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Posts Tagged ‘Stalin’

storiadiunaladradilibri-08Purtroppo non si tratta semplicemente di fascismo e stalinismo, confuso peraltro avventatamente col comunismo. E’ che una banda di politici analfabeti, incapace di distinguere tra la storia e la sua filosofia, ha avuto l’arroganza di ergersi a giudice di aventi consegnati alla complessità del passato e pronunciare sentenze.
E’ un oltraggio all’intelligenza dell’uomo, ma oggi l’insolubile nodo del tirannicidio, la controversa memoria di Bruto e Cassio (violenti parricidi o sacri tutori delle libertà repubblicane?) non ha più ragione d’essere. Non chiederemo lumi a Plutarco, che pone Bruto accanto a Dione, ma alle marionette sedute sugli scranni del Parlamento Europeo ed essi, dall’alto della loro totale ignoranza  della vicenda umana, li collocheranno sui più sacri altari del neoliberismo o li condanneranno come criminali nemici dell’umanità.
Se questo potere nuovo – previsto a annunciato da Orwell – non finirà sepolto sotto il prezzolato ridicolo che l’ha creato, nessuno potrà mai più capire quale dignità possa toccare ai simboli vaticani dopo Giordano Bruno, Tommaso Moro, Serveto e l’Inquisizione e, per quanto acuta, non ci sarà intelligenza storica in grado di conciliare i simboli della pretesa civiltà occidentale, con la tragedia del colonialismo e la ferocia dell’imperialismo.
Si può, infatti, porre sullo stesso piano il nazifascsimo e lo stalinismo levato a simbolo del comunismo, fingendo d’ignorare la lezione di Fanon sulla degenerazione e le aberrazioni dei sentimenti umani che colonialismo e imperialismo hanno prodotto sull’idea di politica, sull’etica e sulla psicologia dei colonizzatori?
Cosa è stato e cosa è il nazismo, se non il fiore maligno seminato dal colonialismo nella mente dei colonizzatori, e come si fa a negare che tutta la storia del nazismo si riduce all’applicazione feroce contro gli europei, dei principi e dei metodi che gli europei avevano utilizzato contro tutto il pianeta sottomesso?
Stalin non c’è più. Ci sono, invece, e dettano legge i neocolonialisti, eredi diretti del nazismo. Di nuovo c’è – ed è paradossale – che oggi i criminali sono giudici dei loro reati.

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L’Italia benpensante e «progressista» crede – o finge di credere? – che Renzi sia il segretario di un partito della sinistra democratica, che l’Unione Europea sia il paradiso della democrazia e la nuova Germania un Paese che non ha più nulla da dividere con quel nazismo, che – non sarà una bestemmia ricordarlo – è parte importante della storia contemporanea tedesca, come da noi il fascismo.
Poiché dopo la guerra l’università s’è tenuto caro il corpo docente che aveva giurato in massa fedeltà al fascismo, provando addirittura a dare «fondamento scientifico» alle leggi sulla razza, il filo della cultura fascista qui da noi non s’è mai spezzato e le tesi di Ernst Nolte, uno dei massimi storici della Germania contemporanea, per il quale sarebbe un errore attribuire carattere di bontà e di giustizia a tutto ciò che si oppone al nazionalsocialismo, non  suscitarono particolare allarme. Eppure, per lo studioso tedesco – che mise in ombra lo sterminio dei comunisti e di tutti gli oppositori del nazismo – l’antisemitismo di Hitler si spiega con un presunto appoggio degli ebrei ai bolscevichi e giunge allo «sterminio etnico» come risposta allo «sterminio di classe» attuato dai sovietici. Senza la «barbarie asiatica», insomma, non ci sarebbe stato l’Olocausto e Hitler, in fondo, si sarebbe «limitato» a copiare i gulag, contrapponendo alla «ferocia» della «lotta di classe», la sua atroce «lotta di razza». Può sembrare un delirio, ma il messaggio è chiaro: il nazismo nacque per colpa dei comunisti. Non contento, lo storico tedesco riconobbe onestà intellettuale e rigore scientifico a Carlo Mattogno, maggior esponente della corrente storiografica che, senza negare la persecuzione, i lager e le sofferenze, sostiene che mancano prove dell’Olocausto. Per nulla scandalizzata, all’inizio del nostro secolo, la Germania ha poi assegnato al suo storico il «Premio Konrad Adenauer» per la scienza, la cui tesi della consequenzialità, qui da noi, aveva già trovato in De Felice il suo propagandista nelle università.
E’ difficile immaginare che sarebbe accaduto al mondo, se l’Armata Rossa non fosse giunta a Berlino e la Germania avesse conquistato la Russia, perché la storia non si fa coi se, ma non farà male a nessuno, alla vigilia di un voto sull’Europa a trazione tedesca, ricordare che con questi precedenti l’UE è giunta alla crisi Ucraina e si è prontamente impegnata a sostenere i neonazisti, come micidiale strumento di morte da usare a favore delle ambizioni della Nato e del capitalismo occidentale. E val la pena rammentare anche, agli smemorati elettori del «democratico» Renzi, che il processo di criminalizzazione del comunismo, vero pilastro della lotta al nazifascismo – di fatto, una tacita «rivalutazione» del ruolo di Hitler – è iniziato da tempo ed è perfettamente in linea con le scandalose tesi del premiato storico tedesco. Nel 2003 il vicepresidente del Partito dei Lavoratori ungherese, Attila Vajnai, fu processato per essersi presentato a una conferenza stampa con una stella rossa sul bavero della giacca. All’epoca, presidente della Commissione Europea era Romano Prodi, democratico della più bell’acqua, che col Partito di Renzi ha molto da dividere; interrogato da un europarlamentare comunista greco sul caso Vajnai, Prodi non ebbe esitazioni. Per lui, la messa al bando del Partito Comunista in un paese che entra nell’UE non può generare critiche o particolari dibattiti.
Tutto ciò, nel silenzio dei nostri ex comunisti che, passati intanto al seguito di Prodi e oggi agli ordini di Renzi, non solo non difesero la loro storia e i loro simboli, ma provarono a inventarsi un Gramsci ostile al PCI, perché non sarebbe poi facile mettere al bando un uomo della sua statura morale e la sua eredità politica e culturale. Non a caso, qui da noi, in quegli anni, presero ad impazzare, impuniti, vecchi e nuovi fascisti, si mise mano alla Costituzione e si prese a processare la Resistenza: si volevano creare condizioni adatte a una futura estensione del bando a tutti gli Stati membri dell’Unione. Erano gli anni in cui si parlava di «Costituzione Europea» e si fingeva di ignorare che l’Europa Unita aveva già avuto una sua buona legge fondamentale, approvata dal Parlamento Europeo, ma rifiutata dagli Stati Nazionali.
Alla vigilia delle elezioni europee, non sarà male ricordare gli arrestati di Budapest, colpevoli di aver mostrato un distintivo con la stella rossa alla manifestazione che si tiene ogni anno al Piazzale degli Eroi, e rammentare a Renzi e ai suoi smemorati elettori che la nostra Repubblica e l’Unione Europea non sarebbero mai nate senza il sangue versato dai partigiani comunisti e dai milioni di sovietici caduti combattendo contro i tedeschi di Hitler. Quei tedeschi che oggi riconoscono i nazisti golpisti di Kiev.
E’ vero, sì, dai tempi di Marx ed Engels la stella rossa accompagna il movimento operaio e la lotta di classe, ma proprio per questo è diventata simbolo delle conquiste dei lavoratori e di una grande stagione di lotte per il riscatto delle classi subalterne. Un simbolo di civiltà. Quella civiltà che il capitalismo, ben rappresentato da Nolte, sta cancellando dalla storia dell’Europa a trazione tedesca, facendo appello una volta ancora a svastiche naziste, alla sistematica violazione del diritto internazionale e della sbandierata autodeterminazione dei popoli.
Chi finge di ignorare tutto questo, votando il pupo fiorentino, non s’illuda di punire Stalin: darà solo una mano ai padroni del vapore che sostennero i nazifascisti. Quei nazifascisti ai quali l’Unione Europea, Merkel in testa, copre oggi le spalle a est.
E’ vero, la storia non si ripete, ma le tragedie sì. Le tragedie si ripetono.

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fedeli-alla-classeSe, come vuole Croce, un saggio storico ha senso quando coglie un nodo storiografico, non c’è dubbio: mentre la Cgil firma accordi che Giorgio Cremaschi, vecchio leader della Fiom, definisce “patto corporativo”, la vicenda della rinascita del sindacato tra fascismo e repubblica offre preziose chiavi di lettura del presente. Del sindacato in Italia dopo l’armistizio, si occupa Francesco Giliani nel suo «Fedeli alla classe. La Cgl rossa tra occupazione alleata del Sud e ’svolta di Salerno’ 1943-45», A. C. Editoriale 2013, € 13,00. Studioso alla prova d’esordio, Giliani s’è formato in una università che prima l’ha mandato in giro per il mondo in cerca di fondi inesplorati poi, temendolo eretico, lo ha lasciato al suo destino; lui, in attesa del fioretto che avrà in dote dall’esperienza, mette mano all’accetta per ipotizzare difficili esiti rivoluzionari della guerra persa, ma firma un lavoro di grande interesse, che risponde a problemi storici reali.
Sono anni ormai che circola il profilo di un’Italia delle aziende e dei suoi capitani coraggiosi che nobilitano le leggi del profitto col coraggio di chi rischia del suo, investe sul merito al di là delle ideologie, ma «Ribelli alla classe», che parla di rivoluzionari e non fa l’elogio dei capitalisti, di fatto è auto pubblicato; «ciclostilato alla macchia», direbbe Gaetano Arfè con amara ironia. Per l’Anvur, quindi, che – piaccia o no – riduce la valutazione della ricerca a strumento di controllo del pensiero, il saggio non vale una cicca: non vanta citazioni anglo-sassoni e non ha editori noti, come capita di norma a chi canta fuori dal coro in tempi di «larghe intese» e pensiero unico, quando le collane di storia sono più che mai in mano a baroni e sponsor ne trova soprattutto chi flette la schiena. Eppure basta leggerlo, il saggio, per capire che la sua parte l’autore l’ha fatta. S’è messo al lavoro, ha scovato carte preziose e ricostruito con dovizia di documenti e perizia di analisi la storia della CGL «rossa» tra sbarchi alleati, svolta di Salerno e il Pci che va al governo col la Dc. La storia, in gran parte cancellata, di un pugno di azionisti e comunisti – Antonio Armino, Dino Gentili, i fratelli Villone, Antonio Cecchi – che, caduto il fascismo, riorganizzano il sindacato. Il leader del gruppo, Enrico Russo, cresciuto alla scuola di Buozzi, ha guidato la Fiom campana ai tempi di Bordiga s’è scontrato con gli stalinisti in Spagna, ha provato le delizie della democrazia in campi d’internamento in cui la Francia chiuse – e spesso lasciò morire – i combattenti sfuggiti a Franco. Tra galera e confino, ha maturato l’idea di un sindacato che non si apra ai «nemici della classe lavoratrice che rimangono sempre gli stessi, anche quando si siano decisi a buttare a mare il fascismo», perché non ha vinto la «guerra dalla quale si ripromettevano nuovi mercati, […] materie prime e, soprattutto, nuovo lavoro umano da sfruttare». Un sindacato conflittuale di classe, che dica la sua sulle politiche per il lavoro, rifiuti di far causa comune con la DC, che schiera giuristi a difesa dei fascisti da reclutare, e incarni un’idea moderna di organizzazione, fondata su un irrinunciabile principio: l’organizzazione non è cinghia di trasmissione dei partiti.
Lo scontro col Psi e soprattutto col Pci di Togliatti è nelle cose; Giliani riprende la polemica di Cortesi con una storiografia ferma al disegno di un Sud in perenne ritardo sulle dinamiche storiche, ricordando la forza del movimento operaio che si organizza attorno al nuovo sindacato, l’aspra lotta con chi vuole resuscitare la vecchia CGdL e le leghe bianche, la critica alla collaborazione di classe con Badoglio. Le carte reperite all’estero gli consentono di dubitare dello «spauracchio di una prospettiva greca» e di un maccartismo retrodatato al ’43. E’, di fatto, la messa in discussione della «vulgata» che fa della minacciosa resistenza degli Alleati all’estirpazione del fascismo l’origine della mancata epurazione e presenta gli occupanti come un maglio pronto a colpire. In questo senso, rivoluzione o no, fa impressione scoprire i Comandi alleati preoccupati per le jeep «americane e francesi che il Primo maggio del ’44 andavano in giro a Napoli con bandiere rosse sul radiatore». L’idea stessa di un’armata reazionaria, pronta a spegnere nel sangue gli aneliti di reale democrazia, vacilla di fronte ai soldati britannici che, ancora in servizio, nelle elezioni del ’45 votano laburista per il 60 %, mentre i Comandi annotano che degli americani impegnati in Europa, molti sono italo americani, figli di anarchici e socialisti e un milione e 250 mila, iscritti ai sindacati, sono reduci da scioperi e fabbriche occupate nel 1934-37. Soldati che, riferiscono le carte, hanno contatti con gli operai, conoscono la solidarietà e donano i proventi del contrabbando di sigarette ai lavoratori che organizzano il sindacato. Sconcerta scoprire che, con l’accordo di Roma, quando nasce la CGIL e i partiti rovesciano il tavolo e sconfessano Russo, a Luigi Antonini, Serafino Romualdi e Vanni Montana, i sindacalisti italo-americani giunti in Italia per indirizzare i lavoratori verso il modello anglosassone, non resta che prendere atto: «i comunisti evidenziano che sono anzitutto italiani e solo in seconda battuta comunisti». Fingono? Per gli Alleati conta poco: i democristiani, notava Romualdi sono «un cane da guardia e finché saranno nella Cgil non permetteranno ai comunisti di perpetrare inganni».
Per Spriano, ricorda Giliani, un sindacato con i «bianchi» era il corollario necessario della politica di unità nazionale e di democrazia progressiva di Togliatti. Non era così per la Dc e Russo l’aveva capito. Egli, tuttavia, uscì sconfitto per limiti organizzativi della sua CGL e per il grande prestigio di Stalin che si riverberava su Togliatti. Eliminati i «rivoluzionari» e foraggiata adeguatamente la Cgil, tutto andò bene finché, forte all’interno e in una mutata situazione internazionale, De Gasperi mise alla porta le sinistre e di lì a poco anche l’unità sindacale andò in frantumi. Da quel momento i comunisti passarono all’opposizione e vi rimasero. La democrazia, più che progressiva, risultò così incompiuta: né figlia d’una rivoluzione, né d’una rottura pacifica col lo Stato fascista.
Il libro di Giliani merita di essere letto se non altro, perché contribuisce a sollevare la pietra tombale posta su Enrico Russo e la sua CGL, E’ incredibile, ma vero, questo comunista, eretico quanto si vuole, ma di indiscutibile spessore, morì solo e dimenticato in un ospizio per i poveri, nel 1973. Per lui non s’era trovato posto nemmeno nel dizionario biografico del movimento operaio.

È possibile richiedere il volume scrivendo a: fedeliallaclasse@libero.it

Uscito su Fuoriregistro, Liberazione e Report on line il 7 novembre 2013

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“Qui rido io” scrisse all’ingresso della sua villa, chiamata “Na santarella”, il celebre commediografo Eduardo Scarpetta. 260px-La_Santarella100_1811[1]Senza tentare paragoni irriverenti, questo blog è la mia villa napoletana e anch’io avviso idealmente chi legge: “Qui scrivo io”. Quella che segue, perciò, è una vera eccezione alla regola. Per una volta mi affido alle parole di un grande storico del Novecento, Gaetano Arfè, di cui ho avuto la sorte di essere amico. E’ un gesto di umiltà, ma anche la calcolata rinuncia a tentare una battaglia estenuante. Non spero più di poter discutere della tragedia delle foibe con qualche risultato. Non me la prendo con gli interlocutori. Sono i miei insuperabili limiti a decidere per me. Qui scrivo io, ma stavolta, a conclusione di una corrispondenza inizialmente tempestosa, lascio la parola a uno degli intellettuali più acuti del Novecento italiano. Uomo di grande onestà intellettuale. Di mio solo una premessa, in modo che chi avrà la pazienza di leggere, capirà di che si tratta. Al sig. Ernesto della Sernia, che ha avuto la bontà di commentare per ben due volte un mio intervento in difesa di Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi, mie amiche e valenti studiose, dirò solo due parole, che non pretendo condivida e non aprono discussioni: dopo la fine della guerra, la sinistra ebbe un suo breve ruolo, poi fu battuta dalla Dc che governò per lunghi decenni. La sua “potenza mediatica e culturale” nel dopoguerra fu a lungo perciò pari a zero. Dopo vent’anni e più di dittatura, gli storici di sinistra furono costretti a ripartire da dove si erano fermati i loro maestri con l’avvento del fascismo. La scuola e le università rimasero a lungo feudo di un mondo che non si era dissolto con la caduto del regime. La mia generazione ha studiato la storia sui libri fascisti – a stento riveduti e corretti – e bisognò attendere i manuali di Spini e Saitta e gli anni Sessanta per sapere cos’era stato il fascismo non solo nei Balcani, ma anche nelle colonie d’Africa. In quanto alla Germania, nonostante Norimberga, si è trovata a fare i conti con storici come Nolte che, a partire dal suo celebre “I tre volti del fascismo” fino al volumetto intitolato “Gli anni della Violenza”, non solo definì il fascismo essenzialmente antimarxismo, ma lo descrisse come un’esperienza europea. Egli aprì così la strada a una lettura del nazismo che ne faceva il figlio naturale di una sorta di baluardo contro il bolscevismo o, per dir meglio, contro la barbarie bolscevica. In pratica, egli trovò una giustifica al nazismo e affermò che il nazionalsocialismo aveva certamente ecceduto, ma era stato soprattutto una replica alla minaccia bolscevica.
Gli storici di sinistra, quelli veri, Kersevan e Cernigoi tra loro, hanno provato in tutti i modi a raccontare i crimini del nostro Paese. Non sono riusciti però a farli entrare nella memoria collettiva. E’ vero, noi manchiamo di una storia seria della repubblica; ma questo non è accaduto perché non l’abbiamo voluta scrivere. E’ che le carte necessarie sono secretate. Da Portella della Ginestra, a Piazza Fontana, dall’Italicus a Brescia, a Bologna e all’aereo abbattuto a Ustica, noi siamo urtati e urtiamo nel segreto di Stato, nell’omertà dei militari e dei servizi segreti. Provi l’ottimo sig. Ernesto ad entrare negli archivi militari e scoprirà che uomini come Roatta, appesi alle pareti e incorniciati con tutti gli onori possibili, ancora oggi sfidano gli storici. E si ricordi: l’italianizzazione dei Balcani contò molto sulla diffusa complicità del nazionalismo e dei nazionalisti italiani. Non spero di averlo convinto e dubito che ci riesca Arfè. Una cosa mi conforta: essendosene andato da qualche anno, il mio amico Gaetano non potrà continuare la discussione. E non lo farò io. Questo blog è la mia villa napoletana, la mia ideale “santarella”. Qui scrivo io.

Foibe, un silenzio con tanti padri

Le foibe sono episodio tragico di una lunga storia che comincia da lontano, dalla fine della “grande guerra” quando sul problema dei rapporti con la Jugoslavia, “fungo velenoso nato nei boschi di Versailles”, si spaccò in Italia il fronte dell’interventismo. Leonida Bissolati, nel suo ultimo discorso, alla Scala di Milano, fu accolto dai fischi e dagli insulti dei nazional-fascisti e bollato come “croato onorario” e Gaetano Salvemini si vide il nome storpiato in quello di Slavemini. Lo squadrismo aggredì col ferro e col fuoco uomini, sedi e istituti degli slavi di Trieste. Il governo fascista seguì, nei loro confronti – come dei tedeschi dell’Alto Adige – una odiosa e stolida politica di persecuzione sistematica e di programmatica snazionalizzazione, che non si fermò neanche di fronte alle lapidi dei cimiteri e mutuò poi dai nazisti i metodi per assoggettare i popoli della Jugoslavia, la cui tradizione è satura di lotte secolari, sanguinose e crudeli, della cui recrudescenza siamo stati in date assai recenti testimoni. La documentazione è vasta, varia e inoppugnabile e mi limito a ricordare tra gli apporti più lontani le pagine dello stesso Salvemini, che per il comunismo, italiano e slavo che fosse, non ebbe mai indulgenze, tra quelli più recenti e facilmente accessibili lo scritto di Giacomo Scotti apparso nel Manifesto.
Tutto questo non giustifica ma spiega l’orrore dell’eccidio delle foibe. Una spiegazione, invece, va cercata per la petulanza, la meschinità, la strumentalità volgare che inquinano la campagna in atto, legittima e anche doverosa verso le vittime, per portare alla consapevolezza di tutti il crimine allora commesso, ma che, detto in parole semplici, mira a un obiettivo politico rozzamente perseguito: una chiamata di correità postuma per D’Alema e Fassino, una ennesima accusa alla cultura di sinistra di avere imposto sull’evento la congiura del silenzio.
Lascio agli interessati il compito di smentire solennemente che nella parte “secretata” del loro programma di governo ci siano la restaurazione del Tribunale Speciale, ben noto al vicepresidente del Consiglio, e il ripristino della pena di morte. Mi limito a dare una pacata risposta a Ernesto Galli della Loggia, il quale, in stridente contrasto con Claudio Magris e in suggestivo connubio con Giuliano Ferrara, che non ha mai utilizzato quella preziosa fonte sulla storia del comunismo italiano che è la sua tradizione familiare, ha ribadito ancora una volta l’accusa di colpevole reticenza agli intellettuali di sinistra che controllavano l’editoria, che erano annidati nella stampa, che – non lo ha detto, ma si può presumere – avevano un loro Min. CuI. Pop – il ministero fascista della cultura popolare – donde si diramavano direttive circa i temi di cui era lecito parlare. La giovane età non consente a Galli della Loggia di avere un nitido ricordo di quegli anni ed è presumibile che gli manchi il tempo e forse anche l’addestramento per cimentarsi nella ricerca. Egli non sa che delle case editrici da lui chiamate in causa Laterza era sotto l’ala di Croce, ancora vivo, e che, notoriamente, non aveva simpatie comuniste, la Feltrinelli non era ancora nata e solo Einaudi era legato al partito comunista; non sa che sulla grande stampa, che allora si chiamava borghese o padronale, le firme di collaboratori comunisti o anche socialisti erano più rare delle mosche bianche; non sa che per i giovani con una tessera rossa in tasca era impresa assai ardua vincere un concorso per entrare in una scuola, in un archivio o in una biblioteca. Le ragioni dei silenzi, e non solo sulle foibe, sono più complesse e intricate di quanto egli creda.
Una, della quale la responsabilità ricade sulle sfere dirigenti anche del nostro paese, è che la rottura verticale di Tito con Stalin e la posizione assunta dalla Jugoslavia in campo internazionale indusse tutto il campo atlantico alla benevola indulgenza nei confronti del suo regime e anche il trattamento piuttosto rude riservato agli stalinisti del suo paese fu accettato col silenzio.
Per quanto riguarda la sinistra va detto che le coscienze, e non solo quelle degli intellettuali, frastornate e sconvolte dalla enormità della catastrofe che si era abbattuta sui popoli, letteralmente stentavano a prendere lucida coscienza di quanto era avvenuto, a valutarne le manifestazioni, a giudicarne gli effetti, a stabilire graduatorie degli orrori. A segnare e a qualificare la guerra era stato il ricorso deliberato, programmato e indiscriminato al terrore che colpiva i combattenti, ma anche, e in molti casi con maggiore ferocia, le popolazioni civili, e gli episodi erano tanti che anche la capacità di sdegnarsi ne risultava allentata: le bombe sulle città inglesi, su Coventry che ispirò in Italia il brillante .neologismo “coventrizzare”; le “città fucilate”, da Oradour a Lidice, da Marzabotto a Kragujevak; i campi di sterminio. E c’erano anche le rappresaglie anglo-americane sulla Germania – Dresda rasa al suolo -; le fosse di Katin scavate e riempite di morti polacchi dai soldati dell’Armata rossa; l’atomica su Yroshima e la replica su Nagasaky. Neanche le persecuzioni antiebraiche e i campi di sterminio avevano un particolare rilievo in questo quadro: in un volantino antimonarchico largamente diffuso erano elencate tutte la grandi malefatte di casa Savoia a partire dal 1848, ma tra quelle di Vittorio Emanuele III non era denunciato l’atto più abietto, la legittimazione delle leggi razziali.
Gli intellettuali, in questo caso i giovani che si avviavano agli studi storici, non avevano, non potevano e non dovevano avere come primario interesse quello di ricostruire episodi di barbarie, quale ne fosse il colore, ma di dare della storia dell’Italia unita un’interpretazione che non fosse quella tramandataci dalla storiografia fascista o fascistizzata. I nostri maestri non furono gli storici d’accademia, furono Croce, Salvemini, Gramsci. Ci impegnammo a scoprire la storia di un’Italia sconosciuta, l’Italia dei partiti, del movimento operaio, dell’antifascismo, partendo da un problema storico appassionato: le ragioni della catastrofe nella quale eravamo stati precipitati. Eravamo ispirati da idealità apertamente professate, ma il nostro lavoro non fu, nella maggior parte dei casi, viziato da ideologismo. Facemmo della storia etico-politica, cercammo, cioè, di fare emergere l’importanza nel processo storico delle idee, dei valori, delle passioni che animavano le donne e gli uomini che ne erano protagonisti.
Il revisionismo storiografico dei tempi nostri è partito dalla legittima esigenza di allargare, articolare, approfondire il giudizio storico sul fascismo, ma nel suo procedere, e in coincidenza con l’avvento di Berlusconi, ha abbassato sempre più la storia a cronaca e ne ha degradato l’interpretazione a volgare propaganda politica.
L’ “operazione foibe” è, sotto questo aspetto, esemplare. L’episodio non era sconosciuto, ma non aveva avuto finora posto di rilievo nel macabro elenco delle stragi che hanno segnato la seconda guerra mondiale e poteva essere atto doveroso ricordarlo e metterlo in piena luce. Ma è imprudenza politica fame un atto di accusa contro sloveni e croati che sarebbero legittimati a presentare i conti, ben più pesanti, delle vessazioni e degli eccidi subìti; è vilipendio della storia estrapolare quel fatto dal suo contesto che è caratterizzato, fin dal suo primo formarsi dalla violenza fascista ed è ignobile che esso venga riesumato al fine di dar credito alle farneticazioni di un anticomunismo quarantottesco che non si è accorto della scomparsa definitiva dell’URSS e dei suoi partiti e che grottescamente denuncia nei dirigenti “diessini”, in Diliberto, in Bertinotti, i biechi e consapevoli strumenti di una politica destinata a seminare terrore “e a provocare morte”.
Negli anni del fascismo Benedetto Croce ci insegnò che la storia è storia della libertà e a quel monito ho ispirato le regole che mi hanno guidato nella mia attività professionale e politica. In essa era fedelmente riflessa la mia coscienza di uomo partecipe alla vita del proprio tempo. A conclusione di una lunga e sofferta esperienza durata una intera vita, alla libertà io oggi indissolubilmente associo la pace. E di qui faccio partire l’invito agli studiosi della più giovane generazione a intraprendere una revisione della storia d’Europa – la storia è sempre stata oggetto di revisione perenne – che parta dall’angosciante problema di andare all’origine della crisi che ha travolto, nello scorso secolo, la civiltà liberale e che io identifico nella guerra. Anche se sopravvissuti allo stato di larve, i miti dei nazionalismi scatenati e contrapposti ancora influenzano il giudizio storico. In realtà, la “grande guerra” non ebbe da nessuna parte nobiltà d’intenti, non fu da nessuna parte guerra per la patria, fu scontro di imperialismi. Di fatto essa demolì i valori nati dall’incontro dialettico del cristianesimo col liberalismo e col socialismo, impresse alle tendenziali linee di sviluppo delle economie una svolta incorreggibile, seminò, essa sì, terrore e morte e li levò a ideologia, fomentò l’odio tra le classi e tra i popoli. Quella guerra partorì dalle proprie viscere il bolscevismo, il fascismo e il nazismo e la pace dei vincitori ebbe a suo fatale sbocco la seconda guerra mondiale, cui hanno fatto seguito la guerra fredda e l’instaurazione di un ordine del pianeta terra che porta in sé i germi delle catastrofi.
In questa visione anche l’episodio delle foibe non sarà più un macabro confronto contabile di crimini orrendi e tutti imperdonabili, ma apparirà come manifestazione di quella stessa bestialità umana contro la quale, mano nella mano, come nei vecchi manifesti socialisti, tutti i popoli sono chiamati a muoversi, se l’umanità vorrà avere un futuro.

Gaetano Arfè, Foibe. Un silenzio con tanti padri, in Idem, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, La Città del Sole, Napoli, 2005. pp.395-400.

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Otto milioni di euro all’anno gli paga la Fiat ma, se parli di diritto del lavoro, è un vero analfabeta. Qualcuno gliel’avrà certamente spiegata la regola d’oro, ma non l’ha capita: “non c’è lavoro tanto penoso che non si possa proporzionare alle forze di colui che lo compie, a patto che sia la ragione a regolarlo e non l’avarizia”. Era in fondo persino banale, ma uno dei padri della democrazia borghese la volle scrivere, a testimonianza di quel tanto di civiltà che anche al capitale fa comodo salvare. Marchionne è convinto che Montesquieu sia stato solo un fanatico bolscevico.

Otto milioni di euro all’anno, tanti gliene dà la Fiat, ma se parli di storia, è lì che ti guarda e non sa  cosa sia. Non lo sa, e non vuole saperlo, che Giovanni Giolitti minacciò di chiudere la Confindustria guidata dal primo degli Agnelli. Giolitti guadagnava decisamente meno, però aveva imparato quello che Marchionne non sa: i “greci, che vivevano in un governo popolare, non riconoscevano altra forza che potesse sostenerli se non quella della virtù. Oggi non ci parlano che di manifatture, di commercio, di finanze e persino di lusso”. Parole sprezzanti di Montesquieu – sempre lui – un rispettabile pensatore, di cui Giolitti aveva appreso la lezione. Non a caso l’uomo di Dronero riconobbe quel diritto di sciopero che Marchionne vuole distruggere. Conoscesse la storia, il canadese strapagato saprebbe che con Giolitti nacquero l’Italia industriale e il sindacato che, tutelando i lavoratori, diventa un’assicurazione sulla vita del padronato. E’ l’assicurazione che Marchionne, con le sue scelte, sta mettendo a rischio.

Otto milioni di euro all’anno, questa cifra oltraggiosa, passa la Fiat a Marchionne, ma se gli parli di leggi è solo un ignorante. Qualcuno gliel’avrà certamente spiegata la regola d’oro, ma non l’ha capita: “tutte le costituzioni politiche sono fatte per il popolo, tutte quelle in cui esso non conta nulla non sono che attentati contro l’umanità”. Non era Stalin, ma Robespierre, l’uomo che bene o male ghigliottinò l’aristocrazia e regalò ai borghesi la loro rivoluzione. Marchionne non lo sa, ma le cose andarono così: i francesi, stanchi di subire un prepotente, smisero di cercare la compassione dei potenti o il soccorso dei magistrati. Ognuno cercò la vendetta personale e presto si scoprì che ce l’avevano tutti con lo stesso delinquente. Le rivoluzioni scoppiano così. Tutti si rivoltano contro il potere e non c’è bisogno di passar parola. Vengono da ogni parte, ma ognuno urla con la rabbia dell’altro. Un grido terribile – racconta Robiesperre – che “giunge fino ai piedi del potere ed è ascoltato da un’intera nazione: voglio avvertire la società le cui leggi impotenti mi hanno tradito che è tempo di annientare gli abusi mostruosi e indegni che rendono i popoli infelici”. E non bastano eserciti.

Otto milioni di euro all’anno costa alla Fiat, ma non l’ha capito e non lo capirà: se una rivolta trova fondamento nella teoria dei diritti dell’umanità, non si può fermare. Un servo ben pagato dal potere innesca la miccia, poi è solo questione di tempo. Prima o poi la rabbia esplode e in un momento si fa rivoluzione. E’ legge della storia che Marchionne non ha mai studiato.

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