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Posts Tagged ‘centri sociali’

Sui recenti fatti di Napoli vale la pena tornare un attimo a riflettere. Quando ti permetti di osservare che le forze dell’ordine hanno esagerato, scatta immediata una gara di solidarietà e il ritornello è sempre uguale: rischiano la vita per difenderci… E’ una delle note ricorrenti nei comportamenti di un popolo che non ha mai fatto i conti con la propria storia.
I carabinieri fanno il loro lavoro e come tutti hanno un obbligo: farlo bene. Nella faccenda di via Mezzocannone a Napoli l’hanno fatto malissimo e questo purtroppo capita spesso. Troppo spesso. Quali che fossero le ragioni per cui sono intervenuti, avevano a che fare con quattro gatti, ragazzi disarmati e inermi, ma hanno sguarnito i quartieri pericolosi scatenando l’inferno. Poco lontano, nel nel rione della Sanità, i camorristi sparavano all’impazzata e ad altezza d’uomo. E’ come se in un parco le guardie giurate si fossero concentrate tutte su un ubriaco che cantava a squarciagola, lasciando svaligiare gli appartamenti. Sarebbero state licenziate all’istante e a qualcuno sarebbe sorto un legittimo dubbio: vuoi vedere che l’hanno fatto apposta? C’è poco da discutere: le tante pattuglie intervenute per “dare una lezione” ai ragazzi di un centro sociale sarebbero state più utili dove si sparava. La Questura o chi per essa ha deciso diversamente. E il criterio di scelta è evidentemente politico.
La vita sono in molti a rischiarla. Ogni anno muoiono tantissimi lavoratori uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Nessuno se ne ricorda o sostiene che per questo non debbano fare bene il loro lavoro o essere sempre giustificati se sbagliano. Il fatto è che quando sbagliamo noi, ci licenziano, quando sbagliano Questori o ufficiali dei carabinieri, viene subito fuori l’avvocato d’ufficio e tutto finisce lì. Non so se c’è ancora, ma fino a poco tempo nelle piazze della città operava un funzionario che pareva un forsennato. Chi era? Uno che ha alle spalle gli “eroici” fatti fatti di Genova. Tu ti chiedi, ma come, fa ancora servizio di ordine pubblico? Sì, lo fa e nessuno eccepisce.
Sono decenni che attendiamo piccoli provvedimenti a tutela di tutti. Il numero identificativo sulle divise, per esempio, in modo che siano riconoscibili, identificabili e punibili, quando abusano del loro potere. C’è in tanti Paesi europei. Qui no. Guido Dorso, meridionalista di grande valore, che non frequentava di certo i centri sociali, ma conosceva la storia, quando si trattò di costruire la Repubblica sulle ceneri del fascismo, fu chiarissimo: se vogliamo una democrazia, scrisse, dobbiamo sciogliere l’Arma dei carabinieri. Bene. I carabinieri sono ancora al loro posto, Dorso fu proposto per la sorveglianza come fosse un pericoloso sovversivo e Minniti scrive decreti copiati pari pari da quelli fascisti. Su questo sventurato Paese pesano come macigni domande senza risposte e segreti inconfessabili: i partigiani sepolti nei manicomi, i neofascisti protetti, le bombe, Piazza Fontana, le stragi di Stato, il caso Moro, Genova 2001. Si potrebbe continuare a lungo e giungere fino ai nostri giorni. In ognuna di queste vergogne spuntano divise, ma non c’è mai un colpevole. Agli storici si oppone il segreto di Stato e a scuola non si studia la storia, si racconta la favola di Biancaneve e dei sette nani.

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mario_appeliusPoiché tra i milioni di ritardati mentali, disadattati e incalliti frequentatori di Centri Sociali, che hanno votato NOOOOO!!!!!!!!!!!!!!! al referendum del 4 dicembre scorso, corre insistente la voce che la vergogna definita “Governo Gentiloni” sia il “quarto Esecutivo non eletto”, le televisioni del regime si attaccano ai cavilli e si sforzano di dimostrare che siamo invece di fronte a un capolavoro di legittimità Con i toni del “Film Luce” e una faccia tosta che Mario Appelius e Telesio Interlandi non riuscirono ad avere, le reti pubbliche hanno tirato fuori gli immancabili schemini taroccati e il meglio del repertorio di una propaganda ispirata all’efficace e ignobile principio nazista: una menzogna ripetuta insistentemente diventa una inattaccabile verità.
Da qualche giorno Il telespettatore, ubriaco di menzogne e pubblicità, si trova davanti a un pasticcio costruito più o meno così…

schemino

Come vedete, dice il Teresio Interlandi di turno, tutto è corretto!
E invece No. Lo schemino manca di un passaggio fondamentale: il popolo “elegge” i Deputati e i Senatori “a suffragio universale e diretto”, sceglie cioè i suoi rappresentanti uno a uno.  Dal 2006, come ha scritto a chiare lettere la Consulta, gli elettori non hanno mai eletto i parlamentari, che sono pertanto solo dei “nominati”, come i famigerati membri dei Fasci e delle Corporazioni. Ne consegue che la fiducia al Governo la danno a titolo personale uomini mandati in Parlamento dai Partiti o – peggio ancora – da uno scellerato e costituzionalmente illegittimo premio di maggioranza. Il governo, quindi, non è eletto e non dovrebbe esserlo, ma non è legittimo perché i parlamentari non hanno i titoli per votare la fiducia: nessuno, infatti, li ha eletti.

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clip_image001Succede a Napoli e, poiché ci vivo, non faccio fatica a capire: è l’incipit di un’offensiva destinata a durare. I neofascisti di “Casa Pound” occupano un vecchio monastero per farne un sedicente “centro sociale”. Grazie a Bassolino e soci, la sinistra s’è sciolta da tempo come neve al sole e, incontrastato, spira un vento fortissimo di destra. Com’è costume italico, i soliti “intellettuali” in cerca di “collocazione“, fanno sponda e aprono la breccia: “è necessario dialogare“, sostiene su “Repubblica” Marco Rossi Doria, seguendo il manuale del revisionismo e l’arte antica dei “gattopardi“. Il personaggio è noto, ma è bene ricordare: rivoluzionario ai tempi di Potop, poi “maestro di strada” a costi esorbitanti e risultato zero, sindaco mancato alla testa di un’insalata russa riunita sotto le bandiere d’una lista civica fatalmente “trasversale“, è passato dalla strada al palazzo col ministro Fioroni e ha contribuito allo smantellamento della scuola statale.
Il “dialogo” offerto dà frutti immediati. Forte di tanto appoggio, “Casa Pound si scatena. La prima, prevedibile risposta è un agguato squadrista a uno studente antifascista. Indignato, reagisco all’indecente proposta che legittima di fatto il neofascismo e falsifica la cronaca e la storia in nome di malintese e presunte ragioni d’una sedicente “cultura della democrazia“, chiedo un po’ di spazio a “Repubblica“, e denuncio la manovra.
Rossi Doria si tace, timoroso che addosso gli piombi una valanga. Il 9 ottobre, però, puntualmente ospitato da “Repubblica Napoli“, torna alla carica, inventandosi fantomatici centri sociali di destra, in una città inesistente, fatta solo di “esclusi” e di “protetti”, e così salta il fosso: il sindaco, scrive, faccia da mediatore tra i centri sociali. Finalmente le cose sono chiare: dopo i ragazzi di Salò, occorre benedire quelli di “Casa Pound“, nonostante la caccia ai gay e agli extracomunitari e i frequenti agguati agli studenti di sinistra.
Che dire? La partita non sarebbe chiusa, se “Repubblica”, eccessivamente timorosa di alimentare una polemica che molto impropriamente giudica personale, mi nega la facoltà di replicare. Non è certamente una censura, ma se penso alle recenti, sacrosante battaglie, mi domando se libertà di stampa, non sia anche diritto di replica e “par conditio“. Sia come sia, rimane in vita la minacciata libertà del web cui affido la replica destinata al giornale e una richiesta: chi condivide, faccia poi “girare“.

Il “dialogo” colpito a tradimento

La Napoli di Rossi Doria è una mela divisa in due. Un taglio netto e dai confini oscuri: di qua i protetti, dall’altra parte gli esclusi. Un po’ schematico, ma funzionale. A rigor di logica mancano i protettori e, se vuoi esser preciso, provi a capire chi è che va escludendo. Se ci pensi poi bene, una domanda non la puoi evitare: dove metti, in questo disegno lineare e semplice, una scuola aggredita come il “Margherita di Savoia“? In quale delle due città? E dove si colloca Francesco Traetta, un ragazzo mandato all’ospedale con una costola rotta, solo perché ha portato a scuola un partigiano? Chi è Francesco? Un “protetto, un “escluso o più semplicemente e drammaticamente l’idea stessa di “dialogo” ferita a tradimento nella città in cui Rossi Doria offre al fascismo la legittimità che la Costituzione gli nega?
Lo so. Siamo tutti contro il revisionismo e tutti democratici. Di democrazia si riempie la bocca chiunque ne ha bisogno per non sai quali scopi. Ne parla spesso persino Berlusconi. Difficile è capire come si fa ad essere davvero democratici e ancora più difficile saper dire verità impopolari, nel nome e per conto della democrazia. Se la smettessimo di fare delle parole un’arma impropria, per sostenere tesi avventate e demagogiche, se cercassimo soluzioni reali e leali a problemi nelle cui pieghe si cela l’agguato di Francesco, se la piantassimo finalmente di andare per la tangente e cercare l’applauso, diremmo che il ragazzo è una vittima e non ci sfiorerebbe nemmeno il pensiero che a dirlo si può spingere all’odio.
Se Francesco è una vittima, è chiaro che ci sono dei carnefici e non so per quale singolare follia dovremmo mettere insieme il giovane antifascista e chi l’ha massacrato. La dico tutta e fuori dai denti, perché mi pare chiaro che la questione riguardi, a questo punto, il senso stesso della convivenza civile. Con la storiella comoda e strumentale degli steccati da saltare, si fa di ogni erba un fascio e si protegge oggettivamente gente che predica da sempre la violenza. A me non importa da che parte venga e di che colore sia. Nella risibile società degli esclusi e dei protetti, il confine che separa chi colpisce da chi è colpito dev’essere visibile e ben definito. E non c’è dubbio, la domanda è una: per saltare non so bene quali suoi steccati, chi sosterrebbe a cuor leggero che, per risolvere il caso Saviano, il sindaco dovrebbe mettersi a un tavolo e fare da mediatore tra il giovane scrittore e i casalesi?
E torno a Napoli. Sempre più sventurata, devo dire. La guardo sconcertato, così come mi viene dipinta, e non la riconosco. Mi ci perdo. Una sola divisione: esclusi e protetti. I confini, tirati con la squadra e con la riga, sono incomprensibili e irreali, ma il quadro è suggestivo: due città che non si parlano e quasi non si conoscono. Ma quali città? E di che mondo parliamo? Se solo ti guardi attorno attentamente, il conto non ti torna. Nello stesso quartiere, nello stesso vicolo,Immag004 spesso nella stessa famiglia, c’è tutta la complessità della vita. La gente parla e non c’è mai silenzio. La gente si incontra, si scontra, tratta, contratta, si conosce e trova modo di riconoscersi. Non ci sono due città, esiste solo un insieme di diversità, un’articolata molteplicità e la realtà non è riconducibile a una sorta di inverosimile binomio. Napoli è una metropoli che si legge a “strati” e non puoi chiuderla nell’antico stereotipo della città borbonica quasi per vocazione. Certo, se la guardi in superficie, ci trovi l’eterno malcostume politico e il ricatto clientelare che invischiano tutti i ceti nell’ideologia subalterna d’un popolo quasi indifferenziato. Ma se ti fermi a guardare, se stai per strada e vivi tra la gente, scopri che la salute è sorprendente, ti accorgi che la vita pulsa, che le tensioni sociali non erompono più fatalmente in protesta plebea e non soffocano malamente in un rigurgito sanfedista. Se vai più a fondo, e devi saperci andare, immediato giunge l’impatto con la borghesia e, se vuoi capire Napoli, tu devi farci i conti. Non puoi fermarti a Viviani e nemmeno conoscere solo Eduardo De Filippo. Il mondo cambia e, se tu non lo vedi, inganni te stesso o, peggio ancora, stai ingannando gli altri. Dov’è questa nuova “Berlino” col suo muro e i protetti da un lato, gli esclusi dall’altro? A meno di non esser ciechi – questo forse è il problema – la città è un inestricabile intreccio. Assieme all’economia del vicolo e a nuclei di plebe, per i quali il tempo non passa, la maturità non giunge, la coscienza civile non si forma, trovi una borghesia articolata che guarda in alto, ma ha frange che si proletarizzano; trovi, se guardi, un proletariato che ha avuto una gran storia. Gente che ha ancora un’anima e resiste al richiamo del vicolo, portandosi dentro l’identità di classe, sebbene sia ormai perennemente terrorizzata dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione e appaia piegata sotto i colpi di un’offensiva padronale così disgregante, che non ha precedenti nella storia della repubblica. E non basta. Quanto di militanza giovanile non sanno più raccogliere i partiti storici dei lavoratori, vive nei centri sociali “rossi“. Solo in quelli, perché centri sociali la destra non ne ha. Quale che possa essere la parte politica, nessuno onestamente può negarlo: nonostante limiti e insufficienze, negli ultimi anni questi ragazzi hanno costruito forme di democrazia “dal basso” che meritano rispetto. Sono stati protagonisti di una battaglia coraggiosa, civilissima e non ancora del tutto conclusa, quando la città è diventata un’enorme e vergognosa discarica a cielo aperto e hanno marciato con padre Zanottelli002 6 febbraio 2009 Chiaiano Intervista a Zanottelli; svolgono ruoli attivi e propositivi nei “Comitati di quartiere” e nelle rare iniziative in cui la città mostra di essere ancora politicamente e socialmente viva. Chi li ha visti all’opera a Bagnoli, accanto a genitori, insegnanti e bambini in lotta per la scuola nella lunga ed esemplare vicenda del “Madonna Assunta“, chi li vede impegnati a fianco agli immigrati, chi ha la fortuna di stare con loro nelle assemblee universitarie e nelle manifestazioni in piazza, non può che togliersi il cappello. Ci sono limiti, errori e contraddizioni e sarebbe strano che non fosse così, ma c’è una passione civile che non è facile trovare.
La democrazia è partecipazione e Rossi Doria in piazza non si vede mai, ma lo ricordo negli anni della giovinezza, quando tutti eravamo autonomi e rivoluzionari. Il suo “potere” era allora tutto operaio. Non so di dove tragga fuori i suoi giudizi e i malaccorti e velenosi suggerimenti che regala al sindaco Iervolino. So che questo suo insistere nel paragonare i ragazzi dei centri sociali agli squadristi che hanno massacrato di botte Francesco Traetta, un loro compagno, uno di loro, non è solo una bestemmia. Somiglia molto a una sorta di provocazione, a qualcosa che sta la speranza e l’istigazione che mi auguro inconsapevole. Che si vuole davvero: evitare o scatenare la rissa? Protetti o esclusi: non sta in cielo né in terra. Tutto nasce semplicemente da una micidiale distorsione dei fatti? Può darsi. Ma questo è davvero il revisionismo. E sono sinceramente preoccupato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2009, su “Report on Line” il 13 ottobre 2009 e su “il Manifesto” il 15 ottobre 2009.

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Era giunto scortato e con l’auto blu. Da anni ormai si spostava così e non ricordava più quand’era stata l’ultima volta in cui era salito su un pullman. Era venuto fuori agilmente e s’era subito avviato a passo svelto e sicuro, col fresco lana antracite che scendeva a pennello sulle spalle dritte, i gorilla che gli facevano scudo tra la solita folla di curiosi e gli immancabili giornalisti.
Sembrava semplice e spontaneo, ma conosceva a memoria la lezione dei curatori d’immagine:
Sciolto, giovanile, deciso… un uomo che sa il fatto suo, uno che la gente lo guarda e si sente tranquilla, si fida. Anzi, no: si affida.
Sembrava che neanche il caldo appiccicoso, esploso inspiegabilmente in quel pomeriggio di primo maggio, sapesse infastidirlo, ma non era così. Da tempo i fine settimana di maggio li dedicava al mare e la testa era lì, nella barca lasciata all’ormeggio. Ma un prezzo ogni tanto occorreva pagarlo. Col segretario, che organizzava come meglio non si poteva la sua vita pubblica, era stato durissimo:
Questa cazzata proletaria me la potevi evitare! Avrò pure diritto ad una vita privata…
Non gli piaceva ammetterlo, ma c’era poco da fare. Luigi, il vecchio marpione amministratore del suo tempo, aveva perfettamente ragione:
Sai che vita privata, faresti, senza queste “cazzate proletarie”? Quella che fanno i poveri disgraziati per i quali uno come te rappresenta una speranza!
Poco da dire? No.
Mettimi dove vuoi, caro Luigi, dove e come vuoi, senza un aiuto, un soldo, un amico. Riparto da zero. Fallo e vedrai. Uno come me la sua strada la trova e ti assicuro: sale in alto. I deboli hanno bisogno di uno forte che li faccia sognare. I rassegnati di un ribelle che li sappia scuotere. Gli ingenui di un furbo che gli eviti le fregature. Poi certo, se sei forte, furbo, ribelle, qualcosa per te la guadagni. Ma è poco, pochissimo per quello che dai. Il mondo è questo. Io vendo speranze? Può darsi, però rispondimi: quanto vale una speranza per chi è disperato? Che c’è, non rispondi, stai zitto? E allora la risposta te la do io: non ha prezzo, Luigi. Una speranza non ha prezzo, non importa se puoi realizzarla. Se ci credi, non è una patacca.
Quel posto era uno schifo. Per i “centri sociali” provava ormai da tempo un vero e proprio fastidio fisico. Ne aveva le tasche piene di giovani tutti uguali che ripetevano il sogno che era stato della sua giovinezza, di quegli illusi che pretendevano di poter fare un mondo migliore: quale mondo e migliore in che cosa? Ecco ciò che desiderava chiedere a quella teppa che diceva di fare politica. Ma i curatori dell’immagine avrebbero certamente disapprovato, la macchina elettorale ne avrebbe risentito e poi a che sarebbe servito? In politica la verità è un veleno e, se vuoi riuscire, alla gente devi raccontare ciò che vuole sentirsi dire. La verità non la vuole sentire nessuno e perciò non lo avrebbe detto che il “battesimo” di “Insugenzia Okkupato” era un sacramento che si sarebbe volentieri evitato. Non l’avrebbe detto, no. Meglio sorridere e alzare il pugno chiuso, tanto tutto sarebbe durato solo il tempo necessario: Luigi in queste cose valeva quasi quanto le sue inarrivabili speranze. Entrando, s’era rassegnato alla rituale monotonia delle bandiere rosse, allo sguardo severo di Che Guevara che, gira gira, s’era fatto ammazzare come un idiota, all’immancabile kefia prevista dal cerimoniale, che i soliti fanatici avrebbero indossato, alle chiacchiere sull’Intifada, all’esercizio di autoerotismo sulla globalizzazione.
Sursum corda, s’era detto, ravviandosi i capelli tinti alla perfezione. Mi volevate? Ci sono. La fabbrica chiude? Vedremo, non è detto. Farete il diavolo a quattro? Lasciate stare, che è peggio. Una via la troviamo, ma occorre pazienza.
Scherzo di pessimo gusto o trappola anacronistica che fosse, s’era sentito soffocare quando il lampo della digitale l’aveva avvolto: in mano teneva “La Repubblica” e alle spalle una striscia di stoffa con la scritta “Nuove Brigate Rosse“. La scorta era svanita nel nulla, non c’erano kefie o bandiere, non c’erano immagini di Che Guevara, non c’era Luigi a spiegargli che cazzo fosse quella messinscena e in tanti anni di politica nessun curatore d’immagine gli aveva mai spiegato come vendere fumo a uno che ti sta di fronte con la pistola spianata.
Qui, caro compagno, si ferma la tua storia di mascalzone nemico della povera gente – gli diceva il giovane bruno e smilzo che lo aveva fotografato, corrugando la fronte larga sotto ciocche di capelli neri e fini.
Ai miei tempi dicevamo nemico di classe – trovò la forza di obiettare con un filo di voce e d’ironia, ma ottenne solo che l’altro gli spiegasse:
Ai tuoi tempi, i figli di buona mamma della tua razza non avevano avuto il tempo di trasformarci tutti in disperati senza identità.
In condizioni normali avrebbe certamente risposto che aveva fatto sempre e solo ciò che la gente gli aveva chiesto di fare, ma non gli era nemmeno venuto in mente di provarci. La vecchia e collaudata capacità di valutare uomini e fatti, lo aveva subito avvertito: aveva di fronte gente decisa a fargli male. Uno parlava con lui, gli altri parlottavano tra loro, ma gli occhi li avevano tutti carichi di un odio gelido e irriducibile. Venivano da mezzo mondo: uno slavo freddo e tagliente, uno più nero della pece che si mordicchiava le labbra tumide e screpolate, una specie di mongolo inquietante per il viso olivastro e inespressivo. Gente di mezzo mondo: coalizzata.
Guardate che siete fuori tempo. La foto, il panno rosso, il tribunale del popolo, la trattativa per la liberazione. Domani sarete già tutti in galera.
Aveva preso a parlare per gettare un ponte tra sé ed i fantasmi che aveva di fronte, ma il suono delle sue parole lo atterriva.
Non ci sperare. Non si farà nessuna trattativa. La foto che ti abbiamo fatto è il “prima”. Poi verrà il “dopo”, ma sarai già in viaggio.
Replicando trovò che nella voce s’avvertiva un brivido invincibile:
Quale viaggio?
Non hai scampo e non farti illusioni: non abbiamo progetti politici. Ve la siete rubata la politica e non c’interessa. Non sappiamo che farcene., tenetevela pure. Non abbiamo nulla da chiedere e non sogniamo di cambiare il mondo. A noi basta ammazzarti.
Il panico lo sorprendeva e la voce era spezzata:
Ammazzarmi perché?
Perché se cominciamo ad ammazzarvi avrete paura. E tanto basta: sapere che vivrete tremando, che avrete paura di uscire di casa, che avrete paura della vostra ombra. Paura per voi, paura per quelli che vi stanno attorno, paura e basta. Un mondo migliore non c’è, non è possibile costruirlo. E noi non ci proviamo nemmeno. Noi vogliamo solo che abbiate paura. Tutta la paura possibile. Voi che vendete speranze siete i padroni della disperazione. I padroni veri. Tu non immagini quanto bene ci faccia mettervi paura. La vostra paura è la nostra sola ricchezza. Una speranza disperata che non si vende nei vostri magazzini.
Il colpo non era partito. La paura l’aveva svegliato di soprassalto. Aveva sognato. Un incubo pensò. Ma c’era un buio profondo e, per quanti sforzi facesse, il lume sul comodino rimaneva spento.

Uscito su “Furoriregistro” il 27 settembre 2006.

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