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Posts Tagged ‘De Gasperi’


Detesto la violenza, ma riconosco il diritto alla legittima difesa. Il governo Draghi (definito anacronisticamente «di unità nazionale») costituisce un’arrogante e violenta forzatura delle regole costituzionali. Non a caso l’unico precedente risale all’immediato dopoguerra, alla realtà d un Paese uscito battuto e distrutto dalla seconda guerra mondiale, dopo vent’anni di fascismo. Di «unità nazionale» furono il primo governo De Gasperi (formato, però, durante l’agonia delle Istituzioni monarchiche) e il secondo terzo governo De Gasperi, che unì temporaneamente partiti molto diversi tra loro, subito dopo la nascita della Repubblica.
Quella «unità» ebbe un senso, perché c’erano da fare scelte collettive legittimate da tutti i partiti che avevano combattuto il fascismo: scrivere la Costituzione – la prima dell’Italia unita – e firmare il trattato di pace. Nessuna forza politica avrebbe potuto procedere da sola e da soli non avrebbero potuto muoversi nemmeno una coalizione di forze laiche e di sinistra o un blocco di forze moderate, cattoliche e liberali. Nel maggio 1947, però, nel momento stesso in cui questi due problemi furono risolti, De Gasperi aprì la crisi di Governo da cui nacque l’esecutivo che collocò all’opposizione le forze della sinistra. Da una condizione di necessaria patologia della democrazia, si passò così al funzionamento «normale» della vita repubblicana.
Quali condizionamenti agirono sulla nuova Italia e quanto pesantemente la sua crescita ne risultò frenata, non è il tema di questa riflessione. Ciò che risulta subito evidente dalle brevi note sulla realtà che giustificò la formula dell’«unità nazionale» è, però, più che sufficiente per dimostrare quanto sia falso e strumentale il ricorso alla stessa formula per giustificare la miserabile operazione da cui nasce il governo Draghi. Un governo moralmente illegittimo, formato per lo più da figure squallide e di parte – primo tra tutti il Presidente del Consiglio dei Ministri – lontani mille miglia dai valori che animano la Costituzione e in buona parte privi della legittimazione di un voto popolare. Un governo nato da un’operazione che ricorda da vicino più i modi e le tecniche ignobili di un golpe bianco, che la nobiltà di intenti di quella «unità nazionale» che legittimò la Repubblica antifascista, la cui distruzione è il primo, concreto quanto naturalmente inconfessato obiettivo del proconsole dell’Europa neoliberista.
Gli incontri segreti e gli interessi inconfessati che si celano da tempo dietro Draghi e il suo governo, il modo in cui è nato, l’insalata russa che lo compone e ne rende impossibile un programma condiviso dai suoi ministri, aprono una pagina buia della nostra storia, ma producono anche un progressivo, crescente e spero inarrestabile bisogno di luce.
Chi ha pugnalato alla schiena il governo Conti e dichiarato guerra alla democrazia, chi ha umiliato la nobiltà della politica e ha adottato principi che segnano il confine tra civiltà e barbarie, potrebbe essere schiacciato dal peso delle sue immense responsabilità. Quando metti da parte la politica, lasci aperta solo la via della violenza. L’ultima volta che abbiamo affrontato una situazione simile a questa, la risposta popolare è stata violenta, ma giusta e necessaria. I libri di storia la ricordano con un nome sacrosanto: guerra di liberazione. Nessuno lo vorrebbe, ma da questo momento in poi chi ama la democrazia non può far altro che prepararsi a lottare. Lo deve a se stesso e a chi sacrificò la sua vita perché nascesse la repubblica che vanno distruggendo. Guerra di liberazione, quindi, feroce quanto quella che preparano i golpisti reazionari. Senza quartiere e con tutte le armi possibili.

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Rfig166Prima del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, pennivendoli, velinari, servi sciocchi e giullari di corte, hanno provato a fare la lezione agli inglesi, spiegandogli quale grave errore sarebbe stato mollare i ciarlatani golpisti targati Merkell. Sono così stupidi questi strapagati scribacchini, da non sapere che gli inglesi sono orgogliosi e non accettano lezioni non chieste. Ora che il dado è tratto, sono disperati, hanno perso la bussola e navigano a vista. Non so chi gli abbia mandato la geniale velina, ma d’improvviso hanno preso a cantare in coro: il popolo non è abbastanza maturo per decidere su argomenti molto complessi.
La paura fa 90 e ottobre è più vicino di quello che pare. Uno dice, va beh, ma la pianteranno, in fondo la storia è maestra di vita e qualcosa la insegna. E no, cari miei, non insegna un bel nulla, se gli allievi non provano a studiarla o peggio ancora, sono penne prezzolate e stupidi figli di un potere cieco.

Questa cazzata liberticida si potrebbe renderla più chiara, ma non vogliono farlo. Basterebbe fare un uso migliore e più appropriato delle parole . Diciamola meglio e prendiamone atto: il popolo non è più sovrano. De Gasperi, Pertini, Togliatti  e Calamandrei erano dei deficienti. E’ sovrana una minoranza di ladri che nessuno ha eletto. Subito dopo però prepariamoci a subirne le conseguenze. Le ghigliottine e le teste cadute a migliaia non furono colpa del popolo, ma di chi aveva deciso di decidere che il voto di una banda di cialtroni contava più di quello che decide il popolo che non sa decidere.

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download (1)Nella nostra storia ci sono anche le foibe, vicenda minore di scarso significato, che ha radici nella «grande guerra», tragedia ben più grave, in cui su seicentomila «caduti», centomila li fecero la fame e il governo, che li lasciò al loro destino, prigionieri di Germania e Austria che non potevano alimentarli. Perché? Solo perché la resa fu ritenuta diserzione. Giovanna Procacci lo ha dimostrato documenti alla mano ed è strano che il Parlamento non li ricordi e «dimentichi» i prigionieri dei tedeschi, lasciati morire di stenti a migliaia, complice Salò, perché non aderirono alla Repubblica Sociale.
Radici lontane, quindi, nate dalla rottura del fronte interventista, quando i fascisti appiopparono a Bissolati il titolo di «croato onorario» e Salvemini divenne «Slavemini». Ciò che facemmo agli slavi fu vera barbarie. Si dirà che la violenza fascista non assolve la reazione, ed è vero, però la spiega ed è questo il compito della storia. Ciò che non si spiega, invece, è la speculazione politica che usa la memoria storica delle foibe per rovesciarne il senso, processare l’antifascismo e fare dei capi della Resistenza i protagonisti di una «congiura del silenzio» in un Paese in cui altri e ben più gravi e reali silenzi pesano sulla coscienza collettiva.
Per anni Gasparri e i suoi camerati hanno chiesto alla sinistra di dire fino in fondo la verità sulla nostra storia, ma non hanno mai incluso tra le verità da svelare le bombe di Piazza Fontana, Brescia, Bologna e quelle esplose nei treni e nelle piazze funestate dai neofascisti. Verità e silenzio sono temi obbligati quando si parla di foibe, ma non è chiaro chi avrebbe taciuto. A sinistra c’è una tradizione critica del comunismo che va da Malatesta a Salvemini, ma si finge d’ignorarlo. Galli Della Loggia e Giuliano Ferrara strepitano per i presunti silenzi, ma stanno zitti sul fatto che per decenni la grande stampa, tutta borghese e figlia del capitale, non diede spazio a chi aveva in tasca tessere rosse e solo di rado chi era di sinistra vinceva concorsi nella scuola, negli archivi e nelle biblioteche. Chi avrebbe taciuto, quindi, se l’editoria era in mano a borghesi, se Laterza era dominio di Croce e la Feltrinelli non era nata? Einaudi, da solo, fu il silenzio d’Italia?
Tacquero i politici. E quali? Quelli dell’area “atlantica” sì, perché vedevano di buon occhio il Tito antistalinista. Per la sinistra di classe, ministro degli esteri nel Governi Parri e poi in quello De Gasperi, fu Pietro Nenni, ex interventista, che sentì con forza il problema dei confini orientali e si batté per impedire che l’Italia subisse gli accordi di Malta tra Roosevelt e Churchill del febbraio del ’45, poi formalizzati da una proposta francese per la creazione di un territorio libero di Trieste. Nenni peregrinò per le cancellerie europee – Oslo, Amsterdam, Londra, Parigi – ma ottenne solo impegni generici. Fu lucido, chiese trattative dirette con la Jugoslavia e capì che dalla soluzione della questione non dipendevano solo i rapporti con Tito, ma anche la possibilità di autonomia da Mosca e dagli Occidentali. Quando si rese conto che il confine non sarebbe mai passato per la linea etnica, chiese che il territorio libero di Trieste comprendesse Parenzo e Pola e che i punti più delicati fossero risolti da referendum. Fu Nenni, ancora lui, per la sinistra, che, firmata la pace nel febbraio 1947, domandò a De Gasperi di attendere che l’Urss approvasse il trattato prima di chiederne la ratifica al Parlamento. Eravamo, però, un Paese vinto e il contesto internazionale non ammetteva scelte. Anche a Tito, che chiese infine trattative bilaterali, si oppose un rifiuto. Il piano Marshall, la crisi di governo voluta da De Gasperi e la guerra fredda chiusero la partita.
Verità e silenzio. Ma chi avrebbe taciuto e cosa? Gli storici di sinistra? Cortesi, Arfè, che non furono certo teneri con Togliatti, per non dire di Merli e Bosio, avevano davanti milioni e milioni di morti e l’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale. Era impensabile cominciare a scrivere di storia, partendo dalla classifica degli orrori; l’orrore era stato tema dominante della guerra: Coventry, Dresda, le città fucilate, le fosse di Katin, i lager, la Shoa, Hiroshima, Nagasaki Nessuno volle fare elenchi – e le foibe sarebbero comunque sparite nel mare di sangue causato dai nazifascisti. A tutti sembrò più serio e urgente ricostruire la storia stravolta dalla lettura fascista. E non a caso si partì da studiosi che non provenivano dall’accademia, compromessa col regime – la scuola di Croce, Salvemini, archivisti come Arfé – e si tornò a maestri come Gramsci, Gobetti e Rosselli. Per gli orrori bastava la nausea. Intanto occorreva capire com’era stato possibile cadere nell’abisso e conoscere l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo e della Resistenza. Nessun silenzio voluto.
La storiografia però è revisione continua e c’è sempre chi torna a Cesare e alla Repubblica romana. Il bisogno di approfondire e rivedere il quadro complessivo, tuttavia, incappò nel berlusconismo e nella crisi politica divenne propaganda. C’erano mille verità non dette cui sarebbe stato necessario dar rilievo: i gas sugli etiopi, i massacri libici, l’ignominia jugoslava e buon ultime quelle foibe, su cui le destre battono per presentare conti a croati e sloveni – senza badare a quelli ben più salati che loro potrebbero presentarci – e riesumare un anticomunismo grottesco, anacronistico, postumo, col metodo Goebbles: ingigantire i fatti e insistere sulla menzogna, perché diventi verità.
Come si è giunti all’uso politico di una vicenda storica secondaria? Ha ragione Gianpasquale Santomassimo: per un secolo la politica ha cercato legittimazione nella storia, vantando radici nel passato. Mussolini creò il mito della romanità, la sinistra, a giusta ragione, rivendicò le lotte del movimento operaio e l’antifascismo. Poi sono venuti l’89, il crollo del socialismo reale e il ’92 con Tangentopoli; a qualcuno il passato è parso ingombrante e il processo s’è capovolto. Ora nessuno cerca legittimità nella storia, perché essa è vergogna, lutto, dolore, violenza e c’è bisogno del «nuovo» che processi la storia e la separi dalla politica. I fascisti non sono più mussoliniani, il Pci si è autosciolto e i cattolici non sono più democristiani. Per non essere invischiati nel passato, i partiti prima hanno cercato casa al mercato ortofrutticolo, con largo spreco di rose nel pugno, garofani, ulivi e margherite – poi hanno preso nome dai leader e, infine, dopo la «Cosa», partito dei «senza storia» ecco quello “Nazionale” di Renzi. Su tutto si leva, comoda, la categoria del totalitarismo, che esalta le affinità a danno della differenze, come comanda il pensiero unico. Orwell aveva ragione: chi controlla il passato governa il futuro e chi controlla il presente gestisce il passato. Quello che conta è avere in mano il giorno che vivi.
Questo però non è fare storia.

Uscito su FuoriregistroAgoravox il 10 febbraio 2015

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Lo «strepitoso» successo di Renzi, «neodemocristiano» levato sugli scudi dal circo mediatico, avrebbe fatto piangere lacrime di vergogna a De Gasperi e alla DC autentica, che i suoi 40 e più elettori su cento li conquistava quando alle elezioni si contavano percentuali di votanti superiori al 90 su cento. E’ chiaro come la luce del sole: a Renzi mancano forza, carisma e volontà per cambiare d’una virgola la linea Monti-Letta; si accoderà scodinzolante alla dottrina tedesca e annegheremo lentamente. Qui da noi, tuttavia, nel coma profondo dell’Europa unita, un coro di esaltati celebra il trionfo dei primi della classe. E’ un gioco da illusionisti: tamburini, sbandieratori e majorettes creano ad arte l’aria della festa, poi, in un clima di «ritrovate certezze», chi denuncia la coltellata liberticida alla Costituzione o punta il dito sulla muta dei cani che azzanna il lavoro, su cui fonda la Repubblica, rischia il ricovero coatto in un centro di salute mentale.
Mentre l’Inghilterra dice no all’Europa delle banche, creando dal nulla un brutto partito di governo e l’Ungheria è in mano ai neonazisti, formazioni fasciste spuntano ovunque come funghi e la democratica Francia scarroccia, scivola a destra e torna al razzismo di Petain, spinta dall’odio per il socialismo alla Holland, più che da nostalgie per Vichy. In questa situazione devastante, l’Italia, Narciso allo specchio, è inchiodata a una realtà virtuale da tecniche ipnotiche e gioca la partita su un’abile distorsione lessicale. Sembrerebbe del tutto evidente: Renzi non è di «sinistra» e non sa cosa sia il riformismo, ma la scommessa riuscita è tutta lì, nell’inganno tenace che lo presenta come un riformista di sinistra. Il Paese sbanda, prova a destarsi dal sonno della ragione, ma non c’è tempo: l’estrema destra cresce, si mimetizza e torna al trucco dell’antiborghesia. Noi siamo un’isola felice, si racconta, e Renzi vittorioso guida ormai una nuova DC; eppure basterebbe poco per capire che la DC si sarebbe vergognata di un risultato elettorale così ambiguo, di un quaranta per cento che si calcola su poco più della metà del corpo elettorale e, a conti fatti, esce più o meno dimezzato dal confronto con la realtà.
Non è forse chiaro, ma Renzi «vittorioso», che a parole «rottama» e nei fatti ricicla l’«usato sicuro», è paradossalmente il sintomo più chiaro di una malattia grave: l’impotenza rispetto al tema cruciale della rappresentanza, cuore della democrazia parlamentare. Impotenza palese, perché l’ex sindaco non approfitta nemmeno della condizione privilegiata di un governo agli esordi, che gode di tutti i cospicui vantaggi di chi ha in pugno il potere e non paga ancora il dazio dell’impopolarità per il cappio che solo dopo il voto stringerà al collo del Paese; perde la partita vera, quella con i delusi, gli arrabbiati, gli scontenti e i milioni di italiani che soffrono di nausea solo a sentir parlare di politica, e riesce a rappresentare a stento gli interessi di chi, nella crisi, resiste. Ottanta miserabili euro e il tentato suicidio di Grillo, terrorizzato da una vittoria che l’avrebbe costretto a far politica, non sono bastati a convincere il fiume di elettori che costituiva il vero banco di prova: quello che soffre le pene dell’inferno e non ha creduto al capo imposto dall’alto. La stampa padronale, le televisioni epurate, che hanno imparato a memoria la lezione dell’Istituto Luce, parlano di una legittimazione conquistata sul campo, ma l’inganno è palese: legittimato da chi? Dalle legioni di italiani che si sono tenute puntigliosamente lontane dalle urne e ogni giorno, dal 25 in poi, hanno continuato a bestemmiare negli autobus che non passano, nei posti di lavoro a rischio, nei centomila tormenti dei call center, nella disperazione di una vita mortificante e nel dolore di chi muore di lavoro o sceglie di farla finita perché il lavoro l’ha perso o non ce l’ha?
Nel baccanale massmediatico, tra satiri ebbri e giovinette nate al governo per opera e virtù dello Spirito Santo, l’Europa è sparita. Renzi, che pure è parte integrante della devastante crisi dell’europeismo, occupa la scena, ma sembra estraneo alla crisi. In realtà, la maniera in cui è giunto al potere, il disprezzo che mostra per la Costituzione calpestata, il rifiuto della mediazione, l’elemosina intesa come surrogato dello stato sociale, l’attacco feroce al lavoro, tutto ciò che ha fatto o promette di fare lo inserisce a pieno titolo in quella destra che da anni ha «sgovernato» l’Europa, suscitando le tossine che ormai corrono nel sistema linfatico dell’Unione, la mistura di bassi istinti, il velenoso composto d’odio, rabbia e disprezzo per la democrazia, l’idea di gerarchia tra «nazioni» e classi sociali che dovrebbero indurre a riflettere sul significato profondo e sulla carica di violenza che si cela nell’esito del voto. Siamo andati ben oltre il dilemma Europa sì-Europa no e appare chiaro che le politiche disumane dei tecnocrati, le astratte ragioni dell’economia, anteposte a quelle dei popoli che rivendicano il diritto a una vita dignitosa e alla solidarietà nella sventura, suscitano ormai antichi mostri. In questo quadro, Renzi non è la cura che guarisce, ma la medicina sbagliata che aggrava la crisi italiana e fa male a un’Europa, che si copre le spalle, minacciate dall’ira popolare, producendo consapevolmente una destra due volte pericolosa: guardia armata dei privilegi e spauracchio per chi aspira a un’autentica Unione dei popoli.
Nella nebbia sempre più fitta spunta la fiammella della Lista Tsipras; non è molto, ma è molto più che niente. Vivrà e crescerà, però, solo se terrà fede a una premessa: il Pd di Renzi è alternativo alla sinistra e sempre più spesso rappresenta ormai il volto pulito della destra pericolosa.

Uscito su “Fuoriregistro” il 29 maggio 2014

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Per raccontare gli anni Settanta, la Rai ha chiamato Graziano Diana: il ruolo di «voce narrante» è toccato all’inconsapevole commissario Calabresi e n’è nata una favola sconcia, che ha una morale decisamente immorale: Piazza Fontana come un libro aperto, Pinelli suicidato dal peso di colpe inesistenti e un giudice che assolve davanti alla storia la Questura di Milano.imagesPer Diana, il 1969 è figlio d’ignoti: non ha padre, né madre e, ciò ch’è peggio, nemmeno radici. E’ un mistero glorioso: italiani felici e contenti, Questure strapiene d’amore, incerte tra “Fate bene fratelli” ed esercito della salvezza, poi, va a capire perché, un delirio di bombe, un autunno rovente, manifestazioni a catena e su tutto, inspiegata, la violenza che dilaga.
Spiace per Diana, ma i conti non tornano. La sua storia degli anni Settanta non la salva nemmeno la libertà dell’arte, che non può fare da alibi a uno stupro della memoria collettiva. Marcello Guida, le stragi, Luigi Calabresi, il fascismo come braccio armato del capitale, non nascono dal nulla, in un 1969 collocato fuori dalla storia e ridotto a un deformante specchio di faglia. Gli «anni spezzati» da Diana sono una forzatura maldestra e pericolosa. Da Portella delle Ginestre a Piazza Fontana corre un fiume di sangue innocente che macchia la storia della repubblica.
Se il punto di vista dell’Italia che ammanettava avesse fatto i conti con quello dell’Italia in manette, la Rai si sarebbe evitata una pagina buia. L’altra “voce narrante”, infatti, quella a cui Diana non ha voluto dare un microfono, ci avrebbe restituito la memoria di un altro Paese. Una memoria che occorre difendere. La «voce» zittita ci avrebbe parlato di un 22 gennaio del 1952 alla Questura di Como, di un collega di Luigi Calabresi che chiede a Scelba «dettagliate informazioni sulla condotta morale e politica di Lionetti Volga, precisando il suo grado di pericolosità per l’ordinamento dello Stato» e tutti avremmo capito che, nonostante la Costituzione antifascista, nel 1952 il fascismo al Ministero dell’Interno non è ancora caduto. Il Questore di Como, infatti, non chiede notizie perché intende perseguire un reato. Sta solo colpendo un diritto conquistato col sangue. La donna, in realtà, ci racconterebbe la voce messa a tacere, è una giovane sarta giunta «a Faggeto Lario per frequentare un corso in quella scuola femminile del P.C.I». Scuola di partito, quindi, e tanto basta alla polizia «repubblicana» ancora perfettamente in linea con le direttive di Mussolini, tanto basta perché non solo il codice penale è e resterà quello fascista, ma la politica è ancora “mistica”, gli uomini del «Duce» sono tutti dov’erano nel ventennio e i linguaggi e i comportamenti, in Questura, trasudano disprezzo per la libertà e i diritti conquistati dai partigiani.
De Gasperi, d’altra parte, è stato molto chiaro: vuole «uno Stato forte» e una «democrazia protetta dagli estremisti di sinistra». Un disegno che mette la repubblica in mano al fascismo moderato e impunito di Scelba. E’ così che – avrebbe spiegato la nostra «voce» – il fascicolo della Lionetti, non a caso figlia di un partigiano combattente delle Quattro Giornate, si aggiunge a quello di Antonio Gramsci, Sandro Pertini e migliaia di antifascisti e militanti del movimento operaio, raccolti in quel Casellario Politico Centrale, ereditato dal regime, che De Gasperi non solo tiene in vita, ma rende più attivo che mai, infilandovi i fascicoli di antifascisti colpiti dalla polizia della repubblica nata dalla guerra di liberazione dal fascismo.
Le notizie su Volga Leonetti si accumulano così con un’alacrità che farebbe arrossire Bocchini e l’efficiente polizia del fascio littorio. E’ un racconto incalzante e rivelatore. Ai colleghi di Calabresi «non consta che la donna sia dotata di particolare cultura, pur tuttavia ella svolge con discreta intelligenza l’attività di propagandista». E poiché nulla nasce dal nulla, spiegano i solerti funzionari, ieri fascisti e ora democratici, non c’è da scherzare: dietro la donna si cela una tradizione di lotta. «In passato», infatti, «i genitori, anch’essi orientati verso il comunismo, tenevano nella propria abitazione conferenze di iscritti e simpatizzanti al P.C.I.» E’ così che l’esperienza dell’antifascismo clandestino diventa, per Volga Leonetti, un pericoloso precedente che la militanza conferma. «Allo scopo di sovvertire l’ordine pubblico sollevando la folla presente», denuncia, infatti, di lì a poco la Questura di Napoli, la donna e «un gruppo di una diecina attiviste comuniste, hanno inscenato una dimostrazione ostile all’arrivo del Generale Rigdway». Non bastasse, scrive il Questore, «invitate ad allontanarsi, hanno insistito nella manifestazione e sono state arrestate, identificate ed associate alle carceri di Poggioreale», a disposizione di giudici e codici che hanno divorziato dalla giustizia sociale e condannano l’operaia a tre mesi di galera. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la polizia segnalerà a Roma i «cambi di residenza e […] ogni notizia riguardante Volga Leonetti»: il ruolo che svolge nel Comitato Regionale per la pace, le conferenze per le donne del P.C.I., una condanna e la sua sospensione condizionale ottenuta nel 1955 per reati del 1953, la “denuncia per lesioni, ingiurie e minacce” che nel 1956 finirà in una bolla di sapone. La polizia che anni dopo accoglie Calabresi, presentato da Diana nei panni di un improbabile poliziotto pasoliniano, è la stessa che nel 1958 non ha esitato a rifiutare il «rinnovo del passaporto chiesto da Lionetti Volga, […] fervente attivista e propagandista del P.C.I. ed inscritta al C. P.C. per normale vigilanza».
La donna avrà fortuna. Non volerà da finestre di questure, non si ritroverà in una pozza di sangue, uccisa in piazza, come i 65 compagni caduti in quattro anni, dal 1948 al 1952, o i morti ammazzati a Portella della Ginestra nel 1947, a Reggio Emilia nel 1960, a Ciaculli nel 1963 e ad Avola nel 1968. Il 1969 che la Rai ha volutamente stravolto la troverà, però, tra i 15.000 lavoratori che una legge del 1974 riconoscerà come perseguitati politici nell’Italia repubblicana. E sono numeri approssimati per difetto. E’ questa storia taciuta ad arte a rendere oltraggioso il 1969 e gli anni Settanta di Graziano Diana. Un oltraggio grave, ma rivelatore perché spiega a chi non l’ha ancora capita la tragedia che stiamo vivendo.

Uscito su “Fuoriregistro” l’11 gennaio 2014

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A00082597Appunti impopolari, poche parole, mentre si volta pagina e si consegna alla storia che si ripete – un po’ farsa e un po’ tragedia – un altro capitolo da scrivere vergognandosi.
In Italia i regimi durano tutti su per giù vent’anni e si chiudono più o meno allo stesso modo. Stavolta, è vero, dopo il Gran Consiglio, la spuntano, a quanto pare, congiurati e traditori e addirittura ci governa Ciano… anzi, scusate, Alfano. La sostanza, però, rimane quella e non c’è stata nemmeno una qualche Resistenza a salvarci la faccia.
Come s’usa da queste parti, il Duce paga per tutti; siamo sessanta milioni di anime innocenti e in fondo non cambia nulla. Non cambia nemmeno la sedicente sinistra che leva i calici e si dichiara vittoriosa, mentre nell’ombra si vede già tramare una ricostituita Democrazia Cristiana, un ennesimo mostriciattolo che stavolta non può contare nemmeno su gente come De Gasperi. A noi toccano i due Letta, Gianni, quello del Vaticano, che lavora nell’ombra, ed Enrico, il nipotino raccomandato. Pochi mesi, poi verrà Renzi e ricominceremo. Un nuovo giro, un nuovo ventennio, mentre, chissà, già cresce nell’ombra il terzo Ciano. Intanto ci teniamo Napolitano e Alfano.
Incredibile a dirsi, ma molto probabile: in un Paese nato male e cresciuto peggio, finisce che la Costituzione repubblicana per ora la salva il pregiudicato Berlusconi… Spiace per Napolitano, ci aveva messo il cuore, ma i “saggi” non hanno funzionato. E chissà che la nemesi non giunga a vendicare partigiani e antifascisti. Tutti prima o poi chiudiamo la nostra avventura terrena. Anche i sovrani assoluti di una repubblica nata parlamentare.
Non si sa se ridere o piangere.

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Non è una barzelletta da salotto snob e nemmeno una battutaccia da guitto di avanspettacolo della Belle Époque, sparata via così, dal palcoscenico del vecchio”Salone Margherita“. No. E’ la versione ignobile della nobile e antica saggezza latina. Se è vero, infatti, che “Carmina non dant panem“, sostiene Giulio Tremonti dall’alto delle sue poltrone di ordinario di Diritto Tributario e Ministro della Repubblica, non meno vero è che “ la cultura non si mangia“.
Non dirò ch’è farina del mio sacco. L’idea me l’hanno suggerita, ma davvero mi pare non ci siano dubbi: ha il crisma della santità. La fulminante sintesi del pensiero economico-politico trionfante è un vero e proprio “manifesto del regime” che governa l’Italia berlusconiana, tutta ignoranza di veline, autentiche patacche, verità di pennivendoli, trionfo di mediocri, scienza di ballerine e arte da postribolo. La cultura non si mangia, ma si taglia alla radice nel bilancio del Paese, per cancellarne storia, identità e coscienza critica e piegarlo ai voleri d’una classe dirigente vile, corrotta, autoritaria e classista.
Povera e nuda vai, Filosofia / dice la turba al vil guadagno intesa, scriverebbe nuovamente Petrarca, ma non troverebbe facilmente lettori. Qui la poesia è bandita. Il cardine attorno al quale gira il nostro Paese, sventurato e complice, è la violenza autoritaria delle sue classi dirigenti. Checché ne pensino Bossi e la sua traballante scienza politica, è questo il nodo per cui, da Sud a Nord, fatta l’Italia, non si sono mai fatti davvero gli italiani. Sembra incredibile, ma è così, in un secolo e mezzo di vicenda nazionale, qui da noi, la storia contraddice se stessa e si ripete. La verità nuda e cruda l’intuirono in epoche diverse, ma lucidi e impotenti, Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa: qui tutto muta, perché nulla cambi. Perché così accada, è necessario naturalmente che l’ignoranza affligga perennemente gli italiani. La storia della nostra scuola è per questo soprattutto storia di un’eterna indigenza e d’una incurabile miopia: classismo, provincialismo, mancanza di disponibilità economiche, carenza di strutture e di risorse umane, timore di una crescita popolare. Poche le aperture e tutte volte alla formazione delle élites. Fu così con la riottosa Destra storica, che badò soprattutto ai problemi del Bilancio e, quando si trattò di scuola, abbandonò al suo destino quella primaria, e si è andati avanti allo stesso modo di tempo in tempo, col lombardo Depretis, il siciliano Crispi e il romagnolo Mussolini, che fece della scuola di Gentile la più “fascista” delle leggi del regime. Se la Dc di De Gasperi dichiarò “sovversivo” il giorno dedicato alla festa del libro, il sedicente Popolo delle Libertà di Tremonti e Gelmini è giunto a teorizzare la prevalenza della pancia sul cervello. La ragione di tutto questo la spiegava Don Milani ai suoi ragazzi e pareva parlasse a Tremonti: “il fin ultimo della scuola è tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere“. Tremonti, lo sa bene, e per questo ha in odio la scuola: teme i ragazzi che ragionano con la loro testa.

Uscito su “Fuoriregistro” il 10 ottobre 2010

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Nella nostra storia esistono anche le foibe. Sono un episodio tragico che ha radici lontane: affondano nella cosiddetta “grande guerra“, una tragedia dalle dimensioni ben più feroci nella quale su seicentomila uomini persi, centomila furono uccisi dagli stenti e dalla fame, volontariamente abbandonati al loro destino dal governo italiano mentre erano prigionieri della Germania e dell’Austria che non avevano come alimentarli. Perché? Solo perché la resa fu considerata diserzione. Non dico sciocchezze. Giovanna Procacci lo ha dimostrato documenti alla mano ed è sorprendente che il Parlamento non abbia pensato di ricordarli in un giorno della memoria, così come non ne ha mai dedicato uno alle migliaia di prigionieri dei tedeschi lasciati a morire di fame e di freddo perché rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale.
Radici lontane, quindi, che risalgono alla rottura del fronte interventista, quando i fascisti appiopparono a Bissolati il titolo di “croato onorario” e Salvemini divenne Slavemini. Ciò che il fascismo fece agli slavi, gareggiando in ferocia coi nazisti è cosa su cui non intendo fermarmi: fu una barbarie. Si dirà: ma la violenza fascista non giustifica la reazione. Certo. Però la spiega e questo è il compito della storia. Quello che non si spiega, invece, è l’insistenza crescente, la strumentale speculazione politica che attraversa la memoria storica delle foibe per rovesciarne il senso, mettere sotto processo la sinistra e far passare Diliberto e compagni per i protagonisti di una “congiura del silenzio” in un paese in cui altri e ben più gravi silenzi pesano sulla coscienza collettiva.
Ho sentito più volte Storace e compagni chiedere alla sinistra di dire fino in fondo la verità sulla storia del nostro paese e mi domando se tra le verità da raccontare siano incluse le bombe di Piazza Fontana, quelle di Brescia e Bologna e quelle esplose nei treni e nelle piazze funestate dai neofascisti.
Verità e silenzio, mi pare, sono i temi d’obbligo quando si parla di foibe e non si capisce chi avrebbe taciuto. C’è una tradizione fortemente critica del comunismo di parte della sinistra che va da Malatesta e Salvemini e giunge ai nostri tempi con Scotti. Sono cose note che si finge d’ignorare. Tanti, da Giuliano Ferrara a Galli Della Loggia, strepitano e strillano per questo presunto silenzio e tutti fingono di non sapere che per anni la grande stampa, tutta borghese e figlia del capitale, non dava spazio a chi aveva in tasca tessere rosse; tutti fanno finta di non ricordare che solo di rado chi era di sinistra vinceva un concorso per entrare a scuola, negli archivi e nelle biblioteche. Chi avrebbe taciuto, quindi, se l’editoria era in mano a borghesi, se Laterza era dominio di Croce e la Feltrinelli non era nata ancora? Einaudi da solo fu tutto il silenzio d’Italia?
Stettero zitti i politici. Ma quali? Quelli dell’area “atlantica” hanno di certo taciuto, perché Tito aveva rotto con Stalin ed era guardato con occhio benevolo. Per la sinistra socialcomunista, ministro degli esteri, nel Governi Parri e poi in quello De Gasperi, fu Pietro Nenni, ex interventista che sentì fortemente il problema dei confini orientali e si batté con tutte le sue forze per scongiurare il pericolo che si imponessero al paese le scelte fatte a Malta nel febbraio del ’45 da Roosevelt e Churchill, poi formalizzate in una proposta francese per la creazione di un territorio libero di Trieste. Nenni peregrinò per le cancellerie europee – Oslo, Amsterdam, Londra, Parigi – ma ottenne solo impegni generici. Sull’Avanti! fu lucidissimo, difese l’autonomia nazionale, chiese trattative dirette con la Jugoslavia ed ebbe chiaro che dalla soluzione della questione non dipendevano solo i futuri rapporti con Tito, ma anche la possibilità di una convivenza pacifica tra due paesi di opposto regime politico e l’autonomia da Mosca e dagli Occidentali. Quando si rese conto che il confine non sarebbe mai passato per la linea etnica, chiese che il territorio libero di Trieste comprendesse almeno Parenzo e Pola e che le questioni più delicate fossero risolte da referendum. Fu Nenni, ancora lui, per la sinistra, a chiedere a De Gasperi, dopo la firma della pace, nel febbraio del ’47, di attendere che anche l’Urss approvasse il trattato prima di chiederne la ratifica in Parlamento. Margini di mediazione però non ce ne’erano. L’Italia era un Paese vinto e la situazione internazionale non ammetteva scelte. Anche a Tito, che troppo tardi, diffidando dell’Urss, chiese trattative bilaterali, fu del resto immediatamente opposto un rifiuto. Il piano Marshall, la crisi di governo voluta da De Gasperi e la guerra fredda chiusero la partita.
Verità e silenzio. Ma chi avrebbe taciuto? Rimangono indiziati gli storici della sinistra ai quali si può muovere mille critiche, ma per i quali valgono anche mille considerazioni. Cortesi, Arfè, che non furono certo teneri con Togliatti, per non dire di Merli e Bosio, avevano davanti una catastrofe immane come la seconda guerra mondiale con i suoi cinquanta milioni di morti. Era per loro impensabile cominciare a scrivere di storia partendo da una graduatoria degli orrori, perché l’orrore era stato la caratteristica della guerra e di ciò che l’aveva generata: Coventry, Dresda, le città fucilate, le fosse di Katin, i gulag, la Shoa, le foibe, Hiroshima, Nagasaki. Nessuno pensò a fare l’elenco. A tutti sembrò più importante e serio ricostruire la storia stravolta dalla lettura fascista. E non a caso si partì da maestri che non provenivano dall’accademia: Croce, Gramsci, Salvemini. Occorreva capire come era stato possibile precipitare tanto in basso. Per gli orrori c’era la nausea e bastava. Contava soprattutto conoscere l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo e della Resistenza. Contava capire come era stato possibile precipitare nell’abisso.
Nessun silenzio voluto.
Poi certo, è cominciato un processo nuovo. La storiografia non si ferma, la revisione è naturale e c’è sempre chi torna a fare ricerca su Cesare e sulla repubblica romana. Ma il bisogno di approfondire, articolare le conoscenze, il bisogno di una revisione del giudizio storico, incontrandosi con la crisi politica e l’avvento di Berlusconi è diventato fatalmente propaganda politica. C’erano mille verità non dette cui sarebbe stato giusto dare rilievo: i gas sugli etiopi i massacri libici, l’ignominia jugoslava e infine le foibe, delle quali in fondo non si interessa nessuno. Quello che serve è presentare il conto a croati e sloveni, senza tener conto di quello ben più salato che essi potrebbero presentare a noi. Quello che serve è riesumare un anticomunismo postumo, anacronistico e grottesco, ricordando lo slogan di Goebbles: raccontare molte volte una menzogna è come dire una verità.
La domanda a cui occorre dare veramente risposta è una: come si è potuto giungere a questa così penosa strumentalizzazione politica di una dolorosa vicenda storica? Gianpasquale Santomassimo l’ha scritto e si può essere completamente d’accordo. Per un secolo la politica ha cercato legittimazione nella storia, vantando radici nel passato. Mussolini le cercò nel mito della romanità, la sinistra nelle lotte del movimento operaio e nell’antifascismo. Poi sono venuti l’89 col crollo del socialismo reale e il ’92 con Tangentopoli; il passato è diventato d’un tratto ingombrante e il processo s’è capovolto. Nessuno cerca più legittimità nella storia perché essa è vergogna, lutto, dolore, violenza e c’è bisogno del “nuovo” che processa la storia e la separa dalla politica. I fascisti non sono più mussoliniani, il Pci si è autosciolto e i cattolici non sono più democristiani. Siamo al punto che un partito, per non essere invischiato nel passato, prende nome e cognome dal suo leader o cerca battesimo al mercato dei fiori, sicché si sprecano rose nel pugno, garofani e margherite. Siamo giunti alla “Cosa ed al partito dei “senza storia” e, su tutto, si leva la comoda categoria del totalitarismo che esalta le comparazioni e cancella le differenze secondo le leggi del pensiero unico. Orwell aveva ragione: chi controlla il passato governa il futuro e chi controlla il presente gestisce il passato. Quello che conta è avere in mano il giorno che ora vivi. Sia pure. Questo però non è fare storia.

Uscito su “Fuoriregistro” il 10 febbraio 2007

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