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Posts Tagged ‘Bocchino’

Uno urla: “fanno la legge bavaglio!” E via, cortei e sigle colorate. Scende in piazza l’intellettuale à la page, quello che legge Feltri, Libero e Belpietro, ma è la democrazia fatta persona; un popolo eccitato si veste di viola, attempate signore chic propongono “rivolte ciclamino” in stile tunisino e, scandalizzati, tornano a girare girotondini riciclati; qualcuno, se se li ha, si strappa i capelli, i giovani portano i vecchi in piazza e i vecchi ci vanno felici di questa ritrovata stagione rivoluzionaria. Qualcuno, irresoluto, aspetta l’oracolo e s’inchina la suo altare: chi ci ha messo Travaglio, chi Santoro, chi Saviano; buona parte dell’ex fascismo, ormai moderno e liberalizzato, guarda a “Futuro e Libetà” e pende dalle labbra di Bocchino in attesa di Fini. Un casino di fermento. E la legge? La legge non si fa! E’ divertente la democrazia, quando “qualcuno che conta” ci convince ad agire! La legge non si fa. Contava poco eera semplicemente un diversivo.

Viene il giorno che un’autorevole autorità, autorizzata da un autoritario potere più o meno occulto, P2, P3, P4 nessuno lo sa, mette mano alla rete e chiude la bocca al web. Tu t’aspetti la guerra civile, la lotta armata, una sorta di Quarantotto coi moti di piazza e la Giovine Italia e invece no. Non un corteo, nemmeno uno vecchio, finto, fotografato nella vecchia Piazza Esedra per salvare l’onore. Non una sigla colorata scende in piazza, non annuncia battaglia la stinta, ma gloriosa bandiera della pace… Niente, nemmeno un movimento vestito delle più varie gradazioni del grigio di questo tempo nostro bigio. Nulla. Chi legge il liberalissimo Feltri tace perché, si sa, è snob e non si mischia col popolo plebeo; il ciclamino ribelle s’è d’un tratto appassito nei tumulti nordafricani, come le attempate signore chic che non muovono un dito se l’intellettuale non c’è; Saviano non parla, i giovani sono stanchi dei vecchi, i vecchi non sopportano i giovani, nessuno fa conto su “Futuro e Libertà”, Bocchino chiama Fini, che chiama Bocchino, ma è sempre occupato. Il futuro s’è perso e la libertà non va più di moda. Non fermenta il casino, non gira il girotondino, s’incasina il fermento, non si muove una foglia che Travaglio non voglia… E la legge? Beh la legge si fa. La legge si fa, si fa, se non si sveglia la rete, la legge si fa…

PROTESTIAMO. FACCIAMOCI SENTIRE, RIBELLIAMOCI

 

 

 

 

 

Saremo l’esperimento più avanzato di censura del nuovo millennio
http://www.agoradigitale.org/nocensura

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Quando l’Europa delle banche, livida e sguaiata, vorrà “rifarsi il look” per meglio raccontare frottole alla gente, la premiata ditta “Trichet-Constâncio & CC“. verrà a copiarci pari pari questo governo di spettri e sepolcri imbiancati. Noi siamo così: perfezionisti. E si sa, il made in Italy esporta fantasia. Intanto, finché la tecnocrazia che ispira il gioco del capitale non ci dà quel che è nostro, riconoscendo il merito, noi, più o meno sedicenti “cittadini“, consoliamoci sin d’ora col primato indiscusso che ci assegna la storia: in centocinquant’anni di vita, dal Regno alla Repubblica, tredici li abbiamo vissuti a sperimentar le strade dei tiranni col celebre trio Crispi, Rudinì e Pelloux, venti si sono persi nel tragicomico con Mussolini e sedici, se qui ci fermeremo, recano il segno del primo esperimento riuscito di democrazia autoritaria. Un terzo della nostra vicenda è follia autoritaria e miseria morale. Gli altri due terzi li abbiamo spesi per una inesausta fatica in una sorta di “fabbrica di San Pietro“, dove una minoranza di gente onesta si strema per riparare oggi, quello che ieri e domani cialtroni e delinquenti guastarono e guasteranno.
Siamo maestri esportatori di un umorismo rozzo ma insuperabile. In un Paese in cui tutto è precario per definizione, una legge di “stabilità” mette al sicuro i conti benestanti. La presenta un governo privo di maggioranza, l’approva il Parlamento d’una repubblica antifascista, fascisticamente formato solo da “nominati“. Gente che nessuno ha eletto. Precario tra i precari, l’avvocato Gelmini, diventato ministro per un mistero glorioso, s’è dichiarato soddisfatto: la scuola dello Stato non ha avuto un centesimo, ma quella papalina, apostolica e romana ha visto salire a 245 milioni il fondo per le scuole private. In tutt’altre faccende affaccendato, l’avvocato ha tenuto a comunicare a studenti e docenti la buona novella: “Sono prive di fondamento le notizie legate ad una uscita del ministro Carfagna dal Governo e dal Pdl. Mara Carfagna è un ottimo ministro e la sua lealtà nei confronti del presidente Berlusconi non può essere messa in discussione, come ha anche sottolineato in questi giorni il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini“‘. Diffusa la sua nota, s’è preparata al week end.
Tutto va come le hanno suggerito le veline: la scuola primaria è colpita a morte, la Conferenza dei rettori ha barattato potere e scampoli di finanziamento con un testo di riforma passato al Ministero, più o meno sottobanco, dal suo presidente, prof. Decleva, il ministro vive la sua giornata impolitica e, oplà, eccola impegnata nella “prova-fedeltà” a Berlusconi, che salta agilmente nel cerchio di fuoco e poi dichiara:
I continui attacchi che il ministro Carfagna ha subito sono ingiustificati e dannosi per tutto il governo. Basta con il fuoco amico. Questo e’ il momento in cui invece – avverte – è necessaria l’unità del partito attorno al presidente Berlusconi“.
Tutto come da copione. la Finanziaria vestita da legge di stabilità col voto favorevole di Bocchino e soci, il “quasi compagno” Fini che modifica sua sponte il calendario dei lavori per consentire così che, dopo la scuola, il colpo del killer centri anche l’università e si ricostituisca ancora una volta la vecchia maggioranza, sia pure divisa in tre spezzoni: leghisti, “libertari berlusconiani” e “futuristi“.
Il 14 dicembre, dopo l’attacco criminale all’istruzione pubblica, il voto di fiducia. Come finirà non è dato sapere, ma qualcosa forse ce la sta già dicendo: fiducia o sfiducia, il Paese non cambierà in questo Parlamento. C’è chi si consola: “è una linea di tendenza planetaria, c’è poco da fare“. E sarà vero, com’è vero che in ciò che accade ci sono una filosofia della storia e un modello di società. Una società che esalta l’individualismo e la preminenza del privato sul pubblico e pretende la più sfrenata libertà del mercato, per farne un grimaldello che destrutturi le basi fondanti della convivenza civile e consenta di ristrutturarle come comanda la globalizzazione.
A cosa punta tutto questo? Siamo certi che la conquista del “mercato-istruzione” sia un obiettivo economico? La subordinazione delle intelligenze vale molto più che la compravendita di merci. In gioco c’è altro. Si intende manomettere il concetto di “umanità“, disarticolare gli strumenti critici come fondamento del conflitto, trasformare la partecipazione in “militanza della tastiera“, in una “virtualizzazione” dell’opposizione che vanifichi la ribellione. Siamo ben oltre il mito borghese dell’uomo che “si fa da sé“: è l’asservimento consenziente a una servitù che passa per la robotificazione dell’uomo o, se si vuole, per la sua disumanizzazione. La sinistra, ferma alla percezione di una “privatizzazione selvaggia” o si “autonormalizza“, come fa il PD, scende in campo e diventa maestra della privatizzazione, o si esalta di fronte ai milioni di appelli per la salvezza della povera Sakiné. Ci portano dove vogliono. Salviamo, orgogliosi, le Sakiné che fanno comodo a chi comanda il gioco e ci lasciamo “suicidare“. In questo contesto, l’avvocato Gelmini è un “grande ministro“: non pensa, esegue ordini. Noi, noi che pensiamo di pensare, noi non ci accorgiamo che non si tratta dei centesimi della privatizzazione. In gioco è una “rivoluzione preventiva. Non si cerca un mercato. Qui si vuole l’uomo.

Uscito su “Fuoriregistro” il 20 novembre 2010

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Dalle parole ai fatti. Il governo verde cavalletta dei celoduristi, sostenuto dai quattrini versati a fiumi da “Roma ladrona”, procede come uno schiacciasassi e appare chiaro: nasce un Principato Gallo-Cisalpino.

A Bossi che straccia il tricolore e a Calderoni che fa il filo alle gabbie salariali, copre le spalle con piglio celtico Maroni, “Roberto delle bande verdi”, con la Guardia Nazionale, gli alpini di Padania e, da ultimo, la Milizia Volontaria per la Sicurezza dell’agiatezza gallo-cisalpina. E’ il principato dell’egoismo e tanto peggio per i poveri d’ogni contrada: nordici, sudici e comunitari o islamici, marocchini e clandestini. 

Come spesso accade quando una menzogna pretende di essere un ideale, il cerchio però non si quadra e tra terre d’occupazione francese, plaghe di secolare colonizzazione iberica, lande austro-ungariche, fasti e nefasti di Visconti e Sforza, i geografi insubri invano si rompono la testa: nessuno conosce i confini del Principato che nasce, pertanto, elastico, precario e indefinito. Poche certezze. Un punto fermo prova a fissarlo Bricolo Ferdinando da Verona, sgrammaticando storia e Costituzione con una barzelletta di quelle berlusconiane, che movimenta l’incipit d’un agosto di crisi vacanziera, quando la Camera dei “nominati” a mezzo servizio ha esposto il tragicomico “chiuso per ferie”. Dopo il “federalismo fiscale”, che cristallizza le ragioni delle regioni ricche ai danni di quelle povere e, nelle regioni ricche, affonda definitivamente la causa dei poveri per tutelare borseggiatori d’alto bordo, evasori e mazzettieri, dopo la territorializzazione della docenza e l’indigenizzazione della cultura, si afferma ora la regionalizzazione dell’identità nazionale. Bricolo in testa, Cota, Goisis e tutti i capi delle bande maroniane rompono gli argini e puntano al cuore dell’unità nazionale: c’è un comma nuovo da inserire nell’articolo 12 dello Statuto di quella che fu la Repubblica italiana, per “riconoscere il rilievo costituzionale dei simboli identitari di ciascuna regione individuati nella bandiera e nell’inno”. E, senza scomodare il melodramma, un inno l’han trovato sin dal luglio scorso. E’ opera d’un genio verde cavalletta, quel Matteo Salvini che ha restituito alla “Questione settentrionale” l’anima sua più nobile e più schietta: quella eversiva e separatista del fascioleghismo alla Borghezio. Musica sacra in stile gregoriano, parole forti da gallo-cisalpino risciacquato nel Po’, si fa presto a cantarlo

Senti che puzza, scappano anche i cani, / senti la puzza, son napoletani, / son colerosi e son terremotati, / con il sapone mai si son lavati!”.

Bocchino e Quagliariello, casaliberisti partenopei e soci in affari di Matteo Salvini nell’armata berlusconiana, non han fatto una piega: si son lasciati prendere a schiaffi pubblicamente senza aprire bocca. A quanto pare, si riconoscono pienamente nell’inno e, con loro, tutti i napoletani sistemati da “nominati” nella casa della sedicente libertà. Firmeranno perciò senza fiatare questa e qualunque altra proposta celtica i napoletani Cesaro, De Luca, Di Caterino, Iapicca, Mazzocchi, Nastri, Papa, Russo, Scapagnini, Vito e le “deputate” Giulia Cosenza e Giuseppina Castello, per le quali chissà, Salvini potrebbe produrre una variante di genere che faccia rima con “cagne puzzolenti”.

Questo è lo stato dell’arte, né risulta che l’illustre storico Gaetano Quagliariello pensi di denunciare i rischi d’una tragedia che – Bricolo non ne sa probabilmente niente – abbiamo già vissuto ai tempi della “piemontesizzazione” e della destra cavouriana, quando l’ignorante tracotanza del blocco costituito da agrari del Sud e mercanti e manifatturieri del Nord costò al Paese più morti di quelli patiti in tre guerre d’indipendenza.

Giorni fa, sul Manifesto, Giorgio Salvetti si domandava quale ronda ci salverà da questo delirio. C’è una sola via per impedire questa sorta di ‘conquista regia’ rovesciata nel suo opposto, ha ragione Gianni Ferrara: è quella di una “conquista di civiltà unitaria, solidale, egualitaria”. Occorre una sinistra che torni ai valori fondanti sanciti dalla Costituzione e consacrati dal sangue dei combattenti della guerra di liberazione. Una sinistra che saldi la volontà di riscatto dei ceti deboli ed emarginati che esistono e crescono al nord come al sud, alle ragioni degli immigrati che l’egoismo leghista ricaccia nella disperazione. L’esercito non occorre e non servono armi. E’ un lavoro politico che travolgerà in un tempo solo, Cota, Bricolo, Bocchino e Quagliariello.

Anna Arendt aveva torto. Il male non è banale. Il male è una somma d’interessi miopi levati al rango di filosofia politica. Il male è una violenza contro la quale la politica alza bandiera bianca.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 agosto 2009

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