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Posts Tagged ‘Pd’


Ho sempre pensato e ne sono ancora oggi convinto, che la sorte di una nascente forza politica sia legata soprattutto alla sua capacità di intercettare una necessità, un bisogno reale della Storia e dare risposta a quel bisogno. Una convinzione che trovo confermata dalla rinascita di una destra estrema e dalla più grave crisi della Sinistra dalla nascita della Repubblica, che sono probabilmente i due rovesci della stessa medaglia.
Se si guarda con onestà intellettuale e senza intenti polemici, alla vicenda dell’Italia unita, non è difficile vedere che il successo politico della destra – estrema o moderata conta relativamente poco – nel nostro Paese è nato sempre in un momento di profonda crisi economica. Non a caso Pietro Grifone, economista antifascista confinato a Ventotene, durante la permanenza nell’isola scrisse una storia del capitale finanziario in Italia, del quale il fascismo risulta il regime connaturato. Una storia di parte? Tutt’altro.
Che cosa fu, in effetti, il fascismo se non lo strumento attraverso il quale il Padronato svuotò il campo dalle macerie dell’economia bellica e postbellica, ottenne il progressivo svuotamento delle Istituzioni democratiche ed ebbe in regalo uno Stato spogliato in concreto di buona parte delle sue attribuzioni economiche? E’ una forzatura osservare che, allora come oggi, i padroni volevano – ed ebbero – mani libere per l’iniziativa privata?Ieri come oggi, un governo politico di estrema destra corrisponde perfettamente alle esigenze del potere economico e una borghesia che rischia la proletarizzazione, composita ma sostanzialmente formata all’inganno delle “libertà liberali”, non esita a far sua la rovinosa scelta dei vertici di classe. Allora come oggi, disgregata da polemiche, frettolose scissioni e dall’illusione di trovarsi solo di fronte a un “momento” difficile, la sinistra affonda nelle sue contraddizioni ed esce di scena.
Un ruolo decisivo l’hanno avuto in entrambi i casi le vicende della Russia. I padroni sfruttano nel primo dopoguerra la paura del bolscevismo, utilizzano oggi abilmente la guerra dello “zar” Putin, sventolando la parola “nobile” – libertà – per massacrare la Costituzione antifascista, per fare gli interessi del capitale e abbandonare al proprio destino milioni di sventurati.
Ieri come oggi ad aprire la breccia è indiscutibilmente – sia pure per ragioni diverse – la crisi dei partiti di sinistra. E qui, se dalla storia del potere si passa a quella dei popoli, l’Unione Popolare diventa immediatamente una necessità inderogabile. Soprattutto in un Paese in cui la storia della Repubblica antifascista, l’hanno scritta l’incontro e lo scontro tra i valori della sinistra di ispirazione laica e marxista e quelli della nebulosa cattolica. Un percorso che dovrebbe ricominciare, ma non può riprendere, perché la sinistra laica e marxista non c’è più: è passata armi e bagagli nel campo neoliberista che è, di fatto, quello capitalista.
Le sole forze in campo schiettamente e indiscutibilmente anticapitaliste sono quelle che cercano di creare Unione popolare. Certo, gli ostacoli da superare per giungere alla sua nascita ufficiale non sono pochi, ma credo che nessuno sia insormontabile perché in comune abbiamo tutte e tutti questa caratteristica che segna un confine direi geografico: un al di qua e al li là d’un fiume o, meglio, d’un mare. Il mare di disperazione generato dal capitalismo omicida, che uccide la povera gente e le possibilità di vita del genere umano sul pianeta. Ben altro che la fine della Storia e del conflitto. E’ l’inizio di una storia nuova.
Rose e fiori, quindi? Naturalmente no. Una grave conseguenza del tracollo dei partiti ha prodotto una prima immediata difficoltà. Quale forma avrà Unione Popolare? Nel Coordinamento la forma partito provoca reazioni negative – per molti è il “vecchio”- e quella di un movimento trova più consensi, ma non convince fino in fondo. Emerge così l’idea del “nuovo”. Poiché di nuovo e di “novatori” faccio davvero fatica a parlare, perché si contrappongono a “vecchio” e mi fanno venire in mente Renzi e la “rottamazione”, vorrei fare qui alcune considerazioni. Le ritengo necessarie, per provare a uscire da un’ambiguità latente e tentare di delineare le premesse perché, diviso in gruppi, il Coordinamento possa lavorare con spirito davvero unitario e collettivo. Taglierò con l’accetta per non annoiare e non fare di un breve intervento uno strumento di tortura.
Per quanto mi riguarda, ogni forma e ogni sua traduzione in strutture organizzative sono legate indissolubilmente a esperienza politiche, luoghi specifici e momenti storici ben definiti. Se questo è vero – e mi pare difficile dire che lo sia – nessuna di tali esperienze è probabilmente ripetibile e utilizzabile in un contesto storicamente e temporalmente diverso.
Posso naturalmente sbagliare, ma noi partiamo da una “certezza” che certa in effetti non è: diciamo che la forma-partito è superata e lo facciamo, benché poniamo tra i nostri massimi obiettivi la difesa della Costituzione. Dimentichiamo, però, che i partiti sono pilastri nell’architettura costituzionale. Non esprimiamo così due concetti in profondo contrasto tra loro? A me pare proprio di sì.
Questo, senza dire che alla guida del Paese c’è oggi paradossalmente un partito di estrema destra, geneticamente ostile alla Costituzione, che però è probabilmente l’unico organizzato secondo criteri rispondenti al modello “costituzionale”. Questo suggerirebbe di non avventurarsi subito sulla via di un non meglio identificato “nuovo”, ma di individuare piuttosto il punto di rottura a partire dal quale i vecchi partiti sono andati in crisi.
È necessario farlo, per capire se la crisi sia un dato patologico, legato alla natura dei partiti stessi, incapaci di stare al passo con i tempi, o piuttosto a scelte politiche sbagliate, che hanno condotto i partiti alla loro progressiva degenerazione e di conseguenza a quella della politica. Se, per fare un esempio, collochiamo nel suo momento storico conclusivo il disastro dei partiti di sinistra – quello cioè in cui, uno dietro l’altro, alcuni eventi posero agli allora dirigenti domande urgenti, siamo di fronte a questa realtà: caduta del muro di Berlino, dissoluzione dell’URSS, inizio dell’affermazione del neoliberismo e crollo elettorale del PCI, il più grande partito comunista occidentale.
È in un questa condizione storica che il PCI giunge a sciogliersi. Pensiamo davvero che Occhetto e compagni intendono tradire? Io, che dal Pci fui espulso alla fine degli anni Sessanta, penso di no. Penso che in quel momento vivano un dramma. Sono di fronte a se stessi e si sentono colpevoli, credono che il fallimento storico del mondo dell’est sovietico, in cui hanno davvero creduto, nonostante le parziali prese di distanza, segni la superiorità del mondo capitalista rispetto a quello sovietico, marxista e leninista. Se ne convincono, scelgono di conseguenza e comincia così l’avvicinamento al liberismo.
E’ l’attraversamento di un deserto. Ci vorranno decenni, ma l’esito inevitabile è il PD. Quel PD, che oggi, naufragando, ci indica due cose: il confine da cui stare fuori, la forma organizzativa da cui stare lontani. Lontani come da ogni fusione a freddo, da ogni progetto che stravolge la Costituzione.
In perfetta buona fede, durante il terribile viaggio nel deserto, ci fu chi in quegli anni ritenne sbagliato il cambio di campo – e nacque Rifondazione Comunista – e chi ruppe con ogni forma di organizzazione politica. I no global, per esempio, massacrati a Napoli e a Genova. Nel corso degli anni, le due anime di ciò che restava della sinistra si sono incontrate e più volte scontrate – lo fanno ancora nel Coordinamento – hanno sempre condiviso buona parte dei valori, ma si sono alla fine sempre divise fatalmente proprio sul tema della forma organizzativa. Erano davvero incompatibili? L’esperienza di Luigi De Magistris a Napoli ha dimostrato che non è così. Pagavano entrambe, però, tre prezzi insostenibili. Il lavoro distruttivo del PD anzitutto, che, fatto passare abilmente per sinistra, ne minava ogni credibilità. Scontavano, poi, agli appuntamenti elettorali, le conseguenze dell’appello al “voto utile”, l’accusa di estremismo, toccata a chi dava vita al conflitto e di opportunismo, rivolta a chi si illudeva di poter recuperare il PD.
La Meloni al governo chiude questa fase, e probabilmente – ma direi finalmente – la vicenda degli ultimi trent’anni diventa il terreno naturale in cui cercare le autentiche radici del “nuovo”. Quello che nasce senza forzature dalla nostra vicenda storica. Credo che, se abbiamo deciso di stare assieme la consapevolezza di questa storia viva da qualche parte nella nostra coscienza. La consapevolezza che finalmente una forza di sinistra geneticamente anticapitalista abbia bisogno di un’anima conflittuale, che parli ai militanti, alle avanguardie e sia complemento dell’altra, che può parlare al ceto medio proletarizzato. Due anime fuse in una formazione che apra contraddizioni in un elettorato che vota Meloni per disperazione e da sole non sono in grado di rispondere ai problemi del nostro tempo. Questa consapevolezza può interrompere un meccanismo storico operante da sempre a sinistra: quello della scissione, dell’antagonismo, della lotta fratricida. Può interromperlo e imporne un altro: quello della complementarietà, dell’integrazione e dell’(U)unione.
Questo è “nuovo”? In certo senso sì, anche se nel 1892 il Psi nasce da questa conquista: le lotte possono anche riuscire, ma i loro risultati si avvertono solo se una presenza politica nelle Istituzioni le fa vivere nelle leggi. Il nuovo ha un valore più nobile se contiene la parte sana di un’esperienza antica. Abbiamo un bisogno disperato di questo nuovo modo di confrontarci. Un modo che preveda una reciproca legittimazione e una unità che non nasca dalle nostre convinzioni, ma dalla necessità di essere nelle lotte, sapendo che il loro valore e il loro successo deve obbligatoriamente vivere là dove si decide. In altre parole, occorre convincersi che questa è la nostra funzione storica, stare uniti, e che la assolveremo solo se riusciremo a trovare il “nuovo” che cerchiamo. Quello che sarà figlio della nostra storia.

Transform!italia, 18 gennaio 2023

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Bonaccini, che non ha mai letto la Costituzione, disegna il suo PD:

“Dobbiamo essere capaci di dire che siamo disposti e in grado di intervenire militarmente […] a chi dice […] tanto voi il fegato […] non lo avrete mai”

Nella foga interventista ha dimenticato di dire che è pronto ad arruolarsi con la famiglia, i parenti e la tribù dei dirigenti.

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Presto la dimensione della sconfitta politica e culturale renderà più chiaro il valore e il costo del «voto utile»: il PD sopravvive a se stesso, ma potrà tornare ancora «utile» quando distruggeranno la Costituzione nata dalla Resistenza. In compagnia di Calenda, infatti, consentirà alla Meloni di garantirsi un risultato tale da evitare il referendum su cui inciampò Renzi.

Sarà tutto legale.

Da Bertinotti e Diliberto, giù fino a Letta, il suicidio della sedicente sinistra giunge al momento estremo. Si tratta solo di sapere se cremare o tumulare il corpo del suicida.

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Condivido il Comunicato di Potere al Popolo sullo sciopero generale indetto dai Confederali e immediatamente attaccato da tutti i partiti, tranne LEU. Lo condivido anzitutto perché è un notevole contributo alla costruzione di una piattaforma contro il governo Draghi che coinvolga i più ampi strati di lavoratori.
Sabotare lo sciopero significherebbe colpire i lavoratori, primi fra tutti quelli che guardano con interesse a Potere al Popolo. Un sindacato non è un partito e non si identifica con i dirigenti che lo rappresentano. Un sindacato è fatto di lavoratori, che non devono pagare le scelte sbagliate di un gruppo dirigente. Al PD puoi dire “con te non parlo”. Ai lavoratori che hai sostenuto nelle loro lotte, non puoi dire che li abbandoni al loro destino perché sono scritti alla CGIL.
A chi più o meno velatamente critica la posizione espressa nel Comunicato, ricordo che si tratta di un documento al quale si è giunti dopo discussioni e riflessioni in cui si sono confrontate posizioni diverse. In sede di elaborazione ogni critica è giusta. Quando però si giunge a un documento che viene reso pubblico, chi fa parte di Potere al Popolo non dovrebbe lo criticarlo pubblicamente. Le battaglie si fanno negli organismi di Pap poi, quando si giunge a un accordo reso pubblico, la posizione che ne viene fuori è ufficialmente quella di tutti gli iscritti.

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Vi domanderete perché, discutendo di elezioni amministrative, chiami in causa l’articolo 116 della Costituzione, che riguarda le regioni e la loro autonomia. Un po’ di pazienza e mi direte poi se l’argomento entra legittimamente nella discussione.
Prima che Massimo D’Alema ci regalasse la sciagurata riforma del Titolo V, sulle Regioni a Statuto speciale, la Costituzione era chiarissima: «Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali». Meuccio Ruini, antifascista, perseguitato politico e padre Costituente, aveva chiarito i motivi della scelta nella sua relazione al progetto di Costituzione. Poche, ma fondamentali parole: «la Regione non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con una legge lo statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità». Pur non potendo nemmeno lontanamente immaginare che qualche decennio dopo avremmo dovuto fare i conti con le folli richieste leghiste, le donne e gli uomini che  scrissero lo Statuto posero così  un limite insormontabile agli egoismo locali e all’avventurismo di gente come Salvini.
Ignorando questa impostazione che aveva radici profonde nella storia di un Paese ridotto a «una espressione geografica» dalla lunga vicenda degli Stati regionali, la miopia di D’Alema e degli uomini che oggi formano il PD, violentarono l’articolo 116, sicché oggi basta una legge ordinaria per accordare alle Regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Unico limite – di fatto formale – un’intesa fra Stato e Regione. Com’era scontato, quando le verità di fede del neoliberismo hanno scatenato la crisi disgregante che attraversiamo, le Regioni che dall’Unità a oggi più hanno preso e meno hanno dato a un processo di armonica crescita economica e sociale della Repubblica, hanno messo in campo iniziative incompatibili con lo spirito Costituente esposta da Ruini all’inizio della storia repubblicana.  
E qui il nesso tra elezioni amministrative di Napoli e cosiddetta «autonomia differenziata» si fa chiarissimo. Allo stato attuale delle cose, tranne Alessandra Clemente, che ha dichiarato la sua netta avversione allo scellerato cambiamento, i candidati a sindaco che dicono di «amare Napoli» provengono tutti, o sono sostenuti, da aree politiche, partiti e liste che sono invece apertamente favorevoli. A parole promettono uno splendido futuro alla città; sanno però che alla resa dei conti chi li presenta e li sostiene non glielo consentirà.
Maresca, per esempio, tutto cuore e passione partenopea, è sostenuto dalla Lega di Matteo Salvini e di Luca Zaia, così attento alla sorte dei napoletani, del Sud e in generale dell’Italia, che nel 2014 ha tentato di indire un referendum che la Consulta dichiarò illegittimo. Qual era l’obiettivo? Voleva l’indipendenza del Veneto, di cui è Presidente. Sì, avete capito: l’indipendenza. Sempre con Napoli nel cuore, Zaia è tornato alla carica nel 2017 con un referendum rivelatore dei rapporti che i ricchi autonomisti intendono instaurare con i poveri napoletani: Zaia vuole tenere per il Veneto una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai suoi cittadini all’amministrazione centrale, per poterli utilizzare in termini di beni e servizi per la sua Regione; non contento, vuole che il Vento tenga per sé l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale. Per Zaia, infine, il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non deve essere soggetto a vincoli di destinazione.
Gli amici di Maresca, quindi, vogliono uno Stato che non possa e non debba attuare il principio costituzionale che consente di destinare risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico di territori bisognosi a fini di coesione e solidarietà sociale. L’esercizio concreto dei diritti della persona? Gli squilibri economici e sociali? La salute? La formazione? Sono questioni che al Veneto e alla Lombardia, che ha seguito a ruota Zaia, non interessano. Di fatto, i sostenitori di Maresca con la loro «autonomia differenziata» dichiarano guerra a Napoli e al Sud.
Si può sperare sull’ex ministro Gaetano Manfredi? Nulla da fare. Il PD di Manfredi canta a coro con la Lega di Salvini e non ha fatto nemmeno il referendum. In Emilia Romagna, infatti, sono stati più sbrigativi e l’Assemblea legislativa ha dato mandato al Presidente della Regione Stefano Bonaccini, di avviare  trattative con il Governo. Bonaccini, passato da Bersani a Renzi, uomo della destra del PD, il partito che è probabilmente il principale responsabile dello sfascio del Paese e del Sud in particolare. Non ho parlato di Bassolino? No. Ma lui fa parte a buon diritto e storicamente del gruppo dei distruttori.
Alessandra Clemente e la sua coalizione hanno, com’è noto, una posizione completamente diversa, ma invano chiedono ai candidati avversari di prendere posizione sul tema: Manfredi, Maresca e Bassolino hanno cambiato idea e sono contrari? Se è così, possono spiegarci per favore perché si fanno sostenere da forze che sono invece tutte favorevoli?

Candidato di Potere al Popolo

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La scuola apre con tre suicidi. Stanno massacrando la popolazione, soprattutto i giovani. E non parlo dei talebani asiatici, ma di quelli nostrani: i neoliberisti. A cominciare da candidati sindaco tipo Bassolino, Maresca e Manfredi, tutti in varia misura sacerdoti del pensiero unico e dalla sua Bibbia, l’austerità. Tutti sostenitori di un governo che dovrebbe togliere velocemente il disturbo!


«Non parliamo di cose, parliamo di persone. Sono le persone in carne ed ossa a costruire le gallerie, sono loro a guidare i treni, sono loro a fare sacrifici tutti i giorni per i cittadini. Come il lavoratore napoletano che ha perso la vita nel cantiere della metropolitana. A lui […] ho rivolto un pensiero commosso».

Così scrive su Facebook Gaetano Manfredi, candidato sindaco di Napoli.
 
Il fatto è, caro Manfredi, che le persone prima o poi se ne vanno, mentre le cose restano. Resta, per esempio questa «cosa»: lei è candidato di un partito che nel corso degli ultimi anni ha firmato le leggi peggiori per i lavoratori. Vuol parlare di «cose»? Eccone una su cui lei tace, forse perché il PD che la candida sostiene Draghi persino quando, come ha fatto quest’anno, mette in bilancio una spesa di 25 miliardi per armi di ogni genere e un misero miliardo per la Sanità. Lei può anche tacere, tuttavia questa è una «cosa» che la chiama in causa direttamente, perché non ha speso una parola per condannare una scelta così scellerata.
Sa quali sono le conseguenze di questa «cosa» che lei preferisce ignorare? Stia a sentire e capirà.
Poiché da anni chi ci governa regala miliardi a chi vende armi,  il Centro di salute mentale della V Municipalità non ha un quattrino e taglia servizi. Orari notturni aboliti, psicoterapia praticamente cancellata. Chi sta male di notte non trova soccorso ed è solo coi suoi guai. Di giorno, poi, si può star male dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica no, perché il Centro chiude il venerdì sera e riapre il lunedì mattina. Se tutto va bene, nelle ore in cui è aperto, il Centro offre solo un soccorso farmacologico. Pensionata la psicoterapia, chi non sta bene può solo sperare di trovare un dottore misericordioso che gli riveli una sorta di segreto: provi a portare la sua sofferenza a Via Adriano. Lì, se l’accolgono, una mano forse la trova. Da buon migrante della salute, però, a Via Adriano il poverino scopre che prima di ricevere cure deve pagare un ticket presso uno sportello aperto solo la mattina a Via Scherillo.
Acqua, vento, solleone, benché bisognoso di assistenza, il migrante porta a Via Scherillo la sua anima in pena, ma è comunque un fortunato: finalmente può sperare di non doversi imbottire di psicofarmaci e non dover fare i conti con l’assuefazione. Può sperare, insomma, che sia terminato il suo calvario di involontario drogato. Naturalmente, come ogni migrante, deve rassegnarsi alle angherie di leggi, circolari e funzionari che fanno il bello e il cattivo tempo. In questi giorni, per esempio, uno sventurato sofferente mi ha raccontato la sua esperienza di cittadino di serie b.
Tutto è cominciato con un medico di base che non gli ha potuto fare la richiesta dei colloqui, perché gli è scaduto il contratto! Ha letto bene: abbiamo bombe a volontà e scarseggiano i medici, sui quali risparmiamo per acquistare cacciabombardieri. Senza medico di base, il povero migrante non ha avuto scelte. Si è imbarcato su un gommone malsicuro e ha iniziato la traversata, sperando di sbarcare a Lampedusa. Male come stava da giorni, nonostante gli anni, il malessere e l’avvilimento, ha allontanato la tentazione del suicidio, s’è fatto forza, è riuscito ad avere la richiesta e ad approdare all’ufficio ticket. Lì, però, si è trovato contro un muro: i migranti della salute, infatti, non pagano più il ticket a via Scherillo. Dove lo pagano? L’impiegato non lo sapeva gli ha consigliato di chiedere a Via Adriano.
Ricacciata in gola la voglia di piangere, in preda a una crisi di panico, l’uomo per fortuna ha scelto la vita. Ripreso il gommone, ha raggiunto boccheggiante Via Adriano, ma lì ha scoperto che i napoletani migranti, se sono fortunati, possono curarsi a Via Adriano, ma il ticket devono pagarlo in patria. Originario del Vomero, lo sventurato ha capito che la sua patria è la Municipalità Vomero-Arenella; una patria che non ha chi gli faccia la psicoterapia, perché i soldi se ne sono andati tutti per armi, munizioni e guerre umanitarie, ma prende gli euro per o colloqui che non fa. Cittadino del terzo mondo, il paziente ha affrontato i rischi di una nuova traversata sul solito gommone e come Dio ha voluto è sbarcato stremato a via Mario Fiore.
Accatastati come in un treno piombato per Auschwitz, senza regole di distanziamento, lì ha scoperto che assieme a lui erano sbarcati un centinaio di malati di tutti i mali. Che fare? Nonostante l’agitazione, s’è messo in fila ad aspettare. Attorno a lui, nel girone infernale, una umanità che riesce a essere ancora solidale. Un ammalato che cedeva il passo a una vecchina novantenne più malata di lui, un altro che scovata una sedia la dava a un uomo molto anziano cui non bastava il bastone e un giovane settantenne che trovava la forza per spingere nel labirinto di uffici e corridoi la carrozzella d’una paralitica in difficoltà. A mezzogiorno l’ufficio ha chiuso. Il migrante sopravvissuto a lunghe traversate  ha trascinato il suo malessere fino a casa con una speranza cui aggrapparsi: se le notti eterne dell’ansia e la fatica di vivere lo consentiranno, il 13 settembre farà il suo colloquio. Intanto droga a volontà!
Glielo dico senza far polemiche, Manfredi. Discuto di «cose». Se lei e il suo partito dovessero mettere di nuovo le mani sulla città, per Napoli questa sarebbe una «cosa» catastrofica.

Candidato di Potere al Popolo!

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Era vero, quindi: il debito che grava sul Comune di Napoli rendeva e rende difficile, se non impossibile, garantire un’amministrazione rispettosa dei diritti costituzionali della sua gente. Per convincere Gaetano Manfredi a presentare la sua candidatura a sindaco della città c’è voluto, infatti, un documento congiunto, firmato da Letta e Conte per il PD e i 5 Stelle, col quale i due hanno rassicurato il coraggioso coniglio: sta tranquillo, Gaetano, non sarai trattato come chi ti ha preceduto. I soldi che a lui sono stati negati, tu li avrai. In cambio sia che devi fare. Gli amici sono stati generosi…
I mali della società – ebbe a scrivere Robespierre – non provengono mai dal popolo, bensì dal governo. L’interesse del popolo è infatti il bene pubblico, quello di individui che stanno in posti di comando è, al contrario, un interesse privato. Se questo principio ci appartenesse ancora, dopo la lezione appresa dalla Rivoluzione borghese, vedremmo ancora un principio etico nella politica, pretenderemmo perciò i soldi promessi a Manfredi e ci rifiuteremmo di votare l’ex ministro che accettò di governare la Scuola e l’Università senza un centesimo da spendere.
Un ministro è la parte di un tutto e può facilmente nascondersi dietro le responsabilità collettive di un governo. Un sindaco no: se il governo toglie alla città che amministra l’aria per respirare, il sindaco – a prescindere dalle sue responsabilità – diventa subito il primo colpevole di ciò che va male. Eppure dovremmo saperlo che Governi e Regioni amministrano l’ossigeno secondo criteri vergognosi del tutto estranei alla politica: valvole aperte per gli amici, asfissia per chi canta fuori dal coro.
Gli applausi soddisfati che giungono dai killer d’una città martoriata sono nauseanti. Spiegano chiaramente a chi non l’avesse capito che ormai gli interessi di bottega vengono prima di quelli dei cittadini. I quali, però, anche questo va detto, sembrano aver rinunciato a esercitare un minimo di capacità critica. Vedono il nemico dove non c’è e accettano come amico chi fino a ieri li pugnalava alle spalle.
C’è stato un tempo in cui lo sapevamo bene: nessuno è tiranno senza essere al tempo stesso schiavo. Purtroppo l’abbiamo dimenticato e perciò, se tutto resta com’è, un tiranno servo vincerà queste elezioni e a perdere sarà certamente la stragrande maggioranza della popolazione.

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Chi erano gli sponsor e quali obiettivi aveva il “rinnovatore della politica” lo sapevano tutti.
Tutti, nessuno escluso, sapevano che “l’uomo nuovo”, candidato con Ingroia contro Zingaretti, da buon trasformista, era passato improvvisamente col segretario del PD – il partito di De Luca – accettandone la candidatura. Lo sapevano tutti che con quella scelta svendeva la sua storia per un posto in Senato.
Tutti sapevano, nessuno escluso, che a sostenerlo c’erano, tra gli altri, il PD e Renzi, con la sua Italia Nuova e con Graziella Pagano: alcuni tra i principali carnefici della povera gente.
Si sapeva anche – lo sapevano tutti – che se il “rinnovatore” avesse vinto, non avrebbe fatto nulla di ciò che prometteva; sarebbe immediatamente finito tra i galoppini di De Luca, l’uomo della trasparenza e delle “fritture di pesce”.
Lo sapevano tutti, insomma, che votarlo era un’autentica vergogna, eppure quasi tutti scelsero di comportarsi vergognosamente. Perché?
Perché odiavano Potere al Popolo e speravano di affondarlo. Per questo nobile motivo votarono un amico dei peggiori nemici della gente di sinistra. Poi, come spesso accade, la storia presenta il conto.

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Quando la tempesta sarà passata, non basterà piangere i  morti e calcolare il prezzo atroce che stiamo pagando e pagheremo. La sera, quando le televisioni ci comunicano le cifre aggiornate di questa mortale traversata del deserto, ricordiamoli, teniamoli bene a mente i criminali della banda del caminetto, i soci d’affari sporchi del patto del Nazareno e il pianto omicida della ministra. Non dimentichiamo nemmeno per un momento le sigle che hanno firmato il disastro, scavando la fossa alla Sanità pubblica, per arricchirsi e arricchire parenti, amici e conoscenti del settore privato: Prodi, D’Alema, Veltroni, Bersani, Renzi, Casini, Berlusconi, Meloni, Salvini, la Lega, il PD, Fratelli d’Italia, Forza Italia. Ricordiamo con loro i bancarottieri, i capitani d’industria e gli uomini della finanza.
Ogni sera, a mano a mano che sale il conto dei morti e il bilancio si fa più terribile e disumano, teniamoli bene  a mente e giuriamolo a noi stessi: li faremo sparire per sempre dalla vita politica ed economica del nostro Paese.   

Agoravox e Zazoom, 12 aprile 2020 

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E’ il caso di ricordarlo: non si comprende il senso profondo della storia moderna se non si ha ben chiaro il concetto di rappresentanza politica. In suo nome si è combattuta infatti la battaglia epocale contro la monarchia assoluta e dalla sua vittoria sono nati il superamento dell’ancien régime, il sistema politico costituzionale in età liberale e le democrazie del Novecento.
Oggi, al di là dell’ideale irrealizzato della democrazia diretta e partecipativa, la realizzazione concreta della rappresentanza politica sono le assemblee parlamentari periodicamente elette e i parlamentari che ne costituiscono il “contenuto”. Questo non significa naturalmente che la vicenda storica sia ferma alla Rivoluzione francese. La fine della rappresentanza per ceti, la nascita dei partiti di massa, il suffragio universale, il voto alle donne, per esempio, hanno modificato e affinato il concetto iniziale di rappresentanza.
Benché il contrasto sul significato e sulla funzione dei rappresentanti sia insuperato  ancora insuperato, è indiscutibile: nel processo storico che ci conduce al mondo contemporaneo, il regime politico rappresentativo costituisce l’antitesi dei regimi che non sono soggetti al controllo politico dei cittadini. Benché non cancelli del tutto la distanza tra governanti e governati, la democrazia rappresentativa garantisce a questi ultimi il controllo sul potere politico. In questo senso, il ruolo della minoranza, il rispetto che a essa deve la maggioranza e la distanza netta che divide l’una dall’altra è il carattere costitutivo della nostra repubblica parlamentare.
Quale che sia il ruolo che si voglia assegnare ai parlamentari – quello di delegato, di fiduciario o di “specchio fedele” in un quadro di rappresentatività sociologica – in una democrazia più il numero dei parlamentari è adeguato a quello dei cittadini, più netto è il confine tra maggioranza e minoranza, più reale è la finzione di rappresentanza del Parlamento e non ci sono dubbi: le strutture della democrazia e l’ethos stesso della rappresentanza perdono ogni valore reale quando la minoranza si confonde con la maggioranza, al punto che un parlamentare può essere eletto con il contemporaneo appoggio delle forze di opposizione e di quelle di maggioranza. Quale controllo reale, quale rapporto fiduciario, quale ruolo di delega può assicurare un parlamentare eletto in questo modo? E come si potrà parlare di “regime politico rappresentativo”?
In questo senso, il caso di Sandro Ruotolo – per forza di cose il senatore meno votato nella storia della Repubblica – sostenuto da demA e dal PD, da chi governa e da chi si oppone, da nemici acerrimi come De Luca e De Magistris, dal PD e da chi, come Renzi, ha rotto col PD, non è solo un esempio doloroso del degrado della politica, ma una grave ferita a quella garanzia del “controllo” da cui trae la sua legittimità la nostra democrazia rappresentativa.

 

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