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Posts Tagged ‘Primo maggio’


Fino a qualche anno fa bastava dirlo – Primo maggio, festa del lavoro – ed emergeva un mondo: il 1889, Parigi e l’esposizione universale in cui s’era deciso che nascesse, le associazioni operaie sempre più consapevoli, i diritti da strappare ai padroni, l’unità degli sfruttati contro gli sfruttatori, le lotte e la forza della coscienza di classe.
Da tempo tutto questo è svanito nel nulla. Il Primo Maggio ormai non è più festa e anche quando lo è la festa del lavoro lavoro che non c’è e ha smarrito il suo significato reale. Nelle aule o davanti a una gelida macchina elettronica, a quanti studenti si dice oggi che questo è stato giorno di lotta e spesso di terrore e di sangue versato? Chi ha ricordato il tragico Primo maggio del 1947, quando tra Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, nella spianata di Portella della Ginestra, la festa si tinse di sangue innocente? Si va a caccia di «terroristi», ma quando mai in questo Paese si è andati a caccia del terrorismo e dei terroristi figli del potere? Chi ricorderà domani i contadini uccisi mentre si raccoglievano attorno alle bandiere rosse, mentre i sogni suscitati dalla neonata repubblica diventavano incubi? Chi ha mai tenuto conto dei parenti di queste vittime?

Voglio ripetere oggi ciò che scrissi in un primo maggio di alcuni anni fa. Ripeterlo perché i libri di storia soffrono sempre più di inquietanti vuoti memoria e ci si può giurare: nel trionfo apologetico della bontà dei «datori di lavoro», quando svanirà la generazione dell’ormai lontano Sessantotto, tutto si perderà, persino la memoria di un’antica tradizione della zona. A Portella della Ginestra, infatti, i lavoratori si adunavano in festa per il Primo Maggio fin dai giorni entusiasti e terribili dei Fasci siciliani, quando Nicola Barbato, apostolo del primo socialismo, parlava ai contadini, ritto in piedi su una roccia che diverrà poi il «sasso di Barbato». A gennaio del 1894 il generale Morra di Lavriano, inviato nell’isola con 30.000 uomini, spedì immediatamente al confino 1000 persone senza processo e altri 2000 siciliani distribuì, poi, tra carcere e soggiorno obbligato, grazie a tre tribunali militari (Palermo, Messina e Caltanissetta) che, esercitando un’autorità assoluta e arbitraria, colpirono anche le associazioni operaie e le organizzazioni sindacali malviste dal governo Crispi e dai partiti politici dell’opposizione.
A conti fatti, fortunato fu chi salvò la vita, perché le stragi terroristiche iniziarono subito: il 20 gennaio 1893 ci furono tredici morti a Caltavuturo, il 6 marzo caddero in due a Serradifalco, il 6 agosto ci fu  un morto ad Alcamo, il 10 dicembre undici caduti a Giardinello, il 25 dicembre altri undici a Lercara, l’1 gennaio 1894 otto morti a Pietraperzia; il 2 gennaio due vittime a Belmonte Mezzagno; il 3 gennaio diciotto uccisi a Marineo e il 5 gennaio a Santa Caterina Villermosa quattordici morti, di cui racconta Pirandello. Barbato, l’antico organizzatore sindacale pagò col carcere la sua passione socialista, ma non fu mai cancellato dalla memoria popolare, come accade oggi, mentre la «democrazia» dell’uomo di «Goldman e Sachs» cancella il Parlamento e chi si ostina a parlarne o è un patetico nostalgico o un pericoloso sovversivo comunista.

Presto purtroppo nessuno ricorderà che, caduto il fascismo, non solo quell’antica tradizione era stata ripresa, ma il primo maggio del 1947 i contadini si riunirono nel pianoro per festeggiare, assieme alla festa del lavoro, la sinistra vittoriosa sul fronte padronale, guidato dalla DC, alle prime elezioni regionali che si erano tenute il 20 aprile, dopo una campagna elettorale segnata dalla crescente violenza mafiosa. I segnali di trame occulte, intese inconfessabili, rapporti oscuri tra politica e malavita organizzata, che conducono difilato alle attuali connivenze tra Stato e mafia e al degrado del CSM, erano chiari sin da quei giorni lontani. Il 4 gennaio, infatti, era stato ucciso Accursio Miraglia, dirigente del PCI e animatore delle lotte contadine; di lì a poco, il 17 gennaio, era caduto il comunista Pietro Macchiarella e nei Cantieri Navali di Palermo erano stati impunemente esplosi colpi d’arma da fuoco. S’era votato in un clima così minaccioso, che ai comizi noti esponente della mafia avevano potuto pubblicamente minacciare gli elettori.

I fermati non furono mai arrestati, si escluse subito l’intreccio politica-mafia e le indagini si concentrarono sulla banda Giuliano. Il quadro dell’inchiesta diventò ben presto quello tipico della storia della Repubblica, quando in discussione sono state e sono le relazioni tra malavita organizzata e colletti bianchi. Indagini chiuse rapidamente, omissioni, perizie balistiche inesistenti, vittime sepolte senza autopsia, attenzione rivolta ai killer. Ai mandanti non pensa nessuno e gli imputati si riducono al «bandito» Salvatore Giuliano – guarda caso, un ex agente dei servizi segreti di Salò – e gli uomini della sua banda. Cinque anni dopo la «giustizia» si ferma lì: ergastolo per Giuliano, al quale s’era intanto chiusa la bocca per sempre dopo un conflitto a fuoco, e per gli undici componenti della sua banda.
Fu chiaro a tutti, anche ai giudici, che lo scrissero nella sentenza: la strage intendeva colpire i comunisti, impegnati nelle aspre lotte per i diritti dei contadini; i giudici facevano cenno a una forma di «supplenza»: i «banditi», di fatto, avevano operato come una sorta di «polizia di riserva». Ciò che non poteva consentirsi lo Stato al servizio dei padroni, era stato compiuto dai mafiosi.
Il Primo maggio del 1947 non è solo la prova storica che una sinistra vera è ugualmente pericolosa per gli interessi dei padroni e delle cosche mafiose, ma ricorda a chi vuole capire che il padronato ha sempre remato contro l’Italia nata così come vollero gli antifascisti. Se il Paese avesse memoria storica e coscienza di se stesso, sentirebbe fino in fondo la violenza che sta subendo e si leverebbe come un sol uomo contro un governo «atlantista» che riconduce indietro le lancette della storia.

Questa memoria purtroppo non c’è. La scuola è stata piegata, l’università è in ginocchio e una sinistra autentica non siede più in Parlamento. Crisi della finanza e crisi dell’ectoplasma che storicamente chiamiamo democrazia sono ormai un treno che procede a ruota libera sullo stesso binario. Alla prima sosta attende, paziente ma minaccioso, il fascismo del nuovo millennio.
In questo clima, non sarà male ricordare i morti e i feriti fatti dai padroni e dai loro complici politici quel giorno e in tanti altri giorni che da ieri conducono a oggi. Non sarà male, perché altrimenti nessuno ricorderà che nella storia di questo Paese il primo, autentico terrorista è lo Stato.  
Dal «dittatore», Garibaldi, che a Napoli affida l’ordine pubblico a Liborio Romano, fino alla nascita della Repubblica e alla mafia che apre la strada ai «liberatori», è andata così. Porti la «cartolina precetto», che sottrae al lavoro contadini e operai, spari nella schiena al fantaccino che scappa sulla linea del fuoco nella «Grande guerra», tiri un colpo di rivoltella al ragazzino di un quartiere abbandonato al suo destino, o si tolga gentilmente il cappello, lo Stato è il garante di un’antica ingiustizia: tutela gli interessi dei ceti dominanti. Così fu con Crispi, così con Mussolini, così è stato sempre. E non venite a dirmi che c’è la Costituzione: ne è stato presidente Gaetano Azzariti, già presidente dal Tribunale fascista della razza.

Chiacchiere da bar? Non direi. Partiamo da fatti solo apparentemente lontani. Tra il 1948 e il 1950 le forze dell’ordine denunciano decine di migliaia di lavoratori e i giudici fascisti, che l’amnistia ha lasciati al loro posto, grazie al codice del fascista Rocco che nessuno ha voluto mandare in pensione, condannano oltre 15.000 “sovversivi” a 7.598 anni di carcere. Per farsi un’idea del clima che c’è nel Paese, basta un raffronto coi dati dell’Italia fascista, in cui, tra il 1927 e il 1943, il Tribunale Speciale condannò complessivamente gli imputati per reati politici a 27.735 anni di carcere. Per un triennio di storia repubblicana, quindi, la media annuale è di 2533. Molto più dei 1631 che fu la media annuale dell’Italia fascista. Nell’Italia repubblicana, nel 1948-52, in piazza le forze dell’ordine fecero, secondo dati ufficiali, 65 vittime (82 secondo fonti non ufficiali); in quegli stessi anni, in Francia si ebbero 3 morti, in Gran Bretagna e in Germania 6.
A conferma del ruolo di uno  Stato terrorista c’è l’intramontabile “modello Fiat”, varato dal fascista Valletta, passato agevolmente tra le maglie dell’epurazione: reparti-confino (tornarti di moda con Marchionne e con la morte di Maria Baratto uccisa dal «confinamento» dopo aver fondato un comitato anti suicidio), schedature politiche e licenziamenti per rappresaglia di lavoratori comunisti, socialisti e anarchici. Lo Stato che non cambia condanna a 14 anni di carcere di ragazzo che ha rotto un bancomat in cui vede il simbolo del capitalismo e non muove un dito per colpire i padroni che uccidono gli operai, ignorando la sicurezza sul lavoro. E’ lo stesso Stato che punisce, come fosse una volgare criminale, Eddi Marcucci, colpevole di aver combattuto per la libertà dei Curdi. Di questo Stato criminale e terrorista, dei suoi ripetuti crimini i benpensanti non parlano mai.

Chi ricorda più che nel 1974, trentuno anni dopo la caduta del fascismo, una legge riconobbe la qualifica di “perseguitati politici” a 15.099 lavoratori e lavoratrici vessati in ogni modo tra il gennaio 1948 e l’agosto 1966? Chi ricorda più i numeri agghiaccianti delle vittime? Eppure non si tratta di «casi» che vivono ancora nella coscienza del Paese, come quello di Giuseppe Pinelli, anarchico volato giù dalle finestre della Questura di Milano il 12 dicembre 1969, affidato al fascista Marcello Guida, già direttore della colonia penale di Ventotene, dove il regime aveva confinato lo stato maggiore dell’antifascismo militante a partire da Sandro Pertini. Si tratta di una terribile serie di morti dimenticati, uccisi negli anni che vanno dalla caduta del fascismo ai giorni nostri.

26 luglio-27 settembre 1943 (caduta del fascismo-Quattro Giornate di Napoli e inizio Resistenza): il governo Badoglio ordina alla forza pubblica di sparare su chi protesta. A Bari, Bologna, Budrione, Canegrate, Colle Val d’Elsa, Cuneo, Desio, Faenza, Genova, Imperia, La Spezia, Laveno Mombello, Lullio, Massalombarda, Milano, Monfalcone, Napoli, Palma di Montechiaro, Pozzuoli, Reggio Emilia, Rieti, Roma, Rufino, San Giovanni di Vigo di Fassa, Sarissola di Busalla, Sassuolo, Sesto Fiorentino, Sestri Ponente, Torino, Urgnano, carabinieri, polizia e reparti dell’esercito in servizio di ordine pubblico fanno almeno 98 morti nelle manifestazioni seguite all’arresto di Mussolini e nelle lotte per carovita, lavoro, pace e libertà dei detenuti politici. In un sol caso, a Torino, durante uno sciopero alla Fiat, gli Alpini rifiutano di sparare. Il 18 dicembre a Montesano, mentre ormai si lotta per la liberazione, le ultime vittime del tragico 1943. Il paesino insorge contro il malgoverno e paga con 8 morti. I carabinieri fascisti, ora badogliani, accusano ovviamente «elementi comunisti». Ai carabinieri di Napoli un record insuperabile: l’arresto del primo partigiano, Eduardo Pansini, uno dei capi delle Quattro Giornate, a pochi giorni dall’insurrezione in cui è caduto da eroe il figlio Adolfo. Nei giorni di lotta sanguinosa, gli ufficiali superiori dei carabinieri, delle Forze Armate e dei corpi di Polizia se l’erano squagliata, lasciando in balia dei nazisti i loro uomini e la città.

Il 1944 con 35 vittime accertate e numerose rimaste ignote non va molto meglio. Il 13 gennaio a Montefalcone Sannio e a Torremaggiore esercito e polizia sparano ai contadini in lotta. Un conto preciso dei morti non s’è mai potuto fare, ma furono tanti. A Roma un carabiniere uccide un minorenne che manifesta contro gli accaparratori di grano, a Regalbuto tocca a Santi Milisenna, segretario della federazione del Pci. Di lì a poco cade una donna che manifesta per la mancanza di cibo, 3 morti si registrano a Licata, dove polizia e carabinieri sparano contro chi protesta perché all’ufficio del collocamento è tornato il dirigente fascista. A Ortucchio i carabinieri, giunti a sostegno dei principi Torlonia durante un’occupazione di terre, fanno due morti. A Palermo, una protesta per il caropane costa 23 morti. Stavolta sparano i soldati. Seguono due morti a Licata, un morto a Roma, e tre morti di dicembre tra i separatisti siciliani

1945: 38 morti tra cui Vincenzo Lobaccaro, bracciante, scambiato per un ex confinato politico;

1946; 42 morti;

1947: 8 morti;

1948: 35 vittime;

1949: 22 morti;

1950: 19 caduti;

1951: 4 morti;

1952: 2 vittime;

1953: 12 uccisi;

1954: 6 morti.

1955: non si spara e c’è tempo per un bilancio che non riguarda i morti. Secondo dati incompleti e parziali dal 1 gennaio 1948 al 31 dicembre 1954 ci furono 5.104 feriti e 148.269 arrestati.
1956: 7 morti;

1957: 4 vittime;

1959: 2 caduti;

1960: 11 morti ;

1961: 1 caduto;

1962: 2 vittime.

Una pausa in coincidenza con l’esperienza del centro-sinistra, poi la contestazione giovanile e il triste elenco che si allunga:

1968: 3 morti;

1969: 5 caduti, cui si aggiungono Giuseppe Pinelli e Domenico Criscuolo, tassista incarcerato a Napoli durante una manifestazione sindacale. L’uomo si uccide dopo un colloquio con la moglie, che gli confessa di non sapere come procurarsi il denaro per vivere, insieme ai 5 figli. Strage di Stato e Servizi Segreti fanno i 17 morti del 12 dicembre a Milano uccisi da una bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E’ la cosiddetta «strategia della tensione», che consentirà la repressione dei movimenti di massa di quegli anni. Per la strage di matrice fascista furono accusati senza alcuna prova gli anarchici, tra cui Pinelli e Pietro Valpeda.

Gli anni di piombo non rientrano un questo doloroso elenco. Furono anni di guerra civile strisciante e occorrerebbe un discorso a parte, da fare ormai in sede storica, non nelle aule di tribunali.

Mi fermo qui per stanchezza e non apro il capitolo dei morti per manicomio, dei detenuti «politici» torturati, di quelli ricattati con l’arresto delle compagne incinte per estorcere confessioni. Terroristi ne abbiamo avuto molti. Quelli pagati dal potere non hanno mai pagato. Poiché fingiamo di non saperlo, è giunto questo Primo maggio che vede massacrati i lavoratori, i loro diritti e la Costituzione.

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napoletani

Amedeo Coraggio

Cerasuolo Maddalena

Grossi Carmine Cesare

Olandese Maria

Margiotta Ugo

PIcardi Ciro

Di Nuzzo Felice

Era stato deciso a Parigi nel 1889 e un anno dopo cominciò: manifesti incollati di notte sui muri, riunioni più o meno segrete per evitare l’arresto e la decisione di astenersi dal lavoro.
La risposta dei padroni non si fece attendere: manifesti strappati dai muri, circolari segrete e piantine delle città per indicare ai comandanti delle truppe i luoghi da presidiare e poi cariche e arresti:

“Le SS.LL. sapranno già come da vari gruppi di affiliati ai partiti sovversivi si studi con ogni sorta di maneggio di animare l’agitazione pel 1° maggio che, secondo i disegni dei più arrischiati, dovrà, come essi dicono, segnare una data memoranda nella storia di queste agitazioni.
Al gruppo di questi ultimi appartengono tra gli altri i noti anarchici Mariano Gennaro Pietraroia…”

Da quel giorno Abbiamo avuto di tutto – Crispi, Rudinì, Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris, Mussolini, Scelba, ma il lavoro e i lavoratori sono il fondamento della nostra società e l’insostituibile pilastro della democrazia. Oggi, perciò, sia pure in maniera virtuale non voglio che la loro festa possa mancare, perciò, eccoli sfilare tra polizia e pandemia. E’, come vuole la polizia un corteo “pericoloso”:  sovversive e sovversivi schedati!
Dalla prima fila: Amedeo Coraggio, Domenico Aratari, Ugo Arcuno, Giovanni Bergamasco, Leopoldo Capabianca, Antonio Cecchi, Maddalena Cerasuolo, Ferdinando Colagrande, Guido Congedo, Domenico D’Ambra, Ugo Del Giudice, Nicola De Bartolomeo, Carmine Cesare Grossi, Ada Grossi, Aurelio Grossi, Renato Grossi, Libero Merlino, Lista Alfonso,  Maria Olandese, Mario Onorato, Luigi Pappalardo,  Gennaro Mariano Petraroja, Ugo Margiotta, Salvatore Mauriello, Enrico Motta, Ignazio Mottola, Tito Murolo, Luigi Felicò, Luigi Romano, Enrico Russo, Tommaso Schettino, Edurado Trevisonno, Umberto Vanguardia, Felice Di Nuzzo, Pasquale Di Vilio, Canio Canzi, Edoardo Pansini, Emilia Buonacosa.

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Manifesti per il 1° maggio sequestrati nel 1892

Manifesti per il 1° maggio sequestrati nel 1892

Cominciò così: manifesti incollati di notte sui muri, riunioni più o meno segrete per evitare l’arresto e la decisione di astenersi dal lavoro.
La risposta dei padroni non si fece attendere:

Nota n. 1838 Urgente e riservata alla persona
Agli Uffici dipendenti
Oggetto: Agitazione pel 1° maggio.
Le SS.LL. sapranno già come da varii gruppi di affiliati ai partiti sovversivi si studii con ogni sorta di maneggio di animare l’agitazione pel 1° maggio che, secondo i disegni dei più arrischiati, dovrà, come essi dicono, segnare una data memoranda nella storia di queste agitazioni.
Al gruppo di questi ultimi appartengono tra gli altri i noti anarchici Mariano Gennaro Pietraroia, Vincenzo Petillo, Giovanni Bergamasco, Attilio Volpi, Gerolamo Tommasoni (fatti questi due rimpatriare, ma che potrebbero da un giorno all’altro tornare) Augusto Tralascia e Luigi Perna. Ad essi si è collegato l’altro noto socialista-repubblicano Luigi Alfano, rappresentante il Circolo «Gioventù Operosa», giovane turbolento ed audace.

Circolare segreta della Questura di Napoli

Circolare segreta della Questura di Napoli per il 1° maggio 1892

Costoro, riunitisi in comitato segreto tendono a organizzare pel 1°, maggio un movimento rivoluzionario ed a prepararsi, intanto, il terreno adatto, eccitando gli animi degli operai con la propaganda dei loro principii e col formulare il malcontento verso gli attuali ordinamenti sociale e politico.
Mentre sarà mia cura di tener dietro alle segrete macchinazioni di costoro per prevenirne a tempo gli effetti, desidero intanto di richiamare su di essi la speciale attenzione della SS. LL. perché con attiva ed oculata vigilanza li seguano nei loro maneggi presso gli operai. E se avvenga loro di sorprenderli in mezzo agli operai stessi, (avvertendo cessi si mischiano a preferenza tra i disoccupati e nei luoghi ove questi sogliono raccogliersi nella speranza di essere chiamati al lavoro) poiché non potrebbe cader dubbio sullo scopo della loro presenza tra essi, cioè di sommuoverne gli animi e spingerli a tumultuare, vorranno, senz’altro, disporne l’accompagnamento in quest’ufficio per quegli ulteriori provvedimenti, che fossero del caso!
A contrastare poi alle mene di costoro e di quanti altri tendano a turbare per l’occasione suddetta l’ordine pubblico, Le prego di usare, nei modi che più crederanno convenienti e conducenti allo scopo, della loro personale influenza presso le locali società operaie, affinché le mene e le insinuazioni degli agitatori, i quali devono essere in questi giorni, anche più del solito, personalmente e strettamente vigilati, non abbiano presa su di esse.
Dalla solerzia delle SS. LL. mi attendo, in questo servizio di somma importanza, la più attiva e ed accorta cooperazione nel supremo interesse del mantenimento dell’ordine pubblico. Gradirò un cenno di ricevuta della presente che dev’essere tenuta segreta.
Il Questore
“.

Gli operai chiedevano le otto ore – in Italia se ne facevano anche 14, donne e bambini compresi – ma i padroni sostenevano che la richiesta era una pazzia, perché non avrebbero potuto sostenere la concorrenza. La repressione scattò immediata e violentissima: manifesti sequestrati, arresti preventivi, piani militari dettagliati, mappe con i punti in cui nascondere le truppe, città presidiate con la cavalleria e infine, il 1° maggio, cariche, arresti, denunce per associazione sovversiva, disobbedienza alle leggi e istigazione all’odio di classe. Il potere s’illuse che  la lotta dei lavoratori fosse stata sepolta sotto secoli di galera, ma vennero, invece, ancora “feste del lavoro”.
Nel 1894, Crispi sciolse il Partito Socialista e segregò nelle isole del soggiorno obbligato e nei penitenziari migliaia di lavoratori. I proletari, però, non si fermarono e si fecero di nuovo “feste del lavoro”. A maggio del 1898, il generale Bava Beccaris sparò a mitraglia sulla folla disarmata e il re lo decorò come fosse un eroe. I proletari, però, non si arresero e Rudinì ricorse agli stati d’assedio e ai tribunali di guerra. Secoli di domicilio coatto non bastarono a “ricondurre all’ordine il Paese”. Muro contro muro, finì che Gaetano Bresci vendicò i morti del ’98 e l’oltraggiosa medaglia al generale assassino, uccidendo Umberto I. La violenza è figlia del malgoverno e la sola possibile guerra preventiva si combatte con le armi della giustizia sociale. Nel 1892, Giovanni Bovio, difendendo gli operai arrestati per le manifestazioni del 1° maggio lo aveva avvertito lucidamente, quando, rivolto ai giudici, aveva urlato a nome degli imputati:

per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Io fui nato ad esser cavaliere e tu mi hai fatto malfattore, ed ora ti fai giudice! Così gridò il figlio a Nicolò III estense, provocatore e parricida. A quelli che ci chiamano fratelli e poi ci processano noi ricordiamo che fummo nati al lavoro e li avvisiamo: non fate noi delinquenti e voi giudici!”

Un monito inascoltato, ma chiaro e più che mai attuale, così come attuali sono tornati i manifesti e la propaganda di quel lontano 1892. Giolitti, Turati e la necessità della pace sociale a garanzia della crescita costrinsero i padroni alla resa, ma oggi troppi diritti sono di nuovo calpestati, troppa gente è senza lavoro, troppi salari non bastano a cancellare la fame. Ovunque ormai il lavoro non ha né orari, né tutele e non è tempo di primo maggio in piazza San Giovanni con canzoni e chitarre. Il pupo analfabeta e i suoi pupari possono anche pensare di ricondurre le masse al 1892, ma devono sapere che, così facendo, preparano un nuovo ’98. Oggi come allora non basteranno questori, circolari segrete, reggimenti in piazza, stati d’assedio e tribunali di guerra.

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Balilla_adunata“Stanno sfasciando tutto”, scrive con enfasi sospetta Alessandro Barbano sul “Mattino” del primo dicembre. Gli studenti, prosegue, o, per dir meglio, “i teppisti”, rompono “telecamere […] rubano computer, lavagne luminose e proiettore […] sfogano il loro disprezzo spaccando cattedre e banchi, imbrattando muri […] come un’orda barbarica”. Dietro Carrozza e Letta, nel silenzio rassegnato dei docenti, spuntano ormai le voci della reazione e l’apologia della scuola degli anni Cinquanta, affidata a un vecchio e nostalgico lettore che ricorda una società fondata “su categorie univoche, come il merito, il dovere e la responsabilità.
In prima linea è “Il Mattino” che non smentisce se stesso. Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo fondarono, non furono modelli di giornalismo indipendente e illuminato. Ebbero Bracco e Nitti in redazione, ma il giornale si qualificò subito come avamposto dei ceti dominanti contro la “bestia elettiva”, la democrazia, che punta solo “sull’abbassamento sistematico delle superiorità legittime acquisite”. Di lì a poco, coinvolto pesantemente nell’Inchiesta Saredo sui rapporti politica-camorra, Scarfoglio scelse la via che non è più cambiata: soffiare sul fuoco della reazione. Le pagine sulla “bandiera rosso vino”, dei lavoratori in festa il Primo Maggio, quelle dedicate alla “teppaglia scioperante” nel giugno del 1914, quando la protesta contro il militarismo e la guerra incombente costa la vita a quattro operai, gli applausi per il capitano Aurelio Padovani, fanno parte della storia e mostrano un giornale in trincea, pronto a servire gli interessi dell’ala più arretrata e reazionaria dei ceti dominanti. Il sostegno alle peggiori avventure coloniali e la scelta di schierarsi apertamente contro il “cadavere putrefatto della democrazia”, non bastano a cancellare il guizzo neutralista per la “grande Guerra”; Mussolini non si fida e Paolo Scarfoglio è messo da parte. Paradossalmente, però, nel 1950, quando il giornale torna nelle edicole, alla direzione è chiamato Giovanni Ansaldo, consigliere di Galeazzo Ciano e voce nota della radio fascista, passato dalla leggi razziali e la mistica  fascista alla repubblica democratica.
Si può capire un lettore ultrasettantenne che rimpiange la scuola degli anni Cinquanta – giunti alla fine del percorso, il passato pare spesso meraviglioso – è inaccettabile che un giornalista faccia di questa debolezza lo strumento di misura di un processo storico durato oltre mezzo secolo. Volete capire chi sono i ragazzi che occupano le scuole? – chiede ai lettori Barbano. Bene, fatevi dire da uno studente del dopoguerra cos’era l’ ”Alessandro Volta” negli anni Cinquanta e andateci ora. Scoprirete che in pochi giorni di occupazione uno sparuto gruppo di studenti ha smantellato non solo la scuola, ma l’Istituzione, il Sistema Formativo e  – perché no? – è diventato la causa vera del disastro del Paese. Per capire cinquant’anni di storia della scuola, insomma, al “Mattino” non  occorre altro: basta una visita al “Volta”! Perché stupirsi? Teppisti erano nel 1914 gli operai in lotta per la pace, teppisti sono a maggior ragione gli studenti oggi, con mezzo secolo d’esperienza accumulata e la malizia tipica della gioventù.
Sarà che talora si fanno brutti sogni, sarà che del passato ognuno ricorda ciò che gli conviene, ma c’è chi si rammenta di un “Alessandro Volta” che, dopo il terremoto dell’Ottanta, condivise per anni i locali con una scuola media inferiore e vede ancora, come improvvisi flash, la porta carraio senza custodi, ormai intimoriti dai camorristi, in quella terra di nessuno che i napoletani chiamano “Siberia”, lo spaccio di droga all’ordine del giorno e la montagna di fonogrammi che chiedeva l’intervento delle forze dell’ordine. Incubi che il “Mattino” si guarda bene dal raccontare.
In quanto alla scuola degli anni Cinquanta, qualcuno dovrebbe spiegare agli esperti del giornale che già fin dal 1943, nell’Italia “liberata”, una commissione americana guidata da Washbume, allievo di Dewey, provò a rivedere gli osceni programmi scolastici fascisti. Partì dalle elementari e pensò a una scuola aperta, che rifiutava il primato della religione cattolica. Una scuola pluriconfessionale, che non fu possibile realizzare per l’opposizione dei cattolici. Tutto si fermò a metà del guado, con idee avanzate paralizzate dai clerico-fascisti. E’ vero, la Costituzione si schierò per l’istruzione pubblica, gratuita e obbligatoria, ma non poté modificare il sistema scolastico fascista: cinque anni di elementari, poi esame di ammissione costoso e selettivo per accedere alla “scuola media” col latino, chiave di accesso alla media superiore; per le classi subalterne, invece, che il latino e l’esame non potevano permetterselo, c’era la “scuola di avviamento professionale” senza latino e senza prosecuzione degli studi; una scuola che riduceva l’obbligo scolastico all’addestramento della manodopera di bassa specializzazione, senza possibilità di accesso a ruoli decisionali. Anche l’iscrizione agli Istituti tecnici, infatti, prevedeva esami molto selettivi di italiano e latino.
Poiché si andò avanti così fino al 1965, non è difficile capire quale scuola rimpianga il “Mattino”: quella fatta a misura delle classi dirigenti, che non aveva sezioni miste maschili e femminili e non prevedeva la “scuola materna” statale? La scuola fascista, insomma, faticosamente cancellata negli anni Sessanta dalla media unificata e dai decreti delegati. Se le cose stanno così, perché tirare in ballo la nostalgia di un ultrasettantenne? Molto più onesto sarebbe dichiararlo: vogliamo la scuola che serve ai padroni. Nessuno si scandalizzerebbe, stia tranquillo Barbano. Il “Mattino” è sempre stato coi padroni. I peggiori di tutti: i reazionari.

Uscito il 3 dicembre 2013 su “Fuoriregistro” col titolo Scuola. Le voci della reazione e su “Liberazione” col titolo Dietro Carrozza spuntano le voci della reazione;  il 4 dicembre 2013 su “Report on Line” col titolo Il Mattino di Napoli e a scuola dei padroni. Voci della reazione.

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giornalebord[1]Primo Maggio. Un tempo bastava la parola ad evocare un mondo: l’esposizione universale a Parigi, le mille società dei lavoratori che acquistavano coscienza di sé, discutevano di diritti da conquistare, modalità di lotta, coscienza di classe e cultura operaia. Da alcuni anni tutto questo sembra svanito nel nulla. Nessuno ricorda e il Primo ha perso il suo significato profondo. E’ stato giorno di lotta e non di rado di lutto, ma in questo tempo senz’anima e senza storia s’è ridotto al “concertone” romano ed è ormai una strana festa del lavoro: senza lavoro, senza memoria e senza verità. Quante scuole quest’anno hanno ricordato l’uno maggio del 1947, festeggiato a Portella della Ginestra, nel pianoro che si stende tra San Cipirello, San Giuseppe Jato e Piana degli Albanesi? Chi le ricorderà domani le migliaia di persone raccolte attorno alle bandiere rosse, e i sogni, le speranze della neonata repubblica stroncati sul nascere dal fuoco aperto sui contadini inermi? Chi li ricorderà i morti e i feriti fatti dai padroni quel giorno?
I libri di storia soffrono ormai di preoccupanti vuoti memoria, confusi e generici si son fatti i programmi di studio e ci si può giurare: nel trionfo apologetico della bontà dei “datori di lavoro”, quando se andrà via la generazione dell’ormai lontano Sessantotto, si perderà persino la memoria di un’antica tradizione della zona. A Portella della Ginestra, infatti, i lavoratori si adunavano in festa per il Primo Maggio fin dai giorni entusiasti e terribili dei Fasci siciliani, quando Nicola Barbato, apostolo del primo socialismo, parlava ai contadini, ritto in piedi su una roccia che diverrà poi il “sasso di Barbato“. L’antico organizzatore sindacale pagò col carcere dell’Italia liberale la sua passione socialista, ma non fu mai cancellato dalla memoria popolare, come accade oggi, mentre un nuovo regime autoritari cancella la storia del movimento operaio e chi si ostina a parlarne o è un patetico nostalgico o, peggio ancora, un pericoloso sovversivo comunista. Presto purtroppo nessuno ricorderà che, caduto il fascismo, non solo quell’antica tradizione era stata ripresa, ma il primo maggio del 1947 i contadini si riunirono nel pianoro per festeggiare, assieme alla festa del lavoro, la sinistra vittoriosa sul fronte padronale, guidato dalla Democrazia Cristiana, alle prime elezioni regionali che si erano tenute il 20 aprile, dopo una campagna elettorale segnata dalla crescente violenza mafiosa. I segnali di trame occulte, intese inconfessabili, rapporti oscuri tra politica e malavita organizzata, che conducono difilato ai processi in corso sulle connivenze tra Stato e mafia, erano chiari sin da quei giorni lontani: Il 4 gennaio, infatti, era stato ucciso Accursio Miraglia, dirigente del PCI e animatore delle lotte contadine; di lì a poco, il 17 gennaio, era caduto il comunista Pietro Macchiarella e nei Cantieri Navali di Palermo erano stati impunemente esplosi colpi d’arma da fuoco. S’era votato in un clima così minaccioso, che ai comizi noti esponente della mafia avevano potuto pubblicamente minacciare gli elettori.
I fermati non furono mai arrestati, si escluse subito l’intreccio politica-mafia e le indagini si concentrarono sulla banda Giuliano. Il quadro dell’inchiesta diventò ben presto quello tipico della storia della repubblica quando in discussione sono state e sono le relazioni tra malavita organizzata e colletti bianchi. Indagini chiuse rapidamente, omissioni, perizie balistiche inesistenti, vittime sepolte senza autopsia, attenzione rivolta ai killer. Ai mandanti non pensa nessuno e gli imputati si riducono al “bandito” Salvatore Giuliano – un ex agente dei servizi segreti di Salò – e gli uomini della sua banda. Cinque anni dopo la “giustizia” si ferma lì: ergastolo per Giuliano, al quale s’era intanto chiusa la bocca per sempre dopo un conflitto a fuoco, e per gli undici componenti della sua banda.
Fu chiaro a tutti, anche ai giudici, che lo scrissero nella sentenza: la strage intendeva colpire i comunisti, impegnati nelle aspre lotte per i diritti dei contadini; i giudici facevano cenno a una forma di “supplenza”: i “banditi”, di fatto, avevano operato come una sorta di “polizia di riserva”. Ciò che non poteva consentirsi lo Stato al servizio dei padroni, era stato compiuto dai mafiosi.
Il Primo maggio del 1947 non è solo la prova storica che una sinistra vera è ugualmente pericolosa per gli interessi dei padroni e delle cosche mafiose, ma ricorda a chi vuole capire che il padronato ha sempre remato contro l’Italia nata così come vollero gli antifascisti. Se il Paese avesse memoria storica e coscienza di se stesso, sentirebbe fino in fondo la violenza che sta subendo dal governo Letta. Un governo che ignora il risultato delle urne, rivendica pubblicamente la sua collocazione storica nell’area che fu della DC, pilastro, con Scelba, della reazione antifascista, e di fatto, riconduce indietro le lancette della storia. Questa memoria non c’è. La scuola è stata piegata, l’università è in ginocchio e manca un’autentica sinistra di classe. O si trova modi di organizzarla rapidamente contro questa sorta di golpe o è bene dirselo chiaro: crisi della finanza e crisi della democrazia sono ormai un treno che procede spedito sullo stesso binario. Alla prima sosta, attende paziente, ma minaccioso, il fascismo del nuovo millennio.

Uscito su “Fuoriregistro” l’1 maggio 2013 e su “Liberazione.it” il 2 maggio 2013 col titolo Passato e presente. Un terribile primo maggio 

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Nelle mie vecchie storie il primo maggio
il sol dell’avvenir mandava un raggio
anche a carabinieri e questurini.
In piazza rose rosse e contadini
chiedevano giustizia e libertà,
pane, lavoro e solidarietà.
L’anarchico ignorava dio e padroni
e minacciava la rivoluzione…
In testa ho ancora un canto di protesta:
di tante storie, solo questo resta.
Perché tremare se giunge la sera
e anche di giorno pare notte nera?
Questa è le morte, amico mio dottore,
che, scuro in volto, ora m’ascolti il cuore
e non lo vedi: il tempo mio è passato,
non resta niente e tutto se n’è andato.

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