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Posts Tagged ‘Togliatti’


Leggo da più parti che un governo Draghi potrebbe aiutarci se non altro a liberarci di una menzogna che da tempo va per la maggiore: la destra «antisistema» e  «sociale», quella in qualche modo più vicina alla povera gente, è solo una volgare bugia.  Io sarei più prudente e proverei ad andare più a fondo, per capire.  
Si dice spesso che Mussolini si sarebbe affermato per il timore di una minaccia rossa. Fu davvero così? Ci sarebbe di che riflettere, anche per provare a capire meglio il presente. Certo, il fascismo fu l’arma del Capitale locale, che lo utilizzò, però, quando si vide costretto a difendere i giganteschi profitti di guerra e dovette dare risposta a un problema – quello sì minaccioso – sui costi della guerra. A chi toccava pagarli? I padroni avevano di fronte un proletariato forte e organizzato e un governo Giolitti che nel 1913 aveva esiliato il Presidente di Confindustria, tutt’altro che disposto a sostenere fino in fondo le richieste dei padroni. Un governo che rifiutò di usare l’esercito per restituire ai padroni le fabbriche occupate. Certo, le cose poi cambiano, e lo Stato sta con i fascisti, ma a rifletterci con attenzione e senza pregiudizi, alla fine non è il pericolo della rivoluzione, ma la minaccia rivoluzionaria campata per aria a far spazio al fascismo, dividere pericolosamente la sinistra e a decidere la partita.
Il fascismo, che mette insieme i cocci di una sinistra sconfitta anche e soprattutto per la sua incapacità di «leggere» la crisi, fa presa su masse sbandate grazie anche alla sua capacità di dare una speranza ai disperati. L’anima sociale della destra, sia pure ingessata nella gabbia corporativa, è un forte strumento nella crescita del consenso. Piaccia o no, il fascismo costituisce per anni un «modello» che prova ad affermarsi nel mondo e in parte ci riesce, costituendo i «Comitati per l’Universalità di Roma», che avranno una loro funzione, finché non saranno superati dal prevalere del nazismo, che, tuttavia, inizialmente si ispirò apertamente al fascismo.
Non è un caso se nel 1936 (cito a memoria e posso sbagliare l’anno, ma siamo lì) quando l’esercito italiano giunge ad Addis Abeba, il Pci scrive un manifesto intitolato «Per la salvezza dell’Italia. Riconciliazione del popolo italiano», firmato col proprio nome da tutti i dirigenti del partito sparsi per il mondo, da Mosca agli USA a Parigi a quelli in carcere o al confino, molti dei quali non avevano alcuna possibilità di firmarlo. Quel documento, passato alla storia come «Appello ai fratelli in camicia nera», giunge a vedere nel «programma fascista del 1919» la base comune per una unità di azione tra fascisti e antifascisti contro industriali, finanziari e agrari, che ricavavano profitto dalla nascita dell’«Impero». Importa poco se Togliatti, che poi definì l’appello una «coglioneria», sapesse o non sapesse. Come affermò Paglietta, il partito nel suo insieme «mirava alla riconquista dell’elemento nazionale alla lotta operaia e rivoluzionaria». L’appello dimostra che gli operai erano lontani dal partito e attratti dall’anima sociale del fascismo, che era sistema ma si presentava come antisistema.
Con il passare degli anni, la destra – anche quella di età repubblicana – più che nei panni dell’antisistema, si è presentata come sistema alternativo. Oggi perciò quello che occorre davvero, se si parla di destre che aderiscono all’eventuale governo Draghi, è provare a capire se e come le vicende che stiamo vivendo si inseriscono in questo antico progetto. In quanto al voto «utile», certamente ha avuto e potrà avere una sua funzione, ma tutto sembra dirci che ormai – quando non è minaccia per «peones» e partitini – il voto tende a trasformarsi nella «foglia di fico» che copre l’agonia della democrazia.  

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a1927bIn archivio lo storico trova spesso nomi di spie e provocatori. A me non piace fermarmi su queste miserie, ma posso dirlo senza temere smentite: dal 1861 ai primi anni Sessanta del Novecento, la polizia ha sempre saputo vita e miracoli dei sovversivi perché tra loro c’erano spie e confidenti. E’ così anche oggi, non ci sono dubbi e l’identikit non cambia: insospettabili, sempre più rivoluzionari degli altri, sempre pronti a citare i testi sacri, sempre col dito puntato: piccolo borghese, riformista o troskista…

Così era Cesare Berti, venuto a Napoli da Santa Croce sull’Arno: a un tempo comunista pericoloso e spia dei fascisti, sparò due colpi durante le 4 Giornate e chi vuoi che si azzardasse a sospettare?  Così era Pietro Paolo Prisciandaro, che denunciava i compagni facendo cenno di sì con la testa, quando erano assieme e la polizia lo pedinava. Così erano tre spie dell’OVRA: Aldo Romano, che aveva rappresentato la cultura fascista – Togliatti ne fece un intellettuale di riferimento del PCI – Vincenzo Villani, detto Enzo, e Socrate, all’anagrafe Vincenzo Vito Lattarulo, che in un colpo solo, a Napoli, mandò in galera 47 compagni.

Qualcuno sapeva? Certo. Togliatti aveva pubblicato l’elenco delle spie dell’Ovra e Amendola credette – o volle credere? – ad Aldo Romano che ammetteva: cose da niente e nessuno mandato in galera. I compagni talvolta sapevano, ma avevano altro da fare. Bisognava distruggere i troskisti, i piccolo borghesi e i riformisti; Reale addirittura indicò quattro compagni dissidenti come pericolosi fascisti. I servizi segreti inglesi, però non gli credettero. Sottovalutiamo troppo le forze dell’ordine. Romano e compagni vissero tra i “nostri” rispettati e ascoltati. I “nemici”, infangati e disonorati, furono cancellati dalla storia. E’ in questo modo che abbiamo perso alcuni dei migliori. Antonio Cecchi, per esempio, pericoloso bordighista – e che altro? – ed Enrico Russo, troskista naturalmente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

L’elenco potrebbe continuare, ma ora che ci penso l’hanno prossimo, finito il libro che sto per chiudere, sfiderò la sorte e, nonostante gli anni, ci proverò. Le leggi che regolano gli archivi dovrebbero consentirlo: ora si può arrivare anche ai boia della nostra giovinezza e qualcuno ci sarà che ci fa ancora la lezione… Farò l’elenco dei nomi e racconterò le nobili storie. E’ vero, i giovani sono vaccinati, ma ci sono tante cose che non conoscono e tanti falsi miti che occorre sfatare.

 

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leggi_razziali_La_difesa_della_razzaVita e storia non sono realtà separate. Da tempo i pochi metri di strada che separano l’Archivio di Stato di Napoli dal «Centro Sociale Banchi Nuovi», dove si riunisce il «Comitato di Lotta per la Salute Mentale», legano la mia fatica di storico all’impegno di militante e in qualche modo anch’io ho fatto la mia parte, quando il Collettivo dell’«Ex OPG je so’ pazzo» ha portato una vita nuova, che sa di libertà, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, restituito alla città. E’ naturale perciò che, quando ho avuto tra le mani il fascicolo di Giuseppe De Crecchio, direttore fascista dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli dal 1923, mi è sembrato di avere davanti un inatteso segnale di riscatto e di portare l’irriverente l’animazione dei Centri Sociali e il rumore delle piazze nel silenzio severo dell’Archivio. La «ragion di Stato», ho pensato, non riuscirà mai a coprire col silenzio i suoi inconfessabili segreti. Poi, subito dopo, mi sono chiesto: ma noi sapremo fare buon uso delle armi che possediamo?
Sarà che il caso sa essere beffardo, sarà che gli «armadi della vergogna» sono più numerosi di quel che pensiamo, sta di fatto che il fascicolo di De Crecchio si «trova fuori posto» sin dal novembre del 1943, come annota un funzionario della Questura di Napoli, fascista fino a pochi mesi prima e tuttavia costretta a schedare il camerata direttore del Manicomio, come fosse uno dei sovversivi finiti poi spesso nelle sue gabbie. Consegnato all’Archivio nel 1988 con lo schedario politico dei sovversivi radiati e deceduti, il fascicolo, mai catalogato, di fatto «non esiste». L’ho trovato per caso il 17 febbraio, inserito in un incartamento intestato a Vincenzo Crispino, calzolaio socialista, costretto a convivere suo malgrado con l’odiato nemico.
Nonostante la Resistenza, la Repubblica, nonostante Basaglia, Piro e la legge 180 del 1978, nelle carte malconce, il dottor De Crecchio è una figura ibrida, di angosciante attualità: quella del medico-carceriere, che dovrebbe «imporre una cura» e invece sottopone a tortura «migliaia di ergastolani della follìa». Pur minimizzando scelte che, in fondo, funzionari e agenti hanno condiviso per un ventennio, le note biografiche, prima di parlarci dell’accademico, giunto alla Federico II da Sassari, dove  ha diretto l’Istituto universitario di Medicina Legale, raccontano la storia del «fascista fervente», subito inserito nella vita del regime. Squadrista della prima ora – porta la camicia nera dall’uno dicembre del 1920 – De Crecchio partecipa «alla Marcia su Roma fino a Puccianella, agli ordini del generale Ziti» e si fregia della «sciarpa littoria». Nel 1924, mentre l’omicidio Matteotti suscita lo sdegno nel Paese, «primo in Italia», il medico istituisce un Gruppo Universitario Fascista che diverrà una vera istituzione per l’università del regime. Superata la crisi, il Duce premia i fedelissimi, che hanno messo a tacere la coscienza. Tra il 1925 e il 1926, è un crescendo: Federazione Fascista di Napoli, Direttorio Nazionale della Scuola, in qualità di Ispettore dei Gruppi Universitari e Direttorio Nazionale del Pubblico Impiego. Il De Crecchio ripaga col suo zelo e rafforza l’organizzazione fascista, fondando il «Patronato Nazionale Fascista per l’Assistenza Sociale».
A dar retta alla Questura, l’uomo, approdato alla Direzione del Manicomio Psichiatrico Giudiziario nel 1923 grazie a un concorso, «è apprezzatissimo […] autore di ben sessantadue pubblicazioni scientifiche in vari campi della medicina legale e dell’Antropologia Criminale e Penitenziaria». In realtà, la Questura esagera, per costruire l’immagine di un uomo di scienza dalla funzione neutra, tecnica, più che politica. Il professionista, però, non è per nulla stimato e a giugno del 1944 la Procura Generale del Re presso la Corte d’Appello di Napoli è costretta a smentire la Questura, ricordando che «l’opinione pubblica, specialmente nell’ambiente sanitario, è palesemente ostile al De Crecchio». In effetti, la ricerca dei lavori dello studioso, praticamente assenti nelle biblioteche italiane, conduce a una «produzione scientifica» costituita per lo più da perizie, articoli pubblicati più volte per gonfiare il curriculum e interventi che stanno in bilico tra politica e scienza, usciti su riviste del regime. A ben vedere, gli scritti anteriori al fascismo si inseriscono nel clima da cui nasce la legge del 1904 sui manicomi, pensati soprattutto come istituzioni punitive, con la malattia ridotta a «colpa» e la terapia utilizzata come strumento repressivo. E’ il mondo della contenzione e dell’elettrochoc, il regno delle camicie di forza, delle manette e delle «fascette», che non cura, non aiuta, non dialoga, ma lega, sevizia, calpesta la dignità umana e, attraverso la punizione, mira alla demolizione. Un mondo che non è mai sparito. Col fascismo, l’obiettivo delle pubblicazioni cambia e diventa didattico: occorre adeguare la preparazione di psichiatri, antropologi, biologi criminalisti e giudici dei minori alla legislazione penale del regime.
In realtà, seguendo il percorso del De Crecchio, il successo dello studioso appare figlio soprattutto della militanza politica. Gli anni del cosiddetto «consenso» trovano il Direttore del Manicomio Giudiziario al culmine di una carriera ricca di onori e molto ben remunerata: l’abitazione gratuita nelle strutture dell’OPG, due stipendi pagati dallo Stato – uno per il docente universitario, l’altro per il direttore del manicomio – una fruttuosa collaborazione con le strutture private di Villa Russo a Miano e nel 1933 la nomina a commendatore dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Membro per anni del Direttorio Federale del Partito Nazionale Fascista, il De Crecchio non solo fa parte del Consiglio di Disciplina, delicato organismo del potere fascista, ma nel 1940, di fronte alla tragica scelta della guerra, salda ancora più strettamente la propria sorte a quella del suo duce, accettando l’incarico di Vice Federale.

Come spesso accade nella biografia dei gerarchi fascisti, il crollo del regime e l’arresto di Mussolini rendono più torbida la vicenda umana e politica del De Crecchio. Dopo il 25 luglio, infatti, quando l’aggressività dei tedeschi cresce e i nazisti si muovono in totale autonomia, il comportamento del gerarca diventa così indecifrabile, che le autorità di Pubblica Sicurezza non escludono un’intesa con i nazisti e una loro utilizzazione delle strutture manicomiali, per le quali passano probabilmente prigionieri politici e perseguitati per ragioni razziali. Difficile interpretare diversamente un reticente rapporto in cui la Questura scrive che «non è chiaro se collaborò con la polizia tedesca, perché non si è potuto accertare se detti fermati erano stati colà rinchiusi». Totalmente strumentale e del tutto ininfluente sulla vicenda politica del De Cracchio appare, infine, il fatto che durante le 4 Giornate, a dire della polizia, fulminato sulla via di Damasco, istituisce «un posto di pronto soccorso […] ove furono apprestate cure a 62 patrioti».
Contro il gerarca i partiti della rinascente sinistra non muovono un dito e non è un caso, del resto, se, allo scadere del 31-12-1944, nell’Italia liberata, i provvedimenti di epurazione adottati per ordinanze del Governo militare Alleato siano 2900 contro i 1258 dovuti all’Alto Commissario del governo italiano. Ormai sappiamo che l’esercito occupante non è un monolite reazionario, tant’è che il primo maggio del 1944 ci sono militari Alleati che alzano la bandiera rossa sulle loro camionette. Presi dalle eterne discordie tra rivoluzionari e riformisti, stalinisti e bordighiani, socialisti e comunisti spendono energie preziose in scontri intestini, scissioni e battaglie ideologiche. Una guerra fratricida che consente ai prefetti di registrare il costante indebolimento delle sinistre, le difficoltà dell’epurazione e una forte crescita delle organizzazioni cattoliche. Nessuna meraviglia, quindi, se a chiedere conto al De Crecchio del suo passato siano gli Alleati, che il 30 gennaio 1944 sospendono dalla carica il direttore del Manicomio Psichiatrico Giudiziario. Tutto procede però lentamente e solo a fine giugno la Procura del Re si decide a richiamare l’attenzione delle inerti Autorità di Pubblica Sicurezza «sui gravi precedenti» del De Crecchio, «sull’importanza delle cariche politiche dallo stesso ricoperte durante il decorso ventennio» e chiede un’indagine seria per l’eventuale avocazione dei profitti di regime. Le forze dell’ordine, però, che nel novembre 1943 hanno trovato modo di mettere le manette in città al primo capo partigiano, Eduardo Pansini, non fanno molto per colpire i fascisti e presto centinaia di partigiani del Nord finiranno nelle prigioni e nei manicomi guidati da colleghi del De Crecchio, che nessuno toccherà.
Il 30 novembre del 1944 il fascicolo personale del fascista registra l’ultima annotazione politica: «è stato riassunto, in attesa di giudizio». In realtà, l’uomo non ha mai lasciato la casa che occupa con la famiglia nei locali del manicomio, ha conservato la cattedra all’università ed è diventato addirittura direttore di Villa Russo, dove si spegnerà Renato Grossi, combattente di Spagna, cui il regime ha bruciato il cervello con gli elettrochoc. Se il tempo della vita l’avesse consentito, di lì a poco «l’amnistia di Togliatti» sarebbe giunta in soccorso del gerarca. Quel tempo mancò, perché la morte, nei panni di nemesi, il 27 maggio del 1946 tolse di mezzo il De Crecchio, mentre, impunito e circondato dall’ipocrita deferenza dell’accademia, governava tranquillamente il Manicomio Psichiatrico Giudiziario.

Di lì a poco, naufragata l’epurazione, l’amnistia firmata dal comunista Togliatti e scritta dal fascista Azzariti, chiude la partita, sicché nel 1960 tutti i 241 vice-prefetti e 62 dei 64 prefetti in attività di servizio provengono dal Ministero degli Interni fascista. In quanto alle forze di polizia, 120 dei 135 questori in servizio hanno fatto parte della polizia di regime e solo 5 dei 139 vice-questori hanno avuto un qualche ruolo nella Guerra di Liberazione. Non c’è posto di comando nei Ministeri chiave della Repubblica in cui non si incontrino fascisti. Perché stupirsi se oggi i fascisti di Casa Pound, coperti come sempre da complicità politiche e istituzionali, ripetono impunemente nelle nostre città le imprese dello squadrista De Crecchio, mentre la sinistra si divide su tutto, persino sul tema dell’antifascismo? Non è vero che la Storia non ci insegna nulla; molto probabilmente non abbiamo l’umiltà che occorre per apprenderne la lezione.

Agoravox, 24 febbraio 2016

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download (1)Nella nostra storia ci sono anche le foibe, vicenda minore di scarso significato, che ha radici nella «grande guerra», tragedia ben più grave, in cui su seicentomila «caduti», centomila li fecero la fame e il governo, che li lasciò al loro destino, prigionieri di Germania e Austria che non potevano alimentarli. Perché? Solo perché la resa fu ritenuta diserzione. Giovanna Procacci lo ha dimostrato documenti alla mano ed è strano che il Parlamento non li ricordi e «dimentichi» i prigionieri dei tedeschi, lasciati morire di stenti a migliaia, complice Salò, perché non aderirono alla Repubblica Sociale.
Radici lontane, quindi, nate dalla rottura del fronte interventista, quando i fascisti appiopparono a Bissolati il titolo di «croato onorario» e Salvemini divenne «Slavemini». Ciò che facemmo agli slavi fu vera barbarie. Si dirà che la violenza fascista non assolve la reazione, ed è vero, però la spiega ed è questo il compito della storia. Ciò che non si spiega, invece, è la speculazione politica che usa la memoria storica delle foibe per rovesciarne il senso, processare l’antifascismo e fare dei capi della Resistenza i protagonisti di una «congiura del silenzio» in un Paese in cui altri e ben più gravi e reali silenzi pesano sulla coscienza collettiva.
Per anni Gasparri e i suoi camerati hanno chiesto alla sinistra di dire fino in fondo la verità sulla nostra storia, ma non hanno mai incluso tra le verità da svelare le bombe di Piazza Fontana, Brescia, Bologna e quelle esplose nei treni e nelle piazze funestate dai neofascisti. Verità e silenzio sono temi obbligati quando si parla di foibe, ma non è chiaro chi avrebbe taciuto. A sinistra c’è una tradizione critica del comunismo che va da Malatesta a Salvemini, ma si finge d’ignorarlo. Galli Della Loggia e Giuliano Ferrara strepitano per i presunti silenzi, ma stanno zitti sul fatto che per decenni la grande stampa, tutta borghese e figlia del capitale, non diede spazio a chi aveva in tasca tessere rosse e solo di rado chi era di sinistra vinceva concorsi nella scuola, negli archivi e nelle biblioteche. Chi avrebbe taciuto, quindi, se l’editoria era in mano a borghesi, se Laterza era dominio di Croce e la Feltrinelli non era nata? Einaudi, da solo, fu il silenzio d’Italia?
Tacquero i politici. E quali? Quelli dell’area “atlantica” sì, perché vedevano di buon occhio il Tito antistalinista. Per la sinistra di classe, ministro degli esteri nel Governi Parri e poi in quello De Gasperi, fu Pietro Nenni, ex interventista, che sentì con forza il problema dei confini orientali e si batté per impedire che l’Italia subisse gli accordi di Malta tra Roosevelt e Churchill del febbraio del ’45, poi formalizzati da una proposta francese per la creazione di un territorio libero di Trieste. Nenni peregrinò per le cancellerie europee – Oslo, Amsterdam, Londra, Parigi – ma ottenne solo impegni generici. Fu lucido, chiese trattative dirette con la Jugoslavia e capì che dalla soluzione della questione non dipendevano solo i rapporti con Tito, ma anche la possibilità di autonomia da Mosca e dagli Occidentali. Quando si rese conto che il confine non sarebbe mai passato per la linea etnica, chiese che il territorio libero di Trieste comprendesse Parenzo e Pola e che i punti più delicati fossero risolti da referendum. Fu Nenni, ancora lui, per la sinistra, che, firmata la pace nel febbraio 1947, domandò a De Gasperi di attendere che l’Urss approvasse il trattato prima di chiederne la ratifica al Parlamento. Eravamo, però, un Paese vinto e il contesto internazionale non ammetteva scelte. Anche a Tito, che chiese infine trattative bilaterali, si oppose un rifiuto. Il piano Marshall, la crisi di governo voluta da De Gasperi e la guerra fredda chiusero la partita.
Verità e silenzio. Ma chi avrebbe taciuto e cosa? Gli storici di sinistra? Cortesi, Arfè, che non furono certo teneri con Togliatti, per non dire di Merli e Bosio, avevano davanti milioni e milioni di morti e l’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale. Era impensabile cominciare a scrivere di storia, partendo dalla classifica degli orrori; l’orrore era stato tema dominante della guerra: Coventry, Dresda, le città fucilate, le fosse di Katin, i lager, la Shoa, Hiroshima, Nagasaki Nessuno volle fare elenchi – e le foibe sarebbero comunque sparite nel mare di sangue causato dai nazifascisti. A tutti sembrò più serio e urgente ricostruire la storia stravolta dalla lettura fascista. E non a caso si partì da studiosi che non provenivano dall’accademia, compromessa col regime – la scuola di Croce, Salvemini, archivisti come Arfé – e si tornò a maestri come Gramsci, Gobetti e Rosselli. Per gli orrori bastava la nausea. Intanto occorreva capire com’era stato possibile cadere nell’abisso e conoscere l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo e della Resistenza. Nessun silenzio voluto.
La storiografia però è revisione continua e c’è sempre chi torna a Cesare e alla Repubblica romana. Il bisogno di approfondire e rivedere il quadro complessivo, tuttavia, incappò nel berlusconismo e nella crisi politica divenne propaganda. C’erano mille verità non dette cui sarebbe stato necessario dar rilievo: i gas sugli etiopi, i massacri libici, l’ignominia jugoslava e buon ultime quelle foibe, su cui le destre battono per presentare conti a croati e sloveni – senza badare a quelli ben più salati che loro potrebbero presentarci – e riesumare un anticomunismo grottesco, anacronistico, postumo, col metodo Goebbles: ingigantire i fatti e insistere sulla menzogna, perché diventi verità.
Come si è giunti all’uso politico di una vicenda storica secondaria? Ha ragione Gianpasquale Santomassimo: per un secolo la politica ha cercato legittimazione nella storia, vantando radici nel passato. Mussolini creò il mito della romanità, la sinistra, a giusta ragione, rivendicò le lotte del movimento operaio e l’antifascismo. Poi sono venuti l’89, il crollo del socialismo reale e il ’92 con Tangentopoli; a qualcuno il passato è parso ingombrante e il processo s’è capovolto. Ora nessuno cerca legittimità nella storia, perché essa è vergogna, lutto, dolore, violenza e c’è bisogno del «nuovo» che processi la storia e la separi dalla politica. I fascisti non sono più mussoliniani, il Pci si è autosciolto e i cattolici non sono più democristiani. Per non essere invischiati nel passato, i partiti prima hanno cercato casa al mercato ortofrutticolo, con largo spreco di rose nel pugno, garofani, ulivi e margherite – poi hanno preso nome dai leader e, infine, dopo la «Cosa», partito dei «senza storia» ecco quello “Nazionale” di Renzi. Su tutto si leva, comoda, la categoria del totalitarismo, che esalta le affinità a danno della differenze, come comanda il pensiero unico. Orwell aveva ragione: chi controlla il passato governa il futuro e chi controlla il presente gestisce il passato. Quello che conta è avere in mano il giorno che vivi.
Questo però non è fare storia.

Uscito su FuoriregistroAgoravox il 10 febbraio 2015

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sinpercabecerarticuloQuesta recensione spagnola di Rossana Rossanda non la conoscevo. L’ho scoperta per caso e mi ha fatto molto piacere.

¿Cuánto consenso tuvo en Italia el fascismo? Renzo de Felice afirma que fue vastísimo, incluso mayoritario. Giuseppe Aragno, investigador de la UniversidadFederico ll de Nápoles, ha publicado en Manifestolibri (1) una investigación que duda de esta tesis, en la que ve también uno de los orígenes de la revalorización o, al menos, de la minimización del golpe del fascismo. Aragno tiene ciertamente razón, aunque solo sea por la imposibilidad de evaluar consenso y disenso en un sistema totalitario, en el que el consenso es obligatorio y el disenso está sancionado con penas severas. Él sin embargo no se limita a este razonamiento, sino que ha realizado una investigación en los archivos de Nápoles para averiguar hasta qué extremo la misma policía y el ministerio del interior fascista se formulaban la pregunta, y ha recogido una insospechada cosecha de fichados y prácticas sobre disidentes, individuos o familias, identificados y perseguidos, con itinerarios vitales desesperantes entre vigilancia, cárcel y confinamiento. Y dejados fuera de la historia de los más conocidos. Antifascismo popular, ha titulado su trabajo, que si se hubiese extendido a otras ciudades, como sería el deber del país, habría generado muchas dudas respecto de la opinión de de Felice.
Lo que Aragno ha encontrado, también a sugerencia de Gaetano Arfé, que le ha dirigido, demuestra hasta qué punto el régimen se preocupaba de la amplitud del rechazo y con cuánta dureza lo reprimía. Cualquier idea, libro o folleto que fuese encontrado, cualquier expresión de desacuerdo, incluso aunque no estuviese seguida por acciones concretas, eran perseguidos por un policía avizor que una vez cogía a un sospechoso “subversivo”, no lo soltaba. Abría un “expediente” a su nombre y lo expedía a tribunales que condenaban a cárcel o al confinamiento. Desde 1924 en adelante los “expedientes” fueron llenando armario tras armario, y estuvieron vigentes durante mucho tiempo, al extremo de que a muchos no les fue posible hacerse restituir honor y libertad ni tan siquiera una vez terminada la guerra.

Dolorosos testimonios

La documentación recogida (el aparato de notas no es lo menos interesante aunque solo sea por el lenguaje y la argumentación de los comisarios y los prefectos) hace referencia a grupos sociales diversos, desde gentes del pueblo hasta profesionales, hombres y mujeres de diferente formación y adscripción política, a menudo sin adscripción política propiamente dicha, individuos o grupos familiares enteros que fueron perseguidos por lo que pensaban, por algún contacto que mantenían o por alguna ocurrencia que en medio de la exasperación, se les había escapado decir. Al menor motivo, le caía una “advertencia”, lo que significaba ser vigilado de por vida y prohibírsele acceder a una carrera. Quien podía trató de emigrar con diversa fortuna: en Francia la vida no era fácil, en Argentina lo era un poco más, quien marchó a España se vio envuelto en la guerra civil y se vio obligado al fin a huir perseguido por las tropas de Franco, y a penas cruzaba la frontera francesa era internado
Un hilo imaginario urde la arquitectura formal del volumen: el autor imagina encontrarse, un día de 1937 en la estación de Nápoles y divisar un grupo de personas encadenadas, los “políticos” destinados al confinamiento o a la cárcel después de larguísimos traslados. Las personas que Aragno nombra pasaron realmente por aquella estación y en aquel tiempo, y él las ha elegido entre otras muchas encontradas en el transcurso de su trabajo porque se volvieron a encontrar todos, con la excepción de un viejo anarquista muerto en 1931 en soledad (“aparente soledad” porque aquel fue un año de numerosas persecuciones) durante los Cuatro Días de Nápoles contra los alemanes en 1943. Son perfiles esbozados al aire, pero cada uno es una historia –que podría ser una novela. Tomemos aquelcon el cual comienza Aragno: la familia Grossi. La joven locutora italiana de Radio Libertad de Barcelona, Ada, es hija de un abogado de ideas socialitas que, en 1926, es vejado al extremo de verse obligado a cerrar el bufete, parte con los suyos rumbo a Argentina desde donde escribe en contra del régimen; después van a España, padre e hija trabajan en la emisora republicana, un hermano es herido en Teruel, deberán huir por separado a Francia donde serán internados también por separado; otro hermano se vuelve loco, después del armisticio tratan de regresar a Italia, son detenidos y conducidos esposados a Nápoles, y condenados al confinamiento. Tras el armisticio, insisto. Esto no es todo: padre e hija, en su momento habían sido expulsados de Radio Libertad no por Franco sino por los comunistas –los bolcheviques, como los llama Aragno-. La familia Grossi es un cristal sobre el que está tallada la tragedia de Europa. Y aún les fue bien, escribe Aragno, porque muchos de aquellos que habían regresado terminaron muertos. Y esta es al menos una familia vagamente socialista. Pero Ezio Murolo, periodista y partisano en los Cuatro Dias, es un inquieto, un rebelde, uno que incluso había participado en la aventura del Fiume de D´Anunzzio, pero duda de Mussolini. Es condenado a confinamiento por dudar, después ya no duda y se lanza de nuevo a la lucha. Y Luigi Maresca, empleado de Correos, que es despedido de allí en enero de 1928 por haber escrito un carta de admiración a Nitti, deberá huir con su mujer a Francia y después a Bélgica y vivir en la miseria, se sentirá tentado a enrolarse en la Guerra de Etiopía para salir de ella, pero se detiene antes de dar el paso y estará en las barricadas napolitanas de 1943. ¿Y todos aquellos otros que ha encontrado? Por tantísimos que quedan fuera del volumen, Aragno siente los reproches, en los últimos capítulos por haberlos omitido. Son páginas emocionantes, en las que no se oculta ya la polémica, mantenida hasta ahora en voz baja, hacia las fuerzas más grandes de la resistencia que en la postguerra confiscaron la historia oficial. Son sobre todo los comunistas, que oscurecen no solamente a sus adversarios internos, los bordiguistas, (uno de cuyos grupos permanecerá en Nápoles durante largo tiempo, obstaculizado por aquel Eugenio Reale que será posteriormente expulsado del partido por razones opuestas), sino también a los socialistas y a los anarquistas, intransigentes, irreductibles al comunismo “stalinista”.

Una guerra del pueblo

No fue el sufrimiento menor, en este antifascismo, la desconfianza e incluso el odio entre gente que estaba de la misma parte. A Togliatti, Aragno le reprochará, como se puede imaginar, la “Svolta de Salerno” (2). Los personajes que ha encontrado son, sí, también militantes comunistas, pero por lo general, gente que sigue otros ideales, a menudo personas impulsadas por una difusa “rebelión moral” que, a penas se presentan las condiciones con el desembarco y el avance de los aliados, combaten con valor -pueblo auténtico, choques durísimos, con muchas pérdidas infligidas y recibidas, un pueblo que una verdadera estrategia de clase no habría entregado en manos “del ex fascista y criminal de guerra” Badoglio, para complacer a los aliados. La opinión a la que Luigi Cortesi nunca ha renunciado a lo largo de toda su obra (véase particularmente El Sur 1943. La opción, la lucha, la esperanza, Ediciones científicas italianas a cargo de Gloria Chianese) es también la de Aragno: una línea insurreccional, más semejante a la de Tito que a los tiempos largos de Togliatti, no solo habría sido más justa, sino que era posible: lo testimonian aquellos nombres, aquellas historias. El PCI va acompañado por la sombra de la represión del POUM español, de los trotskistas, de todo lo que está a su izquierda y le parece extremista en Italia y en aquel momento; incluso cuando Aragno reconstruye las figuras de los comunistas con su habitual escrúpulo, no esconde que en su opinión las prioridades de aquellos son no las del pueblo sino las del partido y las de sus lazos con la UniónSoviética
De entre las muchas culpas de las que se acusa hoy a los comunistas italianos y que, a mi juicio no resisten un análisis, hay una que es absolutamente cierta, y sobre la cual el PCI mientras existió y sus propios enterradores después, no han hecho autocrítica: la desconfianza y a menudo el ataque a las fuerzas minoritarias que combatieron el fascismo y la resistencia. Y no tanto, por obvios motivos, los socialistas o los pocos trotskistas italianos, pronto valerosos en la resistencia, sino Justicia y Libertad. Los recientes trabajos de Giovanni de Luna, en especial en carteo entre Dante Livio BIanco y Aldo Agosti y los múltiples estudios de Mimmo Franzinelli dan testimonio de una gran realidad y de una gran ocultación. Pero no es este el núcleo del largo trabajo de Aragno: es la necesidad moral de restituir la memoria de los olvidados más de la cuenta de una insurrección, también ésta ante todo moral, de los italianos de la primera mitad del siglo XX, y la indignación por la actual desenvoltura del estado presente y de sus instituciones en lo que concierne al fascismo. Desenvoltura que no será ni la primera ni la única razón de la degradación política, pero no es con seguridad, la última.

Notas:

(1) Giuseppe Aragno, Antifascismo Popular, Ed Manifestolibri, 192 pp., 20 Euros
(2) Giro político o inflexión “basado en el apoyo del partido a las medidas democráticas necesarias para instaurar la República y el abandono de la lucha armada para alcanzar el socialismo” (Wikipedia)

Rossana Rossanda Supermiso, 6 settembre 2009.

Rossana Rossanda es una escritora y analista política italiana, cofundadora del cotidiano comunista italiano Il Manifesto. Acaba de aparecer en España la versión castellana de sus muy recomendables memorias políticas: La ragazza del secolo scorso [La muchacha del siglo pasado, Editorial Foca, Madrid, 2008]. Rossana Rossanda es miembro del Consejo Editorial de Supemiso.

 

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f482788d079e8d4eb9f7d18d2671dc22829b4615de2a808fdf9c09f6_175x175Il 17 agosto scorso, in un articolo dal titolo accattivante – «L’italiano della Potemkin. Francesco Misiano, l’uomo che inventò la Hollywood rossa» Giancarlo Bocchi ripercorre la vita avventurosa e appassionante di Francesco Misiano, rivoluzionario calabrese che – scrive giustamente – «è indissolubilmente legata alla storia del cinema e in particolare all’”età dell’oro” del cinema russo. Capolavori come La Corazzata Potemkin non sarebbero mai arrivati ad un successo internazionale e epocale senza il suo intuito. Inventore della cosiddetta “Hollywood rossa”. Misiano fu in sostanza il più grande produttore cinematografico dell’Unione sovietica. Riuscì a realizzare quattrocento tra film e documentari». Chissà, forse per aggiungere un alone di maggior mistero alla sua bella storia, Bocchi sostiene che nel dopoguerra Misiano fu cancellato dalla memoria collettiva. Ormai, quando si tratta di tirare calci al Pci, nessuno perde l’occasione e la gratuita pesantezza degli attacchi induce a schierasi per il partito che fu di Bordiga e Gramsci anche chi nella sua giovinezza lo ha lungamente combattuto.
Non è vero che Misiano fu cancellato. Giuseppe Berti lo ricordò in occasione della morte in un efficace ritratto del 1937 e nella sua Storia del PCI Paolo Spriano lo ricorda numerosissime volte. Di lui parla a lungo, in termini critici, Michele Fatica in un saggio del 1971 intitolato Le Origini del Fascismo e del Comunismo a Napoli; solo un anno dopo, nel 1972, Franca Pieroni Bortolotti ha firmato il suo Francesco Misiano: vita di un internazionalista. Nel 1997, poi, Giovanni Spagnoletti, in collaborazione con Michaela Bohmig, ha curato il volume Francesco Misiano o l’avventura del cinema privato nel paese dei bolscevichi, un libro che anticipa buona parte delle «rivelazioni» di Bocchi, il quale – come capita sempre più spesso ai giornalisti – non mostra un gran rispetto per il lavoro altrui.
La parte meno nota della vita di Misiano è certamente quella che riguarda la sua fine. L’articolo di Bocchi, del resto, bello sì, ma troppo «sensazionalistico» per tentare la via del rigore, tace su molte pagine significative della vita di Misiano e si guarda bene dal dire che fu iscritto alla Massoneria. In realtà, Misiano fu un noto dirigente della sezione napoletana del Sindacato Ferrovieri prima della “Grande Guerra” e nel dopoguerra divenne segretario della Camera Confederale del Lavoro di Napoli. Nella storia narrata da Bocchi spariscono le relazioni che intrattenne fino all’ultimo con i compagni campani, in primo luogo con Oreste Abbate, ferroviere napoletano, anarchico e poi bolscevico, rivoluzionario, antimilitarista e disertore, come lui, che con Misiano aveva partecipato a Berlino ai moti spartachisti. Condannato a morte dai tedeschi e sfuggito all’esecuzione, anni dopo aveva raggiunto in Russia il compagno, aveva criticato aspramente il regime instaurato da Stalin e dopo la morte dell’amico si era rifugiato in Francia. In ombra resta soprattutto la figura della moglie di Misiano, Maria Conti, e non trova risposta una domanda che non è priva di significato: com’è che dopo la fine del marito e la persecuzione che si sarebbe scatenata contro di lei, la donna non solo rimase a Mosca, ma tra il 1937 nel 1938 si adoperò perché il figlio Walter, «minorato fisico», lasciasse Napoli, dove viveva con lo zio Mario Conti, e la raggiungesse a Mosca? La risposta ci aiuterebbe a capire meglio che accadde davvero a Misiano.
Il viaggio di Walter, di cui il regime fascista era perfettamente a conoscenza, fu organizzato tra la Francia e Napoli da Oreste Abbate, il vecchio compagno che aveva combattuto con Misiano mille battaglie, e dal fratello di Oreste, Armido, anarchico napoletano e perseguitato politico, che conosceva Misiano dai tempi del Sindacato ferrovieri, di cui era stato a Napoli il Segretario provinciale. Non è una domanda banale, così come non è banale ricordare che ben altri silenzi sono a poco a poco caduti sui protagonisti di questa complessa vicenda politica. Del tutto sconosciuto, infatti, è Oreste Abbate, che nel 1948 viveva ancora in Francia e probabilmente non tornò mai più in Italia; ignorato è stato Armido, di cui solo agli inizi di questo secolo una mia breve biografia ha ricordato la figura di antifascista che fu poi combattente delle Quattro Giornate, ma non figura nemmeno nell’elenco dei partigiani riconosciuti. Era stato critico feroce del Patto di Roma, l’accordo tra DC, PCI e PSI, che soffocò nella culla la CGL ricostituita da un altro grande «dimenticato»: Enrico Russo, segretario regionale della Fiom, combattente di Spagna e avversario di Togliatti, di cui contestò le scelte dopo l’armistizio. Se Misiano finì i suoi giorni in un sanatorio. Enrico Russo, letteralmente cancellato dalla storia, morì solo e dimenticato in un ospizio per i poveri. Aveva rifiutato l’incarico di Ministro del Lavoro che gli era stato offerto da Togliatti per addomesticarne l’opposizione.
Bocchi non lo sa, ma il silenzio, quello vero, che pesa e che ha un profondo significato politico, non nasce dai dissensi e dagli scontri dolorosi che caratterizzano la storia della sinistra. Il silenzio più terribile è quello di una storiografia che, pronta a salire sul carro dei nuovi padroni, ha lasciato da tempo la storia del movimento operaio e socialista in mano a giornalisti a caccia di scoop.

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Ringrazio Aurora del Vecchio che mi ha consentito di riflettere attentamente sull’evoluzione della specie. Avevo sempre creduto, infatti, che il processo evolutivo avesse seguito per grandi linee questo percorso: esseri venuti dal mare – abbiamo nel sangue quasi tutte le sostanze contenute nell’acqua marina – si adattano a vivere tra acqua e terra. Più o meno anfibi, questi organismi si modificano al punto di abbandonare il mare e vivere stabilmente sulla terraferma. Tra le specie che meglio sanno adattarsi, una si distingue tra tutte: la scimmia antropomorfa. Passo dopo passo, la coda si atrofizza e oggi non è che un’appendice estrema della colonna vertebrale, il coccige, testimone di ciò che fummo in un tempo che ritenevo lontano. A noi non restano che alcune vertebre saldate tra loro e prive di una funzione reale. Fermamente credevo che, partiti, dal mare e approdati a terra, per mille vie e nel corso di un tempo che è molto più lungo delle età della storia, ci fossimo trasformati in quello che siamo. Credevo anche che questo valesse per tutti noi. E’ proprio vero, però, che nessuna scienza è mai così esatta che non si possano registrare delle inspiegabili contraddizioni. Prendete la politica, per esempio, e osservate uno dei suoi esemplari più noti: il “leader di sinistra”.
clip_image002Se si mettono assieme gli elementi che possediamo, è facile credere che ad un certo punto del cammino, nonostante le differenze enormi – riformisti, rivoluzionari, socialisti, socialdemocratici, comunisti e chi più ne ha più ne metta – nonostante questo e molto altro, la trasformazione c’è stata: Bordiga, Gramsci, Togliatti, Berlinguer per quanto lontani tra loro ti sembrano della stessa famiglia. Poi, però, qualcosa deve essere evidentemente accaduta; quando ti trovi davanti a Renzi, infatti, i conti non tornano e te ne rendi conto con dolorosa chiarezza. Per carità, la coda non si vede, ma come escludere che la tenga prudentemente nascosta? Riformista, rivoluzionario, socialista, socialdemocratico, comunista? Nulla di nulla e forse l’esatto contrario. Tutto ti fa pensare davvero a una misteriosa involuzione: l’homo sapiens si è modificato anche nell’aspetto esteriore. Per ora si tratta di sfumature, dettagli – occhi lievemente spenti e una fissità da bambolotto di plastica, che sconcerta – ma il processo involutivo, tuttavia, il pericoloso ritorno ai pitecantropi non richiede approfondite analisi o dimostrazioni. Il passaggio dalla scimmia antropomorfa ai suoi lontani antenati si documenta da solo. “Renzi, fuori la coda!”, ti viene da esclamare ma, se ti fermi e rifletti, ti rendi conto che, oltre al leader, ci sono in giro tre milioni di figli dell’homo sapiens che l’hanno votato! Un dubbio angoscioso allora ti sorge: non è che le involuzioni sono contagiose? Se è così, vade retro Renzi, alla mia età, ci manca solo la coda!

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Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea, n. 2 dic 2010

Leggere, spiegare interpretare la storia:
ogni nuova lettura è infatti una nuova costruzione,
una riscoperta del passato ad uso del presente

Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, 1985

Di certo si ripete un banale truismo quando si dice che è il presente con l’insieme dei suoi problemi politici e sociali a spingere lo storico a interessarsi di un dato tema, così da concludere che in ultima istanza ogni movimento storico risulta contemporaneo. Nessuno meglio di Marc Bloch, tra gli storici del XX secolo, ha insistito sull’indissolubilità del legame passato-presente per fare storia, ed è altrettanto significativo che su questo nodo egli s’interrogasse nei mesi precedenti la sua fucilazione ad opera delle truppe naziste avvenuta alle porte di Lione, nella primavera del 1944. Antifascismo popolareMi sembra questa la premessa d’obbligo dal momento che è la crisi del modello democratico occidentale che stiamo vivendo, unita alla deriva populistico-autoritaria dei governi di centro-destra del nostro Paese, il focus storico e ideologico del recente, interessante saggio che Giuseppe Aragno ha dedicato all’antifascismo popolare a Napoli (Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie, manifesto libri, Roma, 2009)1. Ed è ancora una volta il pensiero di Bloch – “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente”2, a sollecitare un corretto approccio d’analisi per un tema di così aperta attualità, nonostante i non pochi tentativi contrari messi in campo dal revisionismo storico negli ultimi anni.
Parlare quindi dell’antifascismo della città di Benedetto Croce, il riconosciuto capofila dell’antifascismo “morale”, la cui “religione della libertà” portò – come è noto – più di una generazione di lettori delle sue opere alla scelta della lotta armata contro la dittatura significa fare i conti oltre che con la storiografia contemporanea con il dibattito che considera questo tema ormai obsoleto.
Finora la letteratura dell’antifascismo napoletano – è risaputo – si è polarizzata essenzialmente su due filoni di ricerca. Da una parte ha analizzato il mondo dell’intellighenzia che vedeva muoversi intorno allo stesso Croce personaggi della cultura come Adolfo Omodeo, Roberto Bracco, Francesco Flora e altri, tutti in fondo riconducibili alla lezione dell’idealismo storicista; dall’altra il mondo del lavoro d’area comunista sta, cui si rifacevano nei primi anni Trenta del secolo scorso i “giovani” intellettuali Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Giorgio Amendola. Decisamente altro invece è l’obiettivo di Antifascismo popolare: nessuna concessione alla “storia dall’alto” né tantomeno a quella dei leader dei partiti, dal momento che l’attenzione dell’Autore è rivolta alla soggettività dei militanti e al complesso definirsi e manifestarsi dell’antagonismo dei “sovversivi”, non limitato infine alla sola area comunista. In una parola, sono le “storie di vita” ricostruite dall’onnipotente polizia di Arturo Bocchini a fare la storia dell’antifascismo, da cui muove Aragno nel ripercorrere il difficile e sofferto “viaggio” delle idee e delle e delle azioni di uomini e donne contro il totalitarismo in un saggio originale che si colloca perciò ai massimi livelli della storiografia contemporanea. A questo punto, se un riferimento si deve fare, il richiamo obbligato non può che essere al lavoro di Danilo Montaldi e che cosa ha significato l’ “osservazione partecipe” che lo studioso cremonese ha messo in piedi nella ricostruzione del movimento socialista italiano tra Ottocento e Novecento nelle sue molteplici espressioni e derivazioni, a cominciare ovviamente dal riconoscimento dell’importanza avuta dal rimosso anarchismo3. Tornerò dopo sull’aspetto specificamente metodologico-storiografico e sugli interrogativi che il saggio di Aragno sollecita, mentre ora mi sembra opportuno fare alcune considerazioni di ordine politico generale per contestualizzare il tema affrontato.
Il punto di partenza di Antifascismo popolare è in diretta connessione con il ciclo storico e politico degli ultimi venti anni, l’origine cioè della crisi attuale. Il periodo che ha visto implodere in campo internazionale, nel 1991, l’Urss e il “socialismo reale” mentre in Italia la vittoria del liberismo portava al potere, nel 1994, il primo governo Berlusconi, espressione di un reazionarismo populistico sintesi della collaborazione dei partiti dell’estrema destra, tra cui Alleanza Nazionale e la Lega Nord. In contem-poranea si assisteva alla scomparsa del Pci, il più forte partito comunista d’Occidente protagonista di “storiche” conquiste politiche e sindacali dell’ultimo mezzo secolo, a favore di una nuova formazione partitica d’impostazione democratica che tagliava però di netto con la tradizione del movimento operaio e la cultura di sinistra. Una tale pratica politica ovviamente si accompagnava a livello ideologico con un revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra che considerava il fascismo e il comunismo due utopie tragiche e speculari del Novecento …
Per quanto concerne propriamente l’antifascismo italiano, il riferimento polemico di Aragno anche se appena richiamato è il fortunato pamphlet di Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo4, eccessivamente esaltato e pour cause dalla sinistra nostrana, dal momento che non si può tralasciare di ricordare che lo storico torinese è rimasto vittima dello stesso schematismo revisionistico che voleva combattere. Se il fascismo è definitivamente morto da anni e non se ne vede ormai ombra alcuna – è questa la tesi di Luzzatto – l’antifascismo quindi, privo di avversari, rappresenta un pugile suonato, prigioniero com’è di un’anacronistica coazione a ripetere. In Italia poi, egli precisa, “non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo”; ora “è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi, allora, se la fine dell’uno ha accelerato l’agonia dell’altro?”5. Circa i partigiani sopravvissuti, la conc1usione è ancora più obbligata: “L’ombra del comunismo, con il suo carico enorme di sofferenze e di atrocità, si allunga su questi vecchi […] fino a farli apparire improbabili come campioni di moralità e maestri di democrazia”6. Caduto infine il muro di Berlino, è morto anche il comunismo, ed allora per il nipotino italiano di Nolte anche l’antifascismo muore per inedia mentre la generazione che lo ha vissuto si esaurisce per legge naturale …
Si sarebbe visto di lì a poco che la retorica delle “magnifiche sorti e progressive” della “catastrofe” epocale del 1989-91 preludeva semplicemente ad una fase di selvaggio liberismo, il cui collante ideologico poggiava enfaticamente sulla “fine della storia” e la centralità del mercato quale unico mezzo di sviluppo. Dapprima la guerra civile nell’ex Jugoslavia poi l’assorbimento dei paesi dell’Europa dell’Est da parte di quelli: capitalistici dell’Europa unita, infine la guerra del Golfo segneranno la caduta delle illusioni dell’ultimo decennio del Novecento.
Su una novità di tale portata vale la pena ricordare quanto scrisse un irriducibile critico delle ideologie correnti come Franco Fortini “I grandi movimenti, non possiamo ancora decifrarli. Possono avere esiti imprevedibili, buoni o pessimi. Ma una cosa è certa: qualcosa è crollato, non solo laggiù, ma qui. Non è la libertà‟ di cui scrivono i ridicoli mostri della pubblicistica di servizio. È una liberazione. Non credevo di arrivare a vedere questo inizio. Devo ripensare, imparare, capire”7.
Diversamente però dall’impegno rivendicato dall’intellettuale Fortini per comprendere il presente in movimento, la politica internazionale risponde con le armi di sempre, a cominciare dalla guerra. È anche il momento, detto tra parentesi, della massima diffusione nel nostro paese del pensiero di Carl Schmitt. Dopo l’abbattimento delle torri gemelle di New York e la successiva guerra all’Irak di Saddam Hussein usando falsi documenti circa il possesso di armi di distruzione di massa, la politica imperialistica di George W. Bush localizza nel mondo islamici il centro del terrorismo internazionale, aprendo contro di esso una crociata in difesa dei valori occidentali e questo significa la sostituzione del Welfare con il Warfare e l’annessa politica di potenza. “Il passaggio dallo stato sociale all’economia politica è stato decisivo, ha scritto Mario Tronti dinanzi al manifestarsi delle prime crepe del mercato globale. E si è incontrato con il fallimento della costruzione di socialismo, l‟intero campo anticapitalistico si è sfaldato”.

Nello specifico italiano, intanto, assistevamo alla crisi del sistema dei partiti ad opera di Tangentopoli con il trionfo dell’homo novus, il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi, il cui obiettivo era arrivare attraverso un bonapartismo mediatico all’annullamento degli istituti di democrazia rappresentativa nati dalla Resistenza. Ancora una volta, un abile animale politico tentava, in tempo di alta tecnologia dell’informazione, il recupero del peggiore reazionarismo della storia novecentesca del nostro Paese, facendo tesoro del senso di sfiducia diffuso tra l’opinione pubblica e del rigetto della politica che accompagna periodi del genere8. Di qui il manifestarsi di un progetto populistico-autoritario che vede un attacco sistematico alle regole della democrazia, dal ridimensionamento del parlamento a vantaggio dell’esecutivo e in particolare del “capo” del governo che legifera prevalentemente con decreti-legge, alla lotta costante all’autonomia e ai rappresentanti del potere giudiziario, che ha “osato” incriminarlo in diverse occasioni per provati reati di corruzione e falso nella gestione delle sue aziende televisive, alla sempre maggiore influenza della chiesa cattolica negli affari dello Stato e nelle questioni di bioetica – si ricordi la violenta crociata dei difensori della vita sul tema dell’eutanasia a proposito del “caso Englaro” -, alla caccia allo straniero, al quale una superficiale quanto indiscutibile lettura razzista della crisi economica attribuisce l’origine di ogni malessere.
Dalla parte dell’opposizione di sinistra, l’incapacità politica del governo Prodi, determinata dall’assenza di un progetto politico-culturale alternativo a quello berlusconiano, ha portato quell’area all’inevitabile sconfitta elettorale dell’aprile 2008, trascinando con sé anche la rappresentanza della “sinistra radicale”. In questo stato di cose, che ho sintetizzato per ovvi motivi in maniera cronachistica, si viene alimentando giorno dopo giorno la deriva populistico-autoritaria della democrazia italiana, e ridotti così gli spazi del dibattito tra posizioni non più diverse – tanto dal punto vista politico che ideale -, si afferma il pensiero politico del regime. La definizione di deriva populistico-autoritaria è di uno storico della letteratura, attento da sempre alle contraddizioni della società capitalistica, qual è Alberto Asor Rosa e risale all’estate 2008. inoltre Asor Rosa si rivela tra i pochi intellettuali italiani impegnati a seguire storicamente i segni del “fascismo” e/o del totalitarismo del quarto governo Berlusconi in polemica con la lettura moderata della sinistra e della maggioranza della stampa, che non riconosce alcuna matrice antidemocratica a quella prassi politica.9
Per tornare al nostro argomento, va detto che è l’attuale situazione politica italiana con i suoi numerosi caratteri antidemocratici – talvolta sfocianti in aperto fascismo da parte dell’esecutivo in carica – ad aver spinto alcuni analisti allo studio del fenomeno fascista del XX secolo, mentre nel frattempo le posizioni del revisionismo di destra sono diventate ormai giudizi storici acquisiti. In questo clima di impudica quanto strumentale amnesia dei recenti processi storici, di cui qualsiasi deputato del Partito della libertà o della Lega Nord dà quotidianamente testimonianza, uno studioso del fascismo, Emilio Gentile, ha ricordato quanto sostenuto tra il provocatorio e il surreale da un anonimo nostro contemporaneo “Forse il fascismo non è mai esistito”10. Ma nonostante una tale grottesca situazione – o grazie ad essa? – da alcuni anni stiamo assistendo ad una lenta, qualificata ripresa della storiografia del fascismo napoletano tanto da poter parlare di un Faschismus-Renaissance. alla cui base va collocata la messa in discussione dell’ideologia berlusconiana dell’ “eterno presente”. I primi risultati finora conseguiti fanno ben sperare, ed è certamente questo il modo migliore di rispondere ai revisionismi nostrani che teorizzano la defascistizzazione del fascismo come la definisce appunto lo stesso Gentile, per caratterizzare la dittatura mussoliniana alla stregua di uno Stato autoritario privo del parlamento! In breve si nega in maniera esasperante che vi sia stata un’ideologia fascista, una classe dirigente fascista, una cultura fascista, una dittatura fascista, dato che la perdizione del regime è dovuta principalmente all’intesa con la Germania nazista e di qui il successivo razzismo e antisemitismo.
Di questo filone d’indagine di storia locale non si può trascurare di citare la ricerca realizzata qualche anno fa dalla Cgil e curata da Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930-1943), del 2006, con saggi di Giuseppe Aragno, Alessandro Hobel, Andrea De Santo11. In quell’occasione sempre Aragno aveva dato un’anticipazione dell’indagine avviata sull’antifascismo popolare napoletano che si sarebbe concretizzata nell’omonima monografia del 2009. Un altro lavoro degno di segnalazione è senza dubbio il Seminario di studio su Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), tenuto presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli tra il gennaio e l’aprile 2005 e pubblicato l’anno dopo con l’omonimo titolo da “La Città del Sole”, contenente saggi di Luigi Cortesi, Luigi Parente, Sergio Muzzupappa, Alessandro Hobel, Fabio Gentile12. Si tratta di una significativa summa di analisi politico-sociali sullo scontro fascismo-antifascismo nella metropoli del Mezzogiorno che supera cronologicamente il ventennio e si collega alle novità critico-metodologiche apertesi con il Sessantotto in particolare grazie al lavoro pionieristico di Guido Quazza e Luigi Cortesi13. Il merito di questi due studiosi è stato infatti il superamento del “mito della Resistenza” tanto a cuore ai partiti di massa antifascisti insieme alla considerazione della sua centralità nella storia dell’Italia del Novecento, così che stigmatizzando i caratteri della democrazia da essa derivata veniva messo in risalto il ritardo dell’applicazione della Costituzione nel fondare una reale società democratica.
Nell’analizzare inoltre – per quanto concerne il caso Napoli – la transizione dal fascismo alla Repubblica all’indomani del Secondo conflitto mondiale, Cortesi, in un saggio del 1977, esemplare per il rapporto instaurato tra i dati strutturali di quella società e la memoria collettiva dei protagonisti delle lotte di quegli anni, ha parlato della città partenopea come di un “laboratorio politico” della storia italiana del XX secolo. E ciò per essere stata l’ex capitale del Regno delle Due Sicilie una delle sedi della nascita insieme a Torino del Partito comunista fondato per iniziativa di Amadeo Bordiga14. Ed ancora, quello che accadrà a Napoli dopo la rivolta antifascista popolare delle Quattro giornate (28 settembre-1 ottobre 1943) e la presentazione del “partito nuovo” di Togliatti con la “svolta di Salerno” (aprile 1944) sarà niente altro che la prefigurazione dello sviluppo moderato entro cui s’incanalerà la politica comunista nei decenni successivi. Come è noto, il progetto del “partito nuovo” del Pci “verteva sulla collaborazione delle forze della sinistra con la vecchia classe politica prefascista in direzione di una “democrazia progressiva” da realizzare nell’ambito degli istituti di uno Stato liberal-costituzionale. In una parola, è Napoli la capitale della nuova Italia nel 1943-44, visto che è essa e non Brindisi né Salerno il centro politico del “regno del Sud”, ed è qui che il vecchio blocco storico proverà i nuovi compromessi di governo prima di passare a Roma.
A questo punto, bisogna sottolineare che l’antifascismo napoletano che esce dal saggio di Aragno si presenta estremamente variegato e differenziato nei suoi caratteri ed obiettivi anche se ovviamente non molto diffuso nella società locale, ma non fu questo il proprio dell’opposizione nazionale, dato il forte controllo messo in piedi dai sistemi di repressione, come sta chiarendo la recente storiografia dello Stato totalitario mussoliniano? Lo studioso napoletano si muove con padronanza nell’area dell’antifascismo, tra la tradizionale critica delle “anime belle” alla Croce e l’opposizione moderata di una limitata parte del mondo cattolico, subalterna al fascismo delle gerarchie ecclesiastiche che si riconoscevano nell’opera del cardinale Ascalesi, fino all’antagonismo di classe dei militanti e “sovversivi” di sinistra, in primis gli anarchici, la cui individuazione e sistemazione rappresentano senz’altro la parte la parte più originale dell’intero lavoro. Di conseguenza, risulta oltremodo difficile dar conto delle numerose iniziative e forme di lotta che l’Autore ha ricostruito sulla base delle carte del Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato, mentre lo spettro d’esame va oltre la limitata fase dello “spontaneismo” del dopo 8 settembre, rimasto tuttora il motivo ispiratore della rivolta dell’autunno 1943 secondo la vulgata storiografica. E ciò, nonostante le immediate conclusioni “aperte” su quelle “giornate” di uno storico, attento analista della dialettica socio-politica come Corrado Barbagallo in Napoli contro il terrore nazista15.
Entrando poi nel merito dell’antifascismo napoletano, si esce dall’impasse dei luoghi comuni o peggio dal minimalismo revisionistico oggi di moda soltanto seguendo – a dire di Aragno – il “lungo viaggio di generazioni diverse dal punto di vista sociale e/o ideologico di quella singolare galassia culturale e politica che fu la Napoli dei primi decenni del Novecento. Ancora una volta, come è accaduto per casi di altre realtà del nostro Paese, il primo problema da affrontare riguarda lo studio della società nelle sue stratificazioni – così l’indagine spazia dalla grande borghesia delle professioni libere alla classe operaia di fabbrica all’artigianato, elemento di forza dell’economia locale, ed ancora dalla piccola-borghesia al sottoproletariato metropolitano hegelianamente liquidato come “plebe” dallo storicismo contemporaneo: in una parola, è realmente l’antifascismo popolare napoletano il protagonista dell’analisi.
Per inquadrare infine la tradizione rivoluzionaria di questa area di irriducibili oppositori del regime ci aiuta la storia della città di Napoli tra Ottocento e Novecento, la sua presenza nelle vicende delle lotte per la democrazia postunitaria non disgiunta da quella del contemporaneo movimento operaio e socialista. Alla base di quest’ultimo, si ritrova l’eredità del movimento anarchico di Bakunin, che nell’ex capitale borbonica fu attivo all’indomani dell’Unità, e la cui critica al parlamentarismo democratico mazziniano portò alla fondazione della prima Sezione italiana dell’Internazionale (1869). Ed inoltre non minore influsso esercitò nella galassia della sinistra – nel secolo successivo – il comunismo internazionalista di Bordiga, dopo la breve fase del sindacalismo rivoluzionario che ebbe in Arturo Labriola ed Enrico Leone le avanguardie di livello nazionale. Ancora una volta l’utilizzo della categoria di “laboratorio politico” si rivela proficuo ai fini di una ricostruzione sine ira et studio del movimento operaio e socialista napoletano che in quell’area mise in piedi un importante centro di teoria pratica.
Ma è proprio il ruolo dell’ anarchia nella conoscenza e diffusione del pensiero di Marx nel nostro Paese poco considerato da Aldo Romano nella sua fondamentale Storia del movimento socialista in Italia (Milano-Roma, 1954-56, voll. 3; ripubblicata nel 1966), è stato ritenuto invece nodale dalla successiva storiografia socialista e ha ricevuto da Aragno l’inoppugnabile conferma della tendenziosità della tesi dello storico napoletano. Nel libro, il caso del giovane Romano divenuto negli anni Trenta del secolo scorso uno storico vicino alle posizioni del fascismo, viene affrontato con la necessaria acribia filologica e non minore sensibilità umana, rivelando così tutta la maturità del ricercatore nel trattare argomenti di tale delicatezza.
Il ventenne studente liceale Aldo Romano, figlio di Nunzio proprietario e direttore dell’Istituto scolastico privato “Vittoria Colonna” della città partenopea, nutrito in un ambiente di idee radical-socialiste, viene condannato per antifascismo insieme all’amico Giovanni Pugliese-Carratelli, il futuro filologo classico della Scuola Normale di Pisa, a due anni di confino a Cava. Dopo però appena 8 mesi di “condotta irreprensibile”, il capo del Governo lo restituisce alla famiglia (12 luglio 1931)16. Pentitosi degli errori giovanili, questi riesce ad iscriversi al Pnf, nonostante il parere negativo della Federazione napoletana, ed inizia così con la protezione di Gioacchino Volpe e del ministro dell’Educazione nazionale De Vecchi la folgorante carriera di storico del Risorgimento, rappresentando il fascismo agli appuntamenti culturali internazionali.
In quegli stessi anni la recrudescenza del controllo quotidiano della polizia nonché il suo sempre più duro comportamento nei confronti dell’antifascismo militante si spiegano, secondo l’Autore, alla luce dell’aumento del costo della vita indotto dalla crisi industriale e produttiva che colpisce sia la città che la regione, interessando l’area chimica e metallurgica, il settore marittimo, quello tessile senza trascurare il mondo dell’artigianato, elemento portante dell’economia locale. Si acuisce di conseguenza il sistema repressivo della dittatura, e pur tra non poche contraddizioni il Questore riesce a mettere in piedi un collaudato apparato di controllo, da cui sarà colpita in particolare la sinistra di classe, mentre l’obiettivo del potere è d’ora in poi uno Stato totalitario efficiente.
Nel secondo dopoguerra, Aldo Romano, ormai noto per gli studi su Carlo Pisacane e per la genesi nazional-democratica del comunismo italiano, aderirà al Pci, e vestiti i panni dello stalinismo imperante contesterà dal punto di vista storiografico l’azione del rivoluzionario Bakunin, fino a definirlo un “deviazionista” e un “opportunista” del movimento socialista17. Violenza settaria e pregiudizi ideologici che riportano ad una stagione politica definitivamente storicizzata, sulla quale la critica storica sviluppatasi sull’interdetto mondo dell’anarchia, si ricordi per tutti il lavoro avviato fin dagli anni Cinquanta da Pier Carlo Masini ha conseguito contributi di indiscusso valore ed importanza.
Se intanto ci soffermiamo al puro dato statistico dell’antifascismo Napoletano vi troviamo oltre 2000 antifascisti schedati dal Casellario Politico, e 396 confinati. A costoro poi occorre aggiungere gli ammoniti, i diffidati, coloro che finirono davanti al Tribunale Speciale, quanti insomma passarono tra le maglie del sistema poliziesco – e sì che ce ne furono! -, ed infine non pochi esponenti femminili, a cominciare da quella Teresa Pavanello, una napoletana nata in emigrazione in Brasile, che conoscerà tutti i luoghi della repressione, prima di finire sepolta nel manicomio provinciale della sua città.
Essenzialmente due risultano le novità di rilievo del libro di Aragno: il riconoscimento della presenza in realtà abbastanza considerevole del movimento anarchico nella metropoli meridionale, finora identificato soltanto con la militanza del dentista Giuseppe Imondi e della sua compagna, l’indimenticabile Maria Berardi; e last but not least, l’antifascismo femminile. Senza tuttavia voler sottovalutare il significato e la portata critica del pensiero libertario all’interno del movimento socialista, di cui l’indagine dà non pochi dati sia storici che archivistici di prima mano, credo che la ricerca dovrà in futuro continuare a insistere sul secondo argomento, dal quale emergono in maniera inequivocabile tanto l’originalità che la diversità del femminismo quale si espresse nella lotta al fascismo.
Tra le tante “storie di vita” tirate fuori dall’oblio e ricostruite in maniera davvero partecipe da Aragno si colloca quella della famiglia Grossi che vale la pena seguire attraverso le vicissitudini dei suoi componenti, all’indomani della fuga dalla Italia alla ricerca di un rifugio sicuro. L‟internazionalismo socialista del XX secolo è incarnato come meglio non si potrebbe dall’avvocato antifascista Carmine Cesare Grossi e dalla moglie, Maria Olandese, noto soprano lirico conosciuto finanche a Pietroburgo, dove ha cantato alla corte dello zar. In breve, siamo in presenza di una esperienza politica che attraversa gli avvenimenti cruciali del secolo, segnando al tempo stesso la irriducibile forza d’animo di tali convinti militanti. L’avvocato Grossi è una figura nota della ricca borghesia napoletana dell’età liberale; i suoi amici sono Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, lo stesso Croce, ma dinanzi alla dittatura fascista decide, nel 1926, d’emigrare in Argentina con la moglie, i due figli maschi Aurelio e Renato, e la figlia femmina Ada. A Buenos Aires si farà subito conoscere per l’opposizione decisa al totalitarismo, per gli articoli su “L’Italia del popolo” e il dialogo aperto all’interno del rissoso fronte antifascista. Allo scoppio dello scontro “civiltà-barbarie”, la famiglia Grossi torna in Europa per partecipare alla guerra civile in Spagna, a fianco delle Brigate internazionali. Intanto l’avvocato è nominato dal governo Largo Caballero responsabile del settore della propaganda, Ada è speaker di “Radio Libertà” di Barcellona, e così la sua voce entra nelle case degli italiani, la moglie è crocerossina, i due figli lavorano da telegrafisti al fronte. Durante lo scontro bellico, Cesare ha modo di vedere da vicino il discutibile modo di far politica dei comunisti stalinisti ed aderisce quindi all’anarchismo, e ciò non solo per quanto è accaduto a Camillo Berneri e B. Durruti. Occupata intanto Barcellona dai falangisti, i Grossi cercano scampo in Francia, e dopo diverse peripezie finiscono nel campo di concentramento di Argelès-sur-mer, mentre Ada, sposatasi con un giovane medico anarchico, resta in Spagna a combattere il franchismo. Rientrati separatamente in Italia, sono condotti prigionieri da Mentone al carcere di Poggioreale a Napoli; Maria e Aurelio finiscono nel confino di Melfi, Carmine è spedito a Ventotene dove si ritrova con il compagno Giuseppe Sallustro conosciuto al tempo della guerra spagnola, mentre il potere si accanisce sul malconcio Renato, trasferito nell’Ospedale psichiatrico provinciale della città, verso il quale s’indirizzano i classici metodi di repressione. E infatti pienamente acquisito che il manicomio rimane il luogo ideale del potere borghese per eliminare i “sovversivi” di ogni tendenza, molto prima che Foucault mettesse in luce la capacità distruttrice e disumanizzante della scienza medica.
A tal proposito, la madre scrive al ministro dell’Interno una lettera emblematica per il quadro di violenza che dà della situazione italiana del tempo. Ella ricorda che il figlio “non potrà mai guarire se lo si lasci per più lungo tempo con alienati, inattivo intellettualmente e completamente isolato dal consorzio civile e dall’ambiente familiare, essendo prescritto come unico rimedio in tali casi (e com’è stato riconfermato dalla esperienza medico-psichiatrica e illustrato in congressi, quale l’ultimo tenuto a Bruxelles) che l’infermo […] reintegrato al suo ambiente familiare abituale, riprenda le sue abitudini e i suoi studi e attività”l8.
Alla disumanità indotta dalla shock-terapia di Sakel insieme alla violenza messa in atto dal fascismo a tutti i livelli della società risalta inequivocabilmente che l’obiettivo di una giustizia umana di una parte definita dell’area antifascista è l’utopia che il totalitarismo mussoliniano non potrà mai accettare così che il destino di Renato è ormai maniera irreversibile, Alla caduta del fascismo, Ada si troverà in Spagna dove vivrà per quarant’anni con il marito, Cesare sarà liberato alla fine dell’agosto 1943 e ritroverà a Melfi la moglie e il figlio Aurelio, mentre l’altro figlio Renato sarà l’irrecuperabile prigioniero delle istituzioni totali, In definitiva, il tutto è stato vissuto dalla famiglia Grossi nella completa consapevolezza del proprio impegno e nel rispetto delle singole individualità, come ci tiene a sottolineare Maria, ed altrettanto normale è per la famiglia superstite il rientro nell’anonimato all’indomani della conquista della democrazia nel nostro Paese.
Come ho detto prima, è il mondo dell’opposizione femminile a rappresentare un’interessante quanto originale novità della ricerca di Aragno. Ma cosa vuol dire, in sostanza, antifascismo al femminile? È qualcosa d’altro, anzi di più del rapporto classe-sindacato o classe-partito vissuto dai militanti di base e quel di più richiama all’autonomia della donna come “soggetto politico”, la cui esistenza conduce all’origine di tutti i: movimenti di emancipazione e di liberazione come ha dimostrato la storia del secolo appena trascorso. Sono questi i caratteri che accomunano figure indimenticabili e tanto diverse nelle loro provenienze culturali quanto nelle singole storie di vita come Maria Olandese, Maria Berardi, Adele Bennoli, Clotilde Peani, Emilia Buonacosa, Ada Grossi e tante altre: insomma intellettuali, operaie, semplici donne di casa, “compagne di vita”, tutte però unite dall’odio al regime e dall’insopprimibile desiderio di eguaglianza tra le classi e i sessi.

Il “lungo viaggio” di Giuseppe Aragno attraverso l’antifascismo popolare napoletano si conclude con l’estate 1943, che trova il suo culmine nelle “Quattro giornate”, la “prima grande insurrezione urbana antifascista d‟Italia e d’Europa” (Cortesi), che rappresentano la cartina di tornasole della città che diventerà il “laboratorio politico” del secondo Novecento”.
Su questo nodo cruciale della storia della Resistenza del nostro paese si è aperta una violenta, talvolta scolastica, querelle politica già all’indomani delle “giornate” di settembre, polarizzata sull’interrogativo: fu, quella rivolta, organizzata oppure semplice frutto della spontaneità?
A questo punto, dobbiamo richiamarci allo stato della ricerca sulla Napoli dei “quarantacinque giorni” per un inquadramento d‟insieme della questione che ci sta a cuore. L’estate 1943 fu senza dubbio per i napoletani il più terribile e sofferto tra gli anni della Seconda guerra mondiale, sia per la crisi economico-alimentare, che attanaglia la città, che per i quotidiani bombardamenti, che fanno strage tra i civili. Se nelle campagne meridionali di quei mesi si assiste a scontri ed occupazioni d‟ogni genere, altrettanto dura è in ambito metropolitano la risposta operaia con mobilitazioni e scioperi nelle maggiori fabbriche già a partire dalla primavera; è il caso, tra le altre, della Navalmeccanica, della Miani e Silvestri. Dopo 1’8 settembre, la città è abbandonata a se stessa per l’incapacità dei responsabili delle istituzioni, dal prefetto Soprano al podestà Solimena al questore Lauricella al provveditore agli studi: ragion per cui tutta la classe dirigente fascista sarà accusata pubblicamente, all’indomani della cacciata della Wermacht, di aver favorito le stragi naziste del “settembre nero” dal direttore del “Roma”, il vecchio liberaldemocratico Emilio Scaglione.
Alla base della sommossa dobbiamo intanto mettere il comportamento del colonnello Walter Scholl, che aveva decretato lo stato d’assedio il 12 settembre, ed ancora più inaccettabile quello sul lavoro obbligatorio per i giovani delle classi dal 1910 al 1925.
Se poi si passa ad analizzare il fronte dei partigiani combattenti durante le “giornate”, si deve sottolineare a fianco del numeroso popolo metropolitano (professionisti, impiegati, commercianti, operai, disoccupati, studenti, sottoproletari, casalinghe, ragazzi di strada o “scugnizzi” ecc.) un consistente nucleo di rappresentanti delle forze armate (qualche alto ufficiale, vari ufficiali inferiori, sottufficiali, moltissimi soldati semplici) che fungeranno perlopiù da organizzatori delle azioni, mentre per ovvi motivi politici è da rimarcare la completa assenza dei partiti che soltanto dopo il 25 luglio si erano messi in movimento. Altrettanto vasto e variegato si presenta il settore della sinistra, per quanto riguarda la composizione del fronte di lotta antifascista, e in esso è l’area comunista che merita una particolare attenzione analitica, visto che dall’area staliniano-togliattiana sono venute le letture “patriottiche” più definite della rivolta. Tra i militanti comunisti però risulta egemone la frazione internazionalista, di base potremmo dire di ascendenza bordighiana, irriducibile antagonista della linea “centrista” di Togliatti che avrebbe portato alla formazione del “partito nuovo” dell’anno seguente. È la stessa componente che realizzerà di lì a qualche settimana la “scissione di Montesanto” e la relativa nascita ad opera della frazione bordighiano troskista della seconda Federazione napoletana del Pci. Degna di rilievo risulta non di meno la componente troskista rappresentata dai fratelli Ennio e Libero Villone, ed ancor più consistente di quanto si voglia di solito riconoscere dai “compagni di strada” del Pci si presenta il movimento anarchico, sul cui ruolo proprio il lavoro di Aragno e il recente Dizionario biografico degli anarchici italiani della Biblioteca “Franco Serantini” hanno dato un contributo fondamentale. Come è facilmente immaginabile, se di certo più conosciute e storicizzate risultano l’area liberale formatasi intorno a Croce così come anche la liberalsocialista basti ricordare il nome di Pasquale Schiano, infaticabile organizzatore di iniziative politiche negli anni della crisi del fascismo – tutta da analizzare invece è ancora, tranne qualche leader, quella cattolica, che dinanzi alla violenza nazifascista scelse la via delle armi. Com’è noto, con il Sessantotto prende avvio una riconsiderazione critica della Resistenza così che il nuovo paradigma storiografico (Guido Quazza, Luigi Cortesi) segna – per lo specifico napoletano – il superamento della visione “nazional-popolare” con la quale la sinistra comunista aveva guardato alle Quattro giornate.
Di questa tendenza la migliore narrazione resta senz’altro il fortunato libro di Aldo De Jaco, La città insorge: le quattro giornate di Napoli, uscito nel 1956 e arrivato alla quarta edizione, tutto poggiato com’è sull’esaltazione della rivolta del “popolo” metropolitano in risposta alla violenza intollerabile dei tedeschi19. Particolare risalto è poi riservato alla partecipazione degli “scugnizzi” negli scontri dei quartieri in rivolta divenuti per ciò i protagonisti del patriottismo di una intera comunità, insistendo eccessivamente sull’aspetto prepolitico delle loro azioni! Sarà comunque, questa, la lettura più diffusa e accettata nel clima politico del dopoguerra, che porta difilato alla mitizzazione di quelle “giornate”. Con l’utilizzo dello stereotipo storico-antropologico dell’homo neapolitanus, impasto di anarchia e ribellismo atavici, si trascura di guardare al diffondersi nel Mezzogiorno, nel corso dei duri mesi estivi di una “coscienza pubblica” che rinnega la scelta bellica del fascismo, di cui vede finalmente come in un nitido specchio il volto di classe e la repressione che l’accompagna.
“L’antifascismo del ventennio – ha scritto Guido Quazza – non crea la ribellione: questa quale moto di popolo nasce da un soprassalto della coscienza delle masse, e non dalla lezione dei politici”20. Anche per Napoli questa considerazione è indiscutibilmente fondata. Per la prima volta infatti la città conosce, oltre l’antifascismo operaio e quello morale à la Croce, l’antifascismo popolare, meglio la Resistenza armata, che coinvolge in uno stesso fronte migliaia di cittadini, studenti, soldati, proletari e non, giovani (quelli che per un vezzo folclorico duro a morire si vorrà ad ogni costo chiamare “scugnizzi”, mitizzati dall’immagine fotografica di Robert Capa).
Dal riorientamento degli anni Sessanta e Settanta verrà invece: l’analisi sulla spontaneità collettiva delle masse urbane di quelle ‘‘giornate”, elemento di certo non alternativo – come sostenevano in modo apodittico gli studiosi legati al Pci – all’organizzazione del partito, considerata l‟unica strada vincente della rivoluzione; ed altrettanto adeguato rilievo si sarebbe riservato alle forme di autonomia della classe operaia che avevano condotto agli scioperi della primavera. Con tali premesse si superavano giudizi correnti e luoghi comuni sulle Quattro giornate viste come classica jacquerie urbana, giudizio che univa sullo stesso fronte (strani scherzi dello storicismo assoluto!) personaggi tanto diversi come Benedetto Croce e Palmiro Togliatti2l.
Valgono più che mai al riguardo le riflessioni metodologiche che in quel periodo avanzava Luigi Cortesi: “Lo studio di Napoli e della Campania negli anni della seconda guerra mondiale consente appunto di far giustizia della tentazione di relegare la regione ad un ruolo soltanto passivo o frenante, ad una estraneità alle tensioni e alle scelte degli anni dell’esperienza fascista, della lotta antifascista e della ricostruzione, passività ed estraneità che corrisponderebbero fatalmente alla generale arretratezza delle strutture economiche e dei rapporti sociali. Esistono tutti gli elementi che possono indurre a considerare la lotta politica e civile che allora si svolse in Campania non come un capitolo atipico della storia nazionale, o come serie di effimeri fuochi di paglia rispetto all’incendio della “vera” Resistenza e della “vera” Liberazione, ma come parte organica del fatto storico complessivo, nel quale ciascuna città o regione –  Roma e Milano non meno che Napoli, l’Emilia o il Veneto non meno che la Campania – apportò proprie peculiarità e propri livelli di partecipazione”22. Da qui, di conseguenza, l’evento-Quattro giornate era considerato un momento significativo della Resistenza napoletana oltre che elemento di non minore importanza per la nascita della Repubblica democratica italiana, e come tale deve essere studiato, sia cioè dal punto di vista del “politico” sia da quello delle strutture socioeconomiche, sia focalizzandosi sulla vita quotidiana di una metropoli esposta ai rischi di una guerra totale, sia badando ai comportamenti della forza lavoro nelle fabbriche, sia esaminando infine l’immaginario di una comunità che combatté fino alla morte per un “mondo nuovo” …
Ho già detto in altra sede che la Napoli dell’autunno del 1943 non è altro che il capitolo centrale dell’antifascismo popolare meridionale, la cui ribellione rinvia direttamente agli scontri e ai morti di Ponticelli, di Orta d’Atella, ed ancora a quelli di Giugliano, Mugnano, Acerra, Matera, Lanciano e di tante altre località in una soluzione senza fine23. Ed aggiungevo inoltre che le Quattro giornate non potevano essere più lette come “un fatto a sé”, in conformità cioè al tradizionale “paradigma della Resistenza del Nord”, dal momento che esse facevano parte con le proprie specificità e caratteri del “lungo periodo” della storia dell‟antifascismo napoletano, ed i risultati di Antifascismo popolare di Aragno stanno ora a confermarlo.
Habent sua fata libelli dicevano gli antichi dei libri che portavano nuove conoscenze alimentando nei lettori la riflessione e gl’interessi sul proprio tempo. Lo stesso si può ripetere ora per il libro di Aragno così attuale e al tempo stesso così controcorrente. Realizzata con controllato rigore filologico unito alla sensibilità politica dell’Autore per i problemi contemporanei, l’opera sconta però l’imperdonabile mancanza dell’indice dei nomi, strumento insostituibile d’orientamento nella selva dei tantissimi “volti” e “storie” che la stessa ricerca ha il merito di recuperare. Nell’epoca dell‟”eterno presente” come gli storici sono soliti definire il mondo postmoderno in cui viviamo, l’Autore ha voluto; scommettere sulla memoria e lo ha fatto con la guida di uno grandi filosofi del Novecento scomparso qualche anno fa, Paul Ricoeur. Questi per una vita intera si è interrogato sul rapporto memoria-oblio alla base della storia, focalizzando l’analisi sull’evento del nostro tempo il totalitarismo fascista, lasciandoci un libro riconosciuto ormai come un classico, La memoria, la storia, l’oblio24. Con la dialettica passato-presente siamo tornati di nuovo al partigiano Marc Bloch dell’apertura. Dinanzi agli “estremi” del XX secolo (totalitarismi, due guerre mondiali, i genocidi di popoli, Shoah ecc), il filosofo francese non riconosce legittimità al “dovere della memoria” come si è fatto negli ultimi tempi da parte degli Stati europei nello stabilire per legge giornate a ricordo di qualche evento speciale – e così che l’Italia ha scelto il 27 gennaio quale giornata della memoria delle vittime dei Lager nazisti. Anzi per nulla ossessionato dalla memoria – di cui invece la maggior parte degli’ studiosi esalta l’esclusività epistemologica – egli rivendica di per contro il “dovere storico” per analizzare i fatti del recente passato sollecitando – in risposta alla visione revisionistica del “nuovo antisemitismo” nazifascista – un rigoroso lavoro storico all’altezza degli interrogativi del nostro presente …
Da oggi in poi si può dire con soddisfatta sicurezza che il mondo dell’antifascismo popolare napoletano si presenta molto più conosciuto e meglio indagato, tanto nelle idee che nelle azioni dei suoi protagonisti, e quest’acquisizione di conoscenze la si deve in modo particolare all’intenso e partecipe saggio di Aragno. Infine voglio soltanto augurarmi che il “lungo viaggio” di quelle donne e di quegli uomini per l’affermazione di una reale democrazia ci accompagni ancora a lungo.

NOTE

1. Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti e le storie. Roma, 2009.
2. Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, con uno scritto di Luciene Febvre, a cura di Gilmo Arnaldi, traduzione italiana, Torino. 1969, p. 54.
3 Convinto assertore del presente come storia, Danilo Montaldi (1929-1975) ha studiato un originale metodo di ricerca, tra il sociologico e lo storico, la società italiana negli anni dello sviluppo capitalistico, polarizzandosi sulla vita quotidiana e le forme di lotta politica delle classi operaie e subalterne. Restano fondamentali i saggi Autobiografie della leggera (Torino, 1961), Militanti politici di base, (Torino, 1971), Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), (Piacenza, 1976). Per un inquadramento della sua opera e del suo pensiero, vedi Luigi Parente (a cura di), Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, Atti del Convegno, Napoli 16 dicembre 1996, Napoli, 1996.
4 Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino, 2004. Ibidem, p. 8.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Citato in Luigi Parente, Oltre le banchine di Auschwitz. Coscienza pubblica e storiografia nella Germania d’oggi in Orizzonte Europa, “Bollettino dell’Istituto campano per la storia della Resistenza”, 1990, n- XII, p, 20.
8 Marc Lazar, L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel paese di Berlusconi, traduzione italiana Milano, 2009.
9 Secondo Alberto Asor Rosa, “Il terzo (sic) governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo”, “il manifesto”, 4 giugno 2008. Questo giudizio è stato successivamente analizzato all’interno della crisi della cultura italiana contemporanea ne Il grande silenzio, la lunga intervista sugli intellettuali raccolta da Simonetta Fiori (Roma-Bari, 2009).
10 Mi riferisco, in particolare, al volume Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, 2002, il cui punto d’analisi è appunto la boutade negazionista citata.
11 Gloria Chianese (a cura di), Fascismo e lavoro a Napoli. Sindacato corporativo e antifascismo popolare (1930·1943), Roma, 2006.
12 Sergio Muzzupappa e Alessandro Hobel (a cura di), Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952). Sette lezioni, Napoli, 2005.
13 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, 1997; Luigi Cortesi, Introduzione a Luigi Cortesi, Giovanna Percopo, Sergio Riccio, Patrizia Solvetti (a cura di), La Campania dal fascismo alla Repubblica. Società politica cultura, Regione Campania, I, 1977, ora in Id., Nascita di una democrazia. Guerra fascismo, Resistenza e oltre, Roma, 2004, pp. 175·243. Una sintesi della storiografia della Resistenza è il saggio Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, 2004.
14 Sulla questione Bordiga, nell’ambito del marxismo del XX secolo, una attenta analisi è venuta da Luigi Cortesi (a cura di), Amadeo Bordiga nella storia del comunismo, Napoli, 1999. Altri dati, circa la lotta politica nella Napoli post-prima guerra mondiale e il ruolo di Bordiga nella fondazione del Pcdi, in Id., Il comunismo tra fascismo e Resistenza, in Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), cit., p. 34 e ss.
15 L‟introvabile pamphlet di Corrado Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista . (8 settembre-1° ottobre 1943), uscito nell’inverno del 1943, è stato di recente ripubblicato a cura di Sergio Muzzupappa, pref. di Luigi Parente, Napoli, 2004. Esponente interessante, oltre che prolifico, della storiografia economico-giuridica del XX secolo, Corrado Barbagallo è noto per essere stato tra i primi divulgatori del marxismo in Italia con Il materialismo storico (Milano, 1916), e per avere fondato e diretto insieme ad Antonio Anzilotti dal 1917 la “Nuova rivista storica”.
16 La questione è analizzata in dettaglio da Giuseppe Aragno, op. cit. p. 69 e ss.
17 I limiti dell’impostazione storiografica di Aldo Romano, che si può definire propriamente democratico-togliattiana, furono individuati, già alla comparsa della sua Storia del movimento socialista in Italia, dallo storico del Risorgimento Walter Maturi, che si rifaceva agli studi recenti di Leo Valiani sul socialismo europeo e di Franco Venturi sul populismo russo (Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Lezioni di storia della storiografia. Pref. di Ernesto Sestan, Torino. 1962. pp. 634-38). Su quelle basi, la tesi del Romano è stata riproposta negli anni Settanta sul piano filologico da Alfonso Scirocco, Democrazia e socialismo a Napoli dopo l’Unità 1860-1878, Napoli, 1973, che ha individuato la teoria rivoluzionaria di Bakunin all’origine della crisi della democrazia mazziniana napoletana, servendosi in particolare dei fondamentali risultati degli storici anarchici Arthur Lehing e Pier Carlo Masini.
18 Giuseppe Aragno, op. cit., pp. 36-7.
19 Aldo De Jaco, La città insorge. Le quattro giornate di Napoli, Roma, 1956. Alla situazione politica e sociale delle città e delle campagne del Mezzogiorno nell’ “anno mirabile” l‟Istituto campano per la storia della Resistenza di Napoli ha dedicato l’importante Convegno del settembre 1995, i cui atti sono stati pubblicati con il titolo Mezzogiorno 1943. La scelta, la: lotta, la speranza, a cura di Gloria Chianese, Napoli, 1996. Per la questione delle stragi naziste di quegli anni vedi, ora, Gabriella Gribaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, Napoli, 2003.
20 Guido Quazza, op. cit., p. 128.
21 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, in Gloria Chianese, op. cit., p. 369. Allo stesso stereotipo è rimasto legato anche Claudio Pavone nell’eccellente volume frutto di una vita, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991.
22 Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia, cit., p. 176.
23 Luigi Parente, Due o tre considerazioni sulle Quattro giornate, cit., p. 368.
24 Vedi in particolare Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, trad, it., Milan.

Luigi Parente, in Giornale di Storia Contemporanea,  n. 2 dic 2010

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Un’amica mi inoltra questo incredibile  comunicato stampa:

«Riapre il caso Moro, ma la casta dei partigiani non si tocca.
Sulla vicenda dello statista assassinato dalle BR emergono scottanti verità dalla “Storia segreta del PCI” di Rocco Turi

Proprio qualche giorno prima della notizia della riapertura ufficiale del caso Moro, Rubbettino ha lanciato in libreria una “Storia segreta del PCI”. Un libro che va a indicare con precisione quali furono i fili segreti che spinsero le BR a commettere quell’omicidio politico destinato a cambiare per sempre la storia d’Italia.
Storia segreta del Pci” ha di fatto già riaperto il caso Moro coinvolgendo a pieno titolo la casta dei partigiani mediante la pubblicazione di decine di documenti inediti destinati a porre in grande imbarazzo anche esponenti di spicco della politica italiana. Si tratta di un filone di indagine ignorato dalla diplomazia, dalla ricerca, dalla stampa e da una miriade di pubblicazioni. “Storia segreta del Pci” parte dal fallimento della Commissione parlamentare d’inchiesta su via Fani per esibire “rivelazioni politiche per un pubblico italiano forse non ancora pronto a recepirle e per una lobby partigiana che teme la verità”, come dice l’autore, il sociologo Rocco Turi; “ne è sintomo il silenzio eloquente sul mondo dei partigiani devianti, utilizzato per moltissimi anni come oggetto di scambio e come elemento di ricatto nel dibattito politico”.

Fu proprio a seguito del fallimento della Commissione d’Inchiesta su via Fani che nel 1981 il Governo italiano bandì una borsa di studio per indagare sui nodi irrisolti del caso Moro e sulle connessioni con i partigiani devianti aiutati dal Partito comunista italiano a fuggire in Cecoslovacchia. Rocco Turi fu riconosciuto come unico studioso italiano idoneo a compiere l’indagine promossa e, attraverso documenti di archivio, riuscì a stabilire la connessione fra i partigiani e il caso Moro. I risultati delle sue analisi furono recepite e pubblicate il 26 aprile 2001 nell’elaborato conclusivo della COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUL TERRORISMO IN ITALIA E SULLA CAUSE DELLA MANCATA INDIVIDUAZIONE DEI RESPONSABILI DELLE STRAGI, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino.
Ma molti partigiani comunisti, continua Rocco Turi, costruirono carriere lungimiranti in ogni attività “sensibile” e sulla conoscenza dei fatti fecero tutto il possibile (riuscendovi) per arginare, proteggere, deviare, canalizzare, occultare, minimizzare ogni riferimento al caso Moro e trasferire – tuttora – le responsabilità su altri scenari. Ne è sintomo il fatto che l’indagine sulla Gladio Rossa fu più volte archiviata dalla magistratura; che la Gladio Rossa non dovesse far parte di indagine della Commissione sul caso Mitrokhin, voluta dal Parlamento italiano; che la pubblicazione di un libro che dimostra scientificamente l’evidenza dei legami tra il caso Moro e la Cecoslovacchia, come “Storia segreta del Pci”, raccolga positivi riscontri di pubblico ma anche il silenzio imbarazzato di parte dell’opinione pubblica, nonostante siano trascorsi ben 35 anni da quei drammatici fatti.
Rocco Turi ha scritto “Storia segreta del Pci – Dai partigiani al caso Moro” a seguito di borse di studio assegnate dal Governo della Repubblica Socialista cecoslovacca e dal Governo italiano, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dall’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca, nell’ambito dell’Accordo di cooperazione scientifica. All’Università degli Studi di Cassino ha insegnato Sociologia della devianza, Sociologia del mutamento sociale, Metodi di ricerca nelle scienze sociali.
Da 30 anni analizza i mutamenti sociali e si occupa di devianza politica utilizzando i più sofisticati metodi della sociologia investigativa. In Ungheria è impegnato negli studi comparati sulla vita quotidiana ai tempi della guerra fredda».

Prima di precipitarmi nella chiesa più vicina per ringraziare domineddio che ha creato San Rubettino e la sociostoriografia, ho risposto alla lettera illuminante:

«Cara amica, mi fa piacere sapere che in questi tempi rivoluzionati di Paesi Nato che, dopo i fatti di Istanbul, non sanno più quale modello di democrazia esportare, tu lavori e studi da storica – non da sociologa prestata alla storia – e ti occupi di argomenti terreni, come i cinesi in Africa. Insomma, che tu non ti sia messa a ricostruire “storie segrete” di marziani, come i “partigiani deviati” e le loro “lobby”. Manderò la presentazione del libro di Turi a Renato Curcio e a Oreste Scalzone, che, ingenui e nulla sapendo di una Resistenza deviata e di sociostorici devianti, continuano a credere di aver tentato una qualche loro rivoluzione autonoma, mentre li tenevano in pugno e li manovrano a piacimento le lobby, li guidavano gli immancabili cecoslovacchi e dio sa quali altri “mutanti” scovati da Turi e Rubettino, grazie a innocenti borse di studio e democraticissimi governi come quello ungherese…
In quanto a me, che da un po’ mi sono messo in testa di studiare con metodi da ricercatore di storia le Quattro Giornate, il repubblicano Pansini, il socialista istriano Zvab, l’ex dannunziano Murolo e una manica di sedicenti partigiani, devo a tutti i costi contattare Turi. Ci metto le mani sul fuoco: appena mi avrà messo a parte dei suoi infallibili strumenti di ricerca sociale, scoprirò che, grazie a quel diavolo di Stalin e del togliattiano e deviato Pci, le Quattro Giornate, quelle vere, si sono combattute contro l’Armata Rossa, abilmente truccata da Divisone Goering.
E’ proprio vero: non c’è più limite all’indecenza.
Buon lavoro e stammi bene.
Giuseppe».

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Tra politica e storia il denominatore comune è l’uomo. Esistono perciò tra loro fenomeni di osmosi e canali di scambio che non è agevole individuare, ma sarebbe errato ignorare, a meno di non voler tornare alla “religione del fatto” e alla “histoire événementielle”; in altri termini, a una concezione della storia – e quindi della vita – che parte da un’astrazione – “i fatti parlano”[1] – e, portata alle estreme conseguenze, conduce a Fukuyama e ai sofismi sulla “fine della storia”[2]. L’uomo, si dice, è un animale politico, ed è vero: lo guidano bisogni, difende interessi e si scontra fatalmente con chi persegue obiettivi che possano recargli danno. Se nel suo percorso storico tendesse veramente a riavvicinarsi alle origini, come hanno sostenuto Fukuyama e soci, questo  non accadrebbe per l’affermazione di un incontrastato primato politico del capitalismo, ma per motivi diametralmente opposti; la proprietà privata, infatti, non nasce con l’uomo. Non è vero, quindi, che il “tornare alle origini” comporti l’estinzione delle cause di conflitto, così come non è vero che la somma degli eventi che costituisce il livello politico-economico della storia segua un percorso unidirezionale e tenda alla “perfezione”[3]. Fuori da astrazioni teoriche, funzionali ad una rappresentazione “palingenetica” del capitalismo e della democrazia liberale, prodotte ad arte dal revisionismo dopo la caduta del muro di Berlino, rimane vera l’affermazione provocatoria di Walter Benjamin, con la quale Marcuse chiudeva la sua riflessione sulla natura repressiva della società capitalistica: “è solo per merito dei disperati che c’è data speranza”[4].
A guardarla così, da questo punto di vista di carattere generale, l’idea di tornare sulle Quattro Giornate non per tentarne una nuova ricostruzione, ma per provare ad approfondire le ragioni della parzialità e del “minimalismo” della loro lettura ha una ragion d’essere e risponde alla crociana esistenza d’un “problema storico” che, peraltro, solo apparentemente è questione di storia locale[5].
Il carattere schiettamente “politico” degli eventi passati alla storia come “Quattro Giornate di Napoli” non sfuggì al maggiore Pietro Caviglia, testimone oculare e “comandante la divisione degli agenti di polizia” in servizio a Napoli nei giorni degli scontri coi “teutoni inferociti”[6]. Nel suo rapporto al Ministero dell’Interno – il solo documento ufficiale che ho rinvenuto dopo lunghe ricerche, probabilmente inedito e, ciò che più conta, scritto a caldo nell’autunno del ’43 – il maggiore, faceva significativi cenni alla “resistenza dei militari italiani e dei patrioti”, iniziata “subito dopo la divulgazione della firma dell’armistizio”, quando i soldati “tedeschi di stanza a Napoli iniziarono azioni di violenza e di soprusi ai danni delle Forze Armate e dei cittadini”. Sorvolando ovviamente sul suo passato fascista, l’uomo puntava il dito contro i vertici militari:

se le azioni […] fossero state organizzate e incoraggiate, scriveva, forse i tedeschi non avrebbero poi spadroneggiato nei giorni successivi e non avrebbero apportati tanti danni alla città e […] commesso tante stragi e rappresaglie”[7].

Come vedremo, la “mancanza di organizzazione” cui fa cenno Caviglia ebbe con tutta probabilità una sua ragion d’essere, e nacque da scelte chiaramente politiche. D’altra parte, politico è il contesto in cui maturano gli eventi: il disfacimento dell’Italia di Mussolini, con “gli sparuti nuclei di militi fascisti” che, per lo più, “senza fede e senza volontà combattiva, disertavano le file e le caserme” e partecipavano in minima parte alla “serrata lotta fra patrioti da una parte e […] soldati tedeschi dall’altra”, mentre “gli eserciti alleati premevano a Salerno e nella Penisola Sorrentina”[8]. Politico, e per giunta rilevante, il valore che il funzionario attribuiva alla “cacciata dei tedeschi”. La sommossa, scriveva infatti il Caviglia, “è valsa a risollevare il prestigio di questa nostra Italia in un momento così disastroso per essa e […] sarà certamente esempio per le altre città italiane ancora sottomesse al giogo tedesco”[9]. Sul tasto politico preme, del resto, tornando a quelle giornate e al loro significato profondo, un altro e ben diverso “testimone oculare”, Corrado Barbagallo, storico professionale formato alla duplice scuola del marxismo e delle scienze sociali, che per primo – e con gli strumenti di una consumata esperienza di studioso – racconta gli eventi che sono svolti sotto i suoi occhi in una tragica ma esaltante successione. Politico nel senso alto della parola, politikòs, in quanto proprio del cittadino, ma anche in quello più particolare e contingente di “fatto che si contestualizza” nello scontro tra interessi contrapposti che, se guardano lontano e tentano di prefigurare il “Paese nuovo” dopo il fascismo, risentono, tuttavia, delle necessità del momento. Quelle con cui si fanno i conti e si scrive la storia non meno che alla luce dei principi e degli ideali politici.
C’è un governo – osserva Barbagallo – quello di Badoglio, il quale ha mostrato “tendenze che ben difficilmente potrebbero definirsi democratiche”,[10] e dietro il governo vi sono forze che non si sono accorte – o fingono d’ignorare – che

al colpo di Stato del 25 luglio si era giunti non per volontà di un monarca o di pochi uomini, ma per l’eloquenza della pacifica rivolta della stragrande maggioranza del paese, la quale […] reclamava con i modi più aperti, o nelle maniere più silenziose, ma egualmente significative, un cambiamento di rotta”[11].

E’ un governo che non teme la ripresa fascista, ma tiene in gran “sospetto tutte le dimostrazioni di popolo” e avversa soprattutto “quella corrente politica che si intitola del comunismo […] della cui natura e delle cui tendenze i governanti non hanno alcuna cognizione”[12].
Come Caviglia, anche Barbagallo accenna, quindi, ad una sostanziale unità tra le classi sociali, registrando un’irrimediabile frattura tra i nazisti e “l’enorme maggioranza dei burocraticamente iscritti all’ex partito fascista”, ormai “fino al massimo limite possibile, concordi nel volere una sola cosa: la cacciata dei tedeschi”[13]. Pur nell’immediatezza della ricostruzione, tuttavia, il grande storico coglie lucidamente la precarietà di quell’armonia d’intenti che produce l’eroica sommossa, supera valorosamente l’esame sanguinoso delle armi, ma – drammatico anticipo della sorte che toccherà alla guerra di liberazione che l’insurrezione per molti versi inaugura – s’impania nei giochi nascosti, negli occulti maneggi e nei compromessi talvolta necessari, ma non sempre di alto profilo tra parti politiche che giocano ognuna la propria partita.
Certo, lo studioso non ha a disposizione alcuna documentazione, ma intuisce che la frattura aperta nel paese dal crollo del regime è molto più profonda di quello che appare in superficie e i problemi cui far fronte, mentre la guerra è persa e il sistema politico si disintegra, ricordano paradossalmente alcune delle cause che condussero all’affermazione del fascismo: i costi della crisi del dopoguerra in un paese a capitalismo malato, il violento scontro di classe che alla lunga potrebbe derivarne e, sul terreno internazionale, il confronto tra capitalismo e socialismo reale che minaccia di assumere i lineamenti di uno scontro e condurrà ben presto alla guerra fredda. In realtà, se alla base della piramide sociale, l’unità, per quanto fragile e precaria, ha una ragion d’essere e una sua immediata e reale consistenza, al vertice si lavora soprattutto per garantire la “continuità dello Stato” e, con essa, i privilegi e il ruolo sociale della borghesia medio-alta, delle élites economiche, dei gradini elevati della gerarchia burocratica, largamente compromessi col regime, ma consapevoli che l’effettivo bisogno di unità, mettendo in stallo le sinistre, potrebbe consentir loro di  recitare la parte decisiva di interlocutori privilegiati di vincitori, ai quali li lega un forte interesse comune: la necessità di impedire che una vittoria “militare” delle classi popolari si trasformi in un successo politico delle sinistre, genericamente identificate come “comuniste”.
Non è un caso, del resto, che a due mesi dalla rivolta, il 30 luglio del 1943, quando il timore di una reazione del regime al colpo di Stato si rivela infondato e “i gerarchi e i fascisti militanti non hanno più dato alcun segno di attiva reazione, tale è la prostrazione morale in cui si sono abbattuti”[14], il questore Lauricella sia preoccupato soprattutto perché “da un giorno all’altro […] ognuno si credette libero di manifestare le proprie idee e di propagandare i propri principi politici, siano essi socialisti, cattolici, liberali, comunisti e anarchici”[15]. Si potrebbe pensare che il questore tema gli effetti d’una inusuale libertà, e distribuisca equamente una generalizzata diffidenza; in realtà, le cose vanno molto peggio. La preoccupazione evidente di coprire ex camerati che, a dar retta al questore, non avrebbero “mai dato prova di fanatismo estremista” e sono ormai “convinti della ineluttabilità degli eventi da cui sono stati travolti e della impossibilità di una restaurazione sia pure lontana del regime fascista” non è, infatti, solo un pessimo viatico per il processo di cambiamento, ma il primo passo verso il limbo che precede il “riciclaggio”[16].  E non è tutto. Sono giorni di fuoco e, sebbene di armistizio non si parli, i segnali della rabbia tedesca e della sofferenza di una città che si prepara a reagire si annunciano chiari da mille particolari. Lo sanno, lo vedono bene le autorità militari e politiche, ma sono lì inerti e lasciano che la popolazione fronteggi da sola l’atteggiamento “sempre più tracotante delle truppe tedesche”[17]. Restano inerti, perché appare chiaro che quel “far fronte”, non nasce solo dall’istinto della sopravvivenza, ma anche da ragionamenti consapevoli della loro natura politica.

Gli incidenti provocati dai militari tedeschi – è sempre il questore che scrive tra agosto e settembre – assumono ogni giorno aspetti più gravi e contribuiscono a colmare quella misura che una volta passata potrebbe suscitare impensate reazioni. Tale stato d’animo della popolazione verso le truppe germaniche è, del resto aggravato dalla convinzione radicatasi in ogni cittadino che, appunto a causa della loro presenza sul nostro territorio, il nemico dimostra propositi oltranzisti nei nostri riguardi. Suscita speciale malcontento l’arbitraria occupazione di case, ville e aree private da parte di reparti armati tedeschi, i quali, senza alcuna autorizzazione o preventiva intesa con i Comandi italiani, e talvolta contro l’esplicito dissenso dei legittimi proprietari […] vi collocano mezzi di offesa e difesa, turbando la quiete degli abitanti che si vedono, pertanto, esposti al pericolo di offesa aerea nemica”[18]. 

L’attenzione del questore Lauricella, del prefetto Soprano e dello stesso governo Badoglio non è però focalizzata sul sempre più inevitabile scontro tra napoletani e tedeschi e sulle urgenti misure da prendere per affrontare l’alleato-nemico. Preoccupano il contenuto politico che acquista il malcontento, “l’intemperanza della stampa volta a eccitare gli animi”, gli “atteggiamenti improntati a odio di parte” di chi, reduce da galera e confino, diventa naturale punto di riferimento politico di una eventuale esplosione di rabbia popolare. Di qui – pare evidente – la scelta cinica, feroce, ma profondamente politica, di lasciar mano libera ai tedeschi, in attesa che battano in ritirata di fronte agli Alleati che avanzano, e di colpire invece la protesta che monta. Da un lato Badoglio – e i fascisti che con lui si riciclano – portano ramoscelli d’ulivo alla stampa, battendo sul tasto della “concordia degli animi nel supremo interesse della nazione in guerra”, dall’altra nega l’ascolto al popolo stremato, mette mano alle armi, fa fuoco e impone con le pallottole una “concordia” che a Napoli, Pozzuoli, Torre Annunziata e Castellammare di Stabia lascia sul terreno morti e feriti. Una repressione determinata, talvolta spietata, che punta a intimidire la popolazione e a decapitare il movimento popolare, togliendo dalla circolazione le sue “teste pensanti”. Che la posta in  palio sia il “potere politico” appare evidente anche dalle parole con cui il questore denuncia “alcuni elementi locali già identificati e arrestati”. Essi, infatti, prosegue il Lauricella, che agiscono “evidentemente su mandato occulto di forze e partiti […] sperano di poter, attraverso rivolgimenti popolari favoriti dal generale desiderio di pace, dare la scalata all’agognato potere”[19].
Così stando le cose, appare subito chiaro non solo che eventuali insorti saranno abbandonati a se  stessi dalla classe dirigente che Badoglio va traghettando armi e bagagli nella “nuova Italia”, ma che, in piena coerenza con le convinzioni politiche che ne hanno guidato la propaganda durante il ventennio, un antifascismo di destra, moderato e pronto a sostenere la centralità dello Stato e delle sue Istituzioni – monarchia, esercito e gerarchie ecclesiastiche – agisce, opera e manovra alle spalle di quello che si può definire antifascismo di sinistra, che non è ancora ben organizzato nei suoi partiti storici e, soprattutto, è “popolare” nel senso più alto della parola: espressione delle culture politiche protagoniste della vicenda storica dell’Italia postunitaria, che il fascismo non ha avuto spessore culturale e forza politica sufficienti a cancellare e che tornano protagoniste a Napoli con la caduta del fascismo, in quel “laboratorio politico” in cui prende forma l’Italia repubblicana. Lo dimostrano non solo la continuità tra disegno politico dell’antifascismo moderato e azione del governo Badoglio prima, durante e dopo le Quattro Giornate, ma la “solitudine” in cui si trovano ad operare i combattenti e – perché no? – il destino storiografico dell’insurrezione, legato, come per una sorta di maledizione, alle foto di Frank Capra e allo stereotipo della città di plebe, che torna utile a tutti, tranne che ai combattenti e alla correttezza della ricostruzione[20]. Utile agli alleati che, sminuendone il valore politico, giustificano il loro attendismo e mettono al sicuro la loro immagine di “liberatori”, utile al Pci, che si contenta di registrare la presenza di qualche militante ed evita la spinosa questione dell’esito di una lotta di popolo vittoriosa senza la guida della “imprescindibile” avanguardia leninista, utile, infine, passata la bufera, per aprire le porte alle più svariate e parziali interpretazioni, figlie soprattutto di un uso pubblico della storia in cui, per dirla con Arfè, si sono distinti non solo i portabandiera del revisionismo, ma anche la “pubblicistica storiografica comunista” che per anni, “pur di non affrontare il nodo dello stalinismo nella sua interezza”, ha preferito “sottolineare le debolezze interne dell’antifascismo”. Per non dire di quella cattolica che “per parte sua, considera il capolavoro politico della Democrazia cristiana quello di aver saldato vecchio e nuovo”[21]. Il che, verrebbe da dire, non solo consentì a settori non trascurabili del fascismo di transitare impunemente nei gangli della repubblica antifascista, ma getta oggi non poche ombre su momenti cruciali della nascita della repubblica. Un danno così consistente, per tornare alla Resistenza nel Sud, che persino uno storico di valore indiscusso come Claudio Pavone, offre una lettura della Quattro Giornate incentrata “ancora una volta sulla lotta pro aris et focis e sulla considerazione che […] per la prima volta i lazzari si trovano dalla parte giusta”[22].
Messi a confronto, i documenti prodotti dall’antifascismo moderato durante il ventennio e quelli consegnati alla storia dalle autorità badogliane al momento dell’armistizio presentano affinità davvero significative. Movendo da destra, negli anni Trenta, un liberalismo che guarda lontano, lucido e pragmatico, che fa capo alla lezione di uomini come Lauro De Bosis e si raccoglie nelle file clandestine dell’Alleanza Nazionale di Libertà, si ancora a un punto fermo – “le dittature non sono eterne” – e guarda con occhio singolarmente acuto all’Italia che occorrerà costruire alla caduta del fascismo. “Guai a lasciare ai sovversivi il monopolio della lotta”, si legge nella propaganda che circola in città negli anni Trenta[23]. Il loro atteggiamento antimonarchico e anticlericale sbarrerebbe la via ad ogni efficace iniziativa politica. I nemici da battere, quindi, assieme al fascismo, sono la sinistra rivoluzionaria di classe e il rischio che lo scontro col fascismo si trasformi in lotta armata contro le Istituzioni dello Stato borghese.

Sarebbe una follia – scrivevano De Bosis e i suoi amici – disconoscere i seguenti fatti: la Monarchia con l’Esercito e il Vaticano con l’Azione Cattolica sono le due grandi forze che esistono in Italia. All’infuori del fascismo. Nessun dubbio che il Re ed il Papa non siano in cuor loro antifascisti; se finora hanno uno subìto e l’altro utilizzato il Fascismo, tocca a noi mutare […] quel gioco d’interessi, di timori e di speranze che fin qui determinarono la loro condotta politica […]. L’abbiccì della politica antifascista […] consiste nell’offrire alla Monarchia e al Vaticano il prospetto di larghi gruppi antifascisti e in pari tempo conservatori su cui appoggiarsi. […] Il Re significa l’Esercito […]. Il Papa […] l’Azione Cattolica. Essa è la più grande organizzazione fuori del Fascismo ed è latentemente antifascista. Al momento della crisi sarà un prezioso nucleo di azione non solo contro il Fascismo, ma contro possibili agitazioni comuniste sbrigliate dalla crisi stessa. E’ assolutamente necessario agire d’accordo e non contro l’Azione Cattolica”[24].

Come non pensare alla svolta di Salerno e alla pragmatica moderazione di Togliatti, e come, soprattutto, non cogliere l’affinità con le linee di fondo e i motivi ispiratori che guidano a Napoli le scelte della Prefettura nei giorni cruciali che preparano l’insurrezione? Giorni in cui, confuse ma presenti, prive di parole d’ordine aggreganti, ma spinte a crescere dall’incalzare degli eventi e da un incredibile bisogno di partecipazione, prendono corpo profonde istanze di cambiamento, un bisogno di democrazia, una volontà di emancipazione che si manifesta attraverso mille segnali: il 26 luglio esce e circola “Il Proletario”, un foglio che appare subito pericoloso alla questura; il giorno successivo, ad opera del “Gruppo Spartaco”, prende a circolare un manifesto per la pace e passano di mano in mano i volantini firmati “Popolo Libero Napoletano”. La risposta repressiva è immediata: il 16 agosto, mentre la mobilitazione dei lavoratori in sciopero all’Ilva di Torre Annunziata costringe la Direzione ad allontanare dalla fabbrica i più noti fascisti, il tentativo di invadere una sede del disciolto Partito fascista si conclude con la polizia che apre il fuoco e lascia sul terreno un ferito e un morto; due feriti si erano già avuti a Pozzuoli il 29 luglio, durante una manifestazione antifascista, altri due a Napoli il 3 agosto e ancora si sparerà a Portici il 29 agosto e a Castellammare il 2 settembre[25].
Non a caso, quindi, il prefetto Soprano, giunto a Napoli ai primi di agosto, si collega subito ai moderati e, ai rappresentati della sinistra che gli chiedono di allontanare i fascisti dalle cariche pubbliche, replica sprezzante, invitandoli a formare con lui un fronte anticomunista[26]. Di lì a poco, il prefetto scrive a Roma che

per quanto riguarda la difesa politica del nuovo governo nazionale e costituzionale, sembra che l’autorità militare preposta all’ordine pubblico, si preoccupi eccessivamente di una possibile ripresa fascista, della quale manca qualsiasi sintomo, mentre altrettanto non può dirsi dell’azione comunista”[27].

In realtà, quello cui pensa il prefetto è un comunismo genericamente inteso che include ogni colorazione di rosso, ogni sfumatura di democrazia che non riconduca a quella liberale e monarchica di albertina memoria. È a questo comunismo che si riferisce quando, a sostegno della sua tesi, il Soprano rincara la dose e prosegue:

che in questa Provincia da parte comunista vi sia una ripresa di propa­ganda non solo, ma anche di una concreta attività mirante alla ricostitu­zione del partito e alla applicazione dei suoi principi programmatici, è dimostrato dalla recente operazione di Polizia Politica compiuta nei confronti di un gruppo di 49 comunisti sorpresi e arrestati il giorno 22 scorso mese mentre riunitisi in una grotta in località campestre alla peri­feria di Napoli discutevano calorosamente sull’azione da svolgere per riammagliare le file della propria organizzazione politica. Del gruppo in parola facevano pane professionisti, due ufficiali del R. E., Funzionari dello Stato. impiegati e operai abitanti alcuni in Napoli e altri in comu­ni della Provincia”[28].

Quando si giunge alla resa dei conti, la popolazione che si prepara a sollevarsi contro la ferocia nazista e gli ultimi sussulti dell’estremismo fascista e lotta col governo Badoglio e scatenandone la dura repressione, è praticamente sola. In meno di due mesi ha prodotto una spinta dal basso così forte e inattesa, da sopravanzare di gran lunga le capacità di analisi della crisi di cui sono capaci i nascenti partiti politici, quelli di sinistra, soprattutto, che stentano a definire un’adeguata prospettiva programmatica e, ciò che più conta, perdono un’irripetibile occasione di formazione dal basso. E’ un prezzo che non pagano, come ha giustamente osservato Cortesi, “i partiti moderati che si affidano soprattutto alla preparazione di élites dirigenti”, che possono contare sul “lavoro di supplenza” astuto e accurato che vanno compiendo gli uomini di Badoglio e su tutto quanto di “moderato” – e non è poco – è sopravvissuto alla catastrofe del regime e si prepara a passare armi e bagagli nel “nuovo che avanza”[29].
L’obiettivo vero della partita, nella quale l’insurrezione della città assume il ruolo di un vero e proprio incidente di percorso – è la salvaguardia dell’ordine e della legalità di uno Stato inteso come custode degli interessi delle classi dominanti che hanno condotto il Paese sull’orlo di un abisso. Nel senso della continuità – che certo non conta sull’apporto del popolo in armi – vanno le esortazioni del fascista cardinale Ascalesi, che invita a collaborare lealmente con l’autorità costituita facendo quadrato attorno alle istituzioni contro i rischi dello scontro sociale[30], e l’appello rivolto il 31 luglio da quel “Mattino” che all’avvento del fascismo, ben prima di essere ridotto a giornale di regime, aveva spontaneamente preso le distanze dal “cadavere” della democrazia e che ora lancia la parola d’ordine dell’unione tra le classi nel rispetto dei ruoli “contro la spinta passionale della politica”[31]. Nel senso della continuità, infine, e in direzione convergente con l’azione del prefetto, della stampa moderata e del clero vanno gli ambienti antifascisti, eredi in certa misura di De Bosis e dell’ala conservatrice dell’Aventino che – riferisce il questore – guardano con timore alla “indulgenza di cui l’attuale governo sta dando prova nei confronti dei sovversivi tutti con le note disposizioni di liberazione dei confinati”[32]. In questo contesto non è azzardato ritenere che la multiforme ricchezza di motivi politici della resistenza opposta da Napoli ai fascisti di Badoglio dopo il 25 luglio e ai neofascisti dopo l’8 settembre, una resistenza che, sorprendendo i partiti, sfocia in rivolta armata e conduce alla cacciata dei tedeschi prima dell’arrivo degli Alleati, segni non solo l’incipit della guerra di liberazione, ma anche quello di un durissimo scontro politico tra moderati e rivoluzionari al cui interno si inseriscono la battaglia di De Nicola e della DC sull’epurazione, la svolta di Salerno, l’efficace lavoro di Croce e, in generale, dei moderati di maggior “spessore”, al fine di incanalare in qualche modo verso le Istituzioni le spinte più radicali e riassorbire gli “estremi” nel sistema, di recuperare valori nazionali e liberali e giungere a una “rieducazione politica di un ceto medio in piena crisi di identità, della cui riabilitazione come soggetto politico il Croce fu uno degli artefici”[33]. E’ la linea sulla quale si muove a Napoli, con indiscutibile lucidità, il prefetto Soprano, il quale, mentre la crisi precipita, così scrive a Badoglio, dopo il ritrovamento di un “libello intitolato La Nuova Italia a sfondo social-liberale”, che gli torna utile per tessere la ragnatela in cui imprigionare la democrazia che muove i suoi passi incerti.

Credo […] non sia da trascurare la opportunità di favorire e di alimen­tare il rinascere del nuovo partito liberale, che com’è noto alla E. V. – ­scrive Soprano al ministro dell’Interno Umberto Ricci – in questa pro­vincia ha particolari radici e vere forze vitali. E’ infatti da tener presente che la debacle di un partito nefasto ma attivissimo, quale era il partito fascista, ha creato nello spirito pubblico un certo vuoto e innegabile sbandamento, di cui non può che profittare il partito comunista, che ha già pronti i suoi quadri. Il breve termine assegnato per le convocazioni elettorali nel dopoguerra renderebbe anche più pericolosa l’azione insi­diosa del partito comunista, occultamente organizzato attraverso le mae­stranze operaie. In tali condizioni, pur col più completo rispetto delle sagge direttive di non riconoscere partiti né esponenti di partiti, mi permetto sottoporre alla superiore attenzione della E. V. 1’opportunità di avviare, alimentare e orientare nuove corrente [sic] di ordine, verso la ricostruzione del vecchio glorioso partito liberale, contrastando così il passo al sovversivismo e cementando la difesa della nuova vita costituzionale della Nazione”[34].

Così stando le cose, la sistematica defezione dei vertici militari, la fuga stessa dei generali Del Tetto e Pentimalli nel momento dello scontro supremo, non si spiegano solo con la viltà e lo smarrimento, ma rispondono anche, e forse soprattutto, a una logica politica: garantire un passaggio di poteri che avvenga per la via militare “ordinaria” – dai tedeschi in ritirata, agli alleati che avanzano – ed escluda ogni reale partecipazione popolare. Una logica di vero e proprio sabotaggio dell’azione dal basso che va in frantumi di fronte alla lenta avanzata degli Alleati, alla feroce determinazione dei tedeschi che intendono punire gli italiani “traditori” e, infine, al ruolo significativo e forse sottovalutato giocato dall’antifascismo popolare nella resistenza e, soprattutto, nell’esplosione della sommossa, che, tuttavia, può mettere in fuga i tedeschi, non impedire la ripresa del progetto moderato[35].
Tra politica e storia, dicevo in apertura di queste annotazioni – e, con maggior proprietà, avrei potuto dire tra formazione politica dello storico e storiografia – il denominatore comune è l’uomo con le sue passioni e i suoi interessi. A questa considerazione va con tutta probabilità legato il “destino storiografico” delle Quattro Giornate, per il quale rimando alle osservazioni di Guido D’Agostino, Gloria Chianese, Francesco Soverina e Sergio Muzzupappa e alle lucide pagine di Cortesi[36]. Quello che qui interessa è il prezzo pagato dalla ricostruzione delle Quattro Giornate alla sterile contrapposizione di tesi precostituite – non di rado a fini politici – a quel giudizio di “atipicità” che, di fatto, le ha espunte dalla storia della Resistenza, riducendole ad una sorta di eroica quanto anacronistica rivolta di “Jaque bonhomme” o, peggio ancora, come s’è visto con Pavone, ad un “sanfedismo” alla rovescia, che per una volta prende miracolosamente posto dalla parte giusta. Mi interessa soprattutto capire quanto e quale antifascismo è sparito dalla storia in nome di contrapposte ortodossie, in conseguenza del lavoro degli “intellettuali organici”, o, più semplicemente, di una sorta di mummificazione della Resistenza, in uno schema per il quale gli episodi di lotta entrano solo a condizione di aver avuto una direzione politica unitaria con etichetta “Comitato di Liberazione Nazionale”. Si è perso – e non è cosa da poco – il filo diretto tra antifascismo e Resistenza in Campania e, peggio ancora, il processo storico “individuale”, la complessità delle motivazioni e dei contenuti che i singoli militanti portano nella “scelta partigiana. Si sono persi talora, e il danno è irreparabile, i militanti stessi[37].
Con le Quattro Giornate, Napoli presenta alla storia una foto di massa, eppure le immagini radicate nella coscienza collettiva sono quelle dello “scugnizzo”, della rivolta spontanea, di una protesta che non manca solo di organizzazione, ma anche di pensiero politico. Perché è andata così? Quanto c’entra con questa lettura deformata un ripetuto uso politico della storia, quanto la nostra abitudine a guardare al vertice, che ci impedisce di volgere lo sguardo alla base, la nostra incapacità di leggere una foto di massa, che ci induce a ingrandire i particolari e a sopravvalutare i dettagli rispetto al quadro d’assieme? Non sono quesiti banali perché, dopo settant’anni, rimandano ai nodi centrali di una corretta lettura di pagine non secondarie della nostra storia: esiste un volto politico delle Quattro Giornate? E, se esiste, in quale senso va indirizzata la ricerca per individuarlo nei gruppi anonimi e indistinti fissati dalla foto di massa?
Prima di azzardare risposte, ho provato a immaginare un percorso di ricerca corretto sul piano metodologico, in grado di aiutarmi a utilizzare i particolari per valorizzare e mettere meglio a fuoco il quadro generale, utilizzando gli elementi noti e sufficientemente verificati di cui disponiamo: da un lato gli elenchi dei combattenti, che possono essere incompleti ma esistono – anni fa Gaetano Arfè mi parlò addirittura di schede dei partigiani conservate dalla sezione napoletana dell’ANPI – dall’altro i fascicoli personali degli antifascisti schedati. Per taluni aspetti, il fascismo ha involontariamente scritto una parte non secondaria della propria storia – direi che ne ha lasciato un monumento fosco e rivelatore – nelle carte di polizia. A Roma, nell’Archivio Centrale dello Stato, sono conservati, ad esempio, vero e proprio biglietto da visita del regime, due fondi di grande interesse: le carte del confino di polizia, coi fascicoli personali di circa 17.000 condannati, e il Casellario Politico Centrale, che il regime ereditò dall’Italia liberale, ma perfezionò in termini di indiscriminata logica poliziesca. È, in qualche modo, la “fotografia” di ciò che l’apparato repressivo fascista vide o ritenne di vedere, in tema di dissenso. In termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi, una sorta di stroncatura di indiscutibile marca fascista del teorema defeliciano del “consenso”[38]. Confrontando gli elenchi dei combattenti delle Quattro Gior­nate con quelli dei “sovversivi” schedati, è possibile individuare tra loro quelli che avevano un passato di antifascisti e conoscerne gli ideali politici. Il risultato della ricerca, che andrebbe naturalmente proseguita, è positivo e, per certi aspetti, addirittura illuminante.
Sovversivi” schedati sono, per fare un esempio, i fratelli Tito ed Ezio Murolo, protagonisti dei combattimenti a Poggioreale e partigiani decorati dopo le Quattro Giornate[39]. “Raccontato” dalla polizia, Ezio Murolo è incompatibile con un generico modello di “uomo qualunque” spinto alla rivolta da un impulso improvviso nato dall’esasperazione per la guerra e dalla ferocia nazifascista. Quando la città insorge, infatti, egli ha alle spalle una significativa esperienza di lotta politica: aiutante di campo di D’Annunzio a Fiume, dirigente di primo piano dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia, di cui guida l’ala dissidente che partecipa alla costituzione degli Arditi del Popolo, nel 1921, dopo uno scontro con alcuni squadristi, è arrestato davanti al “Caffè Aragno”; ha con sé un pugnale e tre bombe a mano[40]. Nel 1924, dopo l’omicidio Matteotti, si avvicina ad Amendola, frequenta Bracco e i liberal-democratici che a Napoli oppongono l’ultima resistenza a Mussolini, distinguendosi nei sanguinosi scontri con gli squadristi e organizzando la manifestazione antifascista che il 4 novembre 1924 vede migliaia di ex combattenti sfilare dal Museo a Piazza Trieste e Trento e invitare Amendola a “marcia­re su Roma al grido di Italia libera! A Roma! A Roma!”[41].
Rifugiatosi in Francia, stringe rapporti coi fuorusciti e si fa notare tra gli “elementi pericolosi” finché non lo ferma l’arresto giunto nel 1928, mentre passa il confine a Bardonecchia, per un presunto complotto ordito contro Mussolini. Mancando prove certe, se la cava con l’ammonizione, ma si fa prudente[42] e non dà “adito a rilievi” fino al 1937, quando si scopre che raccoglie fondi per gli antifascisti volontari in Spagna e finisce al con­fino[43]. Pochi mesi dopo, grazie a una sanatoria e ai contatti col mondo cattolico – per lui intercede Pietro Tacchi Venturi – si dichiara pentito delle sue idee sovversive e ottiene la libertà condizionale, ma la polizia, convinta che faccia da riferimento per i fuorusciti, lo tiene d’occhio fino alla fine del regime, Vista così, alla luce della lunga militanza, la partecipazione di Murolo alle Quattro Giornate diventa l’epilogo naturale di una lunga opposizione al fasci­smo. D’altro canto, se l’insurrezione ha tra i protagonisti uomini come Murolo, non la si può ridurre a una sia pur eccezionale “jacquerie”; al contrario, tutto lascia credere che essa costituisca l’alba della Resistenza e, in ogni caso, sia parte integrante della storia di quell’antifascismo che attraversa come un filo rosso un ventennio nel quale, se è vero che la storia del Paese non si riduce alla storia della lotta al fascismo, non è meno vero che sarebbe impossibile ricostruirla senza tener conto del ruolo svolto dall’antifascismo. Un antifascismo che, a ben vedere, non è solo figlio naturale di una contrapposizione ideologica e di classe, ma ha mille anime e non risulterebbe comprensibile se non si tenesse conto della crisi d’identità, del confuso rivoluzionarismo, del travaglio e del percorso politico di una generazione di giovani borghesi che, usciti dall’esperienza tragica della guerra, inseguono il sogno di un mondo migliore, più libero e più giusto ma, messo in crisi lo Stato liberale, si trovano di fronte a una dittatura. Una condizione di disagio, quindi, che si inserisce nel quadro più ampio della crisi economica e politica del primo dopoguerra, nello scontro sociale sui costi della riconversione e nel duro conflitto tra capitale e lavoro, ma non conduce solo alla scelta di destra e all’assorbimento nei Fasci di Combattimento. C’è un’altra via, che passa per il fascismo, rifiuta l’opportunismo di Mussolini e giunge allo scontro con gli squadristi. E’ questo mondo che Ezio Murolo porta nelle Quattro Giornate, questa maniera di essere antifascisti che è sicuramente minoritaria, che non mette in campo la formazione teorica, la consistenza organizzativa e la continuità d’azione dei comunisti, non possiede la forte identità politica e la sperimentata pratica di militanza degli anarchici, ma ha connotati definiti: è l’antifascismo liberale, di quanti – non sono molti, ma esistono – dopo la bufera della guerra, dopo gli ambigui entusiasmi e i complici silenzi, non stanno al gioco e contrastano come possono, giungendo sino allo scontro armato, “sciarpe littorie”, squadristi “antemarcia”, criminali e buffoni in camicia nera. Un antifascismo che non si piega e collega direttamente le Quattro Giornate alla guerra di liberazione. Non a caso Murolo si arruolerà nelle “Formazioni Pavone” e nel ricostituito esercito italiano che combatte a Cassino e prose­gue la sua lotta a fianco degli anglo-americani[44]. Dopo la guerra sem­bra sparire e ricompare per un attimo, negli anni Cinquanta, protagonista di una scissione nella sezione napoletana dell’ANPI, causa­ta, racconta il prefetto, dal rifiuto di ingerenze dei partiti e dalla volontà di “tutelare il patrimonio morale della resistenza”[45].
Su questo “farsi da parte”, sulle critiche rivolte ai partiti da militanti che, dopo la lotta antifascista, stentano a inserirsi nella politica attiva, sul rapido predominio acquisito nel ricambio tra classi dirigenti da un ceto politico legato ai partiti più che alle masse – questioni su cui anni fa pose l’accento Pasquale Schiano – andrebbe fatta una riflessione. Ciò che per ora va sottolineato è che una via per giungere all’anima politica delle Quattro Giornate sembra aperta. Certo, un caso singolo non fa testo, ma come vedremo, Murolo non è solo; la sua vicenda personale e la cultura politica ricca di svariate esperienze che egli porta nello scontro sono espressione di un mondo. Nelle strade di Napoli nel settembre del 1943 egli rappresenta un dissenso che ha radici nella cultura liberale ed è estraneo al mon­do comunista. Come quella di tanti altri partigiani, la sua vicenda rivela la debolezza della tesi sostenuta da Sergio Luzzatto, che, identificando la Resistenza col comunismo e il comunismo col “gulag”, ritie­ne giunto il momento di archiviare la pagina dell’antifascismo[46]. Ripercorrere la storia di Murolo non vuol dire solo segui­re un “filo rosso” che attraversa l’intero ventennio e tracciare un percorso emblematico, ma consolidare un’ipotesi di ricerca che, approfondita, condurrebbe ad altre interessanti e complesse figure di antifascisti. Un’ipotesi che trova ulteriore con­ferma nella “biografia” del fratello di Ezio, Tito Murolo, anarchi­co ribelle e sregolato, giornali­sta, agente di commercio e antimilitarista[47], che ha un percorso più breve e turbolento di quello del fratello, ma non è certo estraneo alla politica. Antifascista convinto, nel 1923 espatria in Francia e poi in Algeria, dov’è denunciato come organizzatore di un complotto contro Mussolini. L’accusa è infondata, ma non mancano prove dei contatti coi fuorusciti[48]. Lasciata l’Africa, si fa notare a Bruxelles per le idee anarchiche e per l’amicizia con Arturo Labriola. Fermato alla frontiera nel 1932, mentre tenta di rimpatriare, se la cava con un’ammonizione, si allontana dalla militanza attiva e si iscrive al “Sindacato Operai dell’Industria”. Nel 1935 è radiato dal Casellario Politico[49] e la sua esperienza di “sovversivo” sembra conclusa. Nel 1940, invece, è licenziato per motivi politici dalla “Ammonia e Derivati” di Casseria, nel Savonese e spedito a casa con foglio di via. “Non ha dato prova di ravvedimento”, scrive a Napoli la polizia politica, e tanto basta perché il Murolo torni ad essere sorvegliato a vista fino al crollo del regime”[50]. Vivrà gli anni della guerra tra dichiarazioni di fede fascista, che gli eviteranno l’internamento in un campo di concentramento, e l’odio per il regime che nel settembre del ’43 lo condurrà sulle barricate delle Quattro Giornate[51]. Al di là dei limiti e dei probabili compromessi che ne rendono più umana la vicenda personale, la militanza di Tito Murolo si inserisce in una tradizione di pensiero politico che a Napoli ha radici profonde: la cultura anarchica, che risale a Baku­nin, Cafiero, Malatesta e Merlino. E in città Murolo non è l’uni­co libertario che, avendo alle spalle una “storia politica”, nel settembre del ’43 si oppone armi in pugno ai nazifascisti. Anarchici sono infatti due giovani eredi della tradizione libertaria: Germinal Malagoli, figlio di Dionigio e di Clotilde Peani, libertaria torinese che il regime ha sepolto in manicomio, e Alastor Imondi, figlio di Giuseppe, un dentista che negli anni più bui della dittatura, nonostante la sorveglianza, ha fatto del suo studio in Via Duomo un punto di riferimento per gli antifascisti locali e per quelli provenienti da altre città[52]. Anarchici sono ancora Luigi Vellotti, già coinvolto nei moti della Settimana Rossa nel 1914, e il segretario della locale sezione del Sindacato Ferrovieri, Armido Abbate, che durante lo sciopero di protesta per le violenza fasciste di Roma, nel novembre del 1921, in una città piena di squadristi decisi a imporre con la forza la ripresa del lavoro, non aveva esitato a rifiutare la sospensione dello sciopero, se prima i fascisti non avessero lasciato la capitale. Una combattività che gli costò il licenziamento e aprì col regime il conto mortale che l’ex ferroviere salderà guidando un pugno di combattenti nelle Quattro Giornate[53].
Che l’opposizione degli anarchici sia stata ben più che una pura testimonianza è dimostrato dai rapporti che essi hanno con i comunisti dopo che il Pci, scosso dai colpi inferti dalla polizia alle sue strutture, torna a tessere la sua tela e per tre anni, dal 1930 al 1933, riorganizza una rete clandestina collaborando con i liberta­ri[54]. Si tratta ovviamente di militanti le cui radici sono in quel PCd’I che ebbe prospettive diverse dal partito di Togliatti. Una diversità che ben spiega sia le fratture che, dopo l’ar­mistizio, produce a Napoli nell’universo comunista la ricerca di un as­setto interno, rivelatosi infine terribilmente faticosa, sia il silenzio caduto in seguito su significative vicende umane e politiche.
Come che sia, una perquisizione in casa di un operaio comu­nista a Ponticelli consente alla polizia di smantellare la fragile rete clandestina costruita da anarchici e comunisti. Il colpo è duro e, per quel che riguarda gli anarchici, isola i militanti favorevoli all’organizzazione, rende loro praticamente impossibile la realizza­zione di iniziative comuni e riduce l’opposizione all’azione dimo­strativa di “cani sciolti”. Sono percorsi sconosciuti e senza dubbio affascinanti, ma mi pare più utile tornare sulle tracce dei combattenti delle Quattro Giornate il cui passato di militanza politica disegna un quadro che più acquista forma e più si fa interessante. Molto significativa è, in questo senso, la vicenda di Antonio Ottaviano, militare in Li­bia nel ‘38, processato assieme ad altri soldati per aver organiz­zato l’Europa Unita, una società segreta di ispirazione mazziniana, non lontana da alcune intuizioni di Rosselli, per la quale una “confederazione dei popoli europei” avrebbe potuto isolare il nazifascismo e garantire la pace[55]. Ottaviano se la cava con un’assoluzione per insufficienza di prove[56],  ma il carattere antifascista dell’europeismo del progetto è inequivocabile: o l’Europa, politicamente unita, ferma il nazifascismo, scrivono i promotori dell’associazione, o Mussolini e Hitler la condurranno alla distruzione[57].
Antonio Ottaviano non nasce antifascista. La sua opposizione al regime matura quando Mussolini lega le sorti dell’Italia a quelle della Germania nazista e sembra delineare una linea di tendenza. Non si tratta ovviamente di una reazione che coinvolge subito ampi strati sociali, ma non c’è dubbio: l’alleanza genera dissenso. Per molti liberali, che hanno sostenuto o accettato il fascismo come argine contro il temuto “pericolo rosso” o in nome di un rinnovamento che non è mai venuto, la Germania rimane il nemico di una guerra feroce e Hitler ne è il capo che incute timore. Chi conserva memoria degli ideali dell’Italia liberale comincia così ad allontanarsi dal regime; è un processo che nasce dalla convinzione, presente con forza nei documenti sequestrati ai promotori dell’Europa Unita, che la Germania si finga amica dell’Italia, ma sia pronta a sottometterla e che Mussolini, spinto soprattutto da una smodata ambizione personale, ne sia consapevole e giochi d’azzardo, rischiando di condurre il paese alla rovina. A ben vedere, la vicenda personale di Ottaviano disegna un percorso che conduce a un dissenso profondo, destinato a crescere, a farsi scelta collettiva e ad acquisire un peso specifico di gran lunga superiore a quello del presunto “consenso”; un dissenso che trae alimento da fermenti ancora vitali della cultura politica liberale, anticipa la frattura degli anni successivi e delinea un antifascismo che non nasce da contrapposizioni ideologiche, dalla polarizzazione comunismo-fascismo o dal dramma della guerra persa, ma è l’esito fatale delle insanabili contraddizioni e della miseria morale del regime[58]. Certo, le ricerche andrebbero approfondite, ma una linea di rottura c’è e s’intra­vede. Non è un caso, cre­do, che una posizione molto simile a quella dell’Ottaviano assuma, sin dagli anni Trenta, un altro combattente delle Quattro Giornate, Luigi Maresca, impiegato postale e fervente radicale che non ha mai manifestato la sua profonda avversione per il regime. Nel dicembre del 1927 egli scrive a Nitti, costretto a riparare all’estero, una lettera in cui fa

giungere in terra straniera l’omaggio deferente e grato al Ministro che dopo Caporetto seppe vincere a Vitto­rio Veneto e che avrebbe guidato la nazione a ben altri destini”.

Purtroppo, prosegue il Maresca,

oggi non sono consentite certe manifestazioni.[…] Sia di conforto però il pensare che il ricordo suo è più vivo che mai nella mente dei suoi compatrioti, che sperano, […] nel domani luminoso che non mancherà di venire. […] Io sono di quelli durissimi, conclude il Maresca, e sono quasi tutti gli italiani a pensarla come me”.

La lettera, intercettata nella posta inviata a Nitti costa all’impiegato l’immediato licenziamento e una sorveglianza che rivela misteriosi contatti con la Francia[59]. Nel 1931, dopo anni di stenti e persecuzioni, il Maresca lascia la famiglia a Napoli e si stabilisce in Belgio, dove tira avanti con l’aiuto di Nitti e del Soccorso Rosso[60]. L’antifascista e il “patriota liberale” convivono in lui senza problemi fino alla guerra d’Afri­ca, quando il fuoruscito, pur dichiarandosi ostile al regime, medita di rientrare in patria per arruolarsi, ma poi rinuncia perché teme di finire in galera invece che al fronte[51]. Tra il 1938 e il 1939, quando la situazione internazionale precipita e ap­pare chiaro che la guerra si avvicina, scrive alla famiglia lettere in cui esprime timori simili a quelli che emergono dalle carte seque­strate in Libia all’Ottaviano e ai promotori dell’Europa Unita. La catastrofe si avvicina rapidamente – scrive il Maresca – per­ché la Germania sta per aprire un conflitto che sconvolgerà l’Eu­ropa ed egli, convinto che Belgio e Francia siano in pericolo, si prepara a consegnarsi ai fascisti. L’Italia, sostiene più volte, ­potrebbe ancora salvare se stessa e l’Europa passando dalla parte della Francia e dell’Inghilterra. Otterrebbe così

ciò che vuole ­- egli scrive – aiuti finanziari, morali e soddisfazioni territoriali, ma – conclude amaramente – non farà niente e si ostinerà nella politica pro tedesca, che è la razza nemica nostra”[62].

Anche per Maresca, quindi, la rottura definitiva nasce dal rapporto che lega sempre più il fascismo alla Germania nazista, un rapporto incompatibile col “patriottismo libera­le” del fuoruscito. È così che il Maresca, la cui avversione al regime, allo scoppio della guerra d’Etiopia, si era indebolita al punto che aveva pensato di mettersi a disposizione di Mussolini, si riscopre definitivamente e irriducibilmente ostile al fascismo. È una svolta emblematica, un passaggio delicato, decisivo e per molti versi emblematico di un processo che non conduce semplicemente all’allontanamento definitivo di Maresca dal fascismo, ma segna la separazione dal regime di strati consistenti della popolazione. Una svolta che matura prima di quanto si pensi, che ha un chiaro significato politico e non è riconducibi­le a processi spontanei avviati successivamente dai rovesci mili­tari e dalla tragedia dei bombardamenti.
D’altro canto, come non chiedersi da dove venga fuori l’anziano professore dal piglio rivoluzionario che al Vomero, dopo vent’anni di fascismo, si pone  alla testa dei partigiani? Antonino Tarsia in Curia, così si chiama il professore, è uomo di Bordiga, comuni­sta e, ad un tempo, avversario del Pci di Togliatti. La sua storia ha radici lontane e conduce difilato a Bordiga, alla scissione di Livorno e, prima ancora, alla crisi del PSI che precede Livorno. L’uomo che guida le Quat­tro Giornate di Napoli sulla collina del Vomero ha alle spalle una lunga storia politica e, col fratello Ludovico, è uno dei fondatori del partito comunista[63]. Dopo la vittoria del fascismo, Antonino e Ludovico Tarsia sono tra gli organizzatori e i dirigenti del “Soccorso Rosso” e Ludovico finisce perciò in carcere due volte nel 1924 e nel 1925[64]. Il percorso dei due fratelli è complesso e, a seguirlo, finiremmo fuori strada. Vale la pena però di fermarsi su un rapporto di polizia del 1938 che apre spiragli di luce sulla realtà di un antifascismo di cui conosciamo probabilmente ancora poco e ci riconduce al cenno iniziale sulla problema della “storia dall’alto”. Se si fa eccezione per i reiterati conati organizzativi del Pci – che nelle ricostruzioni sin qui tentate, più che operai, portano alla ribalta studenti o intellettuali come Rossi Doria, Sereni e Amendola[65] – l’antifascismo, a Napoli, si riduce a Benedetto Cro­ce, Bracco, Omodeo, intellettuali, quindi, che dissentono ma non fanno propaganda o proselitismo. È vero, Gaetano Arfè, gio­vanissimo, giunge alle organizzazioni clandestine passando per Croce, tuttavia è Ceccoli, un libraio ex comunista che lo conduce al filosofo. La pre­senza attiva di militanti che in qualche modo cercano possibili antifascisti e li istruiscono quando sembra utile, è un dato su cui ci si è fermati sinora poco. Eppure – ecco la nota cui facevo cenno – la polizia sospetta che Ugo Arcuno, Antonio Cecchi, Salvatore Mau­riello e, quand’è a Napoli, Ludovico Tarsia, svolgano una prudente attività di proselitismo. Ci sono conferme e smentite, ma è probabile sia vero: il grup­po ha contatti con studenti e giovani professionisti e, quando il terreno si rivela fertile, li indirizza a Bordiga, il quale, a sua volta, pare susciti simpatie e sia ben accolto anche in ambienti borghesi[66]. Dire Bordiga, non signi­fica naturalmente riferirsi al Pci riorganizzato da Amendola, che fa capo ad altri gruppi ed ha altri punti di riferimento, quali ad esempio la libreria Detken a Piazza Plebiscito. In città ci sono due anime, due realtà comuniste, la cui difficile convivenza, i cui profondi dissensi spiegano in qualche misura lo scontro che si apre nel Pci quando la guerra sembra ormai finita. Uno scontro che nasce da due concezioni del comunismo e conduce alla “scissio­ne di Montesanto” e alla penosa ed oscura vicenda sindacale delle due confederazioni: la Cgl e la Cgil[67]. Contro il sindacato legato all’anima togliattiana del partito ci sono, senza contare gli azionisti, il socialista Federico Zvab, che combatterà ovunque il fascismo, dalle barricate di “Vienna la rossa” a quelle di Napoli nelle Quat­tro Giornate, i comunisti Ennio Villone e Vincenzo Iorio, anch’essi combattenti delle Quattro Giornate, tutti partigiani e tutti antistalinisti, che con la loro vicenda politica smentiscono le superficiali equiparazioni tra Resistenza, comunismo e “gulag”[68].
Per quanto necessariamente brevi, queste annotazioni sul “volto politico” delle Quattro Giornate sarebbero davvero incomplete, se non facessi cenno a figure di combattenti “anomali” di cui citerò un caso, ma che non è e non può essere unico, e dal quale occorrebbe tener conto per rendere più ampio lo “spettro” della ricerca.
Tra il 1929 e il 1930 c’è una ripresa complessiva del­l’antifascismo. Ne sono prova non solo l’attività dei repubblicani raccolti attorno alla “Comunità Nazionale Mazziniana” e le copie del “Memoriale Filippelli”, che circolano numerose per la città ricordando l’omicidio Matteotti e le pesantissime respon­sabilità di Mussolini, ma la ricomparsa dei socialisti, che mettono in circolazione un opuscolo di propaganda intitolato “Più Avanti” e subiscono l’arresto di due studenti universitari, Aldo Romano e Giovanni Pugliese Carratelli, l’uno futuro storico del socialismo, l’altro dell’antichità[69]. I fogli clandestini che prendono a girare in città ai primi del 1929 danno il via a indagini serrate che si muovono in tutte le direzioni[70]. Estranei all’iniziativa sembrano subito i comunisti, benché su di loro si abbatta l’onda di perquisizioni domiciliari eseguite a caso, per tenere tutti i militanti sotto pressione. Anche in questo caso la squadra politica si dà da fare, ma non danno alcun esito né le ricerche “a tappeto” nei rioni operai dell’Arenaccia, né quelle “mirate” in casa di Ugo Arcuno, libraio, ex segretario del comitato provinciale del “Soccorso Rosso” e punto di riferimento dei bordighiani[71], né di Pietro Russo, impiegato di banca che è stato collaboratore e amico di Bordiga, e non ha mutato le idee politiche, ma ormai “non dà luogo a rilievi” e “conduce vita ritirata, dedita alla famiglia e allo studio”[72].  La polizia naturalmente conosce il suo passato, sa che si muove con cautela e non si lascerebbe sorprendere un maniera così  banale. L’occasione, tuttavia, è buona per fargli capire che il fascismo non dimentica e non perdona. Russo è stato e potrebbe essere ancora “pericoloso”. A vent’anni, abbandonate “tendenze anarcoidi” pagate con denunce e arresti, ha provato a rientrare nei ranghi della buona borghesia da cui proviene, ma nell’infuocato dopoguerra s’è iscritto al PSI, distinguendosi nella frazione di Bordiga. Dopo Livorno ha assunto ruoli di responsabilità nel Partito comunista, come dirigente della “Lega Proletaria” e segretario politico della Federazione provinciale. A febbraio del 1923 s’è dato alla latitanza, sfuggendo all’ondata di arresti che punta a decapitare il partito, ma è stato sospeso dallo stipendio e ha evitato a stento il licenziamento. S’è opposto con coraggio ai fascisti fino al 1926, quando è segnalato per i rapporti con Bordiga, poi si è arreso: ha moglie e un figlio e i fascisti hanno intimato al Banco di Napoli di non perdonargli nulla. Russo mette tutto nel conto, quella e le mille altre vessazioni. Sta zitto, ma non cede e, alla resa dei conti, porta negli scontri delle Quattro Giornate l’Italia che non ha mai “consentito”, che ha militato, lottato e che invano il fascismo s’era sforzato di piegare[73].
Russo non può saperlo, ma in quei giorni eroici e disperati in cui sembra accendersi la speranza d’un riscatto politico e sociale, Aldo Romano, la causa involontaria della perquisizione del 1929, s’è schierato con lui, cogliendo al volo l’irripetibile chance e ripetendo la fortunata piroetta che già una volta gli ha consentito di salvare carriera e fortuna personale, saltando il fosso, passando ai fascisti e tradendo i compagni. Gli andrà bene anche stavolta – è questo il “combattente anomalo” di cui parlavo – e troverà modo di farsi spazio tra le “nuove leve” della classe dirigente della Repubblica: storico prestigioso, “uomo di sinistra” e, ironia della sorte, “comunista” nel partito di Togliatti che, selezionando i suoi quadri, si tenne invece accuratamente alla larga dagli uomini come Russo. Anche Aldo Romano è un combattente delle Quattro Giornate e, se si tratta di delinearne il volto politico,  la sua storia ha peso e significato per molti versi emblematici. Nel 1931 l’allora giovane studioso, dopo otto mesi di vita e di “condotta irreprensibile al confino”, s’era trovato stretto tra le ragioni dell’onore e degli ideali e quelle “concrete della vita”. Come spesso accade, le ambizioni avevano avuto facile gioco sugli ideali sicché s’era ingegnato di “non dar ragioni o motivo di osservazione alcuna da parte della PS”. Un primo risultato l’aveva ottenuto subito: “tornato ai familiari e agli studi” era stato radiato dalle lista delle persone “politicamente sospette”. Una dittatura, però, quale che essa sia, non si contenta di così poco e, per suo conto, il Romano non intendeva rinunciare ai suoi sogni di brillante studioso. Come ebbe a riconoscere egli stesso in un memorandum indirizzato ai vertici del regime, scelse perciò di pentirsi o,  per dir meglio, di mostrarsi apertamente “pentito […] degli errori passati e ammaestrato dall’esperienza”[74]. Era il primo, consapevole passo verso un rapporto di dare-avere destinato ad andare ben oltre la semplice iscrizione al Partito Nazionale Fascista, contro la quale, peraltro, si schierarono immediatamente non solo la Federazione Provinciale di Napoli, ma gerarchi autorevoli, come il vice segretario nazionale del Partito, Vincenzo Zangara, che, irritato, si rivolse addirittura a Bocchini, l’onnipotente capo della polizia mussoliniana, per avere “dettagliate informazioni politiche e morali” sul Romano[75]. L’opposizione dei quadri del partito rese naturalmente tutto più difficile. Occorrevano a quel punto non solo amici potenti, ma nuove, concrete prove di un irrefutabile “pentimento”. Quanto costarono al Romano l’amicizia di De Vecchi, un posto di prestigio all’Istituto Storico di Volpe, il riordino del Museo di San Martino, i viaggi in giro per il mondo a rappresentare la cultura fascista, l’approdo a Palazzo Venezia, la libera docenza e la stima di Mussolini[76]? La natura dell’uomo è complessa e i conti ognuno li fa con la propria coscienza. E’ un fatto però: il socialista pentito, passato ai fascisti, divenne una spia dell’Ovra[77].
Ci sono mille motivi per cui la foto di massa che ritrae il volto politico delle Quattro Giornate è andata sbiadendo già all’indomani della  sommossa, ma non c’è dubbio: politica fu la natura dell’insurrezione, politiche le ragioni della sua lettura minimalista. Se le cose stanno così – e non è facile dubitarne – bisognerà pur chiederselo: quali criteri ispirarono la selezione delle classi dirigenti? Com’è stato possibile che, per dirla con Carlo Salinari, uomini che avevano “odore di lucerna, piuttosto che sapore d’erba e di rugiada”[78], dirigenti vissuti per anni all’ombra della Curia o cresciuti nel chiuso degli apparati di partiti, abbiano trovato maggior credito di combattenti e perseguitati politici? Quale nesso lega l’affermazione d’una classe dirigente che pone l’iniziativa di base in una posizione subalterna, di eterna minorità, e subordina la lotta sociale al carro dell’azione politica, alla difficoltosa, parziale o reticente lettura della valenza politica delle Quattro Giornate? Sono domande alle quali non è facile dare risposte, ma sono anche i nodi che occorrerà sciogliere per riempire di contenuti storici la “lettura politologica” sulla quale il revisionismo ha edificato la sua fortuna[79].

 

[1] Leopoldo von Ranke, Storia universale, traduzione italiana a cura di Aldo Neppi Modona, Vallecchi, Firenze 1932. Sul rapporto tra storia e fatti storici, affascinante e ancora attuale Edward Hallett Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino, 1966, p. 11-35. più di recente, affrontando lo stesso tema, Pavone ha osservato che “la conversione tra verum e factum (debitamente accertato) […] nel corso del Novecento” si è allontanata “sempre più dalla matrice vichiana; ma la necessità di acclarare con sicurezza il certo onde svolgere con rigore e serenità il discorso del vero è rimasta […]. Così nell’opera di un grande storico come Federico Chabod, mentre nel testo scorrono le limpide argomentazioni del giudizio storico (il vero), dalle ricchissime note risponde il basso bordone del certo”. Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 38.
[2] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 2007.
[3] Idem, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel 21° secolo, Lindau, Torino, 2005 e L’uomo oltre l’uomo: le conseguenze della rivoluzione bioteconologica, Mondatori, Milano, 2002. La teoria di Fukuyama sembra, per certi versi, un’esasperata e talora grottesca deformazione dell’acuta e corrosiva critica di Marcuse alle “democrazie occidentali” e alla loro “intolleranza repressiva”. La realtà totalitaria della società industriale, osservava infatti Marcuse, conduce ad una unidimensionalità dell’uomo e del suo pensiero, precostituendo bisogni, assorbendo ogni spazio alternativo, ogni realtà di contrasto e sottomettendo ogni forma d’opposizione  al dominio d’una “democrazia” in cui tutto è ridotto alla dimensione imposta dalla tecnologia e dal consumismo. Herbet Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967.
[4] Ivi, VII edizione, 1968, p. 266.
[5] Nella letteratura di respiro nazionale, alle Quattro Giornate fanno cenno soprattutto Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), Einaudi, Torino, 1983 e Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio, sulla moralità della Resi­stenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Per la ricostruzione degli eventi, di grande interesse è ancora Corrado Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista. 28 settembre-1 ottobre 1943, Maone, Napoli, sd ma 1944; una bibliografia essenziale sull’argomento, alla quale rimando, si  trova nel testo di Barbagallo ristampato nel 2004 dalla Città del Sole di Napoli a cura di Sergio Muzzupappa con una prefazione di Luigi Parente; vi aggiungo solo, per completezza d’informazione, il recente Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare. I volti, le storie, Manifestolibri, Roma, 2009.
[6] Del Caviglia è possibile vedere il fascicolo personale custodito nell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Prefettura, Gabinetto, secondo versamento (da qui in avanti ASN, PG, V2) busta (d’ora in poi b.) 254, fascicolo (da questo momento f.) “Caviglia Pietro, maggiore di P.S. 1936-1946”. 
[7] Ivi, b. 1607, f. “VI-1-212-1943-58”, sottofascicolo (d’ora in avanti sf.) “Agenti di P.S. Relazione sulla cacciata dei tedeschi da Napoli. 1943”, pp. 1 e 3. 
[8] Ibidem, pp. 4-5.
[9] Ibidem, p. 9.
[10] Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit., p. 88.
[11] Ivi.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] ASN, PG, V2) b. 53, f. Relazioni mensili 1943”, nota 102778 del 30-7-1943.
[15] Ivi.
[16] Ibidem, nota 102778 del 3-9-1943.
[17] Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare…, cit., p.130.
[18] ASN, PG, V2) b. 53, f. “Relazioni mensili 1943”, nota 102778 del 30-7-1943.
[19] Ivi.
[20] Luigi Cortesi, Comunisti, Resistenza e Quattro Giornate, in Gloria Chianese (a cura di), Mezzogiorno 1943. Le scelte, la lotta, la speranza, Esi, Napoli, 1995, pp. 412 e sgg. Sulla categoria storiografica di “laboratorio politico” negli studi recenti sulla Resistenza in area meridionale, si veda anche Luigi Parente, Introduzione a  Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit., pp. IX-X.
[21] Gaetano Arfè, introduzione a Domenico Zucàro (a cura di), Pietro Nenni. Vento del Nord. Giugno 1944-giugno 1945, Einaudi, Torino, 1978, p. XXVIII.
[22] Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991, p. 138.e Sergio Muzzupappa, Introduzione a Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit., p. XXXVII. Togliatti, parlando a Napoli ai quadri del Pci, si avventurò inizialmente sul terreno di un paragone storico coi giacobini del 1799, poi strinse il campo ad una interpretazione meno impegnativa e più funzionale al suo “partito nuovo” e al progetto di radicamento sociale di cui il partito diventava strumento. Fu così che il “giacobinismo” sia annacquò al punto da diventare “manifestazione istintiva di forza nazionale e di spirito patriottico agli albori”. Rapporto tenuto l’11 aprile 1944, in Togliatti, Opere, V, 1944-1955 a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1984. p. 6. Riportato da Claudio Pavone, Una guerra civile…, p. 138.
[23] Volantino dattiloscritto di propaganda dell’ “Alleanza Nazionale di Libertà”, sequestrato a Napoli e conservato in ASN, Questura, Gabinetto, b. 744, f. “Foglietti sovversivi intitolati”.
[24] Ivi.
[25] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati (d’ora in avanti ACS, PS), 1943, b. 15, f. “Relazioni trimestrali 1943), note 102778 del 31-8  e del 3-9-1943, da Prefetto di Napoli a MI; Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia. Guerra, fascismo, Resistenza e oltre, Manifestolibri, Roma, 2004, p. 196. Sugli episodi di repressione si vedano anche Giacomo De Antonellis, Napoli sotto il regime. Storia di una città e della sua regione durante il ventennio fascista, Cooperativa Editrice Donati, Milano, 1972, pp. 232-237; Guido D’Agostino, Le Quattro Giornate di Napoli, Newton Compton 1998; Luigi Cortesi, Introduzione a Luigi Cortesi e altri, La Campania dal fascismo alla Repubblica. Società, Politica e Cultura, 2 voll, Esi, Napoli, 1977; Gloria Chianese, “Quando uscimmo dai rifugi”, Il Mezzogiorno tra guerra e dopoguerra (1943-1946), Carocci, 2004; Salvo Ascione, Settembre 1943: Napoli tra stragismo e rivolta, in Gabriella Gribuaudi (a cura di), Terra bruciata. Le stragi fasciste sul fronte meridionale, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003, pp. 105-177.  
[26] Angelo e Aldo Abenante, Napoli 1943-1947. Una cronaca comunista, Dante e Descartes, Napoli 1999, p. 1; Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia.., cit., p. 196.
[27] ACS, PS, 1943, b. 15, f. “Relazioni trimestrali 1943”, nota 13028 del 4-9-1943.
[28] Ivi. La riunione si tenne a Cappella Cangiani il 22 agosto, non il 20, come credo si sia ritenuto sin ora, affidandosi a testimonianze di protagonisti o sedicenti tali, che vanno prese con le molle. Basti pensare che, dopo decenni, c’è stato chi, “ricordando”, ha voluto dividere i contendenti in “riformisti” e “demagoghi”; i primi inutile dirlo, avrebbero poi seguito la linea di Togliatti e i “demagoghi” avrebbero posto sterilmente l’accento sui rischi della collaborazione col fascista Badoglio. Né più serena appare la “memoria” di Amendola quando, ignorando che nella scelta della via nazionale le “ragioni di partito” pesano almeno quanto quelle del realismo politi­co, scrive che il lavoro dei “togliattiani” fu quello di “far comprendere e realizzare la linea di unità nazionale, per battere e superare le vecchie passioni settarie e massima­listiche”. Giorgio Amendola, Gli anni della Repubblica, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 284. Sull’argomento Luigi Cortesi, Comunisti, Resistenza…, in Mezzogiorno 1943…, cit., pp. 409-417, che ha pagine lucidissime, ancora attuali e pienamente condivisibili.
[29] Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., p. 201, e ASN, PG, V2, b. 54, f. “Relazione quindicinale. 1943”; f. “Relazione mensile al Ministero dell’Interno anno 1944”; f. “Relazioni mensili e trimestrali al Ministero: anno 1945”.
[30] Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., p. 231, e ASN, PG, V2, b. 126, f. “S. S. Ascalesi Alessio, cardinale arcivescovo di Napoli. 1937-1945.
[31] Carlo Scarfoglio, Il cadavere della democrazia, “Il Mattino”, 15-11-1922, e Paolo Scarfoglio, Per questa grande mutilata, ivi, 31-7-1943.
[32] ASN, PG, V2, b. 53, f. “Relazioni mensili 1943”, nota 1027728 del 3-9-1843.
[33] Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., p. 202.
[34] ACS, PS, 1943, b. 15, f. “Relazioni trimestrali 1943, nota n. 13028 del 4-9-1943.
[35] A Barbagallo non sfuggì che alla fina della rivolta, il 30 settembre, ci fu un “tentativo di sostituire le autorità straordinarie , che avevano iniziato e condotto a buon fine la patriottica riscossa, con elementi militari balzati d’improvviso”, per “esercitare una specie di azione politica contro rivoluzionaria”. Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit., pp. 88-89. Certo, Barbagallo è così lucido anche perché non ha conti da fare con la contrapposizione tra gli storici che Gabriella Gribuaudi distingue in “ortodossi” e “revisionisti”. Senza schierarsi con gli uni o con gli altri, la studiosa propende per una sorta di terza via che non si concentri su “uomini armati […] con una diversa idea della patria e dei valori per cui combattere”, ma si apra ad “altri modi di pensare la patria e l’identità nazionale in una visone più ampia che prenda in considerazione anche chi non combatte […] e che consideri altri valori e altri ideali come cemento della comunità”. Per chiarire il suo concetto, la studiosa  domanda come avrebbe potuto “riconoscersi nella Resistenza e nella categoria di ‘liberazione’ una donna del basso Lazio, che prima ha visto il suo paese letteralmente raso al suolo dalle bombe alleate e poi, il giorno della ‘liberazione’ ha subito lo stupro d’una torma di marocchini”. Gabriella Gribaudi, Terra bruciata…, cit., pp. 12-13. La via indicata dalla Gribaudi può contribuire ad arricchire la conoscenza storica,a condizione però che non si pensi di superare così o, peggio ancora, ignorare, i problemi etici e i nodi interpretativi posti dal revisionismo; è evidente che la risposta alla domanda della studiosa riconduce a quesiti di ordine generale sul rapporto tra governo e governati, sulla qualità delle classi dirigenti, sul significato della guerra in genere, sul processo storico che la consentì e sulle responsabilità di chi la volle. Non c’è dubbio, nessuna resistenza o liberazione risarcirà la donna del suo dolore, ma quel dolore, conosciuto e valutato  anche e soprattutto come dato storico, diventa un possibile punto di partenza per dirimere la querelle tra “ortodossi” e “revisionisti”. In questo senso la neutralità non è possibile. Di fronte a quel dolore, il secco quesito della Gribaudi si scioglie in una riflessione che impone una scelta di campo e richiede un giudizio etico. Ogni pagina della ricostruzione di Barbagallo mostra al lettore che esiste una barbarie che è parte della storia e produce un irrimediabile dolore. Contro questa barbarie non c’è altra via che la lotta che, paradossalmente, oppone dolore a dolore. Gli eventi del settembre del ‘43 a Napoli dimostrano che non è ideologica, ma strumentale, la tesi di chi oggi sostiene che l’armistizio mise in crisi l’idea di patria e il sentimento di identità nazionale. E’ vero il contrario: l’omicidio Matteotti è la morte della patria e da quella ferita nasce il dolore della donna del basso Lazio. Una sofferenza che si somma a tutto il dolore nato dal fascismo. E’ inaccettabile la tesi di chi sostiene che difendere la Resistenza equivale a svalutare il “sacrificio” dei “combattenti fascisti di Salò, giovani spesso inconsapevoli delle atrocità del nazismo, i quali avrebbero combattuto con la Repubblica di Mussolini a fianco dei tedeschi, in nome della patria e dell’onore di soldato, macchiati dall’armistizio. L’onore di soldato non poteva essere difeso schierandosi al fianco di criminali e fu questa la scelta che condannò ad un irrimediabile la donna presa ad esempio dalla Gribaudi. Guerra e dolore sono sinonimi. Nessun partigiano avrebbe potuto “liberare” la donna, questo è vero, ma c’era un solo modo per impedire che la sua tragedia si ripetesse chissà quante volte: costringere alla resa chi voleva la guerra.    
[36] Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., pp. 202-204; Guido D’Agostino,  Le Quattro Giornate.., cit., passim; Gloria Chianese, “Quando uscimmo…, cit., pp. 89-90; Biagio Passaro, Francesco Soverina, Un antifascismo difficile. Il Sud d’Italia (1943-1980), in “Il presente e la storia”, 45, 1994, pp. 43-84. Sergio Muzzuppappa, Introduzione a Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit, pp. 27-37.
[37] Molto ha fatto di recente su questo terreno l’ampia ricerca di un valido gruppo di studiosi coordinati da Gabriella Gribaudi da cui è nato il saggio Terra bruciata…, cit. A mio avviso, attuali risultano ancora, tuttavia, le lucide osservazioni di Cortesi; “ad una distanza ormai quasi ‘storica’ dalla liberazione – scrisse pochi anni fa lo studioso – la resistenza della Campania resta un capitolo pressoché ignoto e in ogni caso non sistematicamente ricostruito, il cui posto nella storia italiana è prevalentemente o esclusivamente affidato ai giudizi e ai pregiudizi sulle Quattro Giornate”. Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., pp. 202-204.
[38] Sul tema del consenso si veda Giuseppe Aragno, Antifascsmo popolare…, cit., pp. 9-11 e Ugo Mancini, Il fascismo dallo Stato liberale al regime, Rubettino, Soveria Mandelli, 2007, pp. 8-9 e pp. 193-236.
[39] Per la partecipazione dei fratelli Murolo alla Quattro Giornate si vedano  Corrado Barbagallo, Napoli contro…, Appendice, cit. e Antonino Tarsia in Curia, La verità sulle Quattro giornate, Stabilimento Genovese, Napoli, 1950.
[40] ACS, Casellario Politico Centrale (d’ora in avanti CPC),  b. 3461, f, “Murolo Ezio”profilo biografico; ASN, PG, V2, b. 522, f. “Unione Spirituale Dannunziana”e f. “Napoli, Associazione ex arditi d’Italia. Federazione Unione Spirituale Dannunziana”.  Sulla figura del Murolo, Rosa Spadafora, Il popolo al confino, con prefazione di Guido D’Agostino, Athena, Napoli, 1989, ad nomen,  e Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare…, cit. pp. 41-54,
[41] ACS, CPC, b. 3461, f, “Murolo Ezio”, appunto senza data del 28-8- 1924.
[42] Ivi, note 1170 del 28-8-1926, 19466 del 14-6-1928, 1996 del 14-6-1928 e 12480 del 16-8-1929.
[43] ACS, Confino, sentenza della Commissione Provinciale per il Confino.
[44] Giacomo De Antonellis, Napoli sotto il regime…, cit.,  pp. 227,
[45] ASN, PG V3, b. 1337, f. “Unione Partigiani e Patrioti Indipendenti”, nota 46462 del 6-10-1952 e 1015284 del 29-6-1954.
[46] Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino, 2004, pp. 7-9.
[47] Durante la prima guerra mondiale, disertò come numerosi antimilitaristi e sfuggì all’ergastolo pro­fittando di una sanatoria. ACS, CPC, b. 3461, f. “Murolo Tito”, nota 18621 del 12-8-1940.
[48] Ivi. Sulla figura dei Tito Murolo accenni in Giuseppe Aragno L’antifascismo a Napoli…, cit.
[49]  ACS, CPC, b. 3461, f. “Murolo Tito”, nota senza numero dell’8-3-1935.
[50] Ivi, nota 60 del 24 6-1940 e nota 1024227 del 18-7-1940
[51] Ivi, lettera di Tito Murolo a Mussolini del 7-7-1940. Per la partecipazione di Tito Murolo alle Quattro Giornate, si possono vedere gli elenchi dei combattenti in Corrado Barbagallo, Napoli contro…, cit., e Antonino Tarsia in Curia, La verità sulle Quattro Giornate…, cit.
[52] Sulla partecipazione di Germinal Malagoli alle Quattro Giornate, si veda Federico Zvab, Il prezzo della libertà, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2003, passim. Del Malagoli si conserva il fascicolo personale in ACS, CPC, b. 2946; sulla Peani si vedano il fascicolo a suo nome in ACS, CPC, b. 3679, e Giuseppe Aragno, Clotilde Peani, in “Fuoriregistro”, http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=10033.
[53] Su Armido Abbate si veda la voce curata da chi scrive per il Dizionario Biografico degli anarchici italiani, a cura di Maurizio Antonioli, Giampiero Berti, Pasquale Iuso, Santi Fedele, Biblioteca Serantini, Pisa, 2003, vol. I,  pp. 2-3.
[54] ASN, PG, V2, b. 510, f. “IV-2-2-1927-1”, sf. “Comunisti. 2° fascicolo”, nota 14068 del 26 giugno 1927.
[55] ACS, CPC, b. 3624, f. “Ottaviano Antonio”, nota 01769 del 26-10-1938. Durante  le Quattro Giornate, l’Ottaviano fu tra i combattenti del  ”Settore Duomo”. Corrado Barbagallo, Napoli contro…,, cit., Appendice.
[56] ACS, CPC, b. 3624, f. “Ottaviano Antonio”, Sentenza emessa dal Tribunale speciale di Tripoli il 22-2-1939.
[57] Ivi.
[58] Sulla figura di Antonio Ottaviano, Aragno Giuseppe, Antifascismo poloare…, cit., pp. 51-54.
[59] ACS, CPC, b. 3051, f. “Maresca Luigi”, lettera inviata a Nitti il 28-12-1927.e nota 500/329 del 2-1-1928.
[60] Ivi, nota 13889 del 17-8-1931 e nota 500 del 29-11-1935.
[61] Ibidem, telegramma 13398 del 14-11-1936.
[62] Ibidem, lettera inviata da Luigi Maresca alla madre il 10-10-1938. Sul Maresca si veda Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare…, cit, pp. 55-58. Sulla sua partecipazione alle Quattro Giornate, si veda Corrado Barbagallo, Napoli contro…, Appendice, cit., e Antonino Tarsia in Curia, La verità…, cit. 
[63] ACS, CPC, b. 5037, f. “Tarsia in Curia Ludovico”, nota 978 del 9-2-1924.
[64] Ivi, nota 3878 del 11-6-1925.
[65] Sfuggono a questa tentazione e fanno seriamente storia il recente e notevole Alexander Höbel, L’antifascismo operaio e popolare napoletano negli anni Trenta. Dissenso diffuso e strutture organizzate, in Gloria Chianese, Fascismo e lavoro a Napoli…, cit, e Nicola De Ianni, Operai e industriali a Napoli tra grande guerra e crisi mondiale. 1915-1929, Librairie Droz, Gnéve, 1984.
[66] ACS, CPC, b. 5037, f. “Tarsia in Curia Ludovico”, nota senza numero del 20-7-1939.
[67] Sulla vicenda Pietro Bianconi, 1943, La CGL sconosciuta. La lotta degli esponenti politici per la gestione dei sindacati operai 1943-1946, Sapere Edizioni, Milano-Roma, 1975, e Angelo Abenante, Aldo Abenante, Napoli, 1943-1947. Una cronaca comunista, Libreria Dante e Descartes, Napoli, 1999; si vedano, inoltre l’opuscolo Ciò che ci divide, diffuso a novembre del 1943 dalla Federazione Campana del Pci, e il dattiloscritto di  Clemente Maglietta, La scissione di Montesanto. Una crisi a Napoli nel PCI alla fine del 1943, conservati entrambi nell’Archivio dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, e Francesco Giliani, Storia della CGL rossa. Lotta di classe, PCI e potere anglo-americano nel Sud (1943-1944), tesi di dottorato, Università Orientale di Napoli, anno accademico 2005-2006.
[68] Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo…, cit. Sulla figura di Federico Zvab, che meriterebbe molta attenzione, non esiste ancora, purtroppo una ricerca organica. Su di lui si veda il fascicolo personale in ACS CPC, b. 5615, f. “Zvab Miroslavo”. 
[69] ASN, PG, V2, b. 31 f. “Relazioni trimestrali. 1925-1937” nota 9188 dell’8-10-1928; ACS, CPC, b. 4156, f. “Pugliese Carratelli Giovanni” e b. 4386, f, “Romano Aldo”.
[70] Assieme al “Più Avanti!”, circola anche, seguendo vie clandestine, l’antifascista “Faville” di cui non è facile accertare la provenienza.ASN, PG, V2, b. 510, f. £IV-2f-1-1929-1”, sf. “Pubblicazione antifascista Faville”. 
[71] Ivi, Gabinetto di Questura, 1919-1932, b. 1010, f. “Federazione Giovanile Comunista. 1921-1927”, nota 109 del 14-5-1925 e ACS, CPC, b. 178, f. “Arcuno Ugo”, appunto senza numero e data, ma certamente posteriore al 1941, quando il fascicolo fu riordinato.
[72] Ivi, b. 4501, f. “Russo Pietro”, note dal 1925 al 1941.
[73]Ibidem, profilo biografico e note 4127 del 20-7-1923, 1243/20-1-1926 e senza numero del 4-12-1943.
[74] ACS, CPC, b. 4386, f. “Romano Aldo”, memorandum inviato alle autorità per affermare la sua fede fascista, allegato alla nota 1027657 del 13-8-1937.
[75] Ivi, nota 15766 del 16-11-1937.
[76] Ibidem.
[77] Giacomo De Antonellis, Napoli sotto…, cit., p. 197; Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Bollati Boringhieri, Torino, 1999; Mauro Canali, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna, 2001.
[78] Carlo Salinari, Storia popolare della letteratura italiana, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 13.
[79]Per quanto mi riguarda, quando dico revisionismo, non guardo esclusivamente a destra. Come ha osservato con grande lucidità Cortesi, infatti, c’è a sinistra una tradizione che pone al primo posto la “ragione di partito”, che è ragione di parte e, quindi, parziale. E’ la ragione che guida il Pci “già nei primi atti costitutivi della democrazia italiana”. La complessità dell’antifascismo, mi pare di poter aggiungere, è inconciliabile con questa tradizione. Di qui il destino storiografico delle Quattro Giornate. Luigi Cortesi, Nascita di una democrazia…, cit., p. 251, e Giuseppe Aragno, Antifascismo popolare…, cit. pp. 142-144.

Uscito su Meridione. Sud e Nord del mondo, 4/2010, pp. 207-233. 

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