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Posts Tagged ‘revisionismo’

Ho letto con attenzione, ma anche con crescente disappunto, il ricco elenco di iniziative e ho sperato fino alla fine di trovarci ciò che era naturale ci fosse; conclusa la lettura, ho dovuto trarne, invece, una inevitabile e triste conclusione: dopo settant’anni, il grande assente è l’antifascismo. C’è di tutto nel programma: una giornata che ha per protagonisti i carabinieri, una iniziativa che riguarda la cultura ebraica e una sui luoghi dell’insurrezione; ci sono Napoli, la Campania, il Mediterraneo, il vento del Sud, i combattenti inquadrati nell’esercito. L’antifascismo no. L’antifascismo non c’è. Si direbbe quasi che si sia evitato con cura ogni cenno a quei combattenti – e a quella città – che non lottarono solo contro i nazisti, ma sorsero in armi anche contro i fascisti. Quei combattenti, intendo dire, che avevano alle spalle un lungo passato di antifascismo militante e si battevano in nome di ideali politici. Non si trattò di casi sporadici o di figure di secondo piano, come comunemente si crede, ma di protagonisti di primo piano, che diedero all’insurrezione il suo volto politico e la inserirono a pieno titolo nella storia della Resistenza.
Mi riferisco, per fare dei nomi, ai fratelli Murolo che animarono la rivolta a Poggioreale e al Vasto: Ezio, confinato politico, giornalista del “Mondo” e molto vicino a Giovanni Amendola, e Tito, di formazione anarchica. Penso a Edoardo Pansini, antifascista diffidato, simpatizzante degli azionisti e protagonista della lotta al Vomero assieme al comunista Antonino Tarsia in Curia. Penso al giovane Adolfo, suo figlio, che prima di cadere armi in pugno aveva conosciuto la galera fascista. Mi riferisco a Federico Zvab, confinato politico che portò sulle barricate la tragedia istriana e una lunga esperienza di lotta armata al fascismo, maturata nei fatti di “Vienna la rossa” e nella guerra di Spagna. Penso alla nutrita pattuglia di comunisti – Ennio Villone, i confinati Eduardo Corona, Giuseppe Cafasso, Ciro Picardi ed Eugenio Mancini, per ricordarne alcuni – e mi tornano in mente il fuoruscito Luigi Maresca, radicale e seguace di Nitti, Antonio Ottaviano, che aveva affrontato il Tribunale Speciale e arricchito l’insurrezione dei suoi precoci ideali europeisti, il sindacalista Federico Mutarelli, attivo dai tempi di Bordiga, i socialisti schedati Rocco D’Ambra e Giuseppe Benvenuto, Ettore Ceccoli, che aveva agito nell’ombra per “Italia Libera”, conducendovi tra gli altri il giovanissimo Gaetano Arfè, e alcune belle figure di libertari, quali Ermidio Abbate, dirigente del sindacato ferrovieri, che aveva già tenuto testa alle squadre fasciste negli anni Venti, il giovane Malagoli e Alastor Imondi, il cui padre, Giuseppe, benché schedato, fu un riferimento sicuro per ogni militante in difficoltà nel ventennio. Potrei continuare ancora a lungo, ma mi pare che l’elenco basti a spiegare il mio sconcerto.
Non ce l’ho con gli uomini in divisa – il capitano medico Spoto era comunista e i tenenti Armando Dusatti e Aiello Santi furono antifascisti schedati e parteciparono tutti valorosamente alle Quattro Giornate – non dimentico, però, che autorità politiche, vertici militari e buona parte degli ufficiali superiori consegnarono la città ai tedeschi; lo fecero,  perché ritennero l’«ordine  costituito», quale che fosse, persino quello affidato ai nazisti, molto più rassicurante per gli interessi dei ceti abbienti che non il popolo in armi. E’ vero, ci sono stati carabinieri valorosi, ma sarebbe pericoloso dimenticare che già a metà ottobre, mentre si udiva ancora l’eco delle fucilate, furono proprio i carabinieri ad arrestare Edoardo Pansini, che proseguiva la lotta e stanava i vecchi gerarchi. Non si può fingere d’ignorare che di lì a poco, mentre si costruiva la nuova Italia, Guido Dorso non esitò a chiedere esplicitamente lo scioglimento dell’Arma dei carabinieri. Di tutto questo purtroppo non c’è cenno nel programma. La lettura che viene proposta diventa così tutta “sociale” e pare fatta apposta per mettere in ombra il significato politico dell’insurrezione.
Spiace dirlo, ma così si rischia di fare il gioco del revisionismo.

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La recensione di Salvatore Prinzi uscita poi sulla “Rivista calabrese di Storia del ‘900” (n. 2 del 2012) e su “Storia e Futuro”, n. 31, marzo 2013, non è qui per fare pubblicità all’autore. Chiede solo un po’ di spazio per replicare alle incredibili ragioni con cui il giornaledistoria.net l’ha censurata. Un caso “esemplare”, che mostra fin dove siano giunti il controllo autoritario sulla ricerca e la spudorata rivalutazione del Fascismo. Ecco il breve testo della rivista:

Di seguito le considerazioni su alcuni brani estratti dalla recensione. Quando si parla di “esclusione dei cittadini dalla vita politica e culturale” aggiungendo che  “in quest’ottica il consenso mussoliniano si rivela basato sull’estorsione e la minaccia” e che “dunque non è altro che una parvenza, una conseguenza dell’oppressione” (pp.1/2) si fa un’affermazione ormai da molti anni superata (già da De Felice fino ad Emilio Gentile ed altri): le cose sembrano in realtà, soprattutto sulla base anche di una più attenta valutazione dei documenti disponibili, molto diverse. Il fascismo è stato soprattutto un regime inclusivo e questo non deve essere confuso con la forza di un presunto e da molti invocato ed enfatizzato “totalitarismo” o con l’azione della miriade di enti e simili (ONMI, OND, GIL e via dicendo). Appare poi sinceramente fuori luogo il fatto di insistere su un fantomatico “revisionismo imperante” (tra l’altro non è chiaro a cosa l’A. si riferisca). Certamente negli ultimi anni si sono dette cose nuove, ad esempio sulla cultura e sul rapporto con gli intellettuali, sulle “modernità fasciste” e si è riflettuto molto sulle evidenti aporie del regime fascista. Ma questo non ha nulla a che vedere con un “revisionismo” inteso nell’accezione negativa del termine che l’A. usa. Quanto alla “resistenza insorgente dai tanti militanti oscuri” anche in questo caso sono stati fatti passi avanti studiando le diverse componenti (cattolica e comunista in primis) ma rimane anche il fatto incontestabile (alla luce anche e soprattutto di documenti recenti) di una non trascurabile zona di “consenso” nei confronti e del regime e di Mussolini”.

La nota, rigorosamente anonima, è, nel suo genere, un vero capolavoro. Cosa significhi dittatura “inclusiva” è un mistero glorioso.  Sul piano linguistico, prima ancora che storiografico, la parola “consenso”, riferita a una dittatura, è un nonsenso. A sostegno della censura l’anonimo referee cita Renzo De Felice ed Emilio Gentile. Un maestro, il suo allievo e una “scuola”. La logica, quindi, è quella del pensiero unico, della verità per fede – ipse dixit – e fa venire in mente il celebre dialogo tra filosofi, quando l’anatomista dimostra il ruolo centrale del cervello rispetto al cuore nel sistema nervoso e il tomista risponde impassibile: ti crederei, se Aristotele non avesse detto il contrario. Per il censore, c’è una verità acquisita in eterno, che cancella storici del valore di Arfè e Cortesi e ignora il recente lavoro sul “consenso imperfetto” pubblicato due anni fa da Ferdinando Cordova, recentemente scomparso. Eppure, persino De Felice, maldestramente tirato in ballo, sentì il bisogno di chiudere in limiti temporali l’idea di “consenso”: 1929-1936. Storico vero, cedette al fascino dalla personalità del “duce”, ma fu mai così supeficiale da descrivere un ventennio di “dittatura inclusiva”. Da allievo indocile e ripudiato, sono testimone diretto: aveva una prosa noiosa, ma conosceva perfettamente il valore e il significato delle parole che usava. Ora, ecco la bella recensione di Prinzi, che non è priva di acuti spunti critici, per i quali posso solo ringraziarlo.

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Il realismo dell’impossibile di Salvatore Prinzi

Una nota sul libro “Antifascismo e potere. Storia di storie” di Giuseppe Aragno. Piccoli ritratti di sovversivi e dissidenti che combatterono il fascismo.

Antifascismo e potereI. A osservarla con attenzione, molto da vicino, senza farsi impressionare dai grandi nomi o dalle date memorabili, la Storia pullula di figure singolari. Figure che non sono per nulla ricordate, pur avendo fatto qualcosa di importante; esistenze non comuni, senza essere celebri; persone di un certo spessore umano e morale, e tuttavia esposte come tutte allo sbaglio, allo scoramento, alla stanchezza. Uomini e donne, per dirla con Gaetano Arfè, che non trionfano mai ma che non sono mai vinti. Se la vittoria non vede in prima fila a raccogliere onorificenze, la sconfitta, che pure li avvolge, non li abbatte, e quando pure li afferra non li tiene.
Sono proprio queste figure, eroiche solo in un senso molto sobrio, ad essere al centro dell’ultimo libro di Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie (Bastogi, Foggia 2012). Un libro che tira fuori dall’oblio le vicende di otto antifascisti e le fa rivivere sotto i nostri occhi, mostrandone l’attualità, la clandestina vicinanza al nostro tempo. Un libro in cui la storia stessa si fa presente, è un altro presente. Un libro che, proprio per questo, vale la pena di prendere sul serio.

II. Aragno è uno noto studioso del movimento operaio, autore di numerose pubblicazioni che cercano di ricostruire la complessa storia del lavoro a Napoli e in Campania, e le vicende delle correnti anarchiche, socialiste, comuniste nei primi cento anni della storia d’Italia. Qualche anno fa suscitò parecchio interesse un suo libro, Antifascismo popolare (Manifestolibri, Roma 2009), che raccontava il mondo variegato e per nulla “ortodosso” dell’opposizione al regime di Mussolini. Ora di quel libro esce una sorta di sequel: Antifascismo e potere è infatti una raccolta di piccoli ritratti di sovversivi e dissidenti, principalmente napoletani o in qualche modo legati a Napoli, che combatterono, ciascuno a suo modo, il fascismo. Ma quest’ultimo libro, pur confermando l’impostazione storiografica del lavoro precedente, va oltre, perché intende mettere in questione non solo il potere fascista e le modalità feroci del suo esercizio, ma il potere tout court. Vediamo meglio.
La ricerca di Aragno muove, sin dalle sue prime pubblicazioni, dal lavoro di De Felice, assumendo come problematica quella questione del consenso che è il perno di ogni discorso revisionista. In effetti, dire che Mussolini seppe costruire consenso intorno a sé vuol dire in fondo – siccome lo scopo del politico è proprio quello di creare uno spazio e un sostegno alla sua azione – riconoscerlo come “grande statista”. Cioè come un pacificatore delle tensioni nazionali, come il costruttore e persino il modernizzatore di un’Italia uscita povera e dilaniata dalla Grande Guerra. Il problema di Aragno è appunto quello di mostrare su quale rimozione si sia fondato questo consenso e la sua narrazione: ovvero sull’asportazione, prima materiale e poi anche storiografica, della questione sociale, della vita concreta di milioni di contadini e di operai, così come sull’esclusione dei cittadini dalla vita politica e culturale. In quest’ottica il consenso mussoliniano si rivela basato sull’estorsione e la minaccia, e dunque non è altro che una parvenza, una conseguenza dell’oppressione.
Su questa via, l’impostazione di Aragno finisce però per contrapporsi anche a quell’antifascismo istituzionale che, rimuovendo anch’esso la ragione sociale del regime, sembra incolparlo unicamente della violazione dei “diritti umani” o della negazione dei “principi democratici”. Quasi come se il fascismo fosse una parentesi illiberale in una lunga storia italiana fatta di “regole chiare”, di uguaglianza e di condivisione dello stesso destino, quest’antifascismo di rito – e forse proprio per questo sempre meno sentito – presenta la Resistenza come il compimento del percorso Risorgimentale, come la riscossa nazionale di una libertà senza bandiere né colori contro una dittatura cattiva, ormai sconfitta una volta per tutte…
Sulla scia di storici come Arfè e Luigi Cortesi, Aragno contesta dunque il revisionismo imperante in questi anni ma non cade nella retorica di una Resistenza combattuta solo in nome della patria, di una Resistenza avulsa dal conflitto di classe, diretta dall’alto da integerrimi dirigenti di partito e disinteressatamente sostenuta dagli Alleati. Al contrario: Aragno mostra come ci sia una fortissima continuità fra l’antifascismo – che sorge nel momento stesso in cui nasce il movimento fascista, dato che questo è la sintesi più rigorosa e conseguente dell’attacco che le classi dominanti portavano da decenni contro il proletariato – e la Resistenza, che è sì un moto di liberazione ma anche di sovversione. Un moto che quindi non inizia il 25 luglio o l’8 settembre del 1943, ma attraversa, pur se a fatica e a caro prezzo, tutto il Ventennio. Con il suo approccio “dal basso” Aragno riesce così a mostrare le svariate forme e i diversi intenti che contraddistinguono l’opposizione al regime, mettendo in luce come la Resistenza vittoriosa abbia tratto la sua forza da questa Resistenza insorgente, da questi sacrifici quotidiani, dai tanti militanti oscuri, dai tanti “no” detti a mezza voce, dai rifiuti e dai sospiri di migliaia di reclusi, confinati, bastonati.

III. Proprio per questo, il modo migliore di leggere il libro di Aragno è partire dal suo sottotitolo, Storia di storie. Perché nel sottotitolo c’è già un’impostazione teorica, un certo sguardo. Appare subito, infatti, il motivo che sostiene tutto il testo: l’idea che la Storia sia fatta da una pluralità di voci, di vicende singolari, di percorsi individuali. E che sia il loro incontro, la loro circolazione, tutto questo vorticoso aggregarsi e scomporsi di vite, a mettere capo alla Storia, a quella totalità che sembra sempre investirci e travolgerci, e che si lascia pensare solo sulla taglia del Grande Evento. Il vestito storico, sembra dirci Aragno, è tessuto di fili sottilissimi, ma ogni filo ha il suo spessore, la sua lunghezza, il suo colore, e vale la pena di seguirlo fino in fondo. Ripercorrendo quella vita non tanto e non solo come caso eclatante o come testimonianza privilegiata, e nemmeno come scarto che andrebbe recuperato quasi per pietà, per un senso di giustizia verso chi è stato travolto, ma, più profondamente, come una vita attiva, partecipe e persino protagonista del proprio tempo. In altri termini, per capire davvero la Storia, per dirsela tutta, lo storico si deve mettere al microscopio. D’altra parte il passo fra biografia e biologia è breve: è quello che c’è fra lo scrivere, il disegnare, l’incidere i tratti di una vita, e il comprenderli, il discorrerne, il cercarne i principi.
È questa specifica scienza storica, questa comprensione del particolare per meglio arrivare alla totalità, che ci sembra essere il metodo del libro di Aragno, e anche il suo principale merito. Il lavoro rigoroso sugli archivi, la meticolosa ricerca di fonti, l’osservazione di tutte le tracce che una vita lascia, e la narrazione che mette tutto in sequenza, ci restituiscono il pensiero e l’azione di questi otto personaggi altrimenti destinati a restare ignoti. Perché chi può dire di conoscere le peripezie affascinanti e dolorose degli anarchici e socialisti Clotilde Peani, Umberto Vanguardia, Emilia Buonacosa, Giovanni Bergamasco, perseguitati prima dalla polizia “liberale” e poi da quella fascista per le loro idee di uguaglianza e per il loro impegno sindacale, per la loro voglia di sollevare i lavoratori al livello della decisione politica? Chi può dire di aver già sentito le storie di Kolia Patriarca o di Luigi Maresca, non due militanti senza macchia, ma due persone “normali”, tranquille, con l’unico torto di aver avuto delle idee e di averle manifestate, condannandosi a vagare da un paese all’altro, irrimediabilmente lontani dalle loro famiglie? E ancora, chi può immaginare che al fascismo si potesse opporre, e proprio negli anni del supposto consenso, anche un uomo di destra come Pasquale Ilaria, patriota pluridecorato della Prima Guerra Mondiale, e che il “potente” regime potesse temere anche ragazzi evidentemente spauriti, soli e traumatizzati come Renato Grossi?
Aragno è pienamente cosciente di stare compiendo un’operazione in un certo senso salvifica, di stare cioè resuscitando i morti, i sommersi, come direbbe Primo Levi. Basta prendere questa sua frase: «di ciò che siamo davvero, tutto si perde nel silenzio dei secoli e il tempo nostro “personale” raramente coincide col “tempo collettivo” di cui rimane traccia. Tutto si perde, a meno che storici o artisti non lo ricordino a chi, dopo di noi, farà la sua parte sul palcoscenico che ci vide all’opera» (p. 98). In questo senso Aragno sembra rispondere alle scomode domande di quel famoso lettore operaio di Brecht, che, imbattendosi nella Storia, si chiedeva chi la facesse per davvero: chi ci fosse dietro a Tebe, a Babilonia, a Roma, chi avesse materialmente costruito quei grandiosi monumenti, chi avesse realmente combattuto le guerre, chi fosse, insomma, il regista nascosto dai nomi, sempre troppo altisonanti, degli attori… Invece la storiografia ufficiale – affascinata dai grandi destini, dalle manovre diplomatiche, dagli intrighi di Palazzo – tende “naturalmente” a dimenticare il lavoro, la sofferenza, l’oppressione patite dagli uomini. E a maggior ragione dalle donne.

IV. E qui è di un’estrema importanza che il libro di Aragno riservi tanto spazio alla figura femminile, mettendo in apertura l’anarchica Peani e continuando subito con Varia, la coraggiosa moglie di Patriarca, per descriverci poi l’attività politica instancabile e itinerante dell’operaia Buonacosa, per chiudersi infine con le straordinarie Maria e Ada Grossi. Donne che, per quanto capaci di affrontare le peggiori avversità, non vengono mai riconosciute dai questurini capaci di una volontà indipendente, di una posizione politica. La rappresentazione della donna che emerge infatti dagli archivi delle forze dell’ordine oscilla fra quella dell’eterna tentatrice che «suscita eccitamento tra la folla e con la sua audacia può trascinare i compagni» (p. 11), come riferisce un poliziotto romano a proposito della Peani, e quella “classica” della «donna di facili costumi» (p. 57), come scrive un comandante dei Carabinieri di Salerno a proposito della Buonacosa. Convergono qui il senso comune maschilista, che vuole perduta ogni donna che non sia santa, e quella particolare cattiveria che il servo dello stato esercita contro il militante rivoluzionario. Così sorprende solo fino a un certo punto vedere come questi burocrati si ergano anche a maestri di rettitudine e non disdegnino nelle loro note informative di ragionare sulla «cattiva condotta morale» o sulla «vita irregolare» (p. 10) delle loro vittime. E quando pure gli riconoscono un’opinione politica, questa non è mai il prodotto di un pensiero autonomo, di un percorso individuale che muove dalle ingiustizie subite per arrivare infine alla chiarezza di azione: è sempre su istigazione dell’uomo, per imitazione, per amore, che la donna si impegna – senza che questo paternalismo produca peraltro condanne più miti… Insomma: anche quando si muove, la donna è mossa. Non fatichiamo a credere che sia ancora questo il pensiero di tanti questurini d’oggi.

V. Ed è forse proprio a partire da questo riferimento al presente, da questa continuità di certe logiche coercitive, che possiamo capire fino in fondo il senso del titolo del libro, non meno eloquente del sottotitolo, Antifascismo e potere. Qui appare il collante che tiene insieme queste biografie così diverse fra loro: è la cieca ferocia della “ragion di Stato”, l’assurda razionalità dell’ordine costituito, che impone dall’alto le sue decisioni e sempre si autoassolve.
In effetti, è proprio l’opposizione al potere – di cui il fascismo è solo l’espressione più becera, più violenta, più infame – a essere all’incrocio di traiettorie politiche e umane così diverse. Innanzitutto perché alcune delle figure che Aragno ci presenta conoscono l’allontanamento, il carcere, la persecuzione giudiziaria ben prima del fascismo, sotto il governo di Giolitti, facendoci toccare con mano la continuità delle politiche repressive fra l’Italia “liberale” e quella mussoliniana (ma, si potrebbe dire, anche fra questa e quella repubblicana, vedendo come falliranno subito i processi di defascistizzazione, quale sarà l’esito dell’amnistia, quali i nomi dei giornalisti, dei giudici, dei prefetti e dei questori che saranno riciclati nelle istituzioni “democratiche” appena finita la guerra…). In questo modo Aragno mostra che il fascismo non è solo un determinato regime, sconfitto una volta per tutte, ma una logica di governo del conflitto sociale di lungo periodo, imperniata intorno alla tutela a ogni costo delle classi dominanti e dei loro profitti, al restringimento degli spazi del dissenso, e infine alla guerra (tratti che, ancora una volta, Italia liberale, fascista e repubblicana hanno in comune: basti pensare a come si chiude il cerchio della FIAT, da Giovanni Agnelli a Marchionne passando per Valletta, o all’intervento tricolore in Libia, oggi come un secolo fa).
Su questa linea, altre biografie testimoniano di un’ostilità al potere ovunque esso si manifesti, dalla Francia in cui tanti oppositori al regime si erano rifugiati, alla Spagna verso cui molti esuli, come la famiglia Grossi, si sposteranno per dare il proprio contributo alla lotta contro il fascismo. Un’ostilità al potere che Aragno sembra condividere con i suoi personaggi, anche quando – ed è il caso di Patriarca – si tratta di criticare la stessa Rivoluzione Sovietica, la cui orizzontalità, inclusività, apertura, cambiano definitivamente di segno nell’epoca staliniana, finendo per erigere un altro potere, gerarchico, paranoico, persecutorio.
Da questo punto di vista – ed è un altro motivo di interesse del libro – l’utilizzo di qualsiasi strumento, anche della scienza, per liquidare l’opposizione politica, è il migliore indicatore di come i poteri si assomiglino tutti, di come, per Aragno come per De André, non ci siano poteri buoni. Dall’epoca di Lombroso fino a oggi, sociologia, criminologia, psicologia e infine psichiatria convergono infatti nel produrre un sapere disciplinante, un sapere che autorizzi il controllo della popolazione, la reclusione dei corpi, la loro forzosa separazione dal contesto umano con la pretesa di rieducarli e la volontà di punirli. Senza scomodare Foucault, Aragno ci mostra come ad esempio la psichiatria venisse usata là dove la detenzione comune non poteva arrivare: in mancanza di evidenze per condannare subito un oppositore al carcere, una gigantesca macchina burocratico-amministrativa lo teneva sospeso sulla soglia della colpevolezza per anni, fino a farlo impazzire, o meglio, fino a poter constatare in lui quei segni sufficienti a giudicarlo pazzo, e sbarazzarsene in qualche manicomio. In questo modo non ci si liberava solo di un avversario politico, ma si screditava tutta l’opposizione, la si riduceva all’impossibilità di parlare, esibendola da subito come irrazionale solo perché in contrasto con la razionalità dominante. In effetti un detenuto politico ha delle ragioni, lo si può odiare, biasimare, non condividere, ma ha i suoi motivi, i suoi scopi, che si possono capire. Un fanatico o un pazzo no: sono brutture da cancellare, residui arcaici, devianti che ignorano gli assunti di base del vivere sociale… Qui l’accusa di utopia vale immediatamente come certificato di follia, anche se a distaccarsi un attimo dalla quotidianità appaia evidente come la sola utopia e la sola follia siano quelle che pretendono che nulla cambi mai. Ma allora, se così stanno le cose, non si tratta tanto di capire chi, fra il medico (l’apparato repressivo e disciplinare) e il malato (il rivoluzionario che ha osato sfidarlo e che non ritratta), sia il vero folle: si tratta piuttosto di capire dove passi la linea di demarcazione fra follie condotte in maniera estremamente saggia e cose sagge condotte in maniera estremamente folle, come diceva Montesquieu. Cioè fra il contenuto assurdo dell’ordine dominante, con la sua logica spietata e il suo vestito presentabile, e la ragionevolezza di chi domanda un ordine nuovo, e lo fa sfidando le convenzioni, a rischio del carcere e della morte… A ben vedere i rivoluzionari, giudicati e condannati per la loro condotta nel presente, vengono assolti dalla storia per il buon senso delle loro idee.

VI. In ogni caso, è su questo punto dell’opposizione al potere – di cosa sia il potere e di cosa voglia dire opporvisi – che il libro di Aragno apre davvero la discussione, lasciandoci anche liberi di obiettare o completarne il pensiero. Innanzitutto da un punto di vista storico. Se infatti è certamente decisivo che alle tante esperienze di opposizione al fascismo venga dato finalmente rilievo, se è importante tenere a mente ogni torto subito, è altrettanto fondamentale ricordare che la capacità degli antifascisti, e in particolare di quelli comunisti, è stata la capacità di costruire, nel contesto difficile di una dittatura, reti di contatto e di coordinamento che sono riuscite a sopravvivere alle infiltrazioni e alle retate del regime, che hanno permesso che non si spezzasse, almeno nelle fabbriche e nei quartieri popolari, il filo rosso dell’opposizione. Insomma, dietro e attorno alle vite che Aragno ci presenta, che in ultima istanza sembrano così sole, ci sono invece sindacati, partiti, culture politiche, famiglie, reti amicali, insomma, tutta una vicenda collettiva che bisogna stare attenti a non mettere troppo sullo sfondo. E questo ci porta al problema centrale del testo.
Se infatti uno dei suoi scopi è di far sì che dal passato si traggano degli insegnamenti, c’è indubbiamente un insegnamento che subito balza agli occhi: che è impossibile combattere il potere da soli, che l’attività principale della repressione è proprio quella di dividere, di isolare e semmai marchiare il soggetto, davanti al pubblico e davanti a se stesso, come folle. Molti degli esiti tragici di queste storie fanno cioè pensare che – se il “no” che si pronuncia è sempre una questione privata, è un atto di responsabilità personale, un’invenzione assolutamente singolare – l’unico modo per far durare questo “no” è quello di posizionarlo e stringerlo in una rete collettiva, che lo sostenga nei momenti di difficoltà, che lo renda più forte, in modo da non poter essere facilmente attaccato e distrutto. Ma fare questo non vuol dire appunto creare organizzazione? E l’organizzazione non è anche una forma, per quanto embrionale e relativa, di potere? E d’altronde, che cos’è il potere? È una forza che sta solo dal lato del dominio, pura coercizione, o non è anche e innanzitutto un poter fare, da cui ognuno di noi è investito? E se così è, se cioè il potere trova anche in noi il suo momento iniziale o terminale, mettersi insieme e produrre effetti non vuol dire già contrastare il potere, praticando forme di contropotere? Forme che sappiano ostacolare quella temporalità lunga del potere costituito, quel suo perenne poter aspettare, con una temporalità rivoluzionaria, quella che riesca a mantenere il “no” pronunciato un giorno, a sedimentare le esperienze, a far durare l’insorgenza… D’altra parte, se il libro di Aragno vuole appunto fare presente un’altra storia, oggi non facciamo proprio esperienza dell’assenza radicale di questa organizzazione e di quest’altro potere? Dai singoli militanti alle piazze “indignate”, non circola ossessivamente la domanda – dopo trent’anni di smantellamento di contenitori collettivi, di istituzioni che potessero tenere insieme e dar conto delle diverse volontà – di programmi e strumenti che possano imporre, alle logiche di potere della borghesia, l’altra logica del potere popolare? Da questo punto di vista, denunciare il «pragmatismo politico» come «tecnica di dominio» tout court (p. 7), come a volte sembra fare Aragno, non rischia piuttosto di condannarci all’impotenza? La “ragion di Stato” ha il suo più tremendo avversario nell’autenticità e nelle moralità individuali, o nel contropotere effettivo che pone già nell’ordine esistente un’altra moralità, collettiva e niente affatto individuale? Insomma, fra il realismo senza scrupoli del potere e un’utopia incantata quanto inefficace, non c’è forse lo spazio, risicato ma certificato storicamente, di un altro realismo, che ha di mira qualcosa che ancora non si vede, ma può essere qui? C’è forse da scegliere fra purezza dei mezzi e pragmatico perseguimento dei fini o il movimento è lo stesso? Fra eroismo e rinuncia, fra il non venire mai a patti e l’esserci già venuti, non si apre forse una strada, quella che è stata percorsa – e ancora oggi, se abbiamo il coraggio di allargare lo sguardo oltre la provinciale Europa, viene percorsa – dai movimenti rivoluzionari, quella che Che Guevara indicava con il celebre motto: siamo realisti, vogliamo l’impossibile?
Certo, non sono domande a cui questo libro può rispondere. Ma di sicuro, ponendole, facendoci riflettere a partire dalla concretezza storica, Aragno dà un contributo importante a questo realismo dell’impossibile oggi ancora tutto da pensare e da praticare. A patto che il lettore voglia davvero ricominciare le sforzo di questi antifascisti, e magari portarlo fino in fondo, verso un esito – anche solo un poco – più felice.

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Appare sempre più chiaro. L’uso pubblico della storia riaccende le ostilità e i rancori d’una stagione politica che sembrava conclusa e, alla resa dei conti, la memoria e il ricordo trasmettono ai nostri ragazzi il veleno dell’odio.
Le parole che seguono non nascono per caso: la risposta a chi da qualche tempo ci toglie la parola, levando in alto i labari fiumani, va affidata al rigore della ricerca e ad una scuola dello Stato che torni ad essere naturale cerniera tra scienza e conoscenza.
La contestazione – la mia generazione lo ricorda bene – può essere occasione preziosa per suscitare interessi e indurre al confronto. Da studioso, ho avviato perciò una ricerca e la sorte mi è stata amica: credo di aver qualcosa di nuovo da raccontare e sono più sicuro di quello che dico. Il mio mestiere è insegnare, ma si insegna solo se si continua a imparare.
Quella che vi racconto è la vicenda di un’associazione, nata dalla “Dante Alighieri” e intimamente legata alla “Associazione Nazionale Volontari di guerra”: la “Pro Dalmazia”, costituitasi legalmente in Italia nel 1919, quando il primo conflitto mondiale ha spento nel sangue i miti della “Belle époque” e al tavolo della pace la nostra diplomazia è paralizzata dalle sue contraddizioni. Ne è l’anima la “nota” Irma Melany Scodnik, suffragetta nelle battaglie femministe, che ha ereditato dal cognato, Matteo Renato Imbriani, l’ormai tarda visione di un irredentismo che, dopo essersi presentato come figlio della tradizione garibaldina e mazziniana, ha perso l’iniziale carattere di lotta per la creazione di una nuova identità nazionale, ed è scivolato nei meandri dell’etica e nell’ambiguo patriottismo di Giovanni Bovio. Com’è naturale, essa rivendica l’italianità della Dalmazia, raccoglie gente di nome – ha tra i soci Armando Diaz, un principe d’Aragona, il principe Colonna di Cesarò, Eugenio Cosleschi, stretto collaboratore di D’Annunzio a Fiume – e per un po’ vivacchia tra sussulti di orgoglio nazionale, commemorazioni del “fatidico 24 maggio”, di Foscolo e di Lissa e interpreta, tra i primi, truci bagliori del nascente squadrismo, i “voti dei connazionali tutti di Zara e di Fiume“. Giungono così, consacrazione ufficiale, mentre il paese è ormai in mano fascista, i “sovrani ringraziamenti per l’opera svolta“.
In un Paese giunto buon ultimo nella gara violentissima tra gli imperialismi, il fuoco della retorica dannunziana e l’esasperato nazionalismo fascista, sensibile alle cupe tentazioni del razzismo, formano così il crogiuolo nel quale nasce, col ferro e col fuoco, la tragedia del “confine orientale”, le cui terre, con arroganza pari solo alla rozzezza, sono state ribattezzate col nome di “Venezia Giulia”. Una tragedia destinata a condurre fatalmente alle “foibe”.
Come in buona parte d’Italia, la “Pro Dalmazia” ha una sezione anche a Napoli, nella città fascista di Michele Castelli, ministro plenipotenziario a Fiume nel 1922 e poi Alto Commissario imposto dal regime, e di manganellatori del calibro di Aurelio Padovani. A fare il bello e il cattivo tempo nella sezione napoletana dell’associazione è ormai il regime, che vi ha inserito i suoi immancabili squadristi “antemarcia”: Giovanni Maresca di Serracapriola, che sarà poi convinto sostenitore dell’universalità delle Corporazioni, Raffaele Pescione, fortemente legato a Padovani e Francesco Picone, futuro Federale della città. Basta guardarci dentro, ed eccoli all’opera, mentre “suggellano l’amore di Napoli per Fiume”, tumulando in città, nel recinto degli “uomini illustri” i resti mortali d’una sventurata dodicenne fiumana o fanno circolare – è la “Dante Alighieri” che diffonde in Italia il volantino – il “commosso saluto di Caleo da Spoleto, un “goliardo dalmata oppresso che urla ai camerati: “Memento Dalmatiae” e, intonando un suo inno rabbioso – Quando saremo a Spalato – scrive con un odio che impressiona: “Ringhio! Ed il ringhiar mio non avrà fine se non quando la nostra lama avrà inchiodato nel granito adamantino delle Mura di Spoleto romana i profanatori dei nostri focolari, i bestemmiatori del nome sacro d’Italia“. L’originaria impostazione irredentista e tardo risorgimentale della “Pro Dalmazia” è ormai svanita nelle spire della violenza squadrista e l’associazione non punta solo, come pure dichiara nel programma, alla “difesa dell’italianità in Dalmazia, ma intende imporre, in nome dell’antica prepotenza romana, una pretesa superiorità etnica, che precede di molto – e in qualche modo annunzia – la vergogna delle leggi razziali.
E’ un crescendo che non lascia spazio a dubbi. Per l’anniversario della “Marcia di Ronchi”, nel 1926, si recitano i “Canti di Guerra” di Michele Novelli e si riesuma Odoacre Caterini con le sue “Visioni Dalmate”, la “latinità del sangue” e una Dalmazia che le “le aspre cime dei monti Velebiti e dei rupestri contrafforti delle Dinariche […] nettamente tagliano e dividono e staccano come un severo, inappellabile decreto di separazione etnica dalle retrostanti, turbolente terre balcaniche“. Una “separazione” che va difesa ad ogni costo; la sorte di chi si oppone, di chi rivendica le proprie radici e rifiuta la snazionalizzazione ce la raccontano i comunicati della “Stefani”, che scrive gelida e professionale: “questa mattina ore sei nelle prossimità di Pola è stata eseguita mediante fucilazione nella schiena la sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a carico capo banda terrorista Vladimiro Gortan“; una sorte segnata.
Mussolini, però, ancora non è pago. Il 4 novembre 1928, la “Pro Dalmazia” è assorbita nel “Comitato d’azione Dalmatica”, sorto “allo scopo di uniformare alle direttive del Regime e di rendere sempre più efficace ed omogenea l’azione per la difesa dell’italianità e dei diritti d’Italia nella Dalmazia“. Tra il 1929 e il 1930, mentre si moltiplicano le commemorazioni di “Tommaso Gulli ed Aldo Rossi uccisi a Spalato il giorno 11 luglio 1920” e nelle città italiane compaiono “striscioline di carta con la scritta dattilografata Dalmazia o morte“, la nuova associazione, che ha sede a Milano, finisce sotto il totale controllo del regime, che affida a Eugenio Coselschi la direzione di un organo settimanale nazionale, “Volontà d’Italia”, di ispirazione imperialista e assorbe nella “Pro Dalmazia” i militanti di tutte le associazioni consimili, sciolte dai prefetti per espressa volontà del duce.
E’ così che il nuovo organismo alza il tiro e intreccia il suo percorso, sia pure in maniera prudente e non ufficiale, con l’eugenica e una più aperta ed esplicita impostazione razzista della cosiddetta difesa dell’italianità. Tramite dell’operazione, che rimane ovviamente marginale, è l’avvocato Alfredo Vittorio Russo, ex liberaldemocratico e sindaco di Napoli nel 1920, che ha lungamente esitato tra la collaborazione con Mussolini e l’adesione all’opposizione costituzionale, guidata nel 1924 da Giovanni Amendola, ma infine, benché fortemente osteggiato dai fascisti napoletani che non dimenticano, è passato tra i simpatizzanti del regime e si è messo a studiare l’eugenica. E’ su questo tema che egli offre al “Comitato d’Azione per la Dalmazia” il suo contributo, intervenendo a sostegno delle tesi del “complesso problema demografico, come […] posto da Benito Mussolini“. Il suo contributo ha una duplice chiave di lettura: quella del “razzismo esterno”, nei confronti delle altre etnie – il “pericolo giallo” – e quello di un “razzismo interno”, inteso come “selezione della razza” e volto a impedire che la riproduzione umana tenda “sempre più a incombere sulle classi inferiori, ossia sui più deboli, con progressivo ed evidente deterioramento della specie“. Contro i pericoli che vengono dall’esterno, contro “il rapido aumento della razza slava” e “la predominanza quantitativa dei popoli di colore“, egli ricorda che tra gli scienziati c’è chi si è spinto “al punto da rimproverare, quasi, ai bianchi la diffusione, da essi operata, delle norme igieniche nell’Asia e nell’Africa“. Di fatto, però, egli osserva, il problema reale è quello della “quantità e qualità” della razza. Nessuno, infatti, “potrà mai sostenere che la quantità in tema di popolazione, possa sostituire la qualità. La necessità che si impone, quindi, è quella di combattere la “degenerazione umana” e, “tra le diverse provvidenze“, due, apprese dal noto psichiatra Leonardo Bianchi, gli appaiono essenziali: “educare in istituti speciali ben per tempo i fanciulli anormali […] malati e tarati” e “ vietare in qualunque modo il matrimonio di persone malate che presentino decise stimmate fisiche e morali della degenerazione umana. Lo spirito umanitario, l’amore, la pietà familiare devono piegare innanzi all’ineluttabile veto di questa legge. […]. Gli interessi delle nazioni esigono una prole sana“.
Non siamo ad una organica dottrina della razza, ma nelle parole del Russo, ben prima che il nazismo metta in campo la sua feroce pazzia, ci sono i caratteri specifici della psuedo scientificità di una teoria razzista.
E’ in questo clima culturale, e su questa base mai apertamente dichiarata, che si va formando la gioventù italiana sin dalla metà degli anni Venti. Un clima in cui, mentre cresce e si diffonde il culto della personalità del duce, “assertore magnifico del diritto e della civiltà della romanità e del Fascismo, egida vigoroso della nuova Italia“, si tiene desta una rivalità che ha le tinte fosche dell’odio contro quella che – cito testualmente da documenti reperiti in archivio – è “la canaglia jugoslava“. Non altrimenti si spiegano, se non con l’odio alimentato ad arte dalla propaganda del regime, le parole che Antonio Amato, un semplice capobarca in servizio ai motoscafi del Genio Civile scrive all’Alto Commissario Baratono nel dicembre del 1932: “Dica al Duce, Eccellenza, che gli azzurri del Battaglione di Napoli attendono frementi di sdegno un Suo comando, e quando la diana di guerra squillerà, dia a noi l’onore di piantare in quel sacro suolo profanato il tricolore d’Italia, […] di versare fino all’ultima stilla di sangue“.
Sono parole dietro le quali si cela la propaganda del regime che, avviandosi all’avventura coloniale, lavora ad una trasformazione profonda di ciò che resta della vecchia “Pro Dalmazia” e dei suoi Comitati, assorbiti, come annuncia la “Stefani” nell’ottobre del 1933, nei “Comitati d’azione per la Universalità di Roma”. Un piano complesso, che Mussolini elabora personalmente con la collaborazione di Eugenio Conselschi, Maresca di Serracapriola, Pietro Castellino e Pannunzio, facendo sì che progressivamente i toni salgano e gli animi si accendano. Nel 1935, mentre Buffarini Guidi lavora perché in ogni città l’attività di tali Comitati divenga sempre più intensa, agevole e proficua, anche Ciano, Starace e i Principi di Piemonte sono coinvolti nelle manifestazioni promosse dal Comitato e, poco prima della guerra d’Etiopia, entrano in gioco persino Bruno e Vittorio Mussolini, che la sezione napoletana dell’associazione Volontari di guerra e azzurri di Dalmazia […] saluta vibrante di entusiasmo […] iscrivendoli soci onorari nostro sodalizio“. Il duce se ne compiace e, in un crescendo di entusiasmo dai toni velatamente razzisti, Maresca di Serracapriola, membro di del Consiglio centrale dei “Comitati d’azione per la Universalità di Roma”, può salutarlo come il “rinnovatore della stirpe“. A scuola – si teorizza – “una cultura irredentista fra i giovani non solo servirà a conquistare le terre che sono nostre, ma sarà la più sicura garanzia di saperle tenere in seguito.
Si apre la stagione delle peggiori avventure e dei crimini di guerra quando, alla fine di settembre, Edgardo Borselli, console d’Albania, ad “una conferenza sul tema dell’Abissinia indetta dalla sezione di Napoli del Comitato per l’universalità di Roma” si intrattiene “sulla crisi economica del dopoguerra e sulle divisioni delle colonie tra gli stati belligeranti con la quasi totale esclusione dell’Italia“. Quando il Berselli accenna “allo stato di barbarie dell’Etiopia” e agli orrori della mortalità specie infantile“, gli aerei della nostra aviazione da guerra stanno già caricando spezzoni, gas e bombe incendiarie con cui si accingono a seppellire sotto in un diluvio di fuoco i poveri villaggi etiopi stretti nella morsa del terrore e nella disperazione.
E’ l’inizio della fine. Hitler non ha ancora mostrato al mondo la cupa ferocia del nazionalsocialismo ma, in tema di razzismo e crimini di guerra, il fascismo e il militarismo italiani non hanno in verità nulla da apprendere.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4 aprile 2007.

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clip_image001Succede a Napoli e, poiché ci vivo, non faccio fatica a capire: è l’incipit di un’offensiva destinata a durare. I neofascisti di “Casa Pound” occupano un vecchio monastero per farne un sedicente “centro sociale”. Grazie a Bassolino e soci, la sinistra s’è sciolta da tempo come neve al sole e, incontrastato, spira un vento fortissimo di destra. Com’è costume italico, i soliti “intellettuali” in cerca di “collocazione“, fanno sponda e aprono la breccia: “è necessario dialogare“, sostiene su “Repubblica” Marco Rossi Doria, seguendo il manuale del revisionismo e l’arte antica dei “gattopardi“. Il personaggio è noto, ma è bene ricordare: rivoluzionario ai tempi di Potop, poi “maestro di strada” a costi esorbitanti e risultato zero, sindaco mancato alla testa di un’insalata russa riunita sotto le bandiere d’una lista civica fatalmente “trasversale“, è passato dalla strada al palazzo col ministro Fioroni e ha contribuito allo smantellamento della scuola statale.
Il “dialogo” offerto dà frutti immediati. Forte di tanto appoggio, “Casa Pound si scatena. La prima, prevedibile risposta è un agguato squadrista a uno studente antifascista. Indignato, reagisco all’indecente proposta che legittima di fatto il neofascismo e falsifica la cronaca e la storia in nome di malintese e presunte ragioni d’una sedicente “cultura della democrazia“, chiedo un po’ di spazio a “Repubblica“, e denuncio la manovra.
Rossi Doria si tace, timoroso che addosso gli piombi una valanga. Il 9 ottobre, però, puntualmente ospitato da “Repubblica Napoli“, torna alla carica, inventandosi fantomatici centri sociali di destra, in una città inesistente, fatta solo di “esclusi” e di “protetti”, e così salta il fosso: il sindaco, scrive, faccia da mediatore tra i centri sociali. Finalmente le cose sono chiare: dopo i ragazzi di Salò, occorre benedire quelli di “Casa Pound“, nonostante la caccia ai gay e agli extracomunitari e i frequenti agguati agli studenti di sinistra.
Che dire? La partita non sarebbe chiusa, se “Repubblica”, eccessivamente timorosa di alimentare una polemica che molto impropriamente giudica personale, mi nega la facoltà di replicare. Non è certamente una censura, ma se penso alle recenti, sacrosante battaglie, mi domando se libertà di stampa, non sia anche diritto di replica e “par conditio“. Sia come sia, rimane in vita la minacciata libertà del web cui affido la replica destinata al giornale e una richiesta: chi condivide, faccia poi “girare“.

Il “dialogo” colpito a tradimento

La Napoli di Rossi Doria è una mela divisa in due. Un taglio netto e dai confini oscuri: di qua i protetti, dall’altra parte gli esclusi. Un po’ schematico, ma funzionale. A rigor di logica mancano i protettori e, se vuoi esser preciso, provi a capire chi è che va escludendo. Se ci pensi poi bene, una domanda non la puoi evitare: dove metti, in questo disegno lineare e semplice, una scuola aggredita come il “Margherita di Savoia“? In quale delle due città? E dove si colloca Francesco Traetta, un ragazzo mandato all’ospedale con una costola rotta, solo perché ha portato a scuola un partigiano? Chi è Francesco? Un “protetto, un “escluso o più semplicemente e drammaticamente l’idea stessa di “dialogo” ferita a tradimento nella città in cui Rossi Doria offre al fascismo la legittimità che la Costituzione gli nega?
Lo so. Siamo tutti contro il revisionismo e tutti democratici. Di democrazia si riempie la bocca chiunque ne ha bisogno per non sai quali scopi. Ne parla spesso persino Berlusconi. Difficile è capire come si fa ad essere davvero democratici e ancora più difficile saper dire verità impopolari, nel nome e per conto della democrazia. Se la smettessimo di fare delle parole un’arma impropria, per sostenere tesi avventate e demagogiche, se cercassimo soluzioni reali e leali a problemi nelle cui pieghe si cela l’agguato di Francesco, se la piantassimo finalmente di andare per la tangente e cercare l’applauso, diremmo che il ragazzo è una vittima e non ci sfiorerebbe nemmeno il pensiero che a dirlo si può spingere all’odio.
Se Francesco è una vittima, è chiaro che ci sono dei carnefici e non so per quale singolare follia dovremmo mettere insieme il giovane antifascista e chi l’ha massacrato. La dico tutta e fuori dai denti, perché mi pare chiaro che la questione riguardi, a questo punto, il senso stesso della convivenza civile. Con la storiella comoda e strumentale degli steccati da saltare, si fa di ogni erba un fascio e si protegge oggettivamente gente che predica da sempre la violenza. A me non importa da che parte venga e di che colore sia. Nella risibile società degli esclusi e dei protetti, il confine che separa chi colpisce da chi è colpito dev’essere visibile e ben definito. E non c’è dubbio, la domanda è una: per saltare non so bene quali suoi steccati, chi sosterrebbe a cuor leggero che, per risolvere il caso Saviano, il sindaco dovrebbe mettersi a un tavolo e fare da mediatore tra il giovane scrittore e i casalesi?
E torno a Napoli. Sempre più sventurata, devo dire. La guardo sconcertato, così come mi viene dipinta, e non la riconosco. Mi ci perdo. Una sola divisione: esclusi e protetti. I confini, tirati con la squadra e con la riga, sono incomprensibili e irreali, ma il quadro è suggestivo: due città che non si parlano e quasi non si conoscono. Ma quali città? E di che mondo parliamo? Se solo ti guardi attorno attentamente, il conto non ti torna. Nello stesso quartiere, nello stesso vicolo,Immag004 spesso nella stessa famiglia, c’è tutta la complessità della vita. La gente parla e non c’è mai silenzio. La gente si incontra, si scontra, tratta, contratta, si conosce e trova modo di riconoscersi. Non ci sono due città, esiste solo un insieme di diversità, un’articolata molteplicità e la realtà non è riconducibile a una sorta di inverosimile binomio. Napoli è una metropoli che si legge a “strati” e non puoi chiuderla nell’antico stereotipo della città borbonica quasi per vocazione. Certo, se la guardi in superficie, ci trovi l’eterno malcostume politico e il ricatto clientelare che invischiano tutti i ceti nell’ideologia subalterna d’un popolo quasi indifferenziato. Ma se ti fermi a guardare, se stai per strada e vivi tra la gente, scopri che la salute è sorprendente, ti accorgi che la vita pulsa, che le tensioni sociali non erompono più fatalmente in protesta plebea e non soffocano malamente in un rigurgito sanfedista. Se vai più a fondo, e devi saperci andare, immediato giunge l’impatto con la borghesia e, se vuoi capire Napoli, tu devi farci i conti. Non puoi fermarti a Viviani e nemmeno conoscere solo Eduardo De Filippo. Il mondo cambia e, se tu non lo vedi, inganni te stesso o, peggio ancora, stai ingannando gli altri. Dov’è questa nuova “Berlino” col suo muro e i protetti da un lato, gli esclusi dall’altro? A meno di non esser ciechi – questo forse è il problema – la città è un inestricabile intreccio. Assieme all’economia del vicolo e a nuclei di plebe, per i quali il tempo non passa, la maturità non giunge, la coscienza civile non si forma, trovi una borghesia articolata che guarda in alto, ma ha frange che si proletarizzano; trovi, se guardi, un proletariato che ha avuto una gran storia. Gente che ha ancora un’anima e resiste al richiamo del vicolo, portandosi dentro l’identità di classe, sebbene sia ormai perennemente terrorizzata dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione e appaia piegata sotto i colpi di un’offensiva padronale così disgregante, che non ha precedenti nella storia della repubblica. E non basta. Quanto di militanza giovanile non sanno più raccogliere i partiti storici dei lavoratori, vive nei centri sociali “rossi“. Solo in quelli, perché centri sociali la destra non ne ha. Quale che possa essere la parte politica, nessuno onestamente può negarlo: nonostante limiti e insufficienze, negli ultimi anni questi ragazzi hanno costruito forme di democrazia “dal basso” che meritano rispetto. Sono stati protagonisti di una battaglia coraggiosa, civilissima e non ancora del tutto conclusa, quando la città è diventata un’enorme e vergognosa discarica a cielo aperto e hanno marciato con padre Zanottelli002 6 febbraio 2009 Chiaiano Intervista a Zanottelli; svolgono ruoli attivi e propositivi nei “Comitati di quartiere” e nelle rare iniziative in cui la città mostra di essere ancora politicamente e socialmente viva. Chi li ha visti all’opera a Bagnoli, accanto a genitori, insegnanti e bambini in lotta per la scuola nella lunga ed esemplare vicenda del “Madonna Assunta“, chi li vede impegnati a fianco agli immigrati, chi ha la fortuna di stare con loro nelle assemblee universitarie e nelle manifestazioni in piazza, non può che togliersi il cappello. Ci sono limiti, errori e contraddizioni e sarebbe strano che non fosse così, ma c’è una passione civile che non è facile trovare.
La democrazia è partecipazione e Rossi Doria in piazza non si vede mai, ma lo ricordo negli anni della giovinezza, quando tutti eravamo autonomi e rivoluzionari. Il suo “potere” era allora tutto operaio. Non so di dove tragga fuori i suoi giudizi e i malaccorti e velenosi suggerimenti che regala al sindaco Iervolino. So che questo suo insistere nel paragonare i ragazzi dei centri sociali agli squadristi che hanno massacrato di botte Francesco Traetta, un loro compagno, uno di loro, non è solo una bestemmia. Somiglia molto a una sorta di provocazione, a qualcosa che sta la speranza e l’istigazione che mi auguro inconsapevole. Che si vuole davvero: evitare o scatenare la rissa? Protetti o esclusi: non sta in cielo né in terra. Tutto nasce semplicemente da una micidiale distorsione dei fatti? Può darsi. Ma questo è davvero il revisionismo. E sono sinceramente preoccupato.

Uscito su “Fuoriregistro” il 12 ottobre 2009, su “Report on Line” il 13 ottobre 2009 e su “il Manifesto” il 15 ottobre 2009.

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Fino a novembre del 1960 antifascismo e Resistenza non entrarono a scuola. Per “defascistizzare” l’insegnamento della storia, all’indomani del 25 luglio del 1943, Badoglio fermò il mondo al 1919, ma i fascisti rimasero in cattedra e gli “scienziati” che avevano firmato il “Manifesto della razza” andarono in pensione all’alba del Sessantotto.
Ci educammo all’idealismo crociano, usammo testi voluti da Gentile e Bottai e, mentre i preti scomunicavano i comunisti, facemmo catechismo. Su Gramsci e sulla dignità politica della storia delle classi subalterne, silenzio di tomba. Se trovammo in famiglia qualcuno che raccontasse, ci evitammo i palpiti neofascisti per “l’Istria italiana” e andò bene a chi, nel ’59, ascoltò le lezioni tenute da storici militanti: scoprì che Giorgio Almirante, maestro di Gianfranco Fini, che alla televisione sputava veleno sulla Resistenza, era stato a Salò con Mussolini e aveva messo a morte partigiani catturati.
Oggi, con singolare improntitudine, gli storici “moderati” accusano la sinistra di aver fatto un “uso politico” della storia e assolvono la DC che difese Badoglio e la regola fascista. In realtà, fosse andata diversamente, nel 1960 Tambroni sarebbe passato, la Resistenza chissà quando sarebbe entrata nelle aule e in piazza non sarebbe sceso, valore fondante della repubblica, un antifascismo giovane e inatteso, cresciuto per vie semiclandestine nei discorsi coi vecchi militanti o alla scuola di docenti impavidi e dimenticati, come Mario Benvenuto e Giuseppe Grizzuti, prematuramente scomparsi, e Errico Tecce che, se lo incontri, ancora è maestro.
Cestinammo così Morghen e Barbadoro che, superato il fatidico ’19, scusavano la ferocia d’Etiopia col “naturale sfogo della pressione demografica” e, senza dirci chi uccise Matteotti, ci parlavano d’un paese che nel 1924 aveva “confermato la fiducia a Mussolini“. Ci volle tempo, ma infine cogliemmo il nesso ideale tra lotta partigiana, repubblica e Costituzione, nell’Europa sorta in armi per la democrazia. Quella democrazia – qui è il presente, qui penso a Veltroni e soci – che muore senza la centralità del lavoro, la pari dignità di uomini e popoli diversi tra loro per religione e razza, la laicità dello Stato, il ripudio della guerra e istituzioni che assicurino formazione ai giovani e decoro agli anziani.
Dal 1960 è trascorsa una vita. Abbiamo visto Gorbaciov fallire, il muro di Berlino cadere, l’Urss cedere sotto il peso delle sue contraddizioni e il capitale vittorioso dettare le sue atroci condizioni. Una rivoluzione tecnologica di dimensioni epocali sconvolge rapporti economici e modi di produzione, scuote alla base le relazioni sociali e spegne gli ideali in nome di un pragmatismo intriso d’opportunismo.
Tutto è in moto, tutto muta sotto i nostri occhi: costumi, mentalità, sistema di valori, modo di pensare e vivere la politica. In una sorta di caos primigenio, l’antifascismo, che solo avrebbe potuto unire forze di progresso, è ridotto a icona da una sinistra incapace di fare i conti con una storia che l’ha vista garante della legalità repubblicana contro la destra eversiva e stragista. Un revisionismo dai tratti eversivi mira a delegittimare l’etica della Resistenza, per tagliare alla radice i legami tra cultura storica e pratica politica della sinistra e colpire la Costituzione: si equipara il fascismo all’antifascismo e la Resistenza – dal cui seno nasce l’idea di un’Europa unita – è ridotta ad una sporca guerra civile, una rissa paesana in cui la conta dei morti decide le ragioni e i torti. Fascisti in doppiopetto riesumano un anticomunismo da guerra fredda in sintonia con Veltroni che, novello Saulo folgorato sulla via di Damasco, dopo una vita vissuta nel PCI, mette insieme Hitler e Berlinguer e racconta a se stesso di avere trascorsi nazisti. Nel mirino non è l’antifascismo, ma l’ethos politico di cui vive la repubblica: libertà, pace, giustizia, i valori che il fascismo negò scegliendo la vergogna. Dietro l’azienda Italia, per dirla con Arfè, cui la morte ha evitato l’estrema ingiuria, si cela l’ombra di “un moderno fascismo, di un paese di cittadini senza storia le cui intelligenze e le cui coscienze siano plasmabili e governabili con le tecniche della comunicazione di massa, proni al culto del mercato, incatenati all’economia dello sperpero, membri di una società […] sempre più sazia e sempre più disperata” .
Ho vissuto da giovane in un paese che rifondava faticosamente se stesso, aprendosi alla democrazia. Una stagione irripetibile. Uomini e partiti della sinistra hanno pesantissime responsabilità per questa crisi prolungata che appare quasi un’agonia. Tuttavia, non c’è scelta: è la Costituzione il terreno dello scontro decisivo. Difendendo le ragioni della Resistenza, difenderemo le generazioni venture che ci domandano un mondo migliore di quello che trovammo da giovani. Non ce la faremo, lo so: la vicenda umana non è solo progresso e ai giovani chiederemo scusa. La storia però non fa sconti: ci condannerà se non sapremo difendere almeno la loro libertà nelle scelte future.

Uscito su Fuoriregistro il 14 dicembre 2007

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