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Posts Tagged ‘libertà di stampa’


Secondo un rapporto dell’isospettabile “Reporter senza frontiere”, la disinformazione mette sempre più a rischio la libertà dell’informazione. 
Non a caso, in Italia l’ha detto solo Alessandro Di Battista, che giornalista non è, e nessuno ha avuto il coraggipo di smentire. Non ce l’hanno detto, insomma, si è preferito tacere, ma due giorni fa in Ucraina è caduto un marines combattendo.
Enrico Mentana, che queste notizie non le dà nemmeno sotto tortura, dirà che Di Battista racconta frottole, però non spiegherà perché di frottole si parla solo se sputtanano gli USA e si lascia parlare un oggetto misterioso come Federico Rampini – giornalista con passaporto USA – che ne dice di cotte e di crude.
Per Mentana, Rampini è Vangelo e grazie a giornalisti come loro, mentre difendiamo la libertà ucraina, massacriamo la libertà di stampa in Italia.

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E’ un dato di fatto su cui riflettere attentamente, perché non riguarda solo «Potere al popolo» e nemmeno semplicemente le elezioni politiche di marzo. Molto probabilmente l’accostamento a Corbin e al suo movimento nasce da una lettura della realtà politica italiana che passa attraverso il filtro dell’esperienza britannica e contiene quindi una inconsapevole forzatura, tuttavia non c’è dubbio: quando un giornale inglese del livello dell’«Indipendent»  tenta un’analisi seria del movimento nato a Roma nel novembre scorso, è impossibile ignorare la miseria morale che caratterizza ormai la nostra stampa e, di conseguenza, la condizione di coma profondo in cui versano la democrazia e la vita politica nel nostro Paese.
Alla vigilia di elezioni che giungono dopo l’approvazione di una legge elettorale passata con ripetuti voti di fiducia e ancora una volta inconciliabile con la Costituzione, questa condizione va segnalata, perché se ne prenda coscienza prima di scegliere per chi votare o decidere per l’astensione. Il dato è di per sé clamoroso: non solo in Spagna, Francia e Portogallo, ma ora anche nel Regno Unito la partecipazione alla battaglia politica e alla competizione elettorale di un nuovo e significativo movimento, suscita l’attenzione dei giornali. Non ci sarebbe nulla di eccezionale, se qui la stampa non ignorasse la vicenda o non ne parlasse solo per darne un’immagine deformata. Così stando le cose, l’articolo del giornale inglese diventa di fatto una nuova, indiretta ma significativa conferma dei dati rivelatori emersi dalla classifica sulla libertà di stampa stilata da «Reporter senza frontiere», che vede l’Italia al 52° posto.
E’ difficile dire se questa indecente posizione sia determinata solo dal fatto che i nostri giornalisti sono intimiditi e minacciati, o sia anche – e forse soprattutto – la conseguenza di politiche scellerate che hanno consentito una inaccettabile concentrazione di potere in un settore vitale per la vita di una democrazia. Sta di fatto che – a parte eccezioni sempre più rare – l’informazione nel nostro Paese è in mano a pennivendoli e velinari, sicché, per conoscere ciò che anima la nostra vita politica, bisogna armarsi di pazienza e andare a cercare le notizie fuori dai nostri confini. Chi più chi meno, tutti i partiti che si accingono a chiederci il voto si sono compromessi con governi che hanno epurato giornalisti, ignorato gravissimi conflitti di interesse e agevolato un innaturale ed estremo intreccio tra informazione e gruppi di potere economico e politico. Se oggi si può parlare di «anomalia italiana», è perché chi ci ha governato ha consentito una inaccettabile concentrazione dei media, il conflitto di interesse di cui è figlio il polo mediatico berlusconiano e ha reso ferreo il controllo politico esercitato dal governo in carica sulla televisione pubblica.
Stavolta non solo è importante votare, ma occorre recarsi alle urne ricordandolo bene: è per colpa di chi ci ha governati e chiede di tornare a farlo, se l’Italia per libertà di stampa è situata agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione Europea. Le ragioni sono molteplici e profonde, ma risalgono tutte alle scelte dei partiti che ci chiedono il voto. E poiché siamo convinti che la libertà di espressione sia un diritto di tutti, è necessario lottare contro chi ha deciso che l’informazione sia, com’è stato scritto«una pratica disinformata».
L’articolo dell’«Indipendent» non affronta direttamente il problema, ma per il fatto stesso che è stato scritto è un inconsapevole invito a votare la lista di «Potere al popolo». Un voto necessario, per chi vuole evitare che il nostro Paese conquisti il primo posto nella classifica di quella disinformazione che di fatto aiuterebbe neoliberismo e finanza a imporci il sistema politico più adatto alle esigenze del capitale finanziario: il nuovo e più pericoloso fascismo di cui ci sono mille e sempre più preoccupanti segnali. Bisogna perciò averlo chiaro: nel lungo processo di disfacimento della repubblica nata dall’antifascismo, gli esponenti della sedicente sinistra, raccolta sotto le insegne di «Liberi e Uguali», Grasso, D’Alema, Bersani e a quanto pare persino don Antonio Bassolino, hanno tutti gravissime responsabilità per la lunga agonia della nostra democrazia.

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Qualcosa di attuale? Direi di sì. Basta leggere:

«Siccome la stampa è un elemento prezioso, in ragione di questa funzione altissima bisogna creare anche i doveri e la disciplina relativi. Quando si pensa che per gelosie editoriali e per miserabili insuccessi di vendita, all’infuori dell’odio di parte, si possono gettare in discussione le cose più delicate della nostra vita politica, e dare le notizie assurde, fantastiche, sensazionali, che creano allarmi e danneggiano il credito, non la sospensione ma la condanna di un tribunale e la fustigazione sarebbero le punizioni adeguate».

Di chi è? Non è facile dirlo, perché da tempo capita spesso di leggere o ascoltare interventi di questo tipo su argomenti così delicati e, a ben vedere, la riflessione non giunge certo nuova. Nel cliché del conduttore televisivo moderato, attento agli equilibri politici, all’audience e alle sue decisive ragioni, l’articolo è solo un “tentativo serio e onesto di ragionare sull’informazione senza noiose ingessature ideologiche del Novecento“. E non ci sono dubbi: pochi dissenzienti. Non dico tutti, ma il nuovo che finalmente avanza ce lo vedranno in molti e non mancherà la nota polemica di chi da tempo invita a smetterla di maledire il tempo nostro “incolto”. Chi è? Inutile insistere, per ora. Più che sull’autore, la gente si ferma giustamente sui contenuti: Quale ruolo per la stampa oggi? Quali i poteri e i limiti di chi “fa opinione“? Non son cose da poco e non è il caso di levar gli scudi per “lesa maestà“. Il tema è complesso – la libertà di stampa – però diciamolo: ce ne riempiamo la bocca ogni giorno, s’è fatto un gran parlare di “bavaglio” a giornali e televisioni, ma è chiaro che occorre regolare la discussione. Inutile insistere su una libertà astratta senza approfondire il concetto. Cos’è la libertà? Occorrerà pur darne una definizione. Una “penna felice” e, per suo conto, nota s’è già posto il problema e una risposta l’ha tentata. Senza arroccarci come giacobini integralisti del pensiero liberale, leggiamo e vediamo che dice. Può darsi che una lettura attenta riveli la firma:

«Ma che cos’è questa libertà? Esiste la libertà? In fondo è una categoria filosofico-morale. Ci sono le libertà: la libertà non è mai esistita» e un Governo ha «il diritto di difendersi».

Brunetta, Sacconi, o il capo in persona, Berlusconi? Lasciamolo da parte l’autore. Piaccia o no, prima dell’inevitabile discussione, c’è un dato inoppugnabile che conta forse anche più dell’autore. Buona parte del Paese vota per un governo che lo dice chiaro: regolamentare la stampa non è una misura eccezionale. Chi è che non ha letto cose di questo tipo negli ultimi tempi e non ha trovato pronto il salotto buono che, sotto l’occhio vigile delle solite telecamere ne ha discusso, senza scatenare mai un insanabile scontro politico? Ci sono contributi d’ogni tipo, basta scegliere a caso e poi se ne discute. L’autore, la matrice ideologica? Ma quale ideologia? Poi vedremo l’autore. Conta, per ora, la grande attualità delle critiche e, pur nei toni decisamente aspri, la modernità delle soluzioni individuate:

«Mentre in questi ultimi mesi tutto è cambiato in Italia, una parte di quel giornalismo che in mille occasioni ha dimostrato di non meritare la sconfinata libertà concessa a molte delle sue penne criminose, è rimasto quello che era. Giornalismo da macchia e da libelli torbido e tortuoso. Ed è questo il giornalismo che oggi sbraita e si scandalizza […]. Ubriaco, invasato della inverosimile potenza della sua penna senza scrupoli, questo giornalismo crede oggi con l’agitarsi, di poter commuovere l’opinione pubblica […] per permettere il perpetuarsi delle campagne tendenziose, delle diffamatorie congiure a danno della buona fede delle masse che non hanno nessun mezzo di controllo. Il Governo ha il dovere di salvaguardare la tranquillità di queste masse».

E si potrebbe andare avanti senza fermarsi. Tutto s’è detto così, toni e parole, in questi ultimi, drammatici due anni. Tutto. Nel consenso vittorioso delle urne. Tutto riguarda il presente. Che importa ai lettori se il giornale è “Il Popolo d’Italia” e l’autore degli articoli è Benito Mussolini? [1]? Era l’Italia fascista del 1923. Noi che c’entriamo? Qui regna la democrazia.

1) La stampa e la sua libertà, “Il Popolo d’Italia”, 15 luglio 1923; La fiducia al Governo con 303 voti, “Il Popolo d’Italia”, 17 luglio 1923; Battaglia di una minoranza di giornalisti contro il decreto sulla stampa, “Il Popolo d’Italia”, 22 luglio 1923.

Uscito su “Fuoriregistro” il 23 novembre 2010

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Un conflitto c’è. Montato ad arte da una classe dirigente che da decenni concentra nelle proprie mani un incontrastato e stabile potere politico ma, con singolare improntitudine, si dichiara “perseguitata politica” e si scaglia con inaudita violenza contro la stampa. Sarebbe solo un patetico paradosso se, tradotto in attività politica, il conflitto non avesse prodotto atti di guerra. Il fatto è che si approntano leggi marziali. Non serve ignorarlo, fingere di non saperlo, dichiararsi equidistanti, estranei, rivoluzionariamente nauseati o puerilmente divertiti. Un conflitto c’è, non riguarda la natura dello Stato – di cui potremmo tranquillamente disinteressarci – e non è questione di “potere“, con tutto quanto pure vuol dire questa parola in termini di egemonia di classe e dei consueti e immancabili corollari: sfruttamento, esercizio “legale” della forza, utilizzata a fini repressivi contro il dissenso, emarginazione dei ceti subalterni, espulsione e dentenzione di emarginati, clandestini e “figli d’un dio minore“. Non si tratta, insomma, di stabilire se valga la pena di “sporcarsi le mani” in uno scontro per la difesa di uno Stato che concepisce in maniera gerarchica la struttura sociale, subordina famiglia e “società civile” al suo “fine immanente” e impone perciò all’uomo di sacrificare la parte migliore di se stesso: la sua vocazione sociale. Di questo si tratta, della vocazione sociale dell’uomo. E fa impressione che, accanto alle apatiche proteste di un’opposizione lasciata in vita solo perché legittima la maggioranza, si collochi un disimpegno sconcertante – speculare alle astratte pratiche “moderate” – di ciò che resta della sinistra estrema e alternativa. Un disimpegno che pare civetteria intellettualistica e rivoluzionarismo di maniera.
Troppo spesso abbiamo rincorso la distinzione tra un giudizio scientifico ridotto a “ideologia” e la passione etica delle riflessioni di Marx. Ne sono nate “chiese” coi loro testi sacri e una loro correttezza formale che fatalmente hanno cristallizzato in “sistema” la dinamica del pensiero. Bisogna avere l’animo di dirlo e ognuno poi trovi il difetto nel ragionamento. Sarà un bene che se ne discuta, perché il punto è che all’ordine del giorno non sono lo Stato e il diritto borghese, ma più semplicemente i diritti. Alcuni fondamentali diritti, siano pure “borghesi“, come si sono configurati in un lungo processo storico. Il punto è che una banda di malfattori, guidata da uno sperimentato “manganellatore mediatico“, una camarilla di sfruttatori rei confessi, d’imputati per reati patrimoniali aggravati da recidiva e puntualmente “prescritti“, una cricca di malviventi che teorizza la proprietà e lo sfruttamento dei beni comuni a fini d’interesse privato, una pletora d’evasori condonati, di imprenditori colti sul fatto mentre sperperavano risorse pubbliche a benefico personale, insomma, quella società d’affari che qualcuno chiama ancora Parlamento sospende la libertà di parola con un obiettivo preciso: negare ai ceti subalterni la possibilità d’intervenire sullo svolgimento del processo storico, proibire la comunicazione, la circolazione e la conoscenza dei fatti sociali per impedire il libero sviluppo di ognuno che è la conditio sine qua non del libero sviluppo di tutti.
Ciò che si vuole colpire non è, quindi, l’astratto principio borghese che si cristallizza nella pur rispettabile formula della “libertà di stampa“. Quello che si vuole sostenere mediante la censura è l’arrogante impunità delle manifestazioni degenerative del capitalismo, per impedire a chi è chiamato a pagare la durissima crisi economica di prendere coscienza che macchine e denaro non sono più elementi di un processo di produzione, ma forze distruttive dell’equilibrio ambientale e delle conquiste sociali. Nessuno può chiamarsi fuori. L’insieme delle leggi prodotte negli ultimi anni nel nostro Paese da maggioranze e opposizioni che si sono alternate nella cabina di comando mira a far pagare alle masse i costi di una crisi che è tutta nelle logiche del mercato. Non si stanno gettando solo le basi d’un dominio assoluto del capitale sul lavoro. C’è di più. Per ottenere lo scopo, si pone un sigillo sulla comunicazione tra gli uomini perché si riconosce che la conoscenza è, per sua natura, l’arma più efficace della rivoluzione. In tempo di guerra la censura è un passo obbligato. Prendiamone atto, perciò: siamo in guerra. Non è un’utopia proletaria, ma un postulato etico: occorre difendersi, resistere e, appena possibile, ribellarsi.

Uscito su “Fuoriregistro” l’11 giugno 2010.

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clip_image001Succede a Napoli e, poiché ci vivo, non faccio fatica a capire: è l’incipit di un’offensiva destinata a durare. I neofascisti di “Casa Pound” occupano un vecchio monastero per farne un sedicente “centro sociale”. Grazie a Bassolino e soci, la sinistra s’è sciolta da tempo come neve al sole e, incontrastato, spira un vento fortissimo di destra. Com’è costume italico, i soliti “intellettuali” in cerca di “collocazione“, fanno sponda e aprono la breccia: “è necessario dialogare“, sostiene su “Repubblica” Marco Rossi Doria, seguendo il manuale del revisionismo e l’arte antica dei “gattopardi“. Il personaggio è noto, ma è bene ricordare: rivoluzionario ai tempi di Potop, poi “maestro di strada” a costi esorbitanti e risultato zero, sindaco mancato alla testa di un’insalata russa riunita sotto le bandiere d’una lista civica fatalmente “trasversale“, è passato dalla strada al palazzo col ministro Fioroni e ha contribuito allo smantellamento della scuola statale.
Il “dialogo” offerto dà frutti immediati. Forte di tanto appoggio, “Casa Pound si scatena. La prima, prevedibile risposta è un agguato squadrista a uno studente antifascista. Indignato, reagisco all’indecente proposta che legittima di fatto il neofascismo e falsifica la cronaca e la storia in nome di malintese e presunte ragioni d’una sedicente “cultura della democrazia“, chiedo un po’ di spazio a “Repubblica“, e denuncio la manovra.
Rossi Doria si tace, timoroso che addosso gli piombi una valanga. Il 9 ottobre, però, puntualmente ospitato da “Repubblica Napoli“, torna alla carica, inventandosi fantomatici centri sociali di destra, in una città inesistente, fatta solo di “esclusi” e di “protetti”, e così salta il fosso: il sindaco, scrive, faccia da mediatore tra i centri sociali. Finalmente le cose sono chiare: dopo i ragazzi di Salò, occorre benedire quelli di “Casa Pound“, nonostante la caccia ai gay e agli extracomunitari e i frequenti agguati agli studenti di sinistra.
Che dire? La partita non sarebbe chiusa, se “Repubblica”, eccessivamente timorosa di alimentare una polemica che molto impropriamente giudica personale, mi nega la facoltà di replicare. Non è certamente una censura, ma se penso alle recenti, sacrosante battaglie, mi domando se libertà di stampa, non sia anche diritto di replica e “par conditio“. Sia come sia, rimane in vita la minacciata libertà del web cui affido la replica destinata al giornale e una richiesta: chi condivide, faccia poi “girare“.

Il “dialogo” colpito a tradimento

La Napoli di Rossi Doria è una mela divisa in due. Un taglio netto e dai confini oscuri: di qua i protetti, dall’altra parte gli esclusi. Un po’ schematico, ma funzionale. A rigor di logica mancano i protettori e, se vuoi esser preciso, provi a capire chi è che va escludendo. Se ci pensi poi bene, una domanda non la puoi evitare: dove metti, in questo disegno lineare e semplice, una scuola aggredita come il “Margherita di Savoia“? In quale delle due città? E dove si colloca Francesco Traetta, un ragazzo mandato all’ospedale con una costola rotta, solo perché ha portato a scuola un partigiano? Chi è Francesco? Un “protetto, un “escluso o più semplicemente e drammaticamente l’idea stessa di “dialogo” ferita a tradimento nella città in cui Rossi Doria offre al fascismo la legittimità che la Costituzione gli nega?
Lo so. Siamo tutti contro il revisionismo e tutti democratici. Di democrazia si riempie la bocca chiunque ne ha bisogno per non sai quali scopi. Ne parla spesso persino Berlusconi. Difficile è capire come si fa ad essere davvero democratici e ancora più difficile saper dire verità impopolari, nel nome e per conto della democrazia. Se la smettessimo di fare delle parole un’arma impropria, per sostenere tesi avventate e demagogiche, se cercassimo soluzioni reali e leali a problemi nelle cui pieghe si cela l’agguato di Francesco, se la piantassimo finalmente di andare per la tangente e cercare l’applauso, diremmo che il ragazzo è una vittima e non ci sfiorerebbe nemmeno il pensiero che a dirlo si può spingere all’odio.
Se Francesco è una vittima, è chiaro che ci sono dei carnefici e non so per quale singolare follia dovremmo mettere insieme il giovane antifascista e chi l’ha massacrato. La dico tutta e fuori dai denti, perché mi pare chiaro che la questione riguardi, a questo punto, il senso stesso della convivenza civile. Con la storiella comoda e strumentale degli steccati da saltare, si fa di ogni erba un fascio e si protegge oggettivamente gente che predica da sempre la violenza. A me non importa da che parte venga e di che colore sia. Nella risibile società degli esclusi e dei protetti, il confine che separa chi colpisce da chi è colpito dev’essere visibile e ben definito. E non c’è dubbio, la domanda è una: per saltare non so bene quali suoi steccati, chi sosterrebbe a cuor leggero che, per risolvere il caso Saviano, il sindaco dovrebbe mettersi a un tavolo e fare da mediatore tra il giovane scrittore e i casalesi?
E torno a Napoli. Sempre più sventurata, devo dire. La guardo sconcertato, così come mi viene dipinta, e non la riconosco. Mi ci perdo. Una sola divisione: esclusi e protetti. I confini, tirati con la squadra e con la riga, sono incomprensibili e irreali, ma il quadro è suggestivo: due città che non si parlano e quasi non si conoscono. Ma quali città? E di che mondo parliamo? Se solo ti guardi attorno attentamente, il conto non ti torna. Nello stesso quartiere, nello stesso vicolo,Immag004 spesso nella stessa famiglia, c’è tutta la complessità della vita. La gente parla e non c’è mai silenzio. La gente si incontra, si scontra, tratta, contratta, si conosce e trova modo di riconoscersi. Non ci sono due città, esiste solo un insieme di diversità, un’articolata molteplicità e la realtà non è riconducibile a una sorta di inverosimile binomio. Napoli è una metropoli che si legge a “strati” e non puoi chiuderla nell’antico stereotipo della città borbonica quasi per vocazione. Certo, se la guardi in superficie, ci trovi l’eterno malcostume politico e il ricatto clientelare che invischiano tutti i ceti nell’ideologia subalterna d’un popolo quasi indifferenziato. Ma se ti fermi a guardare, se stai per strada e vivi tra la gente, scopri che la salute è sorprendente, ti accorgi che la vita pulsa, che le tensioni sociali non erompono più fatalmente in protesta plebea e non soffocano malamente in un rigurgito sanfedista. Se vai più a fondo, e devi saperci andare, immediato giunge l’impatto con la borghesia e, se vuoi capire Napoli, tu devi farci i conti. Non puoi fermarti a Viviani e nemmeno conoscere solo Eduardo De Filippo. Il mondo cambia e, se tu non lo vedi, inganni te stesso o, peggio ancora, stai ingannando gli altri. Dov’è questa nuova “Berlino” col suo muro e i protetti da un lato, gli esclusi dall’altro? A meno di non esser ciechi – questo forse è il problema – la città è un inestricabile intreccio. Assieme all’economia del vicolo e a nuclei di plebe, per i quali il tempo non passa, la maturità non giunge, la coscienza civile non si forma, trovi una borghesia articolata che guarda in alto, ma ha frange che si proletarizzano; trovi, se guardi, un proletariato che ha avuto una gran storia. Gente che ha ancora un’anima e resiste al richiamo del vicolo, portandosi dentro l’identità di classe, sebbene sia ormai perennemente terrorizzata dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione e appaia piegata sotto i colpi di un’offensiva padronale così disgregante, che non ha precedenti nella storia della repubblica. E non basta. Quanto di militanza giovanile non sanno più raccogliere i partiti storici dei lavoratori, vive nei centri sociali “rossi“. Solo in quelli, perché centri sociali la destra non ne ha. Quale che possa essere la parte politica, nessuno onestamente può negarlo: nonostante limiti e insufficienze, negli ultimi anni questi ragazzi hanno costruito forme di democrazia “dal basso” che meritano rispetto. Sono stati protagonisti di una battaglia coraggiosa, civilissima e non ancora del tutto conclusa, quando la città è diventata un’enorme e vergognosa discarica a cielo aperto e hanno marciato con padre Zanottelli002 6 febbraio 2009 Chiaiano Intervista a Zanottelli; svolgono ruoli attivi e propositivi nei “Comitati di quartiere” e nelle rare iniziative in cui la città mostra di essere ancora politicamente e socialmente viva. Chi li ha visti all’opera a Bagnoli, accanto a genitori, insegnanti e bambini in lotta per la scuola nella lunga ed esemplare vicenda del “Madonna Assunta“, chi li vede impegnati a fianco agli immigrati, chi ha la fortuna di stare con loro nelle assemblee universitarie e nelle manifestazioni in piazza, non può che togliersi il cappello. Ci sono limiti, errori e contraddizioni e sarebbe strano che non fosse così, ma c’è una passione civile che non è facile trovare.
La democrazia è partecipazione e Rossi Doria in piazza non si vede mai, ma lo ricordo negli anni della giovinezza, quando tutti eravamo autonomi e rivoluzionari. Il suo “potere” era allora tutto operaio. Non so di dove tragga fuori i suoi giudizi e i malaccorti e velenosi suggerimenti che regala al sindaco Iervolino. So che questo suo insistere nel paragonare i ragazzi dei centri sociali agli squadristi che hanno massacrato di botte Francesco Traetta, un loro compagno, uno di loro, non è solo una bestemmia. Somiglia molto a una sorta di provocazione, a qualcosa che sta la speranza e l’istigazione che mi auguro inconsapevole. Che si vuole davvero: evitare o scatenare la rissa? Protetti o esclusi: non sta in cielo né in terra. Tutto nasce semplicemente da una micidiale distorsione dei fatti? Può darsi. Ma questo è davvero il revisionismo. E sono sinceramente preoccupato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2009, su “Report on Line” il 13 ottobre 2009 e su “il Manifesto” il 15 ottobre 2009.

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Mentre l’auto scende da Palau, la baia è un incanto verde smeraldo e Caprera e La Maddalena sono un punto di domanda che un dio cui non credo rivolge a un miscredente. Sono passate da poco le 14, quando il cellulare ritrova d’improvviso il campo e un amico mi dice che la manifestazione in difesa della libertà di stampa “è stata rinviata a data da destinare“.
Perché?, gli domando.
In Afghanistan hanno ammazzato sei soldati italiani.
Il dio che non conosco ritira la domanda – forse s’è accorto che risposte non ne ha neanche lui – e nella mia testa fanno vortice pensieri e sentimenti.
La pietà si presenta per prima. Pietà per gli uccisi, poveri sventurati, perché la vita è sacra Ogni vita, anche la loro, che sono stati infine complici di un aggressore travestito da pacificatore. Pietà per quanti, direttamente o indirettamente, hanno ucciso, militari e civili, donne, vecchi e bambini senza nome e senza il can-can del dolore costruito ad arte da pennivendoli e velinari. Seconda giunge la nausea. Un disgusto profondo per quanti – e sono molti – tutto questo hanno voluto e domani si segneranno a lutto, invocheranno il silenzio e l’amor di patria. Quale patria? Patria di quali morti? I “nostri” uccisi o quelli che i “nostri” hanno ucciso? Ultima giunge la rabbia, Rabbia per il dolore vero che non vediamo, non sentiamo o ignoriamo, per tenerci tranquilla la coscienza.
Mi guardo attorno. Mentre la radio è un fiume di retorica purulenta, dei miei tre amici due fanno finta di sentire e la terza indica una cala. Ci fermiamo:
La manifestazione non si terrà? Davvero? mi domanda il primo assai distratto e un altro, ch’è più furbo, mi “accontenta”:
Beh, d’altra parte…
Canniggione splende al sole mentre se ne vanno al mare. E’ il sole caldo di questa metà di settembre quello che veramente conta. Il mare d’un azzurro profondo, lo scampolo finale di vacanza, il cielo che non piange, ecco quello che conta. Il sangue, le bombe, i carnefici, le vittime, i morti e la tragedia, tutto questo è lontano e lontano va tenuto.
In acqua due romani giocano, un milanese se la gode e l’Italia che può sciala al sole.
La libertà di stampa non si mangia, non si compra e non si vende. La data in cui potremo dirlo è stata destinata. Mentre il governo arranca, tutti sono contro tutti e un dittatore alla Charlie Chaplin ci chiama farabutti. E’ stata destinata: non sarà tardi? Ci rassicurano:” non archiviamo“.
Così fosse, non ci sarebbe dubbio: questo Paese non avrebbe diritto alla pietà.
Perché non fai il bagno, è un incanto, mi chiede l’amica premurosa, dopo aver messo insieme in un momento il milanese e i due romani.
Non ne ho voglia, rispondo, mentre il vento radente increspa il mare di smeraldo.
Non ne ho voglia. Il “mio” tempo è archiviato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 18 settembre 2009

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