
Costretti agli arresti domiciliari da un’epidemia che dilaga soprattutto a causa delle politiche dissennate dettate dall’UE e dalla Confindustria, che hanno distrutto la Sanità Pubblica, assistiamo impotenti alle scelte incerte d’un governo, sottoposto al ricatto dei padroni. Ieri l’ultimo atto della tragica pantomina; mentre si dà la caccia all’untore e si vieta persino la corsa innocente e solitaria nei parchi, Conte modifica il decreto di chiusura delle aziende che non servono alla vita quotidiana della popolazione duramente colpita: non chiudono, lavoreranno fino al 25.
Da noi la pandemia si può combattere con ogni arma, tranne la chiusura delle fabbriche, la più adatta a tutelare la popolazione inerme. Per Confindustria chiudere le fabbriche provocherebbe danni ai titoli quotati in Borsa e potrebbe costringere gli imprenditori a pagare penali per il lavoro non consegnato. I padroni, quindi, spudoratamente hanno chiesto tempo, ancora altro tempo e non si curano dei morti che aumentano negli ospedali disarmati e infettati.
In un Paese privo di memoria storica, in cui vive ormai un popolo ridotto a gregge, qualcuno dovrebbe ricordare al governo il caso emblematico di Luigi Bonnefon Craponne, fondatore e primo presidente di Confindustria, teorico di una strategia di puro egoismo, per la quale “gli industriali non debbono restringersi alla difesa dei loro interessi economici immediati nei riguardi della classe operaia, ma saper fare pressioni tali che la legislazione sociale non proceda troppo avanti e non danneggi l’industria e i suoi interessi”.
Con questa lucida e pericolosa dottrina, nel 1913 Confindustria affrontò le richieste degli operai, impegnati in un sacrosanto sciopero a oltranza. Di fronte a tanta arroganza, Giovanni Giolitti, che non fu certo un pericoloso bolscevico, presidente del Consiglio come oggi Giuseppe Conte, non usò mezze misure; per molto meno di quanto sta combinando oggi Vincenzo Boccia, espulse infatti dall’Italia l’eversivo capo dei padroni, Luigi Bonnefon Craponne.
Si trattava – si badi bene – di uno scontro sindacale, ma per Giolitti, il capo degli industriali, di origine francese, non solo era venuto meno al dovere di rispettare il Paese che lo ospitava, ma aveva messo a rischio la pace sociale, osando «eccitare e invelenire le agitazioni degli operai, suscettibili di gravi effetti politici e sociali».
E’ difficile immaginare cosa avrebbe fatto Giolitti a Boccia oggi, quando si gioca con la vita dei lavoratori e con il rischio di contagiare ulteriormente una popolazione messa a durissima prova dalla religione del profitto e dalle politiche neoliberiste. In tanta confusione e vergogna, tuttavia una certezza l’abbiamo: l’epidemia sta mettendo a nudo la miseria morale della peggiore classe dirigente della nostra storia.

Non ci sono più i Presidenti del Consiglio di una volta. E neppure i capi della Confindustria di una volta. Questi avevano il coraggio di dirle apertamente le loro intenzioni. Oggi dissimulano.
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