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Posts Tagged ‘Assemblea Costituente’

costituzione_italiana_dettaglio_firmeGiù il capello: Lucio Garofalo, di professione maestro, ha mostrato un gran coraggio, denunciando la violenza di un potere che da tempo ce l’ha con il sistema formativo: scuola, università, ricerca e docenti. Forse perché sa che una scuola democratica, aperta persino ai contadini, tirò su i rivoluzionari russi. L’aveva voluta uno zar modernizzatore, che l’abolì troppo tardi; aveva ormai formato cittadini coscienti che conoscevano la lezione: ci sono valori per cui spendi la vita.
Ha mostrato coraggio, Garofalo, perché ciò che non riuscì ai rivoluzionari sedicenti o veri, è facile per i proconsoli dell’UE: colpire uno per educare tutti. La «bastonatura» oggi è asettica, invisibile, come la violenza della legalità che ignora la giustizia sociale: non scorre sangue, ma ti fanno a pezzi senza sporcarsi le mani coi manganelli. Costi minimi, buoni profitti e un valore aggiunto: più vai giù duro, più trovi consensi, come accade sempre quando il moralismo prevale sulla morale. Basta poco a sciogliere i cani: un tizio che, chissà perché, timbra in mutande la prova dell’assenteismo sotto l’occhio del «grande fratello», l’ingenuità sospetta della stampa, che prende per buone «prove» manipolate, un Pico della Mirandola taverniere, capace di tirare fuori dalla memoria una cena che ti servì anni fa, gli ospiti, il conto e il modo in cui l’hai saldato.
Ridotti in trincea dal fuoco amico e nemico, alle prese con psicopoliziotti infiltrati tra i giornalisti come squadristi mediatici esperti di neolinguaggio, i più hanno gli occhi bassi e le bocche cucite, sperando di farla franca. Per i duri, smagliature del sistema filtrano moniti terrificanti: Almirante, razzista e fascista repubblichino, commemorato del capo dello Stato. I polsi tremano. E’ vero, più ti allinei, più facile è la vita, ma in fondo alla via del triste compromesso sempre più spesso ci sono crisi di panico, male di vivere, pasticche e polverine. Prozac o cocaina, non fa differenza: la libertà di coscienza è sempre più tossicodipendente. E se proprio vai fuori giri, il Codice Rocco ha le sue «soluzioni finali» collaudate e modernizzate da ritrovati delle scienze mediche e giuridiche: carcere duro, manicomio «breve» e T.S.O, il trattamento sanitario obbligatorio, che apre la via alla «pericolosità sociale», la tomba dei diritti. Se infine sei un intruso, un richiedente asilo, un «effetto collaterale» della democrazia esportata, un disperato di colore, sbarcato nel regno dei Salvini, ecco i campi di concentramento, gestiti in tandem dalla politica e dalla malavita organizzata. La rete è una miniera d’esempi e vale per tutti il caso Mastrogiovanni, maestro e per giunta anarchico, giustiziato con il vecchio, ma efficiente letto di contenzione.
«Vi informo su un episodio quantomeno avvilente ed increscioso, accaduto nella mia scuola». ha scritto Garofalo. «Promosso un convegno con i soliti personaggi politici […] hanno costretto gli insegnanti ad essere presenti in seguito ad un ordine di servizio, convocando ufficialmente un collegio dei docenti che non si è mai tenuto». Il gioco delle tre carte, insomma: i docenti «sono stati convocati per partecipare ad una seduta collegiale, ma il collegio non si è riunito per dare spazio ad un convegno, durante il quale gli insegnanti hanno fatto da uditorio a disposizione dei politici».
Chi pensa che sia cosa banale, si sbaglia. E’ stato, ha ragione Garofalo, un atto illecito e il maestro sa bene che la denuncia comporta rischi: «non temo nulla», scrive, «nel malaugurato caso, userò le mie abituali ‘armi’, vale a dire la parola scritta».
Forse gli basterà, ma presto potrebbe cominciare una campagna televisiva a base di maestri in mutande, perché la denuncia pone l’accento sul primo, allarmante esempio di scuola statale dopo la legge 107 del 9 luglio 2015, fatta apposta per sopprimervi libertà e democrazia. La libertà che Garofalo rivendica, ben sapendo che Renzi ha decretato la fine della funzione civile dell’istruzione statale, frantumandone l’unitarietà e vincolandola a obiettivi didattici fissati da un Sistema Nazionale di Valutazione legato a filo doppio al potere politico. La scuola ormai non deve formare cittadini, ma sfornare merce a buon mercato, da inserire nel gioco della domanda e dell’offerta. «Bestiame votante» per la fabbrica del consenso. Così come l’ha disegnata Renzi, essa somiglia maledettamente alle istituzioni formative di tutti i regimi autoritari: sottopone i docenti precari al ricatto della scelta tra lavoro e diritti, precarizza gli insegnanti di ruolo, sottoposti a Dirigenti in grado di collocarli in mobilità a propria discrezione, demansionarli e sanzionarli con procedura monocratica. Grazie alla «Buona scuola di Renzi», nasce un «caporalato istituzionale» che, utilizza l’alternanza Scuola-Lavoro per passare dal diritto allo studio allo sfruttamento del lavoro minorile e si espropriano i docenti dell’autonomia professionale, trasferendo a un Ente esterno, l’Invalsi, la scelta dei parametri di giudizio e la valutazione dell’attività di insegnamento.
Una simile legge poteva nascere solo da una torsione della Costituzione e si capisce perché Renzi e Giannini non hanno consentito al Parlamento di definire principi, criteri direttivi e durata della delega affidata al governo. La «buona scuola» ignora il dovere di imparzialità dell’Amministrazione e l’obbligo di utilità sociale per l’iniziativa economica privata, che non può recare danno alla libertà e alla dignità umana; essa non ritiene il lavoro un valore fondante della Repubblica, cancella il diritto di libera manifestazione del pensiero e fa carta straccia della libertà d’insegnamento.
La denuncia di Garofalo si inserisce pertanto a pieno titolo in una tradizione di civiltà democratica, che ha profonde radici nella storia della repubblica e ricorda un principio non scritto, mai rigettato e pienamente vigente che, nei lavori dell’Assemblea Costituente, si riassume nelle parole di Dossetti, oggi, più attuali che mai: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
La questione, quindi, non riguarda la scuola che, da sola, non può contrastare questa micidiale ondata di reazione, ignoranza e disprezzo dei valori da cui nacque la Repubblica. Chiama in causa la società nel suo insieme, cui tocca ribadire quel no che settanta e più anni fa unì l’Italia migliore nella battaglia per la dignità dei lavoratori e la libertà delle idee.

Fuoriregistro“, 9 novembre 2015

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Nessun ministro lo dice, ma il governo lavora per buttar giù il sottile diaframma che ci divide da un evento luttuoso: archiviare la Costituzione antifascista. Non è facile dire se la storia si ripeta e se nel «replay» prevalgano la farsa o la tragedia. E’ certamente vero, tuttavia, che non c’è regime autoritario che non metta mano alla storia per storcerla, sicché  è quantomeno ragionevole supporre che un popolo di «senza storia» sia più facile da assoggettare. Non a caso, perciò, nel dibattito sulla Costituzione, la storia è tenuta accuratamente ai margini o manomessa. Si fa un gran parlare di Carta superata dai tempi, si citano a proposito e sproposito fatti lontani estrapolati dal loro contesto storico, ci si riempie la bocca di parole gravi e paragoni impossibili con Paesi profondamente diversi, ma tutto ciò che si capisce, infine,  è che il governo ha deciso di cambiare le regole del gioco. Un governo, non s’offenda nessuno, che non ha radici nella storia concreta di quel «popolo sovrano» che stenta la vita e, quando può, esprime col voto scelte del tutto opposte a quelle maturate nel chiuso dei palazzi. E’ giusto? E’ consentito? E’ un processo legale che corre sui binari di regole condivise? E’ una forzatura?  Sono domande che dovresti sentire ovunque, per strada, nella metro, nei dibattiti televisivi, e invece non ne senti parlare. La gente è indifesa. A chi fa i conti quotidiani con la fame, la sfiducia, la disperazione – diceva ai compagni ai primi del Novecento Ernesto Cesare Longobardi, un socialista di cui nessuno si ricorda più, non puoi parlare di lotta, diritti e organizzazione o spiegare il senso dei grandi principi universali. Socialismo e democrazia sono anzitutto pratica di lotta, partecipazione, senso della storia e dialogo continuo tra governanti e governati. Tutto questo non c’è più ed è sempre più difficile che le voci del dissenso trovino le via per emergere alla coscienza della collettività.
In tempi diversi da quelli bui che viviamo, sarebbe un coro quotidiano e lo saprebbero tutti: ben prima che la Repubblica nascesse, quando ancora si combatteva una terribile guerra di liberazione, un primo bilancio dell’esperienza totalitaria rivelò che uno Statuto flessibile come quello Albertino aveva consentito al fascismo di conseguire agevolmente due obiettivi solo apparentemente contrastanti: paralizzare il processo che da decenni stava trasformando una monarchia costituzionale in monarchia parlamentare e cancellare la già debole ispirazione liberale della Legge voluta da Carlo Alberto. Sia l’una che l’altra operazione erano state rese possibili dalla natura flessibile dello Statuto che pure, negli intenti del Re di Sardegna, doveva essere allo stesso tempo la legge fondamentale dello Stato, ma anche la garanzia perpetua e irrevocabile del potere monarchico. Agli antifascisti «padri della Repubblica» fu subito chiaro: l’elasticità di una Costituzione modificabile mediante leggi ordinarie può consentirne anche un’evoluzione – lo Statuto Albertino fu esteso al Regno d’Italia, vide i Governi dipendere dalla fiducia del Parlamento invece di quella del Sovrano e, grazie a soli decreti legge, poté essere adottato come soluzione transitoria tra la fine della guerra e la promulgazione della nostra Costituzione. Con altrettanta chiarezza, tuttavia, essi individuarono il germe della sua congenita debolezza: leggi ordinarie, di ispirazione radicalmente contraria allo spirito dello Statuto, ne possono stravolgere la natura senza che sia possibile difenderla. Se il fascismo poté condannare a morte la libertà d’espressione, condurre gli oppositori dinnanzi al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, approvare le leggi razziali e ripristinare la pena di morte nel Paese che fu di Beccaria, ciò fu possibile solo per il suo carattere flessibile.
Non a caso, perciò, dopo la tragedia fascista, prima ancora di sapere quale Italia sarebbe nata, tutti – nemmeno i monarchici osarono opporsi – concordarono su un principio: al di là della forma istituzionale che il Paese avrebbe scelto di darsi, lo Statuto Albertino andava abolito e nel giungo 1944 fu Umberto di Savoia, luogotenente del Regno, a firmare il Decreto Legge col quale si stabiliva che cacciati i tedeschi,«sarebbe stato il popolo a scegliere le forme istituzionali e ad eleggere a tal fine […] a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato».
Varata la Costituzione, ci si rese ben presto conto che l’articolo 138 era lì a presidiarne il processo di revisione e negli atti della Costituente la ragione della sua esistenza è chiarissima: rendere il procedimento di formazione delle leggi costituzionali più complicato di quello previsto per le leggi ordinarie, in modo da impedire le semplificazioni e i colpi di mano. Si volle, insomma, «corrispondere all’esigenza di una più ponderata riflessione nel procedere ad atti così importanti: da ciò l’adozione del sistema delle due letture, a distanza di tre mesi l’una dall’altra» e «l’approvazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nel voto finale in seconda lettura». Non era un capriccio. Cento anni di storia e la vergogna cui il fascismo aveva condannato il Paese avevano insegnato ai Costituenti la lezione più autentica della democrazia: la costituzionalità della legge è data dalla costituzionalità della regola seguita per approvarla. E fu chiaro a tutti che si trattava di un principio così vitale, da rendere diversa persino la posizione del Presidente della Repubblica, perché, scrisse l’on. Perassi per la Commissione, – e l’Assemblea approvò – «trattandosi di legge costituzionale, non è possibile sollevare la questione di incostituzionalità. Al Presidente spetta solo di accertare che, trattandosi di una legge costituzionale, questa sia stata votata secondo il procedimento stabilito dalla Costituzione». Perassi, e con lui i «padri Costituenti», indicavano così a Napolitano la sola via legale che potrà percorrere quando il Governo Letta chiederà la sua firma: rifiutarla.

Uscito il 31 luglio 2013 su Liberazione.it e su Report on Line.

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rep4[1]La Costituente si affidò a un principio che Meuccio Ruini, «Presidente della Commissione dei 75», fissò con chiarezza: «La sovranità spetta tutta al popolo, […] l’elemento decisivo che dice sempre la prima e l’ultima parola». Anticipando il primo articolo di quella che sarebbe poi diventata le legge fondamentale dello Stato, Ruini ancorava il futuro a una dato di fatto vincolante per le Camere, il Governo e il Presidente della Repubblica e fissava il confine tra la loro autonomia e il tradimento.
L’Assemblea, eletta a suffragio universale – per la prima volta avevano votato anche le donne –riflettendo sull’ordinamento della Repubblica, escluse il regime presidenziale per «il temuto spettro del cesarismo» e, chiarì Ruini, «per il convincimento (e noi non dobbiamo abbandonarlo, ma valorizzarlo,) che il Governo di Gabinetto abbia diretta radice nella fiducia parlamentare». Poiché l’Assemblea approvò, il monito – «noi non dobbiamo abbandonarlo» – appare eticamente vincolate e particolarmente attuale in questi anni di estrema personalizzazione della politica.
La scelta cadde su un sistema parlamentare in cui il Governo, pur senza derivare esclusivamente dal Parlamento, deve la propria vita all’esito di un voto nominale su di una motivata mozione di fiducia o di sfiducia presentata in Parlamento. Che guitti e ciarlatani, animatori di salotti televisivi, ignorino tutto questo, è scandaloso, ma si tratta di malcostume. Va oltre lo scandalo – riguarda la tenuta delle Istituzioni e la fedeltà degli uomini che le rappresentano – la riforma della Costituzione proposta da Letta con un percorso così estraneo ai valori della Costituente, da ignorare persino le regole che essa fissò per la revisione della nostra legge fondamentale. Un progetto agevolato dal complice e insolito silenzio di un Presidente della Repubblica, abituato a parlare anche quando sarebbe meglio tacere, come ha appena fatto, inserendosi nel dibattito sugli F35.
Napolitano può fare ciò che vuole del suo tempo e nulla vieta che esamini «i principali scenari di crisi e l’andamento delle missioni internazionali», come ricorda il comunicato diffuso dopo l’ultima riunione del Consiglio Supremo di Difesa. E’ quantomeno singolare, tuttavia, che egli lo faccia «in vista del decreto autorizzativo per il quarto trimestre, che sarà in linea con gli impegni assunti nella prima parte dell’anno». Singolare perché il Decreto non c’è e se ci sarà, potrà cadere in Parlamento senza che le Camere debbano tener conto di “esami preventivi” di ministri, generali e ammiragli del Consiglio Supremo di Difesa. In quanto a Letta, se l’acquisto di cacciabombardieri F35, contestato da parlamentari di maggioranza e di opposizione, è essenziale per la realizzazione della politica del Governo, i casi sono due e in entrambi Napolitano e il Consiglio Supremo della Difesa non contano un bel nulla: o rinuncia, o si scontra col Parlamento. Se è vero che «in regime parlamentare l’arbitro e il disciplinatore dell’attività legislativa è il governo», come chiarì Mortati alla Costituente, non meno vero è che, «dovendo curare il costante mantenimento della fiducia da cui deriva la sua investitura», Letta ha una sola via costituzionalmente corretta per uscire da un eventuale dissidio – Mortati la indicò all’Assemblea ottenendo l’approvazione – e Napolitano e i generali non c’entrano: «il Governo porrà la questione di fiducia» e se la «sfiducia comporterà una crisi», a quel punto, solo a quel punto, il Presidente entrerà in gioco e deciderà il da farsi. Il Consiglio Supremo, no. generali e ammiragli dovranno continuare a tenere chiuso il becco.
E’ bene dirlo chiaro. Quando Napolitano afferma che il ruolo costituzionale «del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’Esecutivo», dimentica che le questioni relative alla difesa e alla politica estera e militare si decidono sulla base di direttive generali che riguardano unicamente Governo e Parlamento e sono vincolanti per il Presidente della Repubblica. Il Consiglio Supremo di Difesa svolge attività consultive in tema di piani strategici e difesa dei confini, entro i quali ha un senso costituzionale l’attività delle forze armate di un Paese che ripudia la guerra. Il Consiglio non decide di sé, non risponde al modello della “via di fatto”, non modifica gli equilibri nei rapporti di forza tra poteri dello Stato e sarebbe bene che i contenuti, verbalizzati, fossero resi note al Parlamento in tempi più o meno reali. Napolitano non ha diritto di vincolare il Governo alle valutazioni di un organo consultivo, tutto sommato tecnico, che peraltro presiede, né può attribuire a quelle opinioni il valore di decisioni che si impongono al Parlamento. Meno che mai può pensare, Napolitano, che il suo Consiglio Supremo possa dirci come si attua la legge 244/2012 e se «debba riflettere indirizzi strategici e linee di sviluppo delle capacità e delle strutture coerenti con le sfide, i rischi e le minacce che il contesto globale […] prospetta per il nostro Paese e per la Comunità Internazionale”. E’ compito del Governo, sempre che il Parlamento non decida di sfiduciarlo perché sperpera miliardi, mentre la disoccupazione devasta la coesione sociale, i lavoratori stentano e i giovani sono in ginocchio. Quel Parlamento, che, Napolitano farebbe bene a ricordarlo, per alto tradimento o attentato alla Costituzione, mette il Presidente della Repubblica «sotto accusa […] in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri».

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Vnews-680x452[1]Lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. L’Unione Europea è un’arma micidiale in mano al capitale. La stampa che conta esprime solo il punto di vista dei padroni e non ci sono giornali a lanciare l’allarme: i Parlamenti dei singoli Paesi sono espropriati e non possono  adoperarsi per i bilanci degli Stati. L’inganno del debito pubblico da risanare e il Fiscal Compact che impone il pareggio di bilancio in un ventennio, spostano l’asse del potere in mano a tre organismi non elettivi e cancellano la divisione dei poteri che si controllano a vicenda. Nessuno, infatti, ha il potere di controllare l’operato di quell’associazione a delinquere a fini di usura che politologi e carrozzone mediatico amano definire Troika: BCE, Commissione e Consiglio europeo.

Lo sanno tutti. La democrazia parlamentare è stata cancellata: l’Unione europea è in mano a ceti oligarchici e non possiede legittimazione democratica. Ha provato a chiederla, la Francia e l’Olanda gliel’hanno negata, ma non s’è preso atto della condizione di aperta illegalità in cui essa opera e non si è provato nemmeno a dare risposta alla domanda chiave posta da quel rifiuto: se nessuno ha mai autorizzato il trasferimento dei poteri e non c’è un organo decisionale legalmente riconosciuto dai popoli dell’Unione, chi rappresenta la Troika che pretende di governarla e qual è la sua legittimità?

Lo sanno tutti. L’Unione Europea non chiama i cittadini degli Stati membri a decidere sui suoi Trattati, sull’accentramento dei poteri e sulle politiche di austerità che impone, perché ne ricaverebbe una inappellabile sconfessione. Così stando le cose, l’Unione Europea è una dittatura di classe imposta dall’alto con la violenza.

Lo sanno tutti. Qui da noi, però, Saviano, Travaglio e una pletora di predicatori ci riempiono di notizie sui manovali della mafia, su “Ruby rubacuori” e sui processi di Berlusconi, ma non si parla mai dello scandalo Europa! In Italia, per zittire chi si avventura sulle mine, si sostiene che non si può indire un referendum popolare. C’è di mezzo l’art. 75 di quella Costituzione che si può stracciare ogni giorno facendo guerre e finanziando le scuole cattoliche, ma diventa intoccabile, se si tratta di questa Europa nata antifascista e diventata nazifascista. L’Europa di Monti, che assegna all’Esecutivo il compito di educare i Parlamenti, l’Europa delle banche, liberiste coi profitti e socialiste con le perdite, l’Europa delle élite e dei poteri forti, che soffoca i popoli cancellandone i diritti.

Lo sanno tutti. L’articolo 75, per ragioni storiche oltre che logiche e cronologiche – l’Unione Europea non era all’ordine del giorno dell’Assemblea Costituente – non riguarda e non poteva riguardare la nascita di una realtà politica sovranazionale che implica cessioni parziali o totali di sovranità. Per la nostra Costituzione, infatti, la sovranità appartiene in maniera inalienabile al popolo e non c’è trattato internazionale che possa limitarla. Perché ciò accada, il popolo italiano deve essere evidentemente chiamato a pronunciarsi. D’altra parte, è proprio certo – e se è certo, dov’è scritto? – che l’Unione Europea, intesa come nuova entità politica, abbia una sua legittimità, priva com’è di una Costituzione scritta da un’Assemblea Costituente eletta dai cittadini degli Stati che la compongono?

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Per sei milioni di euro Benigni racconta a un Paese instupidito la favola bella della Costituzione. Senza chiedere un soldo Calamandrei sarebbe stato chiarissimo: l’Assemblea Costituente si assunse “il compito di costruire giuridicamente un congegno di governo che avesse la forma repubblicana al luogo di quella monarchica, purché, al disotto di quella nuova forma politica, rimanessero invariate, […] le strutture economiche e sociali dell’Italia prefascista. Benigni racconta, invece, il libro dei sogni e fa passare così sottotraccia l’agonia della democrazia. Mentre il telespettatore si compiace e la retorica patriottarda leva fitte cortine fumogene, le agenzie battono a toni smorzati la notizia che sa di beffa: l’università è a rischio default, ha avvertito Profumo, impegnato nella discussione del bilancio. Mentre il comico toscano si sforza di volare alto, ma il tema è sempre Berlusconi, il diritto allo studio è ormai cancellato. Benigni non lo dice, ma il Parlamento si dichiara sereno: i fondi alla formazione privata sono garantiti.
Sull’articolo undici l’artista naturalmente sorvola. Meglio lasciar perdere la guerra ripudiata, se in Afghanistan spendiamo in razzi, cartucce e blindati quanto basterebbe a rifare tutte le scuole pericolanti.
Ad ascoltare i tratti concisi, scolpiti su pagine consegnate al futuro, sembra di volare: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…, difendere il […] lavoro, tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Chi tra noi, tuttavia, uomini e donne di scuola, andrà domani a raccontare agli alunni che le cose stanno così, che si può star tranquilli?
Noi, che non raccontiamo frottole agli studenti – e per questo il potere ci teme e ci fa la guerra – noi segneremo col lapillo nero sui calendari delle nostre aule il 19 dicembre del 2012, giorno in cui la Camera dei Deputati, di fronte alla tragedia del lavoro negato e della salute violata, non ha trovato di meglio che schierasi col governo e coi padroni.
Ieri un decreto legge ha ufficialmente certificato la gravissima crisi di legalità in cui è stato impunemente trascinato il Paese. Un governo che nessuno ha eletto ha cancellato con un colpo di mano il provvedimento di sequestro firmato a Taranto da magistrati che hanno constatato il disastro ambientale e l’attentato gravissimo alla salute pubblica operato dall’Ilva. Il provvedimento governativo non solo calpesta la Costituzione esaltata da Benigni, ma non espropria, non nazionalizza, non colpisce minimamente la proprietà responsabile della sciagura. Da questo momento ogni avventuriero sa che un governo amico dei padroni potrà autorizzare qualsivoglia illegalità. S’è trovata, infatti, la definizione miracolosa che cancella il reato e vanifica l’intervento della Magistratura: “la fabbrica riveste un interesse strategico nazionale“. E’ un atto profondamente eversivo.
Invece di fare il tifo pro o contro Berlusconi e andare in solluchero per un comico che legge una Costituzione tradita, sarà bene ricordarlo: chi ha voluto questo scempio si accinge a chiedere il nostro voto.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 dicembre 2012

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Non illudiamoci. Le ennesime manganellate, quelle assestate a Trento con cieca e impunita furia sui corpi di chi legittimamente intendeva contestare la Fornero, non vivono di vita propria rispetto al Governo e anzi, a ben vedere, sono uno dei rovesci della medaglia. Col cuore in gola, preso da incomprensibili affanni, i “tecnici” eletti da Napolitano e il Parlamento dei nominati che nessuno ha mai votato portano avanti precipitosamente una legge di riforma costituzionale che promette esiti devastanti: in discussione sono, infatti, non solo la marginalizzazione delle funzioni del Presidente della Repubblica, ma il ridimensionamento di un Parlamento mortificato dal ruolo assolutamente centrale di un Presidente del Consiglio che ha facoltà di sciogliere le Camere se votano contro una sua legge e gli negano la fiducia.

Napolitano e Monti fingono d’ignorare che un così profondo mutamento della legge fondante della Repubblica trasforma, di fatto, in una spuria e pericolosa Assemblea Costituente la raccogliticcia banda di inquietanti figuri che tiene in piedi l’Esecutivo. Non bastasse l’anomalia della procedura, il colpo giunge senza una discussione vera, senza la partecipazione dei cittadini, convenientemente informati e messi in condizione di dire la loro. E’ la logica del “fatto compiuto”, l’esito naturale e per molti versi fatale di un dato patologico che non si è combattuto: il prepotere dell’Esecutivo, rinforzato dall’incremento della decretazione d’urgenza su temi che urgenti non sono, dalla sequela ininterrotta dei provvedimenti decisivi per il futuro del Paese, ripetutamente imposti a colpi di fiducia; per dirla tutta, di una vera e propria espropriazione delle prerogative di un Parlamento che, per suo conto, ha fatto il possibile e l’impossibile per delegittimarsi. Su binari paralleli, ormai fuori controllo, viaggiano a tutta velocità – e completano il quadro fosco – la costosa macchina degli armamenti, la scelta di tornare alla guerra ripudiata e il devastante smantellamento del sistema formativo pubblico. Non a caso, l’ineffabile Profumo vibra pugnalate, inserendo per decreto i suoi provvedimenti sulla “meritocrazia”, il cavallo di Troia di una privatizzazione che, sul limitare delle malconce porte Scee, poste a difesa di quanto sopravvive della Pubblica Istruzione, non trova neppure il monito sventurato di un Laocoonte. Sarà pur vero che la storia non insegna nulla, ma qui docenti e storici siamo chiamati in discussione direttamente e va detto: di errori ne abbiamo fatti.

Prevaricazioni e prepotenze fecero da battistrada al fascismo e non a caso, più che il fascio littorio, il simbolo dell’odioso regime di Mussolini rimane il manganello. Non sarà inutile rammentarlo, in un Paese in cui più il tempo passa, più un “governo tecnico”, nato  male e peggio cresciuto, naviga a vista, in rotta di collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione e il manganello impazza. Dove non regna la giustizia sociale, a regnare sono le passioni dei magistrati: è l’alfabeto della politica e non c’è tecnico, sia pure bocconiano, cui sia consentito d’ignorarlo. Piaccia o no a Monti e Napolitano, in democrazia, i governi, quale che sia lo loro forma, sono istituiti dal popolo per il popolo; la fonte dell’ordine è la giustizia e non c’è norma che possa legittimamente trasformarne la gestione in proprietà privata delle Istituzioni, la cui ragion d’essere vive nella volontà del popolo sovrano. Quella volontà della quale esse sono serve. Tutte, anche il ministero dell’Interno cui tocca badare all’ordine pubblico, ma rispondere anche del loro evidente disordine.  

Sembra strano doverlo fare col “governo dei professori”, ma con l’acquisto di De Gennaro, il buio ritorno di sedicenti anarchici e il mistero della bomba brindisina, è bene ricordarlo: a partire dalla fine dell’Ancien Régime, l’arte del governare non consiste nel piegare la maggioranza a vantaggio d’una minoranza, scatenando la violenza delle forze dell’ordine, e il fine del governo è uno, sacro e vincolante, pena il tradimento: eseguire un mandato cui il popolo l’ha delegato, esercitando le funzioni di tutti i poteri come doveri pubblici e non già come diritti personali.
Di fronte al disordine quotidianamente provocati dalle forze dell’ordine, non sarà tempo perso ribadirlo: in una democrazia parlamentare l’equilibrio dei poteri nasce dalla natura delle leggi che nirano tutte a rendere gli uomini felici e liberi. Monti dovrebbe saperlo, la tenuta democratica di un governo non si misura dal listino della Borsa, ma da due capacità: quella di trovare l’energia per assoggettare gli individui all’impero del mandato popolare ricevuto e quella che gli consente di impedire, tuttavia, che possa abusarne. Fu questo uno dei grandi problemi che arrovellò politici e pensatori negli anni cruciali della rivoluzione francese e, piaccia o no, non aveva torto Robespierre a sostenere che “questo è il grande problema che il legislatore deve risolvere. Questa soluzione è forse il capolavoro della ragione umana”.
Un capolavoro di cui non c’è traccia nell’opera di un governo che non ha opposizione nel Palazzo e reprime il dissenso nelle piazze. Un governo che si lascia consigliare da passioni e pregiudizi personali, sicché, mentre offre continui e fondati motivi al malcontento popolare, assume malintesi ruoli pedagogici, si occupa con zelo sospetto del potere dell’Esecutivo e lascia mano libera alla polizia. Tutto ciò è tipico di un potere che si specchia in se stesso ed è fermo al tragico equivoco di chi cede a tentazioni autoritarie. Non a caso, Monti garantisce l’ingiustizia, fonte del disordine, e insegue l’ordine col manganello. Ma qual è l’ordine cui pensa Monti, e dove intende condurci?
La risposta incute timore.

Uscito su “Fuoriregistro” il 5 giugno 2012

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Ci sono iniziative di lotta per la scuola e circolano inviti a riunioni che intendono far sentire “l’urlo della scuola”“. Non urleremo più forte della Val di Susa, temo, ma va bene, sì, riuniamoci e parliamo. Da tempo appare evidente che la “scuola militante”, debole e isolata, non riuscirà mai a modificare da sola la sua terribile condizione in un contesto di sconfitta generalizzata della democrazia, ma non c’è che fare: viva la scuola e pazienza se il resto va alla malora. Chi in questa scelta scorge i sintomi d’un male pernicioso, nuota controcorrente. C’è un che di non detto in questi giorni amari, un equivoco di fondo che ha mille ragioni d’essere, ma rischia di condurci all’ultimo atto di un tragedia annunciata. E’ vero, sul piano della forma, tranne qualche pesante scivolone, subito perdonato, il paragone con il precedente governo appare improponibile. La conseguenza immediata è sotto gli occhi di tutti: i “professori” tecnici governano col programma della Banca Centrale Europea. La vecchia politica è tutta lì. Discreditata quanto si vuole, ma stretta a quadrato attorno ai sedicenti “tecnici”: massacrare i pensionati e cancellare la pensione per i giovani è stato un gioco da ragazzi; per fucilare i diritti dei lavoratori non c’è voluto nemmeno il plotone d’esecuzione, Napolitano firma tutto, detta i tempi, chiede rapidità e, in quanto al resto, provvede Marchionne. Ancora pochi giorni, poi anche lo Statuto dei lavoratori finirà nella pattumiera, ma tutto fila liscio come l’olio. Se t’azzardi a parlare, qualcuno tira furi la foto impresentabile di Berlusconi e il gioco è fatto. A nessuno importa nulla se la banda che ci governava ieri mantiene in piedi la cricca che ci governa oggi, con l’aggiunta di una ex opposizione che regge il moccolo a Berlusconi e a Monti. Questi ministri son oro colato per le banche e gli speculatori internazionali, ma va bene così: chi prendeva uno stipendio o una pensione e pagava le tasse, è ormai derubato ogni giorno, ma continua a credere che pensione e stipendi glieli paghi Monti e non gli importa nulla dei giovani senza futuro e dei milioni di disoccupati. Basterebbe poco per capirlo, ma il Paese è accecato. Ci muoviamo in un contesto tragicamente semplice: un vero e proprio golpe consente di inserire nella Costituzione la parità del bilancio e un accordo tra i Paesi dell’Unione Europea affida il controllo della spesa pubblica a organismi non elettivi e assolutamente fuori dal controllo del Parlamento. Non c’è legge elettorale in grado di produrre domani una maggioranza bulgara, quantitativamente così numerosa come quella che oggi sostiene un governo che ha di fatto i poteri di un’Assemblea Costituente. Ciò che si decide oggi, non potremo sperare di cambiarlo domani col voto. Formalmente la repubblica democratica vive ancora, ma è vicina al coma irreversibile. Pochi mesi ancora, pochi giorni forse, poi Napolitano ne firmerà ufficialmente l’atto di morte.
Questo penso oggi con infinita mestizia, mentre ascolto i numerosi e valorosi difensori del governo e dei suoi ministri. Ci penso e l’amarezza mi conduce alle storie d’un tempo, recitate a soggetto da antichi scavalcamonti:

Narrano i cantastorie, che il ministro Vattelapesca, s’era fatto un nome come scaldapoltrone e viveva da osservatore strapagato. Un giorno, però, convinto di non essere ascoltato, per dimostrare che da ministro sapeva ben meritarsi lo stipendio, pensò di compiere finalmente un gesto politico significativo: “è uno schifo”, sibilò tagliente, parlando con un collega. Ce l’aveva coi deputati e nella cerchia ristretta di un’élite senza popolo si sarebbe guadagnato di certo il titolo di principe dei moralisti, se qualcuno, però, non l’avesse ascoltato. Ne nacque invece un immediato pandemonio, si scatenò nel totoschifo il qualunquismo e si accettarono scommesse su chi di tutti facesse veramente poi più schifo. Vattalepesca allora badò al sodo, mise da parte l’etica, difese la poltrona e lo stipendio e si scusò davvero prontamente: “lo schifo c’è, un ministro lo sa bene, però non deve dirlo, perciò domando scusa”.
Tutto tornò com’era, raccontano i cantastorie. Vattelapesca riprese a scaldar poltrone, facendo l’osservatore strapagato e i politici accusati di fare schifo non esitarano a tenere in vita il governo che li disprezzava, ma gli chiedeva un voto e si metteva alla pari, facendo così schifo come loro.
Chi di schifo ferisce, però, poi di schifo perisce, narrano i cantastorie, sicché un bel mattino il popolo schifato si sollevò indignato e mandò a gambe all’aria Vattelapesca, il governo e pure il Parlamento
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Uscito su “Fuoriregistro” il 10 marzo 2012.

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“Gerarchia” fu la rivista ufficiale del fascismo. Nella miseria morale e nell’indigenza culturale dello squadrismo diventato governo contribuì a creare la “mistica” fascista e il mito del duce. Mussolini la inaugurò il 25 gennaio del 1922 con l’articolo Breve preludio, in cui la retorica vuota di contenuti, preannunciava confusamente i caratteri di fondo della “civiltà fascista“, fondata su una “scala di valori umani, responsabilità, doveri, disciplina” che in nome dell’ordine costituito e dell’obbendienza cieca al “duce che ha sempre ragione“, cancellava i diritti e metteva al bando l’intelligenza critica. Oggi è facile vederlo. La tragedia dell’8 settembre del ’43 era già tutta in quel lontano gennaio del ’22.

Gerarchia e obbedienza sono gli sconcertanti concetti ispiratori della circolare di Marcello Limina, alto funzionario dell’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna che ha trovato in Maria Stella Gelmini, ministro della Repubblica nata dall’antifascismo, un solerte avvocato d’ufficio. La preoccupante circolare suscita da giorni le motivate preoccupazioni e le proteste degli insegnanti.

Mentre il governo tenta di mettere il bavaglio ai magistrati e i giornalisti sono costretti a difendere come possono la libertà dell’ informazione, com’era prevedibile, giunge l’attacco portato agli insegnanti. E’ bene dirlo chiaro e forte: quello che sta accadendo non ha precedenti e non è più tempo di mezze parole e pannicelli caldi. Limina e Gelmini sono tenuti a saperlo, maestri e maestre gliel’hanno insegnato: l’Italia è una Repubblica democratica. E’ il primo articolo dei “Principi Fondamentali” della nostra Costituzione e farebbero bene a ricordarsene perché fuori o, peggio ancora, contro questo principio, tutto ciò che si scrive, se non costituisce reato, è cartastraccia. Negli atti della Costituente quel noto sovversivo che risponde al nome di Amintore Fanfani, illustrando il principio all’Assemblea, usò parole che oggi sono prescrizione inderogabile per ogni cittadino della Repubblica, anche e soprattutto per i dirigenti degli uffici scolastici e i loro avvocati: “Nella nostra formulazione l’espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di uguaglianza, senza dei quali non è democrazia“. Sembrerebbe ovvio ma non lo è. La circolare recentemente firmata dal responsabile degli Uffici scolastici dell’Emilia Romagna dimostra che c’è ancora chi – come nel tragico ventennio fascista – ritiene che l’esercizio dei diritti, persino di quelli sanciti dai fondamentali principi della Costituzione, sia subordinato al capriccio delle gerarchie. Le cose non stanno così ed è anzi il contrario: è Limina a dover dar conto agli insegnanti di quello che ha scritto nella sua malaccorta circolare. L’uguaglianza dei cittadini produce infatti, in termini concreti, quello che, in senso epistemologico, si definisce “assioma“, vale a dire un principio assunto come vero in quanto è evidente e fa da punto di partenza di un contesto teorico di riferimento. Se Gelmini è libera di dire alla stampa ciò che pensa di scuola e di insegnanti, se Brunetta può definire pubblicamente fannulloni gli impiegati, gli insegnanti e gli impiegati possono dire alla stampa ciò che pensano del governo e della sua politica scolastica. Questa è in concreto l’uguaglianza nella democrazia repubblicana e non c’è circolare che tenga: chiunque, impiegato o no, può liberamente manifestare opinioni relative ai ministri di turno. Gli insegnanti possono, lo fanno e lo faranno, come io lo faccio, e non c’è legge che possa legittimamente impedirlo a meno di non dichiarare guerra alla democrazia, assumersi la responsabilità di violare la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e indurre i cittadini a esercitare il sacrosanto diritto/dovere alla resistenza all’oppressione.

E’ stupefacente che Marcello Limina e Maria Stella Gelmini, fingano d’ignorarlo. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri. E’ scritto nell’articolo due della Costituzione e non ci sono dubbi: è dovere primario di un ministro rispettare i diritti dei cittadini. Lo ricordava ai colleghi l’onorevole Ruini: la inscindibilità del binomio diritti-doveri “tipicamente mazziniano“, risale alla Rivoluzione francese – non è, quindi sessantottino – ed “è accolto da tutti, è ormai assiomatico“. Quando fu chiaro che il diritto di qualcuno è automaticamente dovere che hanno gli altri di rispettarlo, quando Giuseppe Dossetti puntualizzò che fosse da ritenere “assiomatico” che i diritti fondamentali delle persone sono vigenti anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato e, quindi, incoercibili, Marchesi – orribile a dirsi, un comunista! – ricordò che ci sono diritti insopprimibili che non sono riconosciuti esplicitamente dalla Costituzione, perché essa – tutti convennero – sottintende quelli storicamente preesistenti alla formazione dello Stato: vivere, muoveri, formarsi una famiglia, procreare, parlare. Parlare, sì. Parlare, checché ne pensino Limina e Gelmini. Parlare e, quindi, criticare sono un diritto naturale e incoercibile. Marchesi, sempre lui, il comunista, quasi temesse l’emergere dei Limina, trovò consenso unanime allorché, concordata una definizione giuridica – l’uomo è un “animale sociale“- ricordò che in ogni dovere è implicito un diritto: quello alla “libertà interiore, che non ci può essere data e tolta da nessun governo” in quanto “approdo supremo del proprio personale destino, che non può essere regolato né minacciato dalla legge“. Sono parole che Limina e il suo avvocato troveranno a pagina 38 degli Atti della Prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente. L’alba della Repubblica, dopo la tragedia di quel fascismo a cui tanti, troppi comportamenti e disegni di legge di questo governo sembrano volerci ricondurre. Primi fra tutti, quelli di natura odiosamente censoria che mirano apertamente a impedire o punire la manifestazione di dissenso.

Lo dico con la consapevolezza delle parole gravi e la serenità di chi è in pace con la coscienza: la misura è colma. Chi ha a cuore la democrazia – e ci contiamo a milioni – non può accettare senza reagire una involuzione autoritaria. E bene ha fatto la Cgil a chiedere il ritiro immediato della nota e le dimissioni del direttore dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna.

Uscito su “Fuoriregistro” il 24 maggio 2010

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Il giudizio è secco e non ammette repliche: gli insegnanti che rifiutano di celebrare la giornata delle Foibe sono inadeguati“. Lo afferma Giorgia Meloni, 33 anni spesi sui libri e donna di indiscussa cultura: diplomata con 60/sessantesimi presso l’ex istituto alberghiero “Amerigo Vespucci”, studentessa alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi Roma tre e, “dulcis in fundo”, ministro della Repubblica.
A nessuno risulta che la giovane e “studiosa” studentessa abbia mostrato una uguale passione da suffragetta per il 25 aprile, ma va bene così: ognuno coltiva la memoria che più sente vicina e Giorgia Meloni è legata a Predappio, dove rende omaggio alla tomba del duce e, se le chiedi di Mussolini, si esprime con indiscussa competenza: “è un personaggio complesso e va storicizzato. Chi potrebbe negarlo?
Sul tema delle foibe, senza entrare nel merito della competenza specifica – qualche lettura non troppo impegnativa la Merloni potrebbe averla fatta – non ci sono dubbi; la questione è un vespaio da cui non esce indenne nemmeno il fior fiore degli storici professionali. Certo, se la “studentessa-ministro” si fosse malaccortamente avventurata sul terreno metodologico e didattico per criticare i docenti, il passo sarebbe risultato a dir poco “più lungo della gamba” e ci saremmo trovati davvero di fronte alla necessità di fare una scelta complicata tra i due corni del dilemma: che si fa? Si piange o si ride?
Le cose invece non stanno così e occorre essere onesti. L’attacco del ministro prova ad aggirare l’ostacolo e non entra nel merito della libertà d’insegnamento. Non è un intervento particolarmente sottile, questo è vero, non è colto non è articolato e, sul piano politico, è decisamente malaccorto per le mille contraddizioni che si porta dentro; a leggerlo però onestamente, si sente lontano un miglio che tende semplicemente a riaffermare un principio: “di fronte a una legge nazionale che esiste ed è stata votata dal parlamento“, gli insegnanti e i dirigenti “che si rifiutano […] sono francamente inadeguati“. Il fatto è che, affermato un principio, è necessario avere l’onestà intellettuale di ricavarne le conseguenze. Come il ministro non può ignorare, la Costituzione è lapidaria: la sovranità appartiene al popolo che la esercita in maniera diretta eleggendo i suoi deputati. La domanda perciò non è oltraggiosa: chi ha eletto Giorgia Meloni e tutti gli altri membri della Camera? Lei e i suoi colleghi, il ministro lo sa bene, sono entrati in Parlamento solo perché “nominati” dai segretari dei partiti politici cui appartenevano. Essi, quindi, non hanno ricevuto deleghe dagli elettori e rappresentano perciò esclusivamente sé stessi e i loro partiti. Rispettando il principio che la nostra scienziata del diritto applica agli insegnanti, è impossibile negarlo: di fronte a una legge costituzionale che esiste ed è stata votata dall’Assemblea Costituente, il ministro e i suoi colleghi avrebbero avuto le carte in regola per entrare a far parte della Camera fascista dei Fasci e delle Corporazioni, ma, per usare la sua parola, sono del tutto “inadeguati” al ruolo di deputati al Parlamento della Repubblica.

Dal Blog di Giuseppe Aragno. Uscito su “Fuoriregistro” il 12 febbraio 2010.

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