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Posts Tagged ‘meritocrazia’

Non una parola è mia. Ognuna della parole che seguono, tuttavia, ha un così forte senso di libertà, da trovare legittima cittadinanza nel mio blog. E’ una regola che violo molto raramente. Qui scrivo io. Questa è la regola, certo. Ma che senso ha una regola, se non c’è un’eccezione e se non è possibile violarla? Nessun senso. Ecco perché do la parola all’USI-AIT Educazione.

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A seguito dei numerosi attacchi alla riforma “La Buona Scuola” portati avanti da studenti e docenti, il Presidente del Consiglio Renzi non ha trovato di meglio da fare, se non allestire l’ennesimo show televisivo in cui lui, e non il Ministro dell’Istruzione Giannini, spiega, in uno scenario precostruito, i fini e gli obiettivi del suo governo in materia di istruzione.
renzibugieEbbene, Renzi può mettere in scena ciò che meglio crede, ma assolutamente non può far passare per riforma scolastica la “sua“: una riforma che non parla affatto di “didattica” e che assomiglia sempre di più ad un piano di organizzazione della forza lavoro. Nelle ultime sue dichiarazioni ha parlato di apertura e disponibilità al dialogo, ma ha puntato l’accento su un unico termine: valutazione. Approfondendo da un punto di vista più ampio la questione, si potrebbe dire che Renzi miri a tenere in piedi e rafforzare ulteriormente quei meccanismi di etichettatura che ruotano intorno all’ Istituto Nazionale di Valutazione. Dopo il boicottaggio delle Prove Nazionali Invalsi, infatti, ecco la forzatura politica che restituisce “dignità” ad un organo fortemente attaccato e ridicolizzato recentemente. La questione è la seguente. La scuola è ancora il luogo dove il mercato non ha trovato completa agibilità, quantomeno ideologica.
reNel momento in cui lo Stato ha da tempo rinunciato al suo ruolo politico delegando proprio al mercato i compiti propositivi e decisionali, la scuola è risultata essere un organo resistente, difficile da riempire e modificare a proprio piacimento. Il ruolo che lo stato si è riservato rispetto al mercato è quello di amministratore e di poliziotto. E quale compito svolge l’amministrazione zelante di una azienda se non quello di valutare, ovvero “attribuire valore e spendibilità“? Quali compiti svolge la polizia se non quello di far rientrare in un “utile” per lo Stato ogni attività umana, reprimendola in caso essa non corrisponda ai criteri di legge imposti dallo Stato stesso? Ecco cosa significa “valutare“: appiattire l’essere umano su criteri di mercato; stimolarlo attraverso la punizione e il premio. “Valutare” e “reprimere” sono, infatti, gli ultimi drammatici scampoli di rappresentazione attraverso cui lo stato si manifesta, attraverso i quali giustifica la propria esistenza. “Valutare e “reprimere” sono, infatti, questi gli ultimi principi fondanti della “governance“. “Valutare” e “reprimere” equivalgono quindi a governare, e “governare e sfruttare significano la stessa cosa” diceva a suo tempo Bakunin.
Agevolare lo sfruttamento, questo è il disegno di legge che si trova raffigurato dietro la lavagna di Renzi. Questo significheranno in realtà le parole propagandistiche del governo: alternanza Scuola/Lavoro; competitività; merito; ecc. Ecco dunque che la battaglia contro “La Buona Scuola” è una battaglia di tutti e tutte e non solo di insegnanti e studenti.
E NOI CHE COSA FACCIAMO?
re1Senza una vera, forte, corale risposta i governanti, guidati da poteri forti, riusciranno nel loro intento. Occorre rafforzare la mobilitazione permanente una delle poche forme che ha sinora funzionato nella storia dei popoli. Occupare le scuole, viverle della nostra presenza, adulti e piccoli esseri, liberarle con la nostra presenza in lezioni libertarie ad oltranza, cultura e scambio di idee, cibo, arti, il suono dei nostri sonni pieni di utopie, porterebbe di certo un cambio rivoluzionario. Sceglierle/adottarle come nostre case, collettive, comunitarie e lì praticare una politica libertaria altra che faccia vedere com’è bello farne parte. Una simile prospettiva è possibile ma abbiamo le forze dal basso per farlo? Forse cercandole in quei movimenti che da tempo praticano lotte di esistenza sui territori si potrebbe trovare nel mutuo soccorso e nella solidarietà una ulteriore spinta per andare avanti nella lotta che non è di rivendicazione di una lavoro ma rappresenta una presa di coscienza della grave minaccia che subiscono le vite di tutti e tutte se questo decreto entrerà effettivamente in vigore. Occorre cercare/tessere aiuto fuori dalle gabbie che il sistema ha districato per portare all’immobilismo di quanti invece fondamentalmente rifiutano questo stato di cose esistenti. L’immobilismo di oggi, a seguito dello sciopero del cinque maggio scorso, fortemente voluto dalla base dei lavoratori – cosa che ha costretto i grandi sindacati a mobilitarsi – è stato o meno un fallimento? In termini di numeri certamente no, in relazione agli effetti sortiti è stato un frustrante buco nell’acqua che ha mostrato, se ve ne fosse ancora bisogno, l’inadeguatezza di talune metodologie di lotta sindacale che non ci hanno mai convinto, non ci convinceranno mai. Dopo le trattative volute, non dal governo, ma dal PD i sindacati concertativi escono sconfitti dal tavolo mentre l’iter di discussione del DDL in parlamento procede spedito come un treno, Renzi dichiara che è pronto all’ascolto di tutti ma poi deciderà e deciderà, da solo, senza modificare di una virgola l’impianto della sedicente riforma. Intanto alcuni sindacati cominciano a prendere le distanze dalla lotta, si mostrano i primi segni del cedimento e, nel frattempo, si continua a perdere tempo, il fronte della lotta rischia di sfaldarsi, la sfiducia e l’impotenza potrebbero, in questo caso, giocare un ruolo fondamentale, anzi è probabilmente questo il vero obiettivo del governo: così si spiegano i beceri tentativi di mostrare qualche lieve apertura, come l’approvazione del ridicolo emendamento che vieta ai Dirigenti di assumere i familiari. Ad ogni modo si potrebbe concludere che non vi è nulla di nuovo sotto al sole, si continua ad assistere al vecchio pompieraggio sociale ma, in verità, qualcosa di nuovo si intravede, ovvero si pensi alla capacità di molti lavoratori e lavoratrici, studenti e studentesse di unirsi e lottare in maniera autorganizzata. Noi dell’USI-AIT Educazione, poiché sindacato che si ispira all’anarcosindacalismo che rifiuta la delega e i leaderismi, sosteniamo queste pratiche di lotta e le riteniamo le sole possibili. Occorre fare informazione e pressioni per disvelare gli inganni dei governi, ma anche per denunciare le manovrine di quelle realtà che si dicono a tutela dei lavoratori ma poi sono sempre disposte alla concertazione più becera, quelle che oggi rimangono nel silenzio quelle che non hanno saputo e voluto andare all’incasso della giornata del cinque maggio e si sono lasciate perdere nei meandri dei palazzi. Denunciamo con forza questo stato di cose, invitiamo i mobilitati a mantenere alta l’attenzione sulle questioni sopra evidenziate, riteniamo che sia tuttavia, necessario rifuggire da ogni strumentalizzazione, quindi occorre perseverare sulla strada dell’autogestione della lotta, senza deleghe e accordi taciti.
re2Attraverso l’aggiornamento obbligatorio dei docenti si può prospettare un panorama che forse ancora non tutti hanno pienamente conto, malgrado sia convinzione diffusa che il DDL sia la morte della scuola. Tramite questi corsi obbligatori il governo di turno potrebbe agilmente indicare la linea politica delle materie di insegnamento e i docenti ultra-precarizzati e sottoposti al placet del Dirigente dovranno “aggiornarsi” pena …. il licenziamento o lo spostamento in altra sede attraverso l’iscrizione “d’ufficio” negli albi regionali. Certamente questo stato di cose conviene alle grandi aziende ma non solo, infatti questi corsi di aggiornamento saranno gestiti anche dai sindacati stessi attraverso le proprie appendici “culturali“: sarà, forse questo il motivo per il quale la cisl (ma non solo) si mostra conciliante? Sono questi dubbi irrisolti ma guardando a quello che è successo con il concorso a cattedra del ministro Profumo si ricorderà che, in buona sostanza, i docenti precari in mobilitazione rimasero i soli a protestare mentre i grandi sindacati nel pieno della protesta scaturita dal basso, già organizzavano i corsi di formazione per sostenere il concorso. Forse è per questo che oggi i docenti che hanno superato il concorso Profumo ricevono un, apparente, trattamento di favore dal Governo che afferma come questi saranno tutti stabilizzati. Tutte queste riflessioni devono indurci a propagare due azioni fondamentali: astensionismo elettorale attivo, perché noi non crediamo nella delega e oggi per colpire le forze di governo che hanno sostenuto il DDL “la buona scuola”, inoltre per danneggiare seriamente le forze sindacali che agitano le piazze con un dito (giusto l’apparenza necessaria per non perdere il consenso degli iscritti) mentre a piene mani affossano con le loro attese, silenzi e false promesse, la mobilitazione. Ci appelliamo a tutti i lavoratori e le lavoratrici della scuola, a tutti gli studenti e le studentesse, a tutti coloro i quali hanno a cuore la libertà: boicottate tramite il non voto il PD e affini, presentate il ritiro della delega sindacale a quelle grandi organizzazioni che oggi hanno svenduto la lotta consegnando all’oblio della meritocrazia PD il nostro futuro, le nostre felicità e bisogni.
Alcune sigle sindacali hanno agitato lo spauracchio dello sciopero degli scrutini quasi fosse una panacea, capace di risolvere tutti i problemi, poiché costringerebbe il governo a fare retromarcia. In realtà sappiamo tutti che non è così … perlomeno all’interno della “cornice” normo/contrattuale esistente: si tratterebbe, al massimo, di un “differimento” che non coinvolgerebbe le classi terminali e che – nell’immediato – serve solo a dare visibilità mediatica ai soliti – e sempiterni – leader. Se è blocco che sia vero e non fittizio. La ricerca di taluni effetti speciali che rispondono a una mera estetica della lotta non incantano noi, non incantano i lavoratori, le lavoratrici, gli studenti e le studentesse. La lotta deve essere efficace e non un mero momento carnascialesco che poi riconduce tutto alla norma. Talune “grandi” sigle che prima agitavano le piazze oggi rimangono in silenzio o iniziano a buttare giù la maschera. In questo momento di estremo pericolo occorre fare chiarezza e questa chiarezza non la chiediamo noi, ma la chiedono coloro i quali vivono la scuola. Chiarezza sulle proprie reali intenzioni, chiarezza su alleanze accordi e simili. Gli attori sociali della scuola ormai non si ingannano e non devono fermarsi. La mobilitazione sarà lunga e non certo si fermerà a giugno, anche in caso di approvazione del DDL infatti, occorrerà continuare la lotta più convinti e determinati che mai e in tutto questo panorama l’USI AIT Educzione c’è lotta e vive insieme ai lavoratori e alle lavoratrici, agli studenti e alle studentesse, perché è di queste categorie, non di stipendiati, che il nostro sindacato è fatto.
Evviva l’Unione!

U.S.I.- A.I.T. EDUCAZIONE
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Sul filo di lana e nella logica oltraggiosa del “voto utile“, Skuola, sponsorizzata da Mediaset e Tgcom24, ha pensato bene di chiarire ai lettori-elettori i progetti per la scuola dai “grandi” protagonisti delle elezioni, senza interpellare gli altri candidati. L’iniziativa è quantomeno singolare. I rapporti tra la scuola malata e l’equipe dei “guaritori” dovrebbero essere ormai chiari: Bersani Monti e Berlusconi l’hanno governata assieme in piena concordia. Assieme hanno deciso i rovinosi tagli, l’illegale concorso a quiz e la sorte riservata ai precari; assieme hanno trasferito milioni di euro dal pubblico al privato in sfregio alla Costituzione e non c’è stato gran dissenso nemmeno sulle campagne di stampa per l’orario dei docenti e l’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Scuola, istruzione e ricerca, fortilizi di democrazia, strumenti imprescindibili di promozione e riscatto sociale e autentici motori di quello sviluppo invano cercato nella trappola del rigore, nella mortificazione dei lavoratori, nell’attacco ai diritti e nella difesa di privilegi di classe, non avevano mai conosciuto il tracollo che viviamo. La trionfante DC del’48 non giunse a fare delle politiche per la conoscenza il perno di quel “sovversivismo dei ceti dirigenti” che ha ispirato Monti, il suo governo e la maggioranza che l’ha sostenuto. In linea con una tendenza tipica del neoliberismo all’italiana, Monti, Berlusconi e Bersani non si sono limitati infatti a una devastante rinuncia agli investimenti, ma hanno dilapidato un patrimonio di conoscenze e di esperienze pedagogiche e didattiche. Per un anno si è parlato di merito mentre si tagliavano servizi, si sono violate le regole mentre si bandivano crociate per la cultura della legalità, si è battuto sul tasto della formazione e lì ci si è fermati, ignorando che essa è solo una parte del mondo più ampio e complesso che si definisce educazione. Al tirar delle somme, è emerso il disastro e dopo le infinite chiacchiere sulla meritocrazia i docenti, messi sotto processo, hanno potuto verificare che ciò che si voleva da loro era solo la disponibilità a smetterla di educare, di fornire, cioè, strumenti in grado di formare coscienze, scegliere tra sistemi di valori, ricavare dall’insegnamento ciò che sarà utile per la durata di una vita che chiede anzitutto autonomia e capacità di relazione dialettica col tempo che cambia. Si voleva dimenticassero, in ultima analisi, che usar bene una penna, non significa “esser padroni del pennino e dell’inchiostro” ma aver parole da dire quale che sia lo strumento utilizzato: il miscuglio di acqua e polvere colorata con cui la preistoria ci parla dalle sue caverne, la biro, la matita, la tastiera virtuale di un tablet o quale che sia domani lo strumento tecnico che ci consentirà la comunicazione grafica. Si voleva che si limitassero a fornire agli studenti un minimo di competenze da spendere in tempo breve sul mercato del lavoro, per farne una piccola, alienata rotella del grande ingranaggio della produzione. Era, a ben vedere, la messa al bando del “Prometeo”, di “colui che riflette prima” e poi si schiera in un conflitto che è legge di vita e nel titanico scontro, metafora classica della lotta di classe, sa come rubare il fuoco agli dei.
Una scelta politica di fondo, quindi, perché ormai è chiaro: a dar retta agli stregoni del capitale, ai docenti tocca stravolgere il “tempo” della scuola, il vero capitale del loro investimento sul futuro; un “tempo” che è l’elemento di distinzione tra una programmazione che guarda lontano e quella che si limita a interventi a “ricaduta immediata”, verificabili in senso quantitativo nel breve volger di un anno. Di qui l’Invalsi e i quiz che levano alla gloria degli altari la nozione in nome di una utilità momentanea, buona per derubare i ceti subalterni di una “scuola per la vita” e disarmare Prometeo, difendendo dal furto il fuoco degli dei. Chi ha dato uno sguardo alla legge di stabilità, conosce la miseria della filosofia che sta dietro le scelte condivise dai tre “grandi” e la domanda a questo punto è legittima: perché “Skuola” e in generale il circo mediatico danno tanto spazio ai protagonisti di un sfascio senza precedenti, lasciando fuori Grillo, Ingroia e Giannino?
Se il caso Giannino, profeta della meritocrazia scivolato, guarda caso, proprio su questioni di merito e di educazione – due lauree inventate per rimpinguare il percorso di studi – induce a riflettere sui mostri che genera l’impuro connubio tra merito e mercato, non meno interessante è il “caso Grillo”. Al di là del ritorno alla “politica in piazza” e delle conseguenti “piazzate”, il suo programma, infatti, mette la scuola su binari “transitabili” dagli addetti ai lavori e attacca le due destre già alleate nel sostegno a Monti con un’affermazione che non fa spazio a equivoci: abolizione della legge Gelmini. Alla chiarezza dell’incipit, però, seguono poi il rifiuto dei finanziamenti dello Stato alle scuole confessionali e private, che fa l’occhiolino al dissenso di sinistra e, per rovescio, i cavalli di battaglia di Profumo, in modo da non dimenticare le delusioni della destra: abolizione del valore legale dei titoli di studio e integrazione Università/Aziende; infine, per star dietro al “nuovismo”, che è un “ismo” vitale per il populismo, tutto il web del mondo, il possibile e l’impossibile, senza criteri didattici, con l’abolizione graduale dei libri di scuola stampati e quindi la loro gratuità. Principi sani e fanfaronate, com’è nello stile della casa, ma Skuola ha fatto la sua scelta: l’alba del nuova politica nasce con Berlusconi, muore con Monti e fa i conti con Bersani. Altro non conviene ci sia e non se ne parla. Svanisce così la sinistra raccolta attorno a Ingroia con un programma che si colloca in modo consapevole fuori l’«arco incostituzionale» dei neoliberisti e scandalizza i sacerdoti del dio mercato con quel suo inizio che riafferma il valore universale della scuola, dell’università della ricerca pubbliche. Chi l’ha pensato, non ha cercato a tutti i costi il nuovo ed è, anzi, tornato schiettamente alla “vecchia” tradizione di uomini come Calamandrei, all’idea di una repubblica che garantisce l’accesso ai saperi per tutte e tutti, in base al principio indiscutibile che non esiste altra via per assicurare al Paese cittadine e cittadini liberi e consapevoli; un ritorno a dottrine sociali o addirittura all’«eresia socialista» della centralità della conoscenza, tanto cara ai padri Costituenti, da indurli a farne il tema del terzo principio della legge fondamentale della repubblica. Anche qui netto è il rifiuto della legge Gelmini, voluta da Berlusconi, cara a Monti e Profumo e mai seriamente messa in discussione da Bersani. Un rifiuto che si accompagna a proposte di ispirazione europeista, l’Europa antifascista di Spinelli, però, che è agli antipodi dell’Unione bancaria di Monti, Bersani e compagnia cantante: l’obbligo scolastico a 18 anni e il ritiro del blocco degli organici imposto dalle ultime leggi finanziarie, tutte ispirate, giova dirlo, al delirio monetarista di sacerdoti e servi sciocchi dell’Europa germanica. In questo solco di ispirazione democratica e di “statalismo socialista” – ecco un’altra eresia – si pongono il rifiuto di “qualsiasi progetto di privatizzazione del sistema di istruzione” che unisce sostanzialmente i tre “grandi”, e la stabilizzazione del personale precario. Novità significativa, la visione articolata delle politiche culturali. Sarà “passato” anche questo – siamo a Spinelli e al “Club del Coccodrillo”, al tempo in cui il nesso tra formare e informare era così chiaro, che Gaetano Arfè cercò di far nascere un telegiornale europeo – ma per Ingroia e compagni, scuola, università e formazione viaggiano sullo stesso binario di una seria riforma dell’informazione e del sistema radiotelevisivo che ne spezzi la subordinazione ai poteri economico-finanziario.
Di tutto ciò s’è parlato poco e si capisce il perché: la ricetta è alternativa. Né, maghi, né guaritori e nemmeno “miracoli rivoluzionari”. Senso della storia, però, occhio volto al futuro e, per farla breve, tanta Costituzione. Le urne non cambieranno il mondo, ma a ragionare onestamente bisognerà dirlo: col loro voto scuola e università hanno l’occasione di valutare con decisiva chiarezza l’Invalsi, l’Anvur, e la pletora di ignoranti che da tempo millanta crediti che non ha.

Uscito su “Fuoriregistro” il 21 febbraio 2103

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Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico. Non sarà la Procura di Milano a chiudere la partita col neoliberismo all’italiana e, assente in Parlamento un’opposizione pronta a una battaglia di democrazia, la piazza fa supplenza.
Semaforo rosso per ogni soluzione autoritaria d’una crisi economica e sociale, che chiude nell’unico modo possibile la seducente “età dell’oro” promessa dal capitale dopo la caduta del muro di Berlino.
C’è un filo diretto tra il massacro di Marchionne alla Fiat e la decimazione del Ministro Gelmini. Si vede chiaro e bisogna far fronte, reagire e scompaginarlo: è un pericoloso progetto politico. Non si tratta solo di pugnalate alla ricerca, di università privatizzata, di 140.000 posti tagliati tra docenti e Ata, di un bando di espulsione di massa dei precari, dell’aumento delle cattedre che superano le 18 ore e degli alunni per classi che sono ormai 35. E neanche è questione del mortale squilibrio tra aumenti peggiorativi e peso insostenibile delle riduzioni: ore di lezione, insegnamenti, materie, sforbiciate al sostegno e impoverimento di ogni risorsa. Non è solo questo, che pure grida vendetta. E’ che la scelta è chiara: da un lato c’è il lavoro colpito e l’esercito dei disoccupati, buoni per diventar crumiri, dall’altro ci sono i diritti negati e la creazione del “bestiame votante” che legittimi un involucro democratico vuoto di contenuti. Chiuso il cerchio, gli estremi si toccano e la proletarizzazione crea le nuovo classi “subalterne” rassegnate a un futuro di servitù.
Del ministro Gelmini si son perse le tracce. Vive di comunicati-stampa e sfugge il contradditorio. Oggi smentisce “le indiscrezioni apparse […] su un quotidiano, secondo cui esisterebbero diversi punti di vista” col collega Tremonti, ieri, contornata dai baroni che le danno il là, dava per “finita l’era dei baroni“, ieri l’altro faceva scudo col corpo al “suo” Berlusconi, nella furiosa guerra che s’è inventato coi magistrati, e sosteneva con l’arroganza del potere sinora impunito: “tutto questo fango si tradurrà in ulteriore consenso“. A quale fango si riferisca, dopo la minorenne fatta uscire dalla Questura di Milano, nessuno saprebbe dire, nemmeno lei, ma non ci sono dubbi: la scuola, è l’ultima preoccupazione del ministro, che coi docenti non parla, dopo che in quattro provincie le hanno rifiutato il suo delirante “progetto di valutazione” e va avanti come uno schiacciasassi: imporrà con la forza una indecente “meritocrazia“.
Ovunque la scandalosa, oscena suddivisione della ricchezza, causata da quel neoliberismo di cui il governo si riempie la bocca, produce disastri. Fingere di non vederlo sarebbe un suicidio. Qui da noi – è un pericoloso paradosso – tutto si tiene e sta assieme grazie al ricatto separatista di Bossi e Maroni. Ma non occorre un’aquila per vederlo: ciò che unisce i leghisti divide il Paese e tutto potrebbe crollare da un momento all’altro. Non c’è più tempo. Frattini ha giocato per giorni con le parole e i rivoltosi tunisini, in lotta per la libertà, sono diventati “terroristi“, come suggeriva Ben Alì, che da noi è stato alleato privilegiato della criminale politica di espatri voluta da Maroni e in Tunisia il dittatore che fugge di fronte all’ira d’un popolo vessato. A Tunisi, come da noi, lo scontro tra studenti e governo è stato violentissimo e, come da noi, gli uomini della dittatura – anche quelli che oggi frenano lo sviluppo democratico della rivolta – ce l’hanno con la scuola. “E’ gente irresponsabile. Invito i sindacalisti corretti a ritornare alla ragione“, tuonava ieri il ministro Ibrahim, di fronte ai licei e agli istituti universitari che non si fidano e continuano a lottare. Accadeva anche qui, quando Berlusconi e Gelmini sostenevano in coro che la “scuola vera” studia, non protesta. Una menzogna tipica delle dittature. “L’anima, diceva giustamente Plutarco, non è un vaso da riempire, ma un fuoco da suscitare“. Noi non saremmo scuola oggi, se l’animo nostro non fosse acceso dalla continua violenza che ci colpisce.
Venerdì’ prossimo, 28 gennaio, sciopero generale della scuola e dell’università con la Fiom. E sarà bene dirlo: è sciopero politico.

Uscito su “Fuoriregistro” il 25 gennaio 2011

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Se in Italia scuola e università sono un disastro, gli studi dell’avvocato Gelmini sono il frutto di quel disastro, sicché, a rigor di logica, una cultura disastrosa riforma un presunto disastro e invano Cassandra ci allerta: Troia perirà.

Il 14 dicembre scorso i fatti di Roma ci hanno posto davanti a uno specchio. Sarebbe bastato tener presente il monito di Lucrezio – “il lato ch’è destro del corpo sta nello specchio a sinistra” – e avremmo guardato la realtà in maniera più problematica. Di che morte moriamo? Ci acceca lo splendore del sole o è una notte profonda a toglierci la vista?

E’ difficile dirlo. Qual è la realtà e quale l’immagine sua deformata? Il Parlamento chiuso alla piazza e protetto da uomini in armi, o la piazza, in fiamme, gli studenti in rivolta, la rabbia degli eterni precari e le proteste degli artisti? Sia quel che sia, crepuscolo della ragione o eccesso di luce, la riforma è infine passata e il ministro, davanti allo specchio della storia, confonde il passato col futuro che l’assedia e delira: “è una bella giornata“, archiviata “definitivamente la cultura falsamente egualitaria del ’68“, inizia “una nuova stagione all’insegna della responsabilità e del merito“.

A quale Sessantotto si riferisce il giovane avvocato culturalmente disastrato?
A quello che, levatosi in piazza contro una società gerarchizzata, dichiara guerra alla guerra, afferma la dignità del lavoro di fronte al capitale, lotta per la libertà sessuale, rifiuta la doppia morale borghese e combatte contro un sistema formativo ridotto a strumento di trasmissione dei valori dei ceti dominanti? Se questo è il Sessantotto da archiviare, non ci sono dubbi, non si tratta più semplicemente di una riforma, ma di un articolato disegno ideologico, che oppone all’utopia egualitaria della “città nuova” e alla ricerca di un mondo migliore, la pretesa fatalità di un invivibile mondo futuro e il trionfo della distopia. Dietro la realtà rovesciata dallo specchio s’intravede chiaramente il Leviatano. In discussione non sono solo la scuola e l’università.

E’ ben altro.
E’ il potere che impone una visione reazionaria della società e racconta se stesso: il Vietnam, dice, è legittimo, la schiavitù della donna e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sono pilastri dell’ordine costituito. Così, “simulacro che torna a noi dallo specchio”, per dirla con Lucrezio, la democrazia ci si presenta nei panni del suo “rovescio”, diventa “meritocrazia” e afferma un principio: la povertà è una colpa e merito è la ricchezza.

Riforma nel senso calvinista della parola, quella che la Gelmini firma in nome e per conto della Confindustria, disegna allo stesso tempo la “nuova scuola” e un’antica società, Realtà vista allo specchio da Giavazzi e Abravanel, la meritocrazia perde il carattere doloroso e oppressivo che le assegnò Young e scopre una pretesa nobiltà morale della ricchezza che, comunque accumulata, è la figlia gloriosa dello sviluppo del capitale umano. Non ha genitori la miseria e i sacerdoti del merito tacciono sulla dottrina della salvezza, esito drammatico della nuova fede. Reciso il filo prezioso dell’approccio critico, è difficile partire da sinistra per guardare il lato destro e collegare al merito la tragica battaglia che si combatte negli Usa contro la “nobiltà della ricchezza” per obbligare un medico a curare un povero diavolo e costringere un ospedale ad aprirgli le porte, se non c’è un’assicurazione che copra le spese.

Giavazzi, Abravanel e Gelmini si guardano bene dal ricordarlo, ma Yuong lo ha messo nel conto e il 14 dicembre l’ha annunciato. Prima o poi la cultura della meritocrazia conduce a un bivio fatale: o una élite schiavizza le masse o le masse scatenano una rivoluzione sociale.

Uscito il 27 dicembre 2010 su “Fuoriregistro” e “Report on line“.

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E’ uscito su “Fuoriregistro” tempo fa. Non è “fresco di stampa” ma potrebbe “rinfrescarci” la memoria. Nessuno la pronuncia più l’orribile parola: “bipartisan”. Pare non sia esistita e non trovi un cane disposto a riproporla. Eppure, fino a poco tempo fa, l’uso sfiorava l’abuso e c’era l’inflazione. Nel clima torbido da “resa dei conti”, tra congiure di palazzo, dossier e verità mediatiche, ognuno può presentarsi come meglio crede e molti sono i “vecchi” che si dicono “nuovi” e “duri” e “puri”… Andiamoci cauti, quantomeno. E vigiliamo. Il cenno sarà improprio, ma un senso ce l’ha. Il fascista Gaetano Azzariti, uno che fu Presidente del Tribunale della razza, scrisse con Togliatti la legge sull’epurazione dei suoi camerati e, dulcis in fundo, divenne poi Presidente della Corte Costituzionale! Quanti Azzariti si stanno sistemando tra padri e padrini della “Terza repubblica”? E c’è chi ricordi che i genitori “nobili” dell’ignobile lavoro della Gelmini sono stati tutti democraticissimi come Berlinguer e Fioroni. Dove sono? Che fanno? Non è che in tanta smania di “rinnovamento”, ce li ritroviamo di nuovo ministri?

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Le piaccia o meno, ministro Gelmini, a sentirla parlare è facile capirlo: lei s’è formata nella nostra scuola, ha respirato l’aria che abbiamo respirato, ha pregi e limiti dei nostri studenti e può capitare: lei sbaglia bersaglio. Dietro le sue ragioni, dietro la novità del maestro unico, la riscoperta delle miracolose virtù terapeutiche del grembiulino, dietro la favola della meritocrazia, non ci sono, come forse lei crede davvero, i quarant’anni che ci separano dal Sessantotto, ma i vent’anni che dalla sua adolescenza scivolano in malo modo sino a noi e ci precipitano addosso come una valanga.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, la ragione con cui spiega le sue ragioni le dà torto: non è stato il Sessantotto a rovinare la scuola, ma ciò che di oscuro gli si è contrapposto in un Paese che lei ha trovato libero nascendo e il governo di cui fa parte pensa di asservire.
Le piaccia o meno, ministro Gelmini, il progetto che intende realizzare non è suo. Lei chiude un cerchio aperto da altri negli anni della sua prima giovinezza. Dietro di lei ci sono l’autonomia scolastica e le mille deroghe alle norme un tempo vigenti in materia di contabilità dello Stato; dietro di lei ci sono le funzioni vitali dell’Amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione affidate a istituzioni scolastiche ferite a morte da quella feroce ristrutturazione aziendale che furono i “piani di dimensionamento“.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, dietro di lei, che forse non ricorda, ci sono la flessibilità, i criteri puramente aziendali di ottimizzazione delle risorse umane, la privatizzazione dei rapporti di lavoro, l’inflazione di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi, la subordinazione delle istanze formative a quelle della Confindustria e del mercato del lavoro, un bilancio che tiene più in conto i cannoni che le scuole, i capi d’Istituto svincolati dalla didattica, lo scempio delle risorse economiche trasferite dal pubblico al privato, la mortificazione retributiva e la precarizzazione del personale docente.

Le piaccia o meno, ministro Gelmini, lei giunge a governare istituzioni scolastiche brutalmente sacrificate a cieche ragioni di bilancio e poste di fronte a una feroce alternativa: sopravvivere, a danno della “concorrenza” in una lotta senza quartiere per la difesa dei “requisiti dimensionali“, o perire sull’altare del risanamento di una spesa pubblica che continua ad accollarsi i costi inaccettabili della politica e i debiti e le disfunzioni di un capitalismo straccione. Un capitalismo malato, tanto più avido e parassita, quanto più apparentemente vittorioso dopo il crollo del muro di Berlino e la bancarotta della sinistra passata armi e bagagli nel campo delle destre. Il suo campo, Ministro.

Le piaccia o no, dietro di lei, ministro Gelmini, ci sono l’effimero trionfo della legge del profitto e il mito dell’età dell’oro, che avrebbe dovuto segnare la vittoria del “bene borghese” sul “male socialista“.

Questa è la storia. E lei lo sa, la storia non finisce. Le piaccia o meno, la storia siamo noi.

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La legalità è in cima ai pensieri dell’avvocato Gelmini, vestale della meritocrazia e ministro della scuola e dell’università per meriti ignoti. Tra il dire e il fare però ci passa il mare e – pazienza per i luoghi comuni – ogni regola ha le sue eccezioni. Conserviamo, perciò, tra gli eventi che serviranno a ricostruire la storia di questi anni, un luminoso esempio di ministeriale rispetto della legalità.
Noi pensavamo un tempo – miserabili statalisti rossi e comunisti – che la scuola non potesse esser trattata come un raccordo autostradale o un regolamento di canali di scolo. Cattolici, socialisti e liberali, concordammo su un’idea di scuola cui Aldo Moro, un noto mangiapreti bolscevico, assegnò, durante i lavori della Costituente, “la tutela del diritto comune” e, quindi, la preminenza nel campo spinoso della formazione e, per suo conto, Concetto Marchesi, illustre latinista e – stavolta sì, davvero comunista – definì “il massimo e l’unico organismo che garantisca l’unità nazionale“. E’ noto a tutti, però, ed è storia d’oggi: per l’avvocato Gelmini, che s’è “formato” alla scuola d’un costituzionalista di gran nome, come Silvio Berlusconi, la Costituente fu l’anticamera del “consociativismo”. Cartastraccia. Sulla base di questo rivoluzionario principio, sono due anni che il ministro mette in mora Istituzioni, organi costituzionali, leggi, sentenze e tribunali. Le regole generali non valgono più. Decide il ministro.
Formalmente, cinquemila insegnanti precari possono ancora rivolgersi al Consiglio di Stato per rivendicare il diritto di essere inseriti in una graduatoria con il punteggio effettivamente maturato. Formalmente, il Ministro non può ancora impedirlo e può darsi persino il “caso scandaloso” che il Consiglio di Stato commissari il Ministero perché s’è rifiutato di obbedire a una legge che ostacola la volontà assoluta del ministro. E’ qui, però, che la storia volta pagina – stavolta torna indietro – e, a difesa della sua idea di legalità, il coltissimo avvocato sceglie la via della sfida e ci riporta a Louis quatorze e al glorioso passato della “rivoluzione monarchica” del marzio 1661.
Invano 5.000 insegnanti invocano il merito e attendono la vecchia giustizia. Il nuovo che avanza detta le sue regole e impone la sua legge. Alla stampa che pretende di raccontare la corruzione, ai giudici che intendono ancora processare il potere, agli insegnanti che osano ancora appellarsi alla Costituzione, Gelmini, risponde decisa: “lo Stato sono io“.
L’uomo è nato libero, ebbe a scrivere Rousseau, ma in ogni luogo egli è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri non cessa tuttavia d’essere più schiavo di loro. Come mai è accaduto questo cambiamento?“. Dopo di lui, senza cercare risposte filosofiche all’angosciosa domanda, Massimilano Robespierre enunciò il principio che fece giustizia di chi si crede padrone e mandò al patibolo l’assolutismo. L’avvocato farebbe bene a ricordarlo: “quando il governo opprime il popolo, l’insurrezione è per il popolo intero e per ciascuna porzione del popolo, il più sacro e il più indispensabile dei doveri“.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 luglio 2010

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Premiare il merito: è la ricetta per la scuola nuova. Dev’essere vero: ci giurano in tanti che pare la sappiano lunga. Premiamo il merito e faremo cultura. Il diavoletto critico e sessantottino che mi porto dentro è pronto ad obiettare: “in che consiste il merito? Se rispondo col filosofo del Rinascimento – “conoscere tutto di una cosa sola e qualche cosa di tutto” – dico una verità pericolosa. Il massimo del merito, rispetto al massimo della specializzazione, potrebbe dare, al più, quei moderni specialisti che sanno tutto di qualcosa e nulla di tutto il resto. Se premio il merito, in questo caso, faccio spazio a una dottrina che, più cresce e si perfeziona, più si allontana dalla cultura. Un merito arido, che si chiude nell’ambito ristretto di una professionalità che non ha necessariamente contatti con gli uomini e la loro umanità.
In questo caso – dirò con Salvemini – lo specialista uccide l’uomo. Eppure ha meritato. Né, d’altro canto – insiste il diavoletto pernicioso della vecchia contestazione – maggiori garanzie potrebbe darci la teoria di un merito che premi chi alla suprema specializzazione, al “tutto di una scienza“, aggiunga la conoscenza di un “qualcosa di tutto“: trovatemi un uomo che, nella concretezza della vita, possa davvero vantare questo merito. “Qualcosa di tutto” non sta nelle forza di un uomo, così come “tutto di qualcosa” è un evidente inganno. Premiamo il merito, quindi, ma in relazione a quali obiettivi e secondo quali parametri?
Per carità, nessuna affermazione nichilista. Il professore sessantottino che mi porto dentro non ha mai sostenuto che la cultura sia una irrealizzabile utopia o che la stragrande maggioranza degli uomini che si dicono colti siano un’accozzaglia di vendifumo e imbonitori. Più modestamente, più realisticamente, crede con Salvemini che “gli analfabeti almeno non pretendono di saperla lunga” e s’immagina un mondo che riconosca la propria ignoranza – “io questo solo so, di non sapere nulla” – e percorra socraticamente la via della maieutica, ripetendo con Brecht: “sia lode al dubbio“.
Io non conosco tutta la storia e so di non saperla: E’ gia qualcosa, direbbe Salvemini, mancato sessantottino, perché dalla consapevolezza dei miei limiti nasce il bisogno di conoscere e capire. Questo merito promuoverà una scuola che voglia produrre cittadini e cultura. Merito che sente e riconosce il bisogno di sapere, merito che, secondo le capacità, affronta la fatica tormentosa di conoscere per capire e di capire per criticare. Merito che non dimentica – è un antico paradosso – che la cultura vera è ciò che resta nella nostra testa quando non ricordiamo più quello che abbiamo imparato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 ottobre 2007 col titolo “Il diavoletto sessantottino“.

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Come ogni regime, anche la nascente “democrazia autoritaria” è alle prese con la costruzione del consenso e il tema vitale della gestione dell’informazione. Al confronto, tuttavia, occorre dirlo, il “fascismo classico” ebbe un compito tutto sommato semplice: imbavagliare socialisti, anarchici e comunisti e piegare gli strumenti della comunicazione di massa al ferreo controllo dell’apparato. E’ vero, inizialmente ci fu anche una contrapposizione fra la maschera “legalitaria” del “mussolinismo” e lo squadrismo “rivoluzionario” e “movimentista“, ma la frattura fu presto composta e, in ogni caso, non si trattò di una questione “strutturale”. L’esistenza del regime e il suo volto “ufficiale” non furono mai strettamente legati all’esistenza formale di una vera opposizione istituzionale. Oggi, le cose non stanno così. Su temi marginali il sistema politico ha tutto l’interesse a far passare per “visione alternativa” le periodiche convulsioni dipietriste, le contorsioni autonomistiche di Casini, il “dissenso” sterile su questioni di principio, astratte e senza prospettiva politica, di cui si fa portavoce Gianfranco Fini e, ciò che più conta, le chiusure formali e le sostanziali aperture di Bersani: è il volto “democratico” di un sistema che usa come un volgare “specchietto per le allodole” il polverone levato ad arte nei “salotti televisivi“, per “coprire” così la natura reazionaria di provvedimenti politici che riscrivono nei fatti le regole del gioco, Senza il respiro “democratico” di un’opposizione di facciata, il rovescio autoritario del “sistema” verrebbe allo scoperto e prima o poi un campanello d’allarme agiterebbe le acque della palude qualunquista puntualmente divisa in “colpevolisti” e “innocentisti” sull’immancabile caso di cronaca nera, sulle indecenti vicende personali di questo o quel personaggio politico, sull’insolubile dilemma tra il giustizialismo forcaiolo e l’ipergarantismo, sulla sorte di una magistratura storicamente legata ai giochi di potere, sull’eterno complotto che assolve o condanna Craxi, spiega senza spiegare gli “anni di piombo” e cerca perennemente il “grande vecchio” che tiene i fili della tela segreta che, da Cavour a Berlusconi, fa la storia d’Italia e la fortuna del pennivendolo di turno. E’ un gioco di prestigio: chi ne ha piange tutte le lacrime per il tempo andato e non bada alla tragedia del presente, da cui si sente fuori, tratto ad arte lontano dalla forza schiacciante della disinformazione.
Il caso Scuola/Gelmini – o forse meglio la riduzione in servitù della scuola pubblica in un Paese che mostra sempre più chiari i sintomi dell’asfissia – ha, in questo senso un valore emblematico. Se si fa eccezione per gli “addetti ai lavori“, messi però sistematicamente a tacere ovunque si parli di formazione, i sedicenti leaders politici, gli immancabili esperti, i tuttologi, i velinari e i maestri della disinformazione sono tutti sintonizzati su un’unica lunghezza d’onda: il nodo cruciale della discussione è, di fatto, il filosofo fascista Giovanni Gentile.
Se il paragone stia in piedi, non interessa a nessuno. Se il gelminiano “più matematica, più scienze e più lingue straniere” abbia qualcosa a che vedere col filosofo che riconduce a unità nella coscienza spirito e natura, è problema del tutto secondario. La verità è una, categorica, imperativa e non si discute: la “rivoluzione didattica” del giovane avvocato, che riduce a una questione quantitativa il tema cruciale della “formazione” – “gli studenti italiani sono quelli che passano più tempo in aula con i risultati più scarsi” – basta e avanza perché gli “autoritari” vantino il loro primato – è la prima riforma organica dopo Gentile – e i sedicenti “democratici” insorgano quasi in difesa del teorico del fascismo: “è una riforma Gentile in versione ridotta“, urla scandalizzata Maria Pia Garavaglia, che non contenta aggiunge: “avesse anche solo la quarta parte dell’impianto gentiliano, la riforma Gelmini avrebbe già centrato l’obiettivo“.
Novant’anni dopo – Gentile sorriderebbe – il Parlamento d’una repubblica costruita sul rifiuto della sua dottrina finge d’accapigliarsi sul tema della formazione, ma condivide in ogni suo settore la concezione di una scuola che chiama “meritocrazia” il principio della selezione di classe e impone ai cittadini il possesso di una concezione religiosa. E non serve dirlo: quella cattolica, che è la religione delle classi dominanti.
Garavaglia non se n’è accorta, Gelmini non è in grado di cogliere – parlano per lei i consiglieri papalini e la sinistra neocodina – ma la “democrazia” condivide ora col fascismo un disprezzo profondo per i principi della pedagogia e una sottovalutazione ottusa degli aspetti psicologici dell’insegnamento. Partendo dal ruolo “centrale” del “maestro” tornato non a caso “unico“, si è passati per la “sottomissione” dello studente attraverso il “cinque in condotta” e si approda infine alla religione dei contenuti, al predominio della nozione, alla manomissione e alla confusione tra discipline e materie. Rimane sullo sfondo, non detto, ma più pericoloso dei “tagli” e, se possibile, più insidioso della privatizzazione strisciante, l’attacco alla formazione del cittadino e della sua coscienza critica. Quella che si disegna è una fabbrica di disciplinati soldatini del capitale, la produzione in serie di quel “bestiame votante“, per usare le parole di Antonio Labriola, che è pronto a servire un governo autoritario seguendo stupidamente tutti i precetti della democrazia borghese.

Uscito su “Fuoriregistro” il 6 febbraio 2010

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