Giù il capello: Lucio Garofalo, di professione maestro, ha mostrato un gran coraggio, denunciando la violenza di un potere che da tempo ce l’ha con il sistema formativo: scuola, università, ricerca e docenti. Forse perché sa che una scuola democratica, aperta persino ai contadini, tirò su i rivoluzionari russi. L’aveva voluta uno zar modernizzatore, che l’abolì troppo tardi; aveva ormai formato cittadini coscienti che conoscevano la lezione: ci sono valori per cui spendi la vita.
Ha mostrato coraggio, Garofalo, perché ciò che non riuscì ai rivoluzionari sedicenti o veri, è facile per i proconsoli dell’UE: colpire uno per educare tutti. La «bastonatura» oggi è asettica, invisibile, come la violenza della legalità che ignora la giustizia sociale: non scorre sangue, ma ti fanno a pezzi senza sporcarsi le mani coi manganelli. Costi minimi, buoni profitti e un valore aggiunto: più vai giù duro, più trovi consensi, come accade sempre quando il moralismo prevale sulla morale. Basta poco a sciogliere i cani: un tizio che, chissà perché, timbra in mutande la prova dell’assenteismo sotto l’occhio del «grande fratello», l’ingenuità sospetta della stampa, che prende per buone «prove» manipolate, un Pico della Mirandola taverniere, capace di tirare fuori dalla memoria una cena che ti servì anni fa, gli ospiti, il conto e il modo in cui l’hai saldato.
Ridotti in trincea dal fuoco amico e nemico, alle prese con psicopoliziotti infiltrati tra i giornalisti come squadristi mediatici esperti di neolinguaggio, i più hanno gli occhi bassi e le bocche cucite, sperando di farla franca. Per i duri, smagliature del sistema filtrano moniti terrificanti: Almirante, razzista e fascista repubblichino, commemorato del capo dello Stato. I polsi tremano. E’ vero, più ti allinei, più facile è la vita, ma in fondo alla via del triste compromesso sempre più spesso ci sono crisi di panico, male di vivere, pasticche e polverine. Prozac o cocaina, non fa differenza: la libertà di coscienza è sempre più tossicodipendente. E se proprio vai fuori giri, il Codice Rocco ha le sue «soluzioni finali» collaudate e modernizzate da ritrovati delle scienze mediche e giuridiche: carcere duro, manicomio «breve» e T.S.O, il trattamento sanitario obbligatorio, che apre la via alla «pericolosità sociale», la tomba dei diritti. Se infine sei un intruso, un richiedente asilo, un «effetto collaterale» della democrazia esportata, un disperato di colore, sbarcato nel regno dei Salvini, ecco i campi di concentramento, gestiti in tandem dalla politica e dalla malavita organizzata. La rete è una miniera d’esempi e vale per tutti il caso Mastrogiovanni, maestro e per giunta anarchico, giustiziato con il vecchio, ma efficiente letto di contenzione.
«Vi informo su un episodio quantomeno avvilente ed increscioso, accaduto nella mia scuola». ha scritto Garofalo. «Promosso un convegno con i soliti personaggi politici […] hanno costretto gli insegnanti ad essere presenti in seguito ad un ordine di servizio, convocando ufficialmente un collegio dei docenti che non si è mai tenuto». Il gioco delle tre carte, insomma: i docenti «sono stati convocati per partecipare ad una seduta collegiale, ma il collegio non si è riunito per dare spazio ad un convegno, durante il quale gli insegnanti hanno fatto da uditorio a disposizione dei politici».
Chi pensa che sia cosa banale, si sbaglia. E’ stato, ha ragione Garofalo, un atto illecito e il maestro sa bene che la denuncia comporta rischi: «non temo nulla», scrive, «nel malaugurato caso, userò le mie abituali ‘armi’, vale a dire la parola scritta».
Forse gli basterà, ma presto potrebbe cominciare una campagna televisiva a base di maestri in mutande, perché la denuncia pone l’accento sul primo, allarmante esempio di scuola statale dopo la legge 107 del 9 luglio 2015, fatta apposta per sopprimervi libertà e democrazia. La libertà che Garofalo rivendica, ben sapendo che Renzi ha decretato la fine della funzione civile dell’istruzione statale, frantumandone l’unitarietà e vincolandola a obiettivi didattici fissati da un Sistema Nazionale di Valutazione legato a filo doppio al potere politico. La scuola ormai non deve formare cittadini, ma sfornare merce a buon mercato, da inserire nel gioco della domanda e dell’offerta. «Bestiame votante» per la fabbrica del consenso. Così come l’ha disegnata Renzi, essa somiglia maledettamente alle istituzioni formative di tutti i regimi autoritari: sottopone i docenti precari al ricatto della scelta tra lavoro e diritti, precarizza gli insegnanti di ruolo, sottoposti a Dirigenti in grado di collocarli in mobilità a propria discrezione, demansionarli e sanzionarli con procedura monocratica. Grazie alla «Buona scuola di Renzi», nasce un «caporalato istituzionale» che, utilizza l’alternanza Scuola-Lavoro per passare dal diritto allo studio allo sfruttamento del lavoro minorile e si espropriano i docenti dell’autonomia professionale, trasferendo a un Ente esterno, l’Invalsi, la scelta dei parametri di giudizio e la valutazione dell’attività di insegnamento.
Una simile legge poteva nascere solo da una torsione della Costituzione e si capisce perché Renzi e Giannini non hanno consentito al Parlamento di definire principi, criteri direttivi e durata della delega affidata al governo. La «buona scuola» ignora il dovere di imparzialità dell’Amministrazione e l’obbligo di utilità sociale per l’iniziativa economica privata, che non può recare danno alla libertà e alla dignità umana; essa non ritiene il lavoro un valore fondante della Repubblica, cancella il diritto di libera manifestazione del pensiero e fa carta straccia della libertà d’insegnamento.
La denuncia di Garofalo si inserisce pertanto a pieno titolo in una tradizione di civiltà democratica, che ha profonde radici nella storia della repubblica e ricorda un principio non scritto, mai rigettato e pienamente vigente che, nei lavori dell’Assemblea Costituente, si riassume nelle parole di Dossetti, oggi, più attuali che mai: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
La questione, quindi, non riguarda la scuola che, da sola, non può contrastare questa micidiale ondata di reazione, ignoranza e disprezzo dei valori da cui nacque la Repubblica. Chiama in causa la società nel suo insieme, cui tocca ribadire quel no che settanta e più anni fa unì l’Italia migliore nella battaglia per la dignità dei lavoratori e la libertà delle idee.
“Fuoriregistro“, 9 novembre 2015