “esclusi” e di “protetti”, e così salta il fosso: il sindaco, scrive, faccia da mediatore tra i centri sociali. Finalmente le cose sono chiare: dopo i ragazzi di Salò, occorre benedire quelli di “Casa Pound“, nonostante la caccia ai gay e agli extracomunitari e i frequenti agguati agli studenti di sinistra.
Che dire? La partita non sarebbe chiusa, se “Repubblica”, eccessivamente timorosa di alimentare una polemica che molto impropriamente giudica personale, mi nega la facoltà di replicare. Non è certamente una censura, ma se penso alle recenti, sacrosante battaglie, mi domando se libertà di stampa, non sia anche diritto di replica e “par conditio“. Sia come sia, rimane in vita la minacciata libertà del web cui affido la replica destinata al giornale e una richiesta: chi condivide, faccia poi “girare“.

Il “dialogo” colpito a tradimento

La Napoli di Rossi Doria è una mela divisa in due. Un taglio netto e dai confini oscuri: di qua i protetti, dall’altra parte gli esclusi. Un po’ schematico, ma funzionale. A rigor di logica mancano i protettori e, se vuoi esser preciso, provi a capire chi è che va escludendo. Se ci pensi poi bene, una domanda non la puoi evitare: dove metti, in questo disegno lineare e semplice, una scuola aggredita come il “Margherita di Savoia“? In quale delle due città? E dove si colloca Francesco Traetta, un ragazzo mandato all’ospedale con una costola rotta, solo perché ha portato a scuola un partigiano? Chi è Francesco? Un “protetto, un “escluso o più semplicemente e drammaticamente l’idea stessa di “dialogo” ferita a tradimento nella città in cui Rossi Doria offre al fascismo la legittimità che la Costituzione gli nega?
Lo so. Siamo tutti contro il revisionismo e tutti democratici. Di democrazia si riempie la bocca chiunque ne ha bisogno per non sai quali scopi. Ne parla spesso persino Berlusconi. Difficile è capire come si fa ad essere davvero democratici e ancora più difficile saper dire verità impopolari, nel nome e per conto della democrazia. Se la smettessimo di fare delle parole un’arma impropria, per sostenere tesi avventate e demagogiche, se cercassimo soluzioni reali e leali a problemi nelle cui pieghe si cela l’agguato di Francesco, se la piantassimo finalmente di andare per la tangente e cercare l’applauso, diremmo che il ragazzo è una vittima e non ci sfiorerebbe nemmeno il pensiero che a dirlo si può spingere all’odio.
Se Francesco è una vittima, è chiaro che ci sono dei carnefici e non so per quale singolare follia dovremmo mettere insieme il giovane antifascista e chi l’ha massacrato. La dico tutta e fuori dai denti, perché mi pare chiaro che la questione riguardi, a questo punto, il senso stesso della convivenza civile. Con la storiella comoda e strumentale degli steccati da saltare, si fa di ogni erba un fascio e si protegge oggettivamente gente che predica da sempre la violenza. A me non importa da che parte venga e di che colore sia. Nella risibile società degli esclusi e dei protetti, il confine che separa chi colpisce da chi è colpito dev’essere visibile e ben definito. E non c’è dubbio, la domanda è una: per saltare non so bene quali suoi steccati, chi sosterrebbe a cuor leggero che, per risolvere il caso Saviano, il sindaco dovrebbe mettersi a un tavolo e fare da mediatore tra il giovane scrittore e i casalesi?
E torno a Napoli. Sempre più sventurata, devo dire. La guardo sconcertato, così come mi viene dipinta, e non la riconosco. Mi ci perdo. Una sola divisione: esclusi e protetti. I confini, tirati con la squadra e con la riga, sono incomprensibili e irreali, ma il quadro è suggestivo: due città che non si parlano e quasi non si conoscono. Ma quali città? E di che mondo parliamo? Se solo ti guardi attorno attentamente, il conto non ti torna. Nello stesso quartiere, nello stesso vicolo,Immag004 spesso nella stessa famiglia, c’è tutta la complessità della vita. La gente parla e non c’è mai silenzio. La gente si incontra, si scontra, tratta, contratta, si conosce e trova modo di riconoscersi. Non ci sono due città, esiste solo un insieme di diversità, un’articolata molteplicità e la realtà non è riconducibile a una sorta di inverosimile binomio. Napoli è una metropoli che si legge a “strati” e non puoi chiuderla nell’antico stereotipo della città borbonica quasi per vocazione. Certo, se la guardi in superficie, ci trovi l’eterno malcostume politico e il ricatto clientelare che invischiano tutti i ceti nell’ideologia subalterna d’un popolo quasi indifferenziato. Ma se ti fermi a guardare, se stai per strada e vivi tra la gente, scopri che la salute è sorprendente, ti accorgi che la vita pulsa, che le tensioni sociali non erompono più fatalmente in protesta plebea e non soffocano malamente in un rigurgito sanfedista. Se vai più a fondo, e devi saperci andare, immediato giunge l’impatto con la borghesia e, se vuoi capire Napoli, tu devi farci i conti. Non puoi fermarti a Viviani e nemmeno conoscere solo Eduardo De Filippo. Il mondo cambia e, se tu non lo vedi, inganni te stesso o, peggio ancora, stai ingannando gli altri. Dov’è questa nuova “Berlino” col suo muro e i protetti da un lato, gli esclusi dall’altro? A meno di non esser ciechi – questo forse è il problema – la città è un inestricabile intreccio. Assieme all’economia del vicolo e a nuclei di plebe, per i quali il tempo non passa, la maturità non giunge, la coscienza civile non si forma, trovi una borghesia articolata che guarda in alto, ma ha frange che si proletarizzano; trovi, se guardi, un proletariato che ha avuto una gran storia. Gente che ha ancora un’anima e resiste al richiamo del vicolo, portandosi dentro l’identità di classe, sebbene sia ormai perennemente terrorizzata dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione e appaia piegata sotto i colpi di un’offensiva padronale così disgregante, che non ha precedenti nella storia della repubblica. E non basta. Quanto di militanza giovanile non sanno più raccogliere i partiti storici dei lavoratori, vive nei centri sociali “rossi“. Solo in quelli, perché centri sociali la destra non ne ha. Quale che possa essere la parte politica, nessuno onestamente può negarlo: nonostante limiti e insufficienze, negli ultimi anni questi ragazzi hanno costruito forme di democrazia “dal basso” che meritano rispetto. Sono stati protagonisti di una battaglia coraggiosa, civilissima e non ancora del tutto conclusa, quando la città è diventata un’enorme e vergognosa discarica a cielo aperto e hanno marciato con padre Zanottelli002 6 febbraio 2009 Chiaiano Intervista a Zanottelli; svolgono ruoli attivi e propositivi nei “Comitati di quartiere” e nelle rare iniziative in cui la città mostra di essere ancora politicamente e socialmente viva. Chi li ha visti all’opera a Bagnoli, accanto a genitori, insegnanti e bambini in lotta per la scuola nella lunga ed esemplare vicenda del “Madonna Assunta“, chi li vede impegnati a fianco agli immigrati, chi ha la fortuna di stare con loro nelle assemblee universitarie e nelle manifestazioni in piazza, non può che togliersi il cappello. Ci sono limiti, errori e contraddizioni e sarebbe strano che non fosse così, ma c’è una passione civile che non è facile trovare.
La democrazia è partecipazione e Rossi Doria in piazza non si vede mai, ma lo ricordo negli anni della giovinezza, quando tutti eravamo autonomi e rivoluzionari. Il suo “potere” era allora tutto operaio. Non so di dove tragga fuori i suoi giudizi e i malaccorti e velenosi suggerimenti che regala al sindaco Iervolino. So che questo suo insistere nel paragonare i ragazzi dei centri sociali agli squadristi che hanno massacrato di botte Francesco Traetta, un loro compagno, uno di loro, non è solo una bestemmia. Somiglia molto a una sorta di provocazione, a qualcosa che sta la speranza e l’istigazione che mi auguro inconsapevole. Che si vuole davvero: evitare o scatenare la rissa? Protetti o esclusi: non sta in cielo né in terra. Tutto nasce semplicemente da una micidiale distorsione dei fatti? Può darsi. Ma questo è davvero il revisionismo. E sono sinceramente preoccupato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2009, su “Report on Line” il 13 ottobre 2009 e su “il Manifesto” il 15 ottobre 2009.

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