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Posts Tagged ‘cavour’


Ho ascoltato l’uomo che la stampa ha fatto santo. Non è Cicerone; è anzi monotono e a volte soporifero, proprio come me l’aspettavo. Non mi attendevo che non citasse mai la Costituzione e che sbagliasse sui numeri, ma l’ha fatto e si trattava di quelli che ti dicono se sai di che parli. Non mi attendevo nemmeno la retorica stucchevole e un po’ patriottarda e l’insistente, acritico richiamo all’Unione Europea, alla Nato e all’atlantismo. Un ritorno a quell’Occidente di cui fa ancora parte Guantanamo, evidentemente dimenticata.
Non so se il discorso sia farina del suo sacco. Se non lo è, i collaboratori del santo sono diavoletti. Se invece è suo, sono costretto a pensare che il sommo genio sia un manipolatore. Chi è onesto intellettualmente, non cita Cavour, estrapolando  due parole da un suo lungo discorso per utilizzarle in maniera strumentale e fuorviante. E’ vero, Cavour parlò di riforme, ma quelle cui faceva riferimento il futuro statista piemontese, in veste di giornalista, avevano uno scopo preciso, che Draghi si è guardato bene dal ricordare: far sì che la crescita del Paese servisse anzitutto a migliorare le condizioni di chi, allora come oggi, costituiva la parte più svantaggiata della società, anche se «più direttamente contribuisce a creare la pubblica ricchezza: la classe degli operai».
Il messaggio di Cavour, quindi, è chiaro, inequivocabile e ben diverso dal suo. Rivolto a imprenditori,  politici, e padroni di quella industria nascente, che già minacciava future «rovine e spaventose catastrofi», se non se ne fossero rafforzate le fondamenta, Cavour dettava una regola: non si può parlare di buona riforma, se essa non guarda anzitutto ai lavoratori e non si adoperi affinché «parte delle ricchezze che si vanno accumulando»  sia utilizzata in maniera seria per il miglioramento delle loro «condizioni materiali e morali», consentendo che si istruiscano e vivano in modo più agiato.
Cavour così concludeva le sue riflessioni:  «Impari […] l’Italia […] ad avere in gran pregio le sorti delle classi popolari, ad adoperarsi con sollecite cure ed incessanti al loro miglioramento» e faccia «si che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici […] delle crescenti ricchezze».*
Ho ascoltato Draghi che chiedeva fiducia, ma non mi fido. Non ha imparato ciò diceva Cavour e ne ha stravolto il pensiero.

*Il Risorgimento, 15 dicembre 1847

Agoravox, 18 febbraio 2021 e La Sinistra quotidiana, 19 febbraio 2011

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Due parole, da cittadino del mondo, che oltre le Alpi è talora “italiano mafioso”, o meridionale in senso leghista e nelle capitali d’Europa si sente dire: “da quelle parti, professore, meglio evitare”. Ho letto l’intervista a Saviano sulla criminalità a Napoli: è sconcertante. Voglio poter credere che Roma senza turisti, o Venezia priva di ospiti stranieri, per lui e per me, vorrebbero dire che a Roma e Venezia è cambiato qualcosa. Che ci chiederemmo perché e magari ci divideremmo, ma non negheremmo il dato di fatto: se non hai più turisti un cambiamento c’è. Di conseguenza c’è anche se i turisti aumentano in modo significativo e sistematico. Per Saviano non è così e mi pare strano.
Si può discutere sul rapporto turismo-legalità ed è vero: illudersi di battere il crimine organizzato con la crescita del turismo è da ingenui. Tirare in ballo la connivenza, però, è gratuita violenza verbale, anche perché, a Napoli, nessuno ha mai detto o pensato che l’incremento del turismo combatte la camorra. E’ il contrario. Chi vive la città con passione civile sa che, per tutelare il segnale di cambiamento che Saviano misteriosamente nega, occorre intensificare la lotta alla camorra. A partire dallo sfruttamento del lavoro che il turismo produce e Saviano ignora. Una lotta che, col rispetto dovuto ai vigili, è ridicolo chiedere alla polizia municipale.
Saviano converrà: la sinistra in città non è formata da un branco di idioti che sogna di liberarsi della malavita a colpi di feste di piazza e pullman di turisti. I napoletani e il loro sindaco sanno bene che ci vuole altro e che, se Alfano e soci, come afferma lui stesso, inviano da queste parti l’esercito “per ragioni di facciata politica” e lasciano tutto com’è, la camorra fa festa. Lo sanno – e lo sa pure Saviano ma non lo dice – che la repressione, ammesso che la fai per davvero, non porta lontano e occorre prevenire, piantarla di far parti uguali fra disuguali, creare opportunità, difendere le scuole dello Stato e via così, con le mille ricette che il meridionalismo invano prescrive dai tempi di Cavuor. Saviano conosce le leggi dello sviluppo duale, perciò sarò chiaro: non ha diritto di violentare la storia.
E’ vero, la pistola che torna a sparare non è un incidente di percorso. “Arrestato un affiliato ce n’è sempre un altro pronto a prendere il suo posto. L’affiliazione è un meccanismo […] economico […] parte del disagio che va oltre Napoli, attraversa tutto il Mezzogiorno e l’Europa del Sud, di cui si tende a parlare poco e male”.
E parliamone allora, invece di sparare nel mucchio. Occorrono lavoro e reddito, forse? Ci vuole politica e formazione? Serve giustizia sociale? E’ questo che dice Saviano? Non so. Non è chiaro. Sono questioni gravi e non capisco se lo scrittore creda davvero che un’amministrazione comunale debba affrontare con i vigili pistolettate, pistoleri, protettori politici e produttori di disperazione, annidati nei laboratori di un aborto della storia che chiamiamo Unione Europea e colpevolmente associamo al nome di Spinelli.
Saviano ricorderà, l’avrà letto: molti decenni fa, con ben altra autorevolezza, Eduardo mutò il finale di un suo celebre lavoro: “’a nuttata nun passa chiù”, scrisse. In tanti come me, giovani di quel tempo, non lo seguimmo. Rispettammo le sue ragioni, ma non lo seguimmo. Stemmo dove Saviano ci ha trovati. Lottammo e lottiamo. Abbiamo perciò diritto di fargli una domanda: davvero crede che sia un caso se le pistole sparino tutte nei vari Sud che elenca nella sua intervista, e siano prodotte nei molti Nord di un tragico “spazio comune”? Quei nord che, nella sua visione del mondo, sembrano il regno dell’innocenza. Se è così, il disaccordo è totale: per me sono parte integrante dei mali dei Sud. Io non dico, però, che Saviano delira. Dico che Napoli non delira e a Saviano chiedo di chiederle scusa.

Agoravox, 7 gennaio 2017; Fuoriregistro, 14 gennaio 2017

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E’ il 4 febbraio 1861. Sono passati quattro mesi da quando Garibaldi ha piegato sul Volturno ciò che resta della truppe di Francesco II e mancano due settimane alla prima seduta del Parlamento italiano. Passa per Napoli in tutta segretezza, come fosse un volgare malfattore, Giuseppe Mazzini, al quale guarda, come ad un maestro, l’Italia democratica, messa in scacco dalla politica di Cavour, che non avrebbe conseguito nessuno dei suoi obiettivi senza l’aiuto determinante della sinistra mazziniana e garibaldina. Pochi mesi ancora, poi Cavour sarà stroncato da un’improvvisa malattia e i suoi successori, incapaci di proseguirne la politica, acuiranno le già fortissime contraddizioni del processo d’unificazione nazionale, gettando un’ombra nera e lunga sul futuro del Paese: l’impiego di 120.000 uomini, metà dell’esercito italiano, accampati nell’Italia meridionale, una guerra civile, sociale e politica che costerà al Paese più morti di quelli causati dalle guerre d’indipendenza, una politica fiscale di classe che tutelerà la rendita fondiaria – gli uomini della destra storica sono soprattutto proprietari terrieri – attaccando ferocemente i redditi della ricchezza mobiliare e giungendo a tassare il “macinato”, l’assoluta insensibilità nei confronti delle esigenze della società civile, l’ignoranza completa dei problemi reali della gente, la violentissima compressione sociale e le conseguenti, ricorrenti rivolte contadine, costituiranno il bilancio largamente negativo di una classe dirigente che, stando al cliché del revisionismo, faceva politica per “servire lo Stato”.
Come un ladro, dicevo, passa per Napoli Giuseppe Mazzini ma non sfugge all’occhiuta polizia sabauda, che farà presto rimpiangere ai dissidenti politici i metodi del borbonico Liborio Romano. A guidare le forze dell’ordine, nell’ex capitale, è Silvio Spaventa – patriota, perseguitato politico e “galantuomo” di destra, formatosi all’idea hegeliana dello Stato – che immediatamente scrive a “Sua Eccellenza il Segretario G.le di Stato presso la Luogotenenza Gen.le del Re” una lettera che ho rinvenuto nell’Archivio di Stato, inedita credo, che vale la pena di riportare integralmente:

Da persona degna di qualche fede – scrive Spaventa – sono assicurato che il Mazzini è di nuovo qui; questa notte egli avrebbe dormito in casa il Direttore [sic] del Popolo d’Italia e nel momento che scrivo sarebbe in casa dell’Acerbi; andrebbe in Caserta la notte ventura. Se queste cose fossero vere, come avrei da regolarmi?
Quando S.M. era qui, e vi si trovava pure il Mazzini, si stimò non conveniente di procedere ad alcun atto contro di lui. Come V.E. sa il Mazzini fu condannato nelle antiche province a morte in contumacia. Oggi crede V.E. che dobbiamo fare nello stesso modo?
Mazzini veste ancora l’abito di tenente colonnello garibaldino, come vestiva l’altra volta che fu in questa città. Mi dicono ancora che degli emissari mazziniani sono spediti presso te nostre truppe regolari nelle diverse province, con qual fine non saprei dire determinatamente.
Piaccia all’E.V. rimanere intesa, perché se il crede bene ne avverta anche il Generale Della Rocca.
Il Consigliere
S. Spaventa”

Mazzini non era un terrorista, ma aveva subito una condanna a morte, comminatagli da un tribunale sardo, per cospirazione politica e – diremmo oggi – organizzazione e partecipazione a banda armata. E’ la condanna cui fa cenno Spaventa, incerto se mettere le mani addosso al grande rivoluzionario e trattenuto soprattutto dalla divisa di “tenente colonnello” e dalla probabile reazione garibaldina. Un criminale politico è Mazzini – non comunista – ma combattente, come i fratelli Bandiera, Pisacane, come più tardi gli antifascisti, come i partigiani, che andarono al patibolo portando addosso la scritta ammonitrice: “Banditen”. E’ così. “Banditen” fu Garibaldi, “banditen” fu Che Guevara, “banditen” sono sempre stati, per i Paesi che li hanno imprigionati e condannati a morte, tutti i combattenti della libertà. I tribunali che li hanno giudicati erano per lo più legalmente costituiti e i governi contro cui si sono battuti avevano credito internazionale, ambasciatori accreditati, facevano parte, insomma, del “concerto delle nazioni” ed esercitavano la legale violenza che uno Stato ha potestà di usare per far rispettare le proprie leggi. Da un punto di vista politico i rapporti tra potere costituito e rivoluzionari – veri, presunti o sedicenti – sono chiarissimi, si regolano senza problemi ed in genere la stragrande maggioranza dei contemporanei è dalla parte del potere costituito. I giudici e i governanti fanno il loro mestiere.
E perciò i governi governino, senza tirar fuori ogni volta che gli serve una “bomba intelligente” che capisce da sola quando deve esplodere, e non perdano tempo a scrivere la storia. Non serve: è la storia a decidere chi ha il futuro dalla propria parte. Vorrei vedere oggi un governo italiano che, ricordando le vicende politiche che conducono alla nascita politica del Paese, definisca terroristi – o, perché no?, anarchici insurrezionalisti – i fratelli Bandiera, Carlo Pisacane, Mazzini, Garibaldi e, ciò che sarebbe coerenza, Silvio Spaventa,  che fu ad un tempo “banditen” per i Borboni e persecutore di “banditen” per i Savoia.
Ciò che stiamo perdendo in questi anni non è il senso dello Stato. No. Quello che stiamo perdendo è il senso del ridicolo. E’ talvolta il primo segnale d’una catastrofe.

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Legge dopo legge, decreto dopo decreto, un popolo che ha avuto nella sua storia Verri e Beccaria va a lezione di democrazia dai “pericolosi clandestini che trova normale chiudere in un campo di concentramento a Lampedusa, in nome evidentemente dell’accoglienza e di una storia d’emigrazione che al mondo probabilmente non ha pari.
Legge dopo legge, decreto dopo decreto, facendo il tiro a segno sui diritti, ci comincia ad apparire del tutto naturale che qualcuno neghi ai musulmani il diritto di pregare. E continuiamo a crederci un popolo liberale che si muove nel solco della storia e della tradizione che risale a Cavour: “libera chiesa in libero Stato“.
Legge dopo legge, decreto dopo decreto, figli della “patria del diritto” e della civiltà giuridica romana“, eredi di Cicerone e Cesare, teniamo in piedi Tribunali e Corti d’Appello, vantiamo in Cassazione il fior fiore dei giudici, ma sputiamo sulle loro sentenze e, in nome d’un rinnovato Medio Evo, ci neghiamo il diritto di morire con la dignità, che pure riconosciamo ai nostri cani.
Legge dopo legge, decreto dopo decreto – fingiamo d’ignorarlo ma lo sappiamo bene – sono anni ormai che da noi per taluni reati non c’è bisogna di chiedere documenti: hanno tutti una patria e, ovviamente, sono tutti clandestini. Il rapimento d’un bambino è Rom, lo spaccio della droga, ci su può giurare è sempre e certamente Senegalese, lo sfruttamento della prostituzione è per vocazione Albanese e la violenza sessuale è rigorosamente Rumena.
Se a Guidonia, però, una folla inferociata minaccia il linciaggio, se a Nettuno tre figli nostri danno fuoco a un indiano e, solidali e spavaldi, gli amici se la ridono, tanto si sa, è solo un marocchino, se tutto questo accade, non si sono dubbi: il reato è italiano, si chiama razzismo e se volete trovare i mandanti morali, non perdete tempo: cercate in Parlamento.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4 febbraio 2009

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