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Posts Tagged ‘capitalismo’

Leggo da più parti – e spesso sono firme autorevoli – dichiarazioni cupe che trasformano uno stato d’animo comprensibilmente timoroso, in un dato di fatto: la democrazia è morta, si dice e si ripete con crescente insistenza.
L’affermazione è così convinta, da assumere quasi i contorni plastici della realtà e diventare una sorta di manifesto funebre, listato a lutto e scritto con lettere color pece. La democrazia è morta e – come accade in questi casi – il passato diventa bello. E’ un’ipocrita convenzione che, forse sotto i colpi del virus, rischiamo di introdurre anche nella valutazione politica: dopo morti, sui manifesti che ci ricordano, diventiamo tutti mariti fedeli, donne pie, padri, madri, nonne e nonni esemplari. Non sempre è vero, ma nessuno osa contestare.
Intendiamoci, non sto dicendo che di questi tempi ci sia da stare allegri e festeggiare, però, lasciatemelo dire, se quella che di questi tempi chiamiamo democrazia fosse morta davvero, non avremmo certo perso un paradiso terrestre.
Mai come oggi, comunque, è meglio stare ai fatti. E i fatti dicono che la pandemia ha ucciso migliaia di persone e qualche simulacro di diritto. La democrazia, invece, quella che aveva un senso e pareva tutela, l’abbiamo persa che ormai sono decenni, ma ci ha lasciato in eredità una Costituzione ferita che sopravvive però all’attacco feroce del neoliberismo.
E sono proprio i pochi spazi che essa riesce ancora a garantite a tenere testa validamente agli attacchi portati dal Coronavirus, utilizzato come foglia di fico del potere. In ogni caso, se guardiamo ai fatti con la dovuta freddezza, la situazione, da un punto di vista politico, non è più disperante di quella che viviamo ormai da anni. Se qualcosa di cambiato anzi emerge davvero, è che il malato più grave, il morto che parla oggi è il capitalismo. Dalle mie parti si dice che, quando mette le ali una formica è destinata a morire. E’ andata così anche col capitalismo. Negli ultimi anni l’abbiamo visto vincere e volare, poi è precipitato giù come una formica e più i giorni passano, più lo vediamo contorcersi negli spasimi dell’agonia. Certo, i medici sono costantemente al suo capezzale, le provano tutte, ma pare proprio che non sappiano più a che santo votarsi.
Intanto attorno ai diritti si combatte disperatamente, ma i segnali che vengono dal fronte non sono affatto negativi. Dopo tempo immemorabile, per esempio, scioperi spontanei di lavoratori hanno costretto i padroni alla resa. Non è cosa da poco, così come non va trascurata la consapevolezza di larghi strati popolari, ai quali il virus ha mostrato coi fatti le promesse tradite e la Sanità distrutta. Mai come in questi giorni, davanti a occhi sempre più aperti e disgustati, il re non solo è nudo, ma debole, incerto e impaurito.
Pendiamone atto: questo non è tempo di dettare necrologi. A chi è stanco di subire tocca organizzare la lotta. Dopo trenta e più anni di sconfitte, la pandemia ha svelato d’un tratto al popolo indignato la ferocia di un sistema assassino e la gente ora lo sa: le sofferenze che viviamo hanno un nome e mostrano un bersaglio da colpire: capitalismo e classi dirigenti.
Recuperiamo i nostri valori e ricaviamone armi, senza farci prendere da facili entusiasmi e senza cedere a ingiustificati timori. Facciamolo. Tutto quello che accade conduce a una conclusione: di fronte al popolo stanco di tradimenti abbiamo un gigante dai piedi di creta.

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Chiusa in casa la gente, lasciata mano libera ai padroni, data la precedenza al mercato e al profitto, è cominciata la strage.
Quando sono comparsi i primi segnali di stanchezza e d’insofferenza, si sono messi in campo l’esercito e un messaggio chiaro: fate i buoni e badate a voi stessi perché se non vi ammazza il virus, ci pensa il fucile.
Poiché, però, si continua a morire e non solo di virus, ma anche di fame, lo scontro sui diritti, è diventato scontro di classe e quando nelle fabbriche gli operai hanno incrociato le braccia, la risposta è giunta immediata: vietato scioperare.
Ieri in alcune città s’è vista gente fare la sua “spesa proletaria”: prendo e non pago, se mangi tu, voglio mangiare anch’io!
Il virus – l’imprevisto incidente di percorso – non ha trovato gli ospedali impreparati per caso. E’ accaduto perché sulla salute per anni si sono fatti affari da non credere. Più gente uccide, più il virus mette e nudo un’atroce realtà: è il capitalismo che ci sta uccidendo. Dopo la caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto regalarci un paradiso terrestre e invece ci ha portato un inferno.
Come tante volte nella storia, dietro la rabbia momentaneamente muta spuntano minacciosi i primi segni di un conflitto sociale vasto e dagli esiti imprevedibili. Chi, di fronte alla morte di tanta povera, gente continua a parlare dei milioni che perde, non ha capito che gli resta ancora un po’ di tempo per cambiare sistema e trattare la pace. Se cercherà la guerra, come ha fatto finora, quando l’epidemia sarà passata, dovrà fare di corsa le valigie. Quando quel giorno verrà, gli andrà bene davvero se porterà la pelle a casa.

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www.el pergamino.org

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Mi dicono di un nuovo suicidio e nell’inevitabile dolore tutto pare più chiaro. Quando piangi i tuoi morti, non è difficile capire che stai combattendo una guerra. Purtroppo è così: siamo in guerra. In gergo militare si direbbe che ci stiamo difendendo da una proditoria aggressione. Inutile girarci intorno, di questo si tratta: di una difesa estrema, di una lotta “pro aris et focis” contro un’aggressione che non riguarda più solo la scuola o la formazione, ma la civiltà minacciata dalla barbarie.
C’è un disegno feroce del capitalismo che si mostra sempre più chiaro nei tratti nazisti: almeno metà della popolazione mondiale è un intralcio per le logiche del profitto. Lo stato sociale ha dei costi e pagare per la sopravvivenza dei poveri non è un “investimento produttivo”. Meglio, molto meglio, lasciarli morire. Dai milioni di “bambini di strada” esposti al tiro micidiale degli squadroni della morte”, agli immigrati che quotidianamente affogano nel Mediterraneo, alla Grecia martoriata dalla mortalità infantile, alla nuova schiavitù, tutto dimostra che l’esperimento hitleriano fu poca cosa, rispetto al macello programmato che si sta realizzando sotto i nostri occhi.
Ci stanno massacrando e i morti non si contano più. Abbiamo subito, subiamo e subiremo perdite atroci, ci sono stati, ci sono e ci saranno compagni lasciati per strada, che portiamo nel cuore. Prendiamone atto: o affrontiamo la guerra, rispondiamo colpo su colpo, con tutti i mezzi e le armi possibili e sconfiggiamo il nazismo che si cela dietro l’etichetta di neoliberismo, o ci faranno a pezzi senza nessuna pietà.

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Undici anni fa, il 25 aprile del 2003, Pintor consegnò al «Manifesto» il suo inconsapevole addio: «La sinistra italiana rappresentativa», annotò, è ormai «fuori scena». Parole su cui conviene tornare, perché il qualunquismo di pintor1 perché il qualunquismo di Renzi non trovi nuove bandiere, dopo quella di Bobbio. Sebbene amaro – «sono stanco di questo deserto disseminato di rovine», scrisse in quei giorni ad Arfè – Pintor era lucidissimo. La sinistra, diceva, è ormai subalterna «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno».
Quell’aggettivo – «rappresentativa» – non era lì per caso e parlava chiaro al lettore: la gente di sinistra c’è. Esistono lotte, modi di «essere classe» e di averne coscienza a seconda del livello dello sfruttamento, dei bisogni, dei diritti difesi e di quelli che si prova a conquistare. Tutto questo c’è. Manca chi lo rappresenti, chi strutturi in legami duraturi la solidarietà nata sul campo, saldi i gruppi che lottano, inserendoli in un comune sentire culturale e ideologico. Mancano organismi che tentino di costruire analisi del capitale moderno e delle classi, che non rinneghino il conflitto e tengano in unità dialettica l’esistente e ciò che lo supera, nascendo nelle lotte e ricavandone la lezione.
Di fronte ai mutamenti e alle brusche accelerazioni della storia, hanno prevalso i limiti dei partiti e la fragilità, che nei movimenti supera la vitalità, sicché, pur avendo nel Dna una storia di conflitti, la sinistra organizzata ha smarrito l’idea del conflitto. E non si tratta solo di muri crollati e tradimenti di «chierici» Se per «rappresentativa» s’intende la sinistra che vive solo di lotte elettorali, allora sì, allora la subalternità alla destra è nei fatti e c’è una sinistra morta davvero. Al contrario, quella che Pintor definì «area senza confini», che «non deve vincere domani ma operare ogni giorno» per «reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste», quell’area non è all’anno zero. Nei lavoratori, nei precari e nei disoccupati, vive il senso dello sfruttamento, è forte il bisogno di giustizia sociale, l’ansia del riscatto e il coraggio di lottare per migliorare le atroci condizioni materiali di esistenza. La sconfitta di un modo di essere sinistra non impedirà, quindi, che una esperienza di conflitto maturi, come esito di una fase storica; l’esperienza della lotta si forma e sale sul palcoscenico della storia senza mediazione istituzionale, senza bisogno di farsi teoria, perché il conflitto ha in sé forme di «riflessione» genuine e spesso «liberatorie». Una organizzazione è necessaria, certo, ma abbiamo imparato che, strutturata in un partito «classico», tende, per sua natura, a Immagine«istituzionalizzare» l’esperienza nuova e, come tale, a frenarla. Sappiamo – un lungo processo storico ce l’ha insegnato – che la lotta di classe crea «democrazia», sa darle forme anche avanzate rispetto all’esistente e, nel fuoco del conflitto, definisce diritti. Spesso, però, nel momento stesso in cui li conquistiamo, i diritti, e ce li riconoscono, essi sono «istituzionalizzati» e talora svuotati. E’ una contraddizione che talora ci sfugge, ma dà senso alle parole di Pintor.
Bisognerà tornare a riflettere sul contrasto riforme-rivoluzione, tipico di due anime della sinistra e di due concezioni del partito: quello che «sta nelle istituzioni» e tende a inserire l’esperienza delle lotte in uno stritolante «meccanismo di governo», e quello che non si «istituzionalizza», non intende vivere per sé, ma come servizio permanente alla lotta. Questo c’è nella nostra storia, non è stato sufficiente a evitare sconfitte, ma esiste. Quando ha elaborato modelli alternativi a quelli offerti dal potere – non solo i «soviet», ma anche i «consigli» di gramsciana memoria – la sinistra è stata viva e forte. Col crollo del muro, s’è arresa e non ha più provato a dare risposta a una domanda cruciale: non cosa cambiare o come farlo, ma come rifare ciò che non va dopo aver «rivoluzionato» il sistema, per evitare di tornare indietro. In questo senso, l’esito della lotta per la scuola, l’università e la formazione, che nel ’68 non voleva essere solo scuola pubblica per tutti, come si fa credere, è molto significativo. Centrali erano allora contenuti e modi di un sapere autoritario. Scuola di massa e liberalizzazione dei piani di studi erano solo tappe, ma il formulario teorico messo in campo dalle organizzazioni politiche e sindacali, quando si trattò di realizzare in concreto il nuovo modello di democrazia, lo svuotò di contenuti, lo cristallizzò in un «diritto» – il «diritto allo studio» – che pareva bastare a se stesso, mentre si puntava a quel «sapere critico», in grado di modificare davvero il rapporto tra educazione e società. Si sa com’è finita.
E’ paradossale, ma il capitale oggi conosce meglio delle nostre organizzazioni la realtà delle classi subalterne, che disgrega perché si diano prigioniere delle istituzioni dello Stato borghese. La sinistra non è più rappresentativa perché mira ad acquisire «cultura di governo» e disegna i suoi organismi sulla falsariga dello Stato, contrastando le spinte all’autogoverno che emergono sempre più chiare dalla società. La Valsusa insegna. Questo è il confine smarrito. Sia pure come linea di tendenza, infatti, quale che sia la teoria, Bakunin, Marx o Lenin, l’obiettivo della «rivoluzione sociale» è lo Stato. Ben venga allora Tsipras, a patto, però, che smascheri Renzi e non lasci margini ai dubbi: non è colpa nostra se l’euro e l’Europa, così com’è strutturata, sono armi in mano al capitale e non ci basta «muoverci» per distinguerci dalla destra. Per noi il confine c’è ed è invalicabile: quello tra sfruttatori e sfruttati.
Noi lottiamo per un mondo senza padroni.

Uscito su Liberazione.it il 6 marzo del 2014

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Bisogna aggiornarsi e smetterla di lamentarsi di Giorgio Napolitano, rischiando di apparire così degli analfabeti della Costituzione! La moderna cultura costituzionale, infatti, prevede la duplice elezione del presidente della repubblica da parte di un Parlamento di nominati, dopo elezioni svolte con una legge incostituzionale. 992836_682697815090376_1468825722_n[1] A questo Parlamento – una sorta di Circo Barnum della politica – il nostro costituzionalissimo Presidente ha tutto il diritto di imporre il voto di fiducia a un’indecente governo di “larghe intese”, dopo una campagna elettorale in cui i partiti avevano chiesto il voto agli elettori, promettendo che avrebbero fatto tutto, tranne che un governo di “larghe intese”.
Secondo la nuova cultura costituzionale, la legalità repubblicana consente al bipresidente della Repubblica di chiedere con insistenza a un Parlamento illegittimo – sarebbe più appropriato chiamarlo Camera dei Fasci e delle Corporazioni – una riforma della Costituzione che non tenga conto del suo articolo 138. E’ un suo indiscutibile diritto.  Se errore c’è stato –  riconosciamolo, infine! – lo commise l’Assemblea Costituente, quando scelse una Costituzione “rigida”, che non lasciava mano libera al capitalismo e alla reazione di classe.
Napolitano, depositario della più avanzata e moderna cultura costituzionale, ha solo posto rimedio a un antico errore e ha deciso che la Costituzione preveda la duplice elezione del presidente della repubblica da parte di un Parlamento di nominati, dopo elezioni svolte con una legge incostituzionale.
Bisogna aggiornarsi e smetterla di lamentarsi. E’ il momento di applaudire: “Viva Giorgio Napolitano, viva l’Italia, viva l’Europa delle banche, viva lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo!

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20130605_48315_sindaco_terni_manganellato_2[2]Un filmato per chiarirsi le idee, poi due parole di commento per provare a spiegarsi. E’ una cantilena: protesta sì, violenza no. Non c’è giorno e non manca occasione per ribadirlo: è giusto protestare, ma la violenza è proprio inaccettabile. Il sindaco di Terni, però, che è un noto e pericoloso sovversivo, questa litania non l’ha ancora imparata e dopo che la polizia gli ha giustamente rotto la testa a manganellate, continua a farneticare di partigiani in lotta per difendere le fabbriche dai nazifascisti. Un vero e proprio provocatore, uno che finge di non sapere, ciò che ormai si insegna in tutte le scuole d’Italia: con la pacificazione di Letta e Alfano al Ministero dell’Interno, caro sindaco, i partigiani sono tornati comunisti e volgari banditi o, se preferisce, banditen, come sostenevano, non senza fondati motivi legali, Kesserling e i suoi camerati, gli eroici generali tedeschi tornati anche loro, nonostante Auschwitz, a ruoli internazionali. Qualcuno storcerà il naso, ma bisogna dirlo: la legalità è molto spesso un’infamia e non coincide quasi mai con la giustizia sociale.
Il sindaco di Terni dovrebbe saperlo: a parole l’Italia “democratica” fa la lezioncina al premier Erdoğan, nei fatti, da anni, i nostri governi sono più turchi dei governi turchi. Basta guardare le cifre dei morti di polizia, di stragi e di servizi geneticamente “deviati” per rendersene conto. Per troppo tempo abbiamo consentito, per troppo tempo sperato in una impossibile svolta pacifica. E’ in atto una guerra barbara che non riconosce accordi, non rispetta trattati, non fa prigionieri. L’ha scatenata un capitalismo che non conosce regole e lotta per la religione del profitto. Una guerra santa per instaurare un totalitarismo che non ha precedenti nella storia del pianeta. Più tempo gli diamo, più difficile sarà affrontarlo.

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Confesso il mio peccato: torno spesso alle antiche letture. Gli anni, la formazione, il tipo di cultura, le scorie fatali della militanza hanno finito per collocarmi in quella sorte di “prigione” che molti, non senza disprezzo, definiscono “ideologia” e una sparuta pattuglia di sopravvissuti ritiene sia coerenza tra un sistema di valori, alcuni strumenti di analisi e scelte di vita che coincidono con opinioni politiche. Questa sorta di confessata sclerosi spiega probabilmente la diffidenza stupita per la fiduciosa ricerca del futuro del sistema formativo negli impegni strappati ai candidati e nella cartastraccia che diventano in genere programmi elettorali.
In un’ormai lontana introduzione a un ancor più lontano studio economico di Pietro Grifone, Vittorio Foa, tornava addirittura a Bucharin per individuare nella “simbiosi del capitale bancario con quello industriale” l’essenza della finanza e ricordava un insegnamento di Lenin che non è stato mai attuale come oggi: è impossibile modificare la natura necessariamente aggressiva e socialmente ingiusta del capitalismo, ripulendolo e dandogli una mano di vernice democratica. Il capitale in crisi non lascia sopravvivere diritti. Si studia, studiano i figli delle classi subalterne, nelle fasi di espansione, nei momenti di crescita economica o quando, comunque, i margini di profitto chiedono pace sociale e un fantoccio di democrazia. E’ questione di accumulazione, ma anche di “gerarchie sociali“. La borghesia è nata da una rivoluzione vittoriosa, conosce perfettamente i meccanismi della storia e sa che probabilmente la riforma della scuola e dell’università costò l’Impero agli zar, perché produsse il personale politico del populismo russo e condusse all’ottobre rosso.
Di tutto questo non si parla, mentre il voto è imminente. Va di moda invece una bestemmia: l’offerta elettorale. Un modo per dire che il voto è sul mercato. Offerta. Te lo ripetono con arroganza liberista, mentre si spara a raffica sulla scuola di ogni ordine e grado, mentre si precarizza e si umilia il personale docente e ai giovani si lasciano briciole di istruzione che preannunciano l’avviamento al lavoro. Di educazione nel senso socratico del termine – quella che bada all’intelligenza critica e all’utonomia del pensiero – non parla più nessuno; Socrate non rientra nell’offerta elettorale. Ormai il linguaggio è così drammaticamente deformato, che “aprire” un discorso politico appare un non senso e non si trovano più le parole per porsi domande elementari. Tra Monti e Bersani, col codazzo di forze minori pronte a “dialogare“, quali diversi modelli sociali, quale concezione dei rapporti tra le classi e quale Stato? Per quanti sforzi tu faccia per capire, la sola differenza che cogli è veramente desolante. La banda dei tecnocrati propende per condizioni di predominio del capitale finanziario, senza mediazioni liberal-democratiche di stampo giolittiano, senza “idilli turatiani”, se parlando di Fassina o Vendola, si può scomodare Turati. Un’idea di destra elitaria, con quel che ne consegue in termini di autoritarismo, trasparenza e decisioni prese in modo anonimo nell’ombra impenetrabile di consigli d’amministrazione e controlli di banche alle banche. Un modello sociale che lascia impunito Montepaschi, conduce in Mali e produce F35. In quanto ai “politici”, ecco l’altro volto del capitale, quello più o meno industriale, in cui l’autorità diventa giocoforza azienda – il “sistema Italia” – e “comanda“, come i padroni del vapore che si son “fatti da sé” e possono sfidare le regole in nome dell’efficienza e della produttività. Una “democrazia autoritaria“, che pareva contraddizione in termini e s’è vista all’opera in un esordio nemmeno balbettante, mentre apriva coni d’ombra di natura diversa, senza evitarci la Libia, il Mali e gli F35.
A ben vedere, la borghesia, divisa, sperimenta percorsi differenti ma non lontani tra loro. Per dirla con Gramsci, è al bivio di un nuovo experimentum crucis: non sa dove andare, ma non vuole star ferma e si compatterà. Anche i lavoratori sono a un bivio cruciale: avanti così non si andrà a lungo. Occorre qualcosa che non sia “offerta“, qualcosa che sia analisi e discussione e provenga dal basso. Parole nette se ne sono dette: niente Mali, niente F35, nessun dialogo con le due destre. Si potrebbe firmare una cambiale in bianco, se un abbozzo di riflessione nei giorni che abbiamo davanti, per carità di patria e onestà intellettuale, consentisse di trasformare il generico e insufficiente appello a una “legalità” tutta “giudiziaria“, in una schietta categoria di sinistra: giustizia sociale. Allora sì che scuola e università sarebbero al sicuro. E con esse l’insieme delle conquiste che hanno fatto la nostra storia migliore.

Uscito su “Fuoriregistro” il 13 febbraio 2013  

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Quando, in nome della libertà, il giovane Jan Palach si consegnò alla storia dei martiri, dandosi alle fiamme in Piazza San Venceslao, nella Praga insofferente al giogo sovietico, come una sola voce  la stampa dell’Occidente democratico e libero si scatenò in un’apologia dell’eroico suicida. Nel silenzio della stampa del mondo sovietico, ovunque strade, città e paesi presero nome da lui e tra i cattolici non mancarono i teologi che opportunamente lessero nel pensiero di dio la favorevole disposizione al suicidio, quando un uomo vi giunge in nome di un bene supremo quanto la vita. Mai morte atroce, in realtà, sembrò più utile ai cantori dell’eden capitalista e persino nei petti critici dei giovani che, qui da noi, prendevano le distanze dall’Unione Sovietica, senza lasciarsi incantare dalle sirene del libero mercato, un terremoto d’emozioni offuscò per un istante la consapevolezza dell’inganno. Me ne ricordo tanti vacillare e quanta strada avrebbe poi fatto la menzogna delle patrie del diritto e della superiorità dell’antico continente, l’ho poi visto negli anni a venire, di fronte alle facili conversioni, ai repentini mutamenti, alle carriere abbracciate con i proventi e gli onori che avevamo profondamente disprezzato. Oggi, tra le file della nostra stampa di regime, nei corridoi ovattati dei potenti network televisioni, che ogni giorno ingannano lettori e ascoltatori, i nomi di comunisti d’accatto, rivoluzionari da burletta ed estremisti sdegnosi di agi borghesi, fanno bella mostra di sé nell’organigramma che conta.

In questi giorni, in nome del diritto al lavoro e alla dignità, che sono alla radice di ogni libertà, s’è dato alle fiamme davanti al Parlamento Angelo Di Carlo. Rispondendo al comando di un macellaio di gran lunga più feroce dei peggiori  dittatori, quel capitalismo che non firma le sue stragi, ma ha perso il conto di eccidi, genocidi ed etnocidi, gli opulenti libertari del ‘69, hanno saputo tacere. S’è rovesciato il quadro: ha praticamente taciuto la nostra stampa. Detto e non detto. Non era facile, davvero, ma non mi meraviglia. Stupirei me stesso, invece, questo sì, se me ne stessi zitto anch’io, ma non accadrà. No, io ve lo dirò chiaramente: voi, compagni d’un tempo, mi fate veramente schifo.

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Riconosco ch’è la via giusta e occorrerà percorrerla fino in fondo, ma confesso: non è facile trovar risposte alla domanda stringente di Rossanda sul che fare. Forse ha ragione Pierluigi Sullo che, in qualche modo, giorni fa, sembrava indicare un metodo e una questione “propedeutica”; non credo che Monti e soci siano “sapienti, ma stupidi” –  la sapienza dov’è? – ma mi pare vero: non sapremo che fare, se prima non capiremo chi sono. Abbiamo di fronte un volto degenerato del potere, c’è da precisarne i lineamenti, definendone la natura prima che la funzione, separando, in questa crisi del capitalismo, il dato fisiologico da quello patologico. Se ritenessimo Passera e Fornero espressioni genuine di un processo “ortodosso” di “evoluzione” da Smith a Friedman, finiremmo fatalmente impantanati in un’analisi senza vie d’uscita. La loro presenza politica alla testa d’un governo di non eletti, in un Parlamento di nominati, apre in realtà un’enorme falla nel tessuto connettivo della repubblica, una falla che mette a rischio in primo luogo il rapporto tra capitalismo e accezione borghese della parola democrazia. In questo senso, il “pensiero fisso”, di cui scrive Sullo è la prova lampante di un “avvitamento” del capitalismo attorno alla sua più evidente contraddizione e porta in luce meridiana il tragico fallimento di un sistema economico e politico che nella sua formulazione teorica vive di “libero mercato” e nella sua realizzazione pratica non può sopravvivere senza la protezione di privilegi statali. Un fallimento che mostra chiaramente l’errore di una sinistra che ha finito col vedere nel capitalismo ruoli di rappresentanza della civiltà dell’Occidente.

Così stando le cose, Monti e la paccottiglia che lo sostiene in un Parlamento del tutto privo di legittimità, incarnano l’età di un pensiero degenerato in fanatismo, un “feticcio delirante”, che nessuno potrebbe incarnare meglio dell’autoreferenzialità dell’accademia. Fuor di metafora, Monti è la versione italiana d’un fenomeno europeo: la stato comatoso della democrazia borghese e di “tecnico” ha solo il metodo. I contenuti segnano il ritorno aperto a una cieca politica di classe. Crispi, piuttosto che Giolitti e, non a caso, la sintonia con la Germania “prussiana” di Angela Merkell.

Il fanatismo”, scrive Voltaire con la consueta lucidità – “sta alla superstizione, come la convulsione alla febbre e la rabbia alla collera”; visto in questa luce, più che a un programma di governo, noi ci troviamo di fronte alla visione estatica di una pattuglia di credenti, mossi da una  verità di fede. La struttura del ragionamento è quella d’un periodo fondato su a una “proposizione principale” – le esigenze del profitto sono il motore della storia – e attorno una rete di coordinate e subordinate depennabili: l’uomo, i bisogni, i diritti. In questo senso, il che fare di Rossanda si apre verso più ampie esigenze e, in qualche misura si “illumina”: che rispondere a un uomo convinto che è progresso obbedire a Dio più che agli uomini e che, di conseguenza, è certo di meritare il cielo strangolandoci? Questa è la domanda. La pose l’Illuminismo e sembrava cercasse riforme.  

Storicamente, quando i popoli cadono in mano ai fanatici, il corto circuito è fatale. Per fanatismo, gli “onesti” borghesi parigini si diedero a gettare dalle finestre i loro concittadini, li scannarono e li fecero a pezzi nella notte di San Bartolomeo. Il fanatismo è la follia della storia, una sorta di civiltà dei Mongoli e non sempre se ne esce per la via dei compromessi. Strumenti ne abbiamo e c’è stato chi l’ha detto: socialismo o barbarie. L’antitesi è verificata, ma dei corni del dilemma, uno solo oggi ha una rappresentanza: la barbarie sta con Monti. Manca chi rappresenti il socialismo. Di qua forse occorre ripartire, perché se è vero ciò che scrive Rossana Rossanda e da tempo abbiamo accettato che venisse distrutto non “l’ideale di un rivoluzionamento, ma l’assai più modesto compromesso dei Trenta gloriosi”, non è meno vero che dopo Voltaire vennero Saint Just e Robespierre. Fu forse partenogenesi, ma si vide la storia voltare di pagina.

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Invano ci ammonisce Brecht: “Sia lode al dubbio”. Prima di lui, con l’ironia tagliente tipica di un tempo che s’apre al nuovo e volta pagina alla storia, Voltaire metteva in guardia dai rischi terribili delle “certezze”: «Quanti anni ha il vostro amico Christophe?» «Ventotto; ho visto il suo contratto di matrimonio, il suo certificato di battesimo; lo conosco fin dall’infanzia ne sono certo». […] Venti altri confermano la cosa, allorché vengo a sapere che il certificato di battesimo di Christophe, per segrete ragioni e per un intrigo singolare, è stato retrodatato. Quelli con cui avevo parlato non ne sanno ancora niente; tuttavia hanno sempre la certezza di ciò che non è».
Forse perché l’originale aveva un aspetto più alterato della copia manomessa, in quest’ambiguo e irrimediabile novembre c’è un’inflazione di certificati falsi che passano facilmente per documenti autentici della democrazia e giurano in tanti: tutto va bene, madama la marchesa. Non ci torno su per il gusto d’una polemica retrospettiva e nemmeno per la tentazione sciocca di marcare il confine e vincere poi l’inutile partita dei rimpianti, quando verrà il momento della soddisfazione amara e si ricorderà che “qualcuno, però, l’aveva detto”.
No. C’è dell’altro e non è cosa da poco. C’è che se n’è andato a casa un governo ch’era una vergogna nazionale e si saluta come vittoria della latitante democrazia parlamentare la nomina di un manipolo di sfingi, che ha la fiducia di un Parlamento di nominati, ma non ha mai presentato uno straccio di programma. C’è che siamo passati da un’inaccettabile vergogna a un tragico paradosso, e chi dubita della legalità costituzionale dell’oscura faccenda tocca un nervo scoperto.
“Imbecilli”, sibila Scalfari, brandendo la Costituzione come fosse una clava, però s’impappina e per quanto cavilli non cava un ragno dal buco. E’ vero, Monti guida un governo tenuto in piedi da una maggioranza predeterminata e questo, di per sé, non è un oltraggio allo Statuto. Un governo che avesse chiesto e ottenuto la fiducia per varare alcune norme spiegate a chiare lettere al Parlamento vivrebbe del voto di una sorta di “maggiominoranza”, ma sarebbe legittimo e pazienza per chi ha votato nero e finisce così rappresentato dal bianco. Il fatto è, però, che Monti, chiamato da Napolitano a guidare un governo tutto banche, banchieri e università private non ha mai comunicato cosa intende fare, sicché la “fiducia” s’è ridotta alla firma d’una cambiale in bianco. Non poteva essere diversamente. Il programma gliel’ha dettato la Banca Centrale Europea e Monti non poteva sottoporlo al Parlamento: sarebbe tornato a casa senza remissione di peccato, perché nessun partito è obbligato per Statuto ad avere vocazioni suicide.
Le divinazioni, i sortilegi, le ossessioni, sono stati per secoli la cosa più certa al mondo agli occhi dei popoli e il meccanismo, purtroppo funziona ancora. In un paese berlusconiano ben prima di Berlusconi, perché stupirsi se la pretesa vittoria ci abbaglia e non vediamo quanto berlusconismo c’è nella maniera in cui è caduto il suo governo? Ossessionati da Berlusconi, tutto ciò che ci è parso penoso, quando veniva dalla sua politica, ora ci va bene, perché viene da sedicenti “tecnici” e fingiamo di non sapere che da tempo ormai sono i “tecnici” a governare la politica. I “tecnici” sì, che invece lo sanno bene: la storia del capitalismo è la storia della pirateria organizzata da pochi che s’appropriano del lavoro di molti. Per anni, chi è sceso in piazza contro un governo che smantellava il sistema formativo in un paese che di formazione ha più bisogno che di pane, ha fatto i conti con i tecnici che sostenevano la Gelmini. Per anni, chi attaccava l’ispirazione apertamente reazionaria che spinge Marchionne a incunearsi nella condizione di profonda sofferenza della classe lavoratrice, per giocare con le vite, dividerle e sottometterle, s’è trovato contro i “tecnici” pronti a difendere la ferocia del capitale. Ora tutto è tornato a posto e non ci sono problemi. Monti riparte dalla riforma Gelmini, Marchionne prosegue nella sua cieca offensiva e dei conflitti d’interesse non parla più nessuno. Se t’azzardi a dubitare e non ti allinei non hai scampo: diventi un imbecille.
Christophe, intanto, se la ride. Lui l’ha capito, Voltaire ha perso la partita e i “lumi” sono spenti. E’ il sonno della ragione.

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