Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘Racconti’ Category


L’aria tiepida e gli abiti primaverili freschi e colorati rallegravano le strade ma, come gli capitava ormai sempre più spesso, anche quella sera, come il sole era calato, Giuseppe aveva dovuto fare i conti con una sensazione di freddo ostinato, che gli faceva pensare alla febbre che sale e resiste persino alla coperta di lana poggiata sulle spalle in un inutile tentativo di difesa. La moglie aveva ragione: starsene in casa a scrivere per buona parte della giornata gli faceva male, ma questo bastava a spiegare perché più il tempo passava e più gli pareva che il sangue gelasse nelle vene? Quella sera, poi, al freddo ormai abituale s’erano aggiunti uno strano senso di oppressione e una stanchezza inspiegabile. Febbre non ne aveva, ma non aveva nemmeno dubbi, non stava bene. Nonostante il malessere, però, era andato a letto tardi, dopo aver seguito alla televisione un interminabile documentario sullo sbarco dell’uomo sulla luna.
– Più tardi faccio, si era detto, più la stanchezza aumenta e più presto riesco a prender sonno.
A letto, invece, il respiro corto e un’affannosa inquietudine l’avevano tenuto sveglio a lungo e quando aveva chiuso finalmente gli occhi, le riflessioni confuse e irritate provocate dal lungo documentario avevano continuato ad agitare un sonno irrequieto. Come capita a volte durante un incubo, l’uomo sentiva di dormire, tentava di svegliarsi, ma non ci riusciva.
Dopo le illusorie convinzioni degli anni giovanili, Giuseppe aveva ormai poche certezze ed era anzi convinto che persino quelle apparentemente più fondate potevano tradire. Quella sera, però, tormentato dal freddo e dall’asma, si era così impuntato su una bizzarra questione di “certezze”, che l’impresa spaziale non gli era sembrata un miracolo dell’ingegno umano, ma un esempio lampante della precarietà del nostro sapere scientifico. Quando s’era messo a letto, l’insolita interpretazione negativa di quel lontano evento storico si era impadronita della sua mente, diventando così uno dei pensieri dominanti di quella notte agitata. Con chi ce l’avesse, a chi rimproverasse di far festa in un momento che giudicava terribilmente triste per la storia umana non era possibile capire, né, parlando nel sonno, Giuseppe riusciva a spiegare le ragioni della sua eccitazione.
– Come fai a non rendertene conto? – gridava, nonostante l’affanno. E’ bastato che qualcuno riuscisse a condurre una navicella pochi chilometri più su della nostra testa e per la prima volta nella storia abbiamo visto uomini e cose galleggiare nell’aria. Io non sono un fisico e una risposta non ce l’ho, ma lo chiedo a te che fai festa. Dimmi, quali “indiscutibili” verità bisognerà correggere? Il rapporto dell’uomo col peso del proprio corpo o la legge di gravità?
Svegliata e spaventata dalle urla del marito delirante, la moglie, che dormiva al suo fianco non aveva esitato. Benché l’orologio segnasse le due, s’era precipitata in camicia da notte al piano di sopra e aveva smesso di suonare alla porta del dottor Giuliano Marasco solo quando il vecchio e fidato amico di famiglia le aveva aperto e indossando per le scale una vestaglia da camera in pile scozzese s’era lasciato trascinare a rotta di collo fino al capezzale dell’amico. Alto, snello, un po’ allampanato, ma dottore in medicina generale bravo, com’era sempre più difficile trovarne, dopo pochi minuti d’una visita accurata, aveva avvisato la donna:
– Chiara, Giuseppe sta male. Non è padrone di se stesso. La pressione è alta, respira a fatica e il cuore è in condizioni di forte sofferenza. Chiamo un’ambulanza, bisogna ricoverarlo.
Se la condizione di Giuseppe non fosse stata preoccupante, Giuliano, l’amico sperimentato che sempre, anche nei momenti più difficili, aveva saputo tranquillizzarla, non avrebbe usato quei toni concitati. Chiara ne fu così certa, che appena il medico smise di parlare, si sentì persa. La sua vita con Giuseppe era stata una interminabile traversata del deserto. Con lui negli anni giovanili aveva confuso l’arsura col desiderio mai del tutto sazio e aveva respirato l’aria rovente della passione; assieme a Giuseppe aveva sperimentato l’illusione di una conoscenza profonda, che un vento forte, caldo e improvviso può rendere tuttavia precaria e giungere a cancellare, come i venti del deserto cancellano i monti di sabbia e i sentieri apparentemente rassicuranti che li attraversano. Come nel deserto, con gli anni avevano incontrato false ma seducenti allucinazioni e gli abissi della disperazione più profonda, quella che nasce dalla certezza che assieme non si sta più bene, ma soli si sta peggio. Nel viaggio così precario della loro vita in comune, però, quando tutto pareva ormai perso, avevano sempre incontrato l’indescrivibile felicità delle oasi. un luogo del deserto salvifico e inatteso che li aveva tenuti assieme e salvati. Sempre, nelle peggiori tempeste, in preda alle allucinazioni, quando la sete si preparava ad ammazzarli era sopraggiunta l’indescrivibile felicità delle oasi.
Chiara se n’era ricordata d’un tratto, o forse ancora una volta era giunta in soccorso un’oasi inattesa fatta di verde acquamarina, ombra di palma e pace ristoratrice. Non s’era chiesta da dove spuntasse ma, mentre Giuliano cercava affannosamente un’ambulanza, che l’epidemia di Covid rendeva introvabile, aveva sentito di essere tornata nel deserto. Era stato così che, seduta accanto al marito, Chiara s’era calmata e aveva cominciato ad aspettare che l’oasi giungesse a salvarli.
Giuseppe, intanto, forse più inquieto, ma anche più stanco, aveva continuato a inseguire i suoi complicati fantasmi. Come fosse passato dall’ira per la precarietà della verità scientifica al racconto biblico della creazione, nessuno, nemmeno Giuliano e Chiara, che l’ascoltavano con preoccupata attenzione, erano riusciti a capire. Eppure dopo le imprese spaziali, che tanto l’avevano sconcertato, quello che ora agitava Giuseppe e gli faceva dubitare anche della infallibilità di Dio era proprio la storia avvincente della Creazione. Fosse o meno delirio, al centro delle sue riflessioni si era installato d’un tratto quel lavoro divino durato sei giorni e terminato la domenica, il giorno che Giuseppe definiva sprezzante “quello dell’incoscienza divina”.
– Mettiamo che sia vero, mormorava nel sonno rivolgendosi a Dio, mettiamo che, lavorando come un matto, in sei giorni hai creato dal nulla l’aria, l’acqua e il fuoco, il sole, la terra, la vita, la morte, il bene, il male, il libero arbitrio, il premio, la punizione e infine, in un ordine decisamente maschilista, l’uomo e poi la donna. Il sabato sera, senza un serio controllo, hai deciso che tutto andava bene e hai smesso di lavorare. Quando ti sei fermato, noi, uomini e donne, eravamo immortali, liberi e felici. Abbiamo scoperto dopo che l’ingegno di un angelo ribelle ci aveva teso una trappola mortale. Coinvolti nello scandalo della mela, abbiamo confessato quello che tu sapevi e riconosciuta senza mentire la debolezza umana che tu avevi creato. Siamo stati onesti e leali, ma a te non è bastato e sei stato implacabile: ci hai puniti col lavoro, il sudore delle fronte e la mortalità. Con le donne sei stato più duro e per loro hai creato anche il dolore del parto. Quando finalmente hai terminato, il disastro era così evidente, che hai deciso di nasconderti dietro l’inaccessibile disegno che hai in mente, per giustificare l’imperfezione della perfezione: i denti che nascono e che perdiamo con sofferenza, i capelli che si fanno bianchi e molto spesso ci abbandonano, la guerra, la prolungata sofferenza della malattia che non ha rispetto per l’età e colpisce i bambini, la morte che affrontiamo in condizioni di totale inferiorità. Ci siamo affidati alla scienza, ma basta che una navicella attraversi lo spazio e anche quella certezza ci viene meno. E tu? Tu punti il dito: è solo colpa nostra. Siamo noi che abbiamo usato male la libertà che ci hai regalato.
Punta il dito quanto vuoi, ma tutto questo non sta in piedi, aveva pensato Giuseppe. Sarebbe bastato che il settimo giorno  non ti fossi riposato e chissà quante cose create in fretta e furia avresti potuto migliorare. Alla prova dei fatti, sosteneva Giuseppe, quasi rallegrato dal valore scientifico della sua conclusione, la nostra imperfezione chiama direttamente in causa la perfezione della creazione.
Per un po’ si era calmato. ma appena Giuliano, un po’ sollevato, aveva detto a Chiara che era un buon segno, perché l’organismo si stava difendendo senza aver preso medicinali, il deliro era ricominciato.
– Certo, mormorava ora con tono riflessivo, lo spettacolo dello spazio e le immagini dell’uomo che per la prima volta metteva piede sulla luna erano stati straordinari ma, a parte il crollo di alcune certezze scientifiche, l’indiavolato ribollire di scoperte e novità che l’aveva seguito ricordava anzitutto i guai che cambiamenti e progresso avevano tante volte procurato alla povera gente.
– Possibile, si era chiesto, che la bandiera a stelle e strisce piantata sulla luna non abbia detto niente a nessuno? Non è sembrata inquietante la repentina nascita di un diritto dello spazio? Metti il caso che la pietraia, specchio del sole, sia imbottita d’oro e petrolio, o di qualche sostanza lunare. Dietro i pacifici astronauti non giungeranno esploratori, militari e guardie di confine? Non riempiremo la nuova colonia con selve di bandiere variopinte e fabbriche nazionali?
Fosse così, si era detto Giuseppe, sconsolato, la luna apparirebbe in cielo come sempre l’hanno vista gli uomini d’ogni tempo ma, interrogata una volta ancora dal pastore errante dell’Asia – che fai tu luna in ciel, dimmi che fai, / silenziosa luna? – avrebbe rotto il suo antichissimo silenzio:
– Non conosco la ragione per cui sono qua nello spazio, ma so che presto, armi in pugno, per possedermi, voi prenderete a scannarvi.
– Povero poeta di Recanati! Povera poesia, costretta a conoscere la risposta per una domanda che ci affascina soprattutto perché non ha e non può avere risposta. Lo vedi, il disastro, pastore? Un disastro inevitabile. Quando tutto nasce dalla fretta, dalla presunzione e dalla superficialità, i conti non tornano mai e non c’è scampo. Per secoli l’umanità apparentemente più evoluta ha vissuto nelle terre che circondano il Mediterraneo, certa di poggiare su una piattaforma sospesa nello spazio. Per scoraggiare avventure e avventurieri, un’antica prudenza umana, ingiustamente ricordata come timore dell’ignoto e limite posto alla conoscenza umana, era stata attenta a inventare tutto quanto poteva servire a impaurire i marinai. Le “Colonne d’Ercole” anzitutto, poste come un estremo ammonimento sullo stretto di Gibilterra; oltre quel limite, un mondo proibito e pericoli mortali: mari in tempesta, mostri aggressivi e un viaggio senza ritorno.
Anche in questo caso, pensò Giuseppe, l’infinito potere divino non aveva evitato che il miracolo del creato si trasformasse in tragedia. L’uomo ci aveva provato, ma invano Ulisse aveva incoraggiato i compagni: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”. L’audacia non era bastata a sostenere il desiderio di sapere e l’Oceano mare si era chiuso sul vascello del guerriero. Secoli dopo l’impresa era però riuscita a un genovese convito che la terra fosse una sfera. Colombo aveva messo in mare tre navi di Spagna e nulla aveva potuto più fermare la barbarie. Al settimo giorno si sarebbe potuta ancora creare una creatura mite e non sarebbero stati necessari confini, o riconosciuta la ferocia della creatura umana, si poteva imprigionarla entro confini adatti a fermala.
Preso da questi pensieri ossessivi, Giuseppe sentì che davanti agli occhi stanchi e appannati gli stava passando la trama di un racconto e immagino di cominciare a scrivere. Non aveva bisogno di fare ricerche. Tutto era già scritto nella sua testa, persino i titoli dei capitoli. Fu in quel momento che avvertì una presenza inquietante. Strinse gli occhi e la vide: ai piedi del letto, alta più della media, lenta nei movimenti e solenne, era comparsa d’un tratto una donna e non ebbe dubbi: gli occhi neri e profondi, Atropo, l’inevitabile figlia della Notte, la più anziana delle Parche, avvolta in una larga veste grigia, era lì per troncare con lucide cesoie il filo della sua vita. Era quindi vero? Dalla culla alla tomba c’è un’invisibile forza che si occupa della la nostra vita?
Negli ultimi tempi Giuseppe aveva avuto spesso la sensazione che quel momento si avvicinasse e l’aveva immaginato così tante volte, che quando si trovò la donna accanto in quella notte così strana e definitiva, non ebbe dubbi: la sera che non giunge all’alba era ormai lì, a un passo da lui. Aveva sempre creduto che si sarebbe spaventato e invece reagiva con calma, anche se si rendeva reso conto che non gli restava più il tempo per scrivere il romanzo che aveva già tutto nella mente. Come farsi perdonare?, si era chiesto. E subito si aveva trovato la risposta:
– Tenendola in vita nelle pagine di un romanzo. Bisogna che parli ad Atropo, si disse d’un tratto, e gli sembrò che la Parca leggesse nel suo pensiero e rispondesse:
– Dovresti saperlo. Durante la vostra vita tutto cambia di continuo e finché c’è filo nella rocca, siete padroni del vostro destino. Sono le tue scelte che mia sorella Lachesi trasforma in tessuto. Quando il filo manca, vi tocca dissolvervi improvvisamente nel nulla. Tu non ci hai badato, ma mentre il tuo tempo scorreva, persone e cose per qualche tempo centrali e importanti sono andate a finire nello sgabuzzino della roba vecchia. Bene o male, le hai sostituite con fatti, gente e interessi nuovi che  hanno riempito i tuoi giorni. Tutto ti è sembrato così logico e naturale, che non ti sei mai interrogato e non hai cercato una risposta nemmeno per domande che l’avrebbero meritata.
– E’ molto strano che tu non te ne sia ancora resa conto, Atropo, replicò Giuseppe. Le vite che interrompi non sono tutte uguali fra loro e io non ho vissuto come un turista distratto. Mi sono posto domande, ho cercato risposte, ho scelto e quando ho sbagliato ho pagato. Se mi dici che il tuo compito è solo quello banale e prepotente di imporre a noi mortali la legge dei tuoi dei, posso capire. Dovresti spiegarmi, però, come può funzionare il principio regolatore della vita umana – ognuno è artefice del suo destino – se il tempo che mi è dato o, per dir meglio, il tempo che tu mi togli, si ferma un istante prima della scelta decisiva. Se tu non negassi quello che affermi, io e te stasera dovremmo fare un patto: tu fermi la cesoia con la quale stai per chiudere la mia vita, dai a tua sorella Cloto il filo necessario alla conocchia e fai in modo che Lachesi possa farne ancora tessuto e io te lo prometto sul mio onore: ricevuto il tempo necessario a compiere il mio destino, ti consegnerò la mia vita e chiuderemo la partita.
Mentre parlava, sentiva che la sua vita si stava ribellando; con le sue cicatrici, ricordi di lotte disperate, non era disposta a finire dimenticata nello sgabuzzino dei ferri vecchi. Cosa pensasse Atropo a Giuseppe non importava. Prima di spegnersi nel nulla, era deciso a realizzare un cambiamento che non s’era mai visto prima: strappare alla morte imminente un supplemento di tempo e provare a raddrizzare quello che era andato storto.
Per un attimo gli sembrò di vedere Nina, sua madre ormai anziana e pensò di avere iniziato a scrivere il suo romanzo. Tutto era già lì nella sua mente: Nina, improvvisamente peggiorata, ma lucida quanto bastava per disperarsi al pensiero di essere seppellita in un manicomio, i loro rapporti sempre più difficili, l’equilibrio che li aveva tenuti faticosamente insieme e che s’era smarrito e la promessa fatta senza esitazioni. L’aveva detto per tranquillizzarla, ma ci aveva creduto:
– Smettila, per favore, mamma, non tormentarti con inutili paure. Finché sarò vivo io, tu non morirai in un manicomio. Gli occhi della donna, solitamente prigionieri dei suoi fantasmi, s’erano illuminati d’una luce penetrante, che Giuseppe non vedeva da tempo, ma ricordava a memoria e sapeva leggere senza difficoltà. – Grazie, gli aveva detto la madre, che solitamente lo vedeva come uno degli implacabili nemici che la tormentavano, grazie, Giuseppe. So che di te posso fidarmi.
Ricordava tutto. La figura smilza della madre, che non sapeva più star ferma un istante, gli occhi d’un azzurro intenso che erano stati dolcissimi, la voce che nei momenti buoni aveva toni musicali. Era incredibile come, nonostante la tragedia che viveva, quasi come per risarcimento i lineamenti di Nina non fossero cambiati.
Per un attimo Giuseppe pensò come pensa uno storico impegnato in una ricerca: 
– Ho un faldone da aprire per restituire la parola a chi è stata tolta. E’ quanto basta perché mi dichiari momentaneamente immortale, perché la questione della sera che non giunge all’alba si sposti più in là nel tempo. Quella che ti faccio, disse con calma rivolto ad Atropo, è solo la comunicazione di una verità che ha forza di legge: tu, Atropo, non puoi tagliare il filo della mia vita: ho una storia da scrivere e non puoi ancora fare il tuo lavoro. Uccideresti con me qualcuno che è morto e sta per resuscitare. Non puoi. Sarebbe un intollerabile abuso di potere, una questione morale che nessuna legge di governi umani e celesti può cancellare. Tu provvedi a metter fine a una vita. Questo ti tocca fare. Non è compito tuo impedire la resurrezione.
Era una notte profonda, di quelle senza stelle, senza la luce della luna che ti tiene compagnia, mentre il sonno si mantiene in equilibrio precario con i pensieri e le preoccupazioni che sono svegli ancora dietro gli occhi chiusi. Atropo non parlò. Riordinò le sue cose e d’un tratto, così com’era venuta se ne andò.

Read Full Post »


Con lo «sviluppo» Franco Meledandri s’era fatto alto e macilento. Un giunco dagli occhi azzurri, mutevoli e profondi, che rubavano i colori del cielo fino a quando dal fondo del petto non saliva improvvisa l’amara dolcezza della malinconia. Gli occhi si facevano allora specchio dell’animo e il cielo diventava grigio. Franco conosceva poco del mondo, perché poco gli aveva dato la vita. Non sapeva chi fosse il padre e la povera madre s’era spezzata la schiena per non fargli mancare l’indispensabile, ma spesso i conti non erano tornati. Al vico Candelora aveva conosciuto due stagioni: l’estate, col suo calore mortale, la luce opaca e sudata e l’aria appestata dai rifiuti marciti e l’inverno, uno stillicidio d’umido e gelo nel buio. Quando la madre se n’era andata via tra i santi che aveva pregato senza speranza per tutta la vita, un parente che non conosceva, ricco e maligno quanto può esserlo un borghesuccio che tiene al buon nome, l’aveva sistemato per procura dai Salesiani, sul dosso della Doganella, di fronte al vecchio e abbandonato cimitero ebraico e al Quadrato degli “uomini illustri” e delle sue tombe dimenticate.
Non l’avrebbe creduto, Franco, ma l’imparò in poco tempo, con un senso di doloroso smarrimento: si può giungere a tal punto di disperazione, da rimpiangere il peggiore passato. E’ solo questione di quanto faccia male. Dal lunedì al sabato mattino andava a scuola con gli “alunni esterni”, ma non c’era nulla che gli togliesse dalla testa il suo vicolo, la gente che ci viveva come una grande famiglia che ti protegge dalla solitudine, la sua mamma sparita e i suoi antichi compagni di scorribande. Gli insegnanti si facevano in quattro per metterlo a suo agio, ma Franco non voleva saperne di studiare.
– Non so più che fare con te – gli diceva disperata l’insegnante d’italiano, giovane e inesperta di fronte a una matassa così ingarbugliata – e non posso darti torto, pensava, la scuola è ormai ridotta all’impotenza. Tu poni domande e noi non ti diamo risposte.

Il conflitto tra convittori ed “esterni” riproduceva in qualche modo le dinamiche feroci che da tempo stravolgevano l’anima d’una città tradizionalmente ospitale e accogliente. Nella piccola e anomala comunità, interni ed esterni si guardavano in cagnesco. Franco, senza trovare la forza e il coraggio di dirlo a se stesso, sentiva di essere geloso degli “esterni”, di quei fortunati che avevano tutto ciò che non aveva lui: casa e affetti. I convittori, chiassosi, arroganti, svogliati e pronti a menar le mani, erano per gli esterni un corpo estraneo alla scuola.
– Ma perché non stanno coi preti e con gli istitutori? – si chiedevano tutti.  Perché dobbiamo tenerli nella nostra scuola, se a scuola non vogliono stare?
L’asprezza tipica delle guerre tra poveri rendeva la vita scolastica impossibile, ma nella lotta sorda e feroce che lo metteva ogni giorno contro compagni e insegnanti incattiviti dall’impotenza, Franco sentiva il sangue tornare a scorrere nelle vene e gli pareva così d’essere vivo. Provocava la rissa e l’odio, che sempre più spesso agitava il cielo e il mare che aveva negli occhi, metteva in equilibrio la serotonina nell’inconsapevole e disperato laboratorio chimico che teneva in piedi la baracca della sua vita.
Il prezzo dello scontro però era salato e a pagarlo, come sempre accade era il più debole: l’insegnante scriveva una nota sul registro e il prete che reggeva il convitto negava al convittore la visita ai parenti per il fine settimana. Chi si teneva dentro le lacrime, diventava più duro e maligno e, quando poteva, metteva soqquadro la classe. I più cedevano alla disperazione. “Non lo faccio più”, imploravano, “prometto di cambiare” sussurravano in un pianto dirotto, torcendosi in una rabbia devastante, che gli bruciava dentro i sentimenti umani. Puniti senza pietà, diventavano lupi travestiti da agnelli, gatte morte a vedersi, vendicativi dentro e pronti a far male come si presentava l’occasione. Franco no. “Franco Meledandri non ha nessuno fuori” sbottava il preside sacerdote con una punta di rabbia impotente, quando un bidello lo portava da lui col registro e la nota. “Meledandri non ha nessuno fuori” ripeteva il ragazzo, ma sembrava impossibile capire se era per fare dispetto o per sentire fino in fondo il dolore che procura la solitudine. Imparare a farci i conti significava difendersi e perciò Franco sentiva un estremo bisogno di farsi del male.

Come i carcerati, i convittori pensavano di essere i soli a sognare di evadere dal convitto, ma talvolta, nei rari momenti in cui interni ed esterni firmavano brevi e precarie tregue, i ragazzi scoprivano che la scuola li accomunava almeno in una cosa: l’idea dell’evasione. Molti tra gli esterni vivevano le ore di lezione con insofferenza e disagio. Non m’interessa nulla, ripetevano stanchi e demotivati. E c’era chi non sognava null’altro che il lavoro. Fra scuola e lavoro, Franco non aveva dubbi: avrebbe dato l’anima al diavolo per uscire dal quel maledetto convitto. Il lavoro era per lui sinonimo di libertà. Gli erano piaciute da morire le ore dedicate a un laboratorio di teatro che la giovane insegnante d’italiano aveva messo in piedi tra mille difficoltà, ma non era certo che quella fosse scuola. Il professore di matematica ripeteva di continuo che la “collega d’italiano” non sapeva insegnare e Franco non riusciva a capire perché tutti quelli che sapevano coinvolgerlo si portavano appresso l’etichetta di incapaci e sfaticati. Incerto tra vita e teatro, aveva ripreso così la sua guerra personale.
Ancora un anno e mezzo in quest’inferno!, pensava ogni giorno. E più ci pensava, più sognava di scappare. Poi, dio sa come, il miracolo s’era compiuto.
Nella riunione mensile di convittori e istitutori, il segaligno capoprete, aveva annunciato la novità, con parole d’elogio per il governo, “preoccupato del destino della gioventù pronto a ogni iniziativa che faciliti gli scambi tra scuola e lavoro, consentendo ai giovani di disporre delle competenze necessarie per trovare un’occupazione”. Chi voleva, spiegò, poi per farsi capire, poteva andare a lavorare e prendere ugualmente la licenza.

Franco non poteva saperlo e probabilmente, anche se gliel’avessero detto, sarebbe “evaso” senza pensarci due volte. La povera gente, privata dei diritti più elementari, non ha strumenti per sognare e vive d’incubi. La povera gente, ingannata dal potere, sente sulla sua pelle il peso del dovere ma non sa cosa sia la libertà dei diritti. E’ facile da governare, si contenta di poco e puoi sfruttarla come meglio credi. Per quelli come Franco, che intuivano la libera magia del teatro, il governo s’era attrezzato con scuole somiglianti a prigioni. Aveva suscitato così un desiderio ansioso di libertà pronto a volgersi contro i soli strumenti pacifici dell’emancipazione. E’ solo a queste condizioni, infatti, che lo spirito libero che vive in ogni uomo accetta di farsi schiavo. Ridotta a galera, la scuola è, allo stesso tempo, un antico e sperimentato strumento di selezione delle classi dirigenti e una fabbrica di servi volontari da reclutare tra le classi subalterne. La scuola, vera, quella che insegna la ribellione dello spirito critico, per un attimo intuita e subito poi persa, Franco non la conosceva. Nel teatro della vita i ruoli erano ormai assegnati e al lui toccava recitare la parte di chi paga. Altri, quelli che avevano tutto, avrebbero riscosso. Se poi per caso si fosse ribellato, sarebbe tornato al convitto da cui era evaso.
Non più una scuola ormai, ma solo una galera.

Read Full Post »


Udite, udite – e si po’ ve piace applaudite – la curaggiosa storia de Meloni Presidente e de nu scrupoloso contenitore da’ munnezza, ca pe’ furtuna nun c’era, quanno nce fui la storica visita do’ 31 de austo del 2023! L’anno indimenticabile che al Parco Verde, doppo nu terribile sconquasso, tutto rimanette com’era primma ca ‘o mellone venisse!

In attesa del Presidente del Consiglio, al Parco Verde di Caivano misure di sicurezza a dir poco eccezionali: Carabinieri presenti in numero impressionante, i migliori cecchini nei punti strategici del quartiere, auto coi lampeggianti e persino giardinieri precettati per gli ultimi ritocchi alle aiuole dell’uscita della superstrada che porta al Parco.
Un informatore che la sa lunga ha appena diffuso l’ultima notizia: hanno tolto anche i contenitori dell’immondizia. Cunfesso ‘o peccato: pensavo che questa fatica non sarebbe stata necessaria (i contenitori esistono pure al Parco Verde?). Però, dal momento che ci sono, non mi meraviglio che siano stati tempestivamente portati via. Per forza! Si ‘a munnezza passave vicin’o contenitore, poteva accadere di tutto, persino che, data la situazione, ‘o contenitore si senteve in dovere ‘e mettere’ ‘a munnezza al posto ‘suo. E po’ vattelapesca la Meloni! Per riportare a Roma il Presidente del Consiglio, sarebbe stato necessario organizzare una ricerca nelle discariche. Tra i rifiuti tossici naturalmente!
Udite, Udite! La commedia è finita; se vi è piaciuta applaudite e se non vi è piaciuta, comme se dice dalla notte dei tempi, si ‘o mellone è uscito ianco, mò cu chi t’a vuo’ piglia’?




Read Full Post »


Una linea sottile sulla fronte larga e stempiata. Null’altro. A guardarla da fuori, la terribile tempesta del dubbio era tutta lì: una ruga che segnava la pelle. Federico aveva un aspetto ancora giovanile, e ti colpiva per gli occhi di un intenso verde acquamarina, il sorriso dolce e senza età sulle labbra sottili, il naso greco e il sereno, armonioso disegno del viso.
– Sicuro, Lina, certo, sicurissimo e non pensare, per favore, che sicurezza e dubbio siano davvero così alternativi, da essere incompatibili. Si può aver certezza di un dubbio. Sai volare più alto tu.
Lina sprofondò le belle mani inquiete nelle larghe tasche del suo camice bianco e sussurrò in un sospiro:
– Nei patti che ci hanno uniti, quando questa impresa disperata è iniziata, c’era anche questo, ricordi? Uno sarà il dubbio dell’altra anche quando la certezza apparirà non solo ragionevole, ma sostenuta dalle prove di laboratorio possibili in queste condizioni.
Era stanchissima. Mentre poggiava la schiena sul muro, se ne rese conto e respirò profondamente. Uno specchio le avrebbe restituito di sé l’immagine dei giorni bui: il viso troppo lungo, il naso lievemente aguzzo, gli occhi, solitamente fulminanti, ora lenti e un po’ spenti, le labbra carnose serrate in una smorfia e in testa – per guardare lì non bastava uno specchio – in testa quell’idea parassita e insistente del sogno: «Sto dormendo, dormo… tra poco mi sveglio di soprassalto e tutto cambia. Sto dormendo, sì, sto solo sognando…».
Federico la conosceva così bene ormai, che seppe leggerle il pensiero dietro l’insolita opacità delle pupille:
– E smettila di pensare che sogni, smettila di fuggire o tentare di evadere
– Smettila di dubitare, lo interruppe Lina con la voce spezzata dall’ansia. Questo vorresti. Che smettessi di dubitare, per non farti ancora domande alle quali non sai dare risposte. Lascia dormire per una volta la ragione, mi dici, riconosci che sei impotente. Non saremo mai certi, mai, se non metteremo alla prova la nostra scienza. E’ questo che vuoi?
Federico ebbe un moto di stizza e per un attimo sembrò meno giovanile e sereno. Levò lo sguardo dalle carte che aveva continuato a studiare, mentre Lina parlava, e replicò solo apparentemente calmo:
– Sono io che decido, lo sai.
– Giochi d’azzardo – sibilò la donna, guardandolo di sbieco, con gli occhi improvvisamente stretti e taglienti. Nella voce, però, non c’era disprezzo. – Non ti racconto perché siamo ormai a questo. Conosci ogni cosa meglio di me.
– Certo che so, la interruppe Federico scostando la lampada accesa nella penombra del laboratorio. Come tu sai che stavolta la scelta è assolutamente obbligata.
– Un po’ di tempo, Federico, un poco forse ne avremmo ancora
– Non faremo in due giorni quello che in tanti non hanno potuto o saputo fare in due secoli.
Quando sfiorò con la punta dell’indice il piccolo monitor che aveva davanti, Lina si arrese.
– Non ci hanno lasciato scelta, esclamò disperata.Federico non rispose.
Non c’era più nulla da dire. Il pianeta disseminato di scorie nucleari andava incontro al suo destino. Non c’era più nulla da dire e non c’era più tempo, le scorie stavano distruggendo ogni involucro protettivo. Due secoli prima, la sicurezza mai matematica di una scienza orgogliosa fino all’arroganza, sollecitata da interessi economici e oscure questioni politiche, aveva ritenuto d’avallare la scelta d’una nuova energia nucleare. Studiosi di ogni tendenza – Federico e Lina di quel tempo – s’erano scontrati in un dibattito che aveva fatalmente assunto i caratteri ideologici di contrapposte crociate. Erano tempi in cui la più terribile ideologia consisteva nella negazione delle ideologie e non c’era stato scampo: s’era smarrita la consapevolezza che la terra non è un laboratorio e l’umanità non può essere ridotta a cavia. Ciò che soprattutto s’era persa era la consapevolezza d’un rischio inaccettabile: scaricare sugli ignari pronipoti il peso d’un egoismo miope e miserabile. Due secoli dopo, la storia si ripeteva al contrario. I due scienziati potevano litigare, ma non avevano scelta. Due giorni ancora e sarebbe finita per sempre.
Federico si preparò a dare le ultime disposizioni. Attorno a lui non vide segni di panico. Solo rassegnazione. E fu Lina a rompere un silenzio che le pesava come una lastra di piombo.
– Non so chi abbia ragione, Federico, tu con la tua certezza dubbiosa, io con i miei dubbi timorosi. Lo vedremo tra poco. Prima, però, dimmi cosa pensi: se andrà bene, comincerà davvero una nuova storia?
Ricordi quello che hai detto poco fa, parlando del patto che ci ha condotto a questa impresa disperata? Uno sarà il dubbio dell’altra anche quando la certezza gli apparirà ragionevole. In tempi di disperazione, questo patto ha funzionato. Se oggi riusciremo, la disperazione svanirà. Verrà il tempo delle certezze…
Una ruga sottile segnò l’ampia fronte di Federico e un’ombra velò per un attimo i suoi occhi più verdi del mare.

classifiche

Read Full Post »


La crisi non abita in Costa Smeralda. Proprietà privata più che Repubblica nata dalla Resistenza, Porto Cervo è un groviglio di ville e prepotenti divieti; è cemento con velleità di architetti in un mondo di «case fotocopia». Non c’è storia, non ci sono radici, si vive secondo logiche da «usa e getta», come insegna la filosofia del mercato, ma nel suo genere è un capolavoro: un nulla riempito di milioni.
Porto Rotondo, per sfida, tiene all’ancora uno squalo nero, un lungo siluro dalla bocca vorace e gli occhi sottili che promettono pazzie; in Piazza Quadra persino le ottantenni platinate si «rifanno» labbra e seni. Una ce n’è, visibilmente crucciata perché «Fabrizio, poverino, stasera non sarà dei nostri, ma che vuoi che ti dica? Una volta i giovani sfidavano la vita e la lotta era bella». E’ un rimpianto risentito, da vita sprecata, questo della vecchia, da vita per se stessa vissuta, vita per cui non conta un altro tempo, conta il suo. Il tempo degli altri non esiste.

Questo è l’inizio di un breve racconto. Se ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, clicca su “Canto libre

classifiche

Read Full Post »

Lascia in pace quel muro e metti via il piccone. Un muro è teatro e memoria: su il sipario e va in scena la vita. Su un muro poggiò elmo e spada il soldato stanco, reduce dalla ferocia della guerra; lì, su quel muro, dove il soldato poggiò la sua spada, pianse per l’amore ritrovato una fanciulla felice, senza sapere che spalle a quel muro, proprio lì, nell’ombra complice di squallide serate, la prostituta vendeva la sua innocenza perduta…

Questo è l’inizio di un breve e pazzo racconto. Se ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, clicca su “Canto Libre

classifiche

Read Full Post »

Un libro on line

– Guarda, stavolta voglio essere chiaro: l’acquisto online ormai non è solo una comodità. E’ uno dei caratteri nuovi della modernità!
Quante volte Antonio le aveva sentite così entusiaste e convinte, le reclute del «nuovismo» e quante volte aveva chiesto dove mai fosse scritto che ciò che è nuovo è sempre buono. Risposte non ne aveva avute, ma spesso gli era piovuto addosso, come un bollino qualità, il giudizio sprezzante di quelli che Antonio chiamava «neofuturisti del consumismo»:
– Il problema, caro Antonio, non è che seiinvecchiato. Il guaio è che tu sei nato vecchio, che è una cosa diversa! E’ una vita che fai il rivoluzionario, ma sei la prova vivente che tu e la tua sinistra siete stati e sarete sempre la peggiore espressione della conservazione! Non sapete guardare al futuro.
Perché avesse cambiato d’un tratto opinione non era facile capire e una spiegazione non ce l’aveva nemmeno lui. Stanco di fare il bastian contrario, di ostentare con puntiglio una diversità che ricordava l’odiato anticonformismo radicalchic?
Antonio non l’aveva capito, tuttavia, anche se non l’avrebbe mai confessato, ci entrava di certo una speranza: cogliere un segno di approvazione negli occhi castani e dolci della signorina Maria, un’insegnante di musica che, nonostante gli anni, gli aveva risvegliato nel cuore inaridito turbamenti di cui non aveva più memoria. Fosse quel che fosse, era andata così: all’ombra di un platano, nel solleone di fine giugno che scottava nonostante il rosso del tramonto, tra i soliti commenti sconci dei «giovanilisti» ormai settantenni su cosce, culi e tette delle badanti slave in giro tra aiuole e panchine coi loro vecchi incartapecoriti, Antonio l’aveva annunciato un po’ farfugliando, un po’ guardando di sott’occhi Maria che a quell’ora, nel parco, non mancava mai:
– Ho ordinato un libro online alla Feltrinelli!
Qualcuno applaudì, ma un commento feroce spense i consensi:
– Adesso bisogna solo aspettare cheFeltrinelli chiuda!
Tra applausi, commenti e battute sconce, Antonio colse l’ombra che attraversò come un velo gli occhi profondi e ancora limpidi di Maria e sentì la ferita dolorosa della delusione. “Ma come, pensò, pareva che fossi la prima a criticarmi e ora mi guardi come ti avessi tradita?

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, clicca su “Canto libre”.

classifiche


Read Full Post »

Mentre saliva a fatica su per gli ultimi tornanti e guidava attentamente, a filo di gas, Sebastiano Neghelli aveva l’impressione che l’auto fosse in difficoltà. Era come se il motore si fosse messo d’un tratto a pensare e chissà perché rifiutasse di andare avanti.
Il piccolo paese, poco più di trecento metri sul mare, in equilibrio su un pizzo roccioso tra Policastro e Salerno, si raccoglieva indolente e non inseguiva certo la globalizzazione.
Sul depliant della “Pro loco” tracce di cavalieri e Angioini, un Guido d’Albert che vi giunse al seguito di Carlo I e passaggi da un padrone all’altro: i Sanseverino, la badia di Cava, i d’Alemagna che l’acquistarono armi in pugno  per venderlo ben presto ai principi Capano. I principi lo tennero a lungo, finché si estinsero alla fine del secolo dei lumi, del quale la “Pro loco” tace, perché non pare sia passato mai per questi monti. Il paese, con la sua gente e le sue case incantate tra il verde, non aveva percepito il cambiamento e non s’era mai del tutto scosso da una sua inspiegata sospensione del tempo.
Quando fu nell’abitato, tra le vie domenicali strette e solitarie, Sebastiano si perse: la storia di una eterna nobiltà feudale gli si era parata davanti e aveva tempi suoi, lunghi e sfasati. La spia della benzina ferma al rosso, l’aveva ricondotto al presente ed era andato difilato alla piazza che ospitava il Municipio.
L’uomo seduto su un muretto basso, davanti alla massiccia torre quadrangolare ch’era stata un tempo palazzo Capano, l’aveva guardato con sincero stupore:
– E voi, la benzina venite a cercarla da noi? Qui non c’è un distributore. Tornate indietro, scendete  giù in pianura fino al mare, svoltate a destra, salite verso nord e lì, se non ha chiuso, trovate un benzinaio.
– Se non mi fermo prima… mormorò Sebastiano sfiduciato, mentre scrutava a fondo l’uomo che gli parlava.

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce e vuoi continuare a leggere, ecco il link che ti porta a “Canto libre” che l’ha pubblicato:

https://www.cantolibre.it/rocco-capano/

classifiche

Read Full Post »

Dopo ore di discussione “muro contro muro”, si era fermi al punto di partenza e nessuno avrebbe potuto dire su quale posizione si sarebbe formata una maggoranza nel turbolento Consiglio di Classe. Tuttavia era a loro, a quei docenti, che toccava decidere, ai componenti del disorientato “organo di democrazia  del basso”, come lo chiamava con impareggiabile ipocrisia  Enzina Delfino, la dirigente scolastica che aveva dipinto sul viso il suo disprezzo per gli organi collegiali della scuola.
L’atmosfera si era fatta così elettrica, che in un sussulto do orgoglio “Matematica e Fisica”, al secolo Maria Teresa Scacco, con la voce ferma dei momenti di passione, s”era rivolta alla preside guardandola negli occhi e più o meno volontariamente, con tono allusivo e breutale le aveva detto quello che pensava:
– Siamo qui da ore e diventa sempre più evidente: l’andamento dei lavori del Consiglio incarna alla perfezione il frutto malato d’un matrimonio incestuoso. Le lo sa bene, preside. Un nanerottolo deforme…

Se il racconto ti piace o ti incuriosisce, ecco il link che ti porta a “Canto Libre“, che l’ha pubblicato:
https://www.cantolibre.it/cinque-in-condotta-come-cambiare-la-vita-di-un-ragazzo/

classifiche

Read Full Post »

Latino americano

bukowski-636x395Quando quel maledetto convegno sul fascismo terminò, non ne potevo più. Invitato come ospite, l’avevo scoperto solo quando era iniziato: i relatori, anche quelli italiani, parlavano esclusivamente in inglese e non c’era traduzione simultanea, perché, mi avevano spiegato con falsa cortesia, “è una lingua che ormai tutti gli storici capiscono certamente”. Senza scompormi, avevo risposto che le regole hanno sempre un’eccezione e mi ero seduto al posto che mi avevano indicato.
La giornata fu lunga, noiosa e sonnolenta. Non capii una parola, ma mi rassegnai. Grazie alla bontà di un giovane ricercatore, seppi che l’ultima comunicazione aveva un titolo Bukowski-1che trovai decisamente sconcertante: “Il Fascismo regime inclusivo”. Ci misi un po’ a capirlo, poi mi convinsi che non sbagliavo: da giovane, lo storico che stava parlando era stato un militante convinto della sinistra estrema rivoluzionaria e bolscevica. Riscosse consensi unanimi e concluse l’intervento ricevendo l’abbraccio plateale di un gigante che per poco non lo stritolò. Il ricercatore gentile, notando il mio sguardo stupito, mi disse che il colosso era un “maestro” americano. Alzai le braccia in segno di resa e il ricercatore mi regalò un sorriso decisamente enigmatico.

Se non vi siete annoiati e volete proseguire, ecco il link che vi parta a “Canto Libre”:
https://www.cantolibre.it/latino-americano/

classifiche

 

Read Full Post »

Older Posts »