Dopo la pantomima dell’opposizione che attacca, nemmeno Cuperlo, che pure gliene ha dette di tutti i colori, ha votato contro. Il tempo dirà fin dove intende spingersi Renzi, il «sindaco d’Italia» nato in provetta dall’ibrido connubio tra terze file dell’ex DC e scarti del PCI, ma un dato certo, dal quale partire purtroppo esiste: siamo più che mai la «serva Italia» che Dante immortalò nei suoi amari versi: «nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!»
Negli Atti della Costituente, a futura vergogna di chi finge di ignorarlo e di un popolo complice – geneticamente fascista direbbe Gobetti – che tace o, peggio ancora, consente, c’è l’ordine del giorno di Antonio Giolitti, nipote del famoso statista liberale, approvato dall’Assemblea ma escluso dal testo definitivo dello Statuto, per evitare di rendere costituzionale la legge elettorale: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale». Questo è lo spirito autentico della Costituzione, ma Renzi non lo sa e – c’è da giurarci – se qualcuno glielo dicesse, non muterebbe d’una virgola la sua oscena legge elettorale. Per farlo, dovrebbe ragionare da politico, ma non gli interessa e non ha gli strumenti culturali per farlo. A chiunque lo attacca ormai, replica, con toni ricattatori: ti stai mettendo contro tre milioni di voti. E’ questo il suo unico argomento: tre milioni di oggetti misteriosi, tessere false e berlusconiani d’origine controllata che lo hanno «votato» al prezzo di due euro. Il prezzo che marca anche fisicamente la distanza dai nullatenenti, un problema che non riguarda più il Partito Democratico; ci penseranno forse camini e forni, come il Mediterraneo pensa ai migranti.
«Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi», ebbe a scrivere Brecht, ma Gaetano Arfè, maestro di una stagione felice della nostra storia, conscio della tragedia incombente, al tramonto della sua vita, lucidamente, corresse: «fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno». L’Italia ha disperato bisogno di eroi, ma non ne trova uno nemmeno in fotocopia. Ce ne fosse ancora di gente della tempra di Amendola, Matteotti, Gobetti, Gramsci e Rosselli, Renzi dovrebbe ammazzarli, ma eroi non ne abbiamo e al neofascismo non occorrono certo pugnali, manganelli e spedizioni punitive; la nostra dose quotidiana di olio di ricino e botte in testa la prendiamo da tempo, grazie allo strapotere mediatico dei padroni schierati a sostegno: De Benedetti con la Repubblica, il Gruppo Espresso, i nove supplementi, tre radio nazionali, quindici quotidiani locali e numerosi periodici, Berlusconi con la possente Mediaset, Urbani Cairo, un ex di Berlusconi alla Fininvest, che alla Giorgio Mondadori ha ora sommato «la Sette». E si potrebbe continuare. Con un’armata simile alle spalle, capace di un volume di fuoco davvero paralizzante, il caudillo «democratico», che solo due anni fa Bersani aveva ridotto al silenzio, ha fatto agevolmente la sua via e ora, se non vuol cadere nella polvere in un battibaleno, così com’è salito alle stelle in un momento, deve solo eseguire, rapido e senza esitazioni, gli ordini di chi in un giorno l’ha reso leader.
Di leggi elettorali e Costituzione, Renzi non capisce praticamente nulla – «ha la parlantina troppo facile per dargli il tempo di leggere e informarsi», ha giustamente osservato Giovanni Sartori – ma i padroni l’hanno affidato a un tutor di gran nome, il politologo Roberto D’Alimonte, uno che, guarda caso, ha un posto d’onore nei salotti buoni televisivi e ripete fino alla nausea il principio base della sua pericolosa scienza elettorale: «una cosa sono i valori su cui si fonda un regime democratico, un’altra cosa è il suo funzionamento». Quando l’immancabile amico degli amici gli ha «anticipato» le motivazioni della sentenza di una Corte Costituzione opportunamente rinforzata da Napolitano con Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giuliano Amato, in quattro e quattr’otto Roberto D’Alimonte ha riscaldato la pietanza precotta: niente voto di preferenza, un premio di maggioranza da «legge truffa» e cancellazione dell’idea di «rappresentanza». I vizi costituzionali sono forse meno evidenti di quelli messi assieme da Calderoli, ma stavolta più gravi e non c’è dubbio: Antonio Giolitti e il suo ordine del giorno sono stati sprezzantemente ignorati.
Quella di Renzi non è «demagogia», come pensa Sartori, inseguendo il feticcio della governabilità, è la condanna a morte della democrazia parlamentare.
J. P. Morgan e il grande capitale finanziario ci avevano avvisati e non c’è scampo: la Costituzione troppo «socialista», sarà massacrata.
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Renzi rottama la democrazia
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Monti saliscende
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged "Dante Alighieri", Convito, De Vulgari Eloquentia, Monti, Repubblica parlamentare, sagliere, salire, scendere on 28/12/2012| 3 Comments »
Si recita a soggetto. E’ il gioco delle parti tra chi in politica è “sceso” e chi invece pretende di “salirvi“. E non si tratta solo delle ambizioni malate di quanti esaltano nel potere anche ciò che il potere disprezza. In discussione sono le sorti della democrazia e la formazione dei nostri giovani.
Ogni scienza ha i suoi limiti. Attendersi che un economista si orienti tra le ragioni dantesche del De Vulgari eloquentia e del Convito sarebbe veramente troppo. Monti, poi, che si sente chiamato a una missione, non sfugge a una regola quasi universale: misura se stesso col metro con cui “misura le sue cose” e si pensa “magnanimo“, sicché non solo “fa minori gli altri più che non sono“, ma si sopravvaluta. Troppo “inglese“, per curarsi della lingua materna, parla, direbbe Dante, il volgare peggiore: “quello che suona sulla lingua meretrice di questi adulteri“.
Il verbo salire, ultima evoluzione dell’arcaico “saglire” indica propriamente un movimento graduale e progressivo verso l’alto. C’è chi sale per l’erta e chi lo fa nel senso affine e prosaico di “montare“: su un treno, su un albero, su una nave, su un muricciolo… Immagini di un atto reversibile, legato strettamente all’idea di scendere. Chi sale a cavallo di norma ne scende e talvolta rovina in caduta. Non diversamente accade per un albero o un muro. C”è, quindi, un punto fermo e – a rigor di logica – un moto alternato che si fa saliscendi e, se esasperato, ha i ritmi della comica finale. Un palombaro sale, ma certamente è sceso; se poi scende e non sale, sarà per disgrazia, sicché la comica finale s’è fatta tragedia.
Salire non ha valenza qualitativa, se non quella dell’uso figurato e assai poco repubblicano del salire in trono o sulla cattedra di Pietro. E’ vero, c’è un’idea di eminenza e qualità morale e intellettuale in quel “salire in cattedra“, che è, tuttavia, molto spesso sottilmente ironico e poco solenne, perché vuol dire “strafare” o “montarsi la testa“.
Al cielo salgono i santi; al cielo, vuole un’iperbole, salgono le urla e c’è chi crede che l’anima salga in paradiso o scenda all’inferno. Chi non crede d’avere un’anima muore per suo conto senza salire o scendere, ma nessuno troverà che in quest’immobile stato dell’uomo ci sia da cercare una qualità o una vergogna. C’è infine un saliscendi quantitativo: sale a volte la febbre, nel senso che aumenta e ci si sente male, scende, ovvero diminuisce, e si dovrebbe star meglio. Sale la popolazione, sale il bilancio delle vittime, salgono le tasse per la povera gente e qui non conta niente se alla politica è giunto qualcuno salendo o scendendo: l’equità sta romai ai governi, come la giustizia sociale alla legalità.
In politica non si sale e non si scende. In politica si entra o meglio ancora, alla politica ci si “dà“: le si regala se stessi. Per farlo, in una repubblica parlamentare, ci si presenta alle elezioni e si domanda umilmente un voto su un programma vincolante.
Uscito sul “Manifesto” il 2 gennaio 2013 col titolo Etimologia del saliscendi di Monti
Berlusconi: lo scoglio, nauseato, non vuole la cozza
Posted in Interventi e riflessioni, tagged "Dante Alighieri", Allah, angeli, arcangeli, augh, beati, Berlusconi, Bersani, Brunetta, Bruto, Buddha, Capezzone, Carfagna, Casini, Cassio, Cesare Augusto, Cicchitto, Confucio, fannullone, Feltri, Fini, forzisti, Gelmini, Giulio Cesare, inferno, Leghisti, manitù, Marc'Antonio, miniduce, Napolitano, Padania, paradiso, Pdreterno, Plasil, Sacconi, San Gennaro, San Tommaso, Sant'Agostino, Sant'Ambrogio, santi, sciopero generale, Trinità, vomito on 14/08/2010| Leave a Comment »
C’è puzza di bruciato: Leghisti e forzisti rispondono a Napolitano a muso duro perché hanno paura, sono terrorizzati e un animale impaurito è molto pericoloso. Per carità, intendiamoci. Nessuno s’illude che Bersani, Fini e Casini siano diventati d’un tratto seri statisti. Il fatto è che la stragrande maggioranza della gente, costretta ad affrontare una crisi economica senza precedenti, non regge più Cicchitto Capezzone, Feltri e compagnia cantante. Non è una questione politica, che pure sarebbe sacrosanta. Forse è peggio. E’ un problema di stomaco: il vomito è continuo, inarrestabile e resiste anche al classico Plasil. Nella sinistra che non c’è, in quell’ectoplasma di irresponsabili che ora si definiscono “area della responsabilità”, credono in pochi, ma la banda di puttanieri, mignotte, mariuoli e pennivendoli che minaccia la piazza ha disgustato poveri e ricchi, cristiani, musulmani e persino domineddio, che non vuole aver nulla a che spartire con una sorta di aborto che non avrebbe voluto creare. Putroppo anche un padreterno può sbagliare: l’aborto gli è sfuggito di mano e lo sputtana nei consessi celesti, tra divinità e profeti. Siamo al punto che Buddha, Confucio e Allah non gli rivolgono più nemmeno la parola e Manitù, sdeganto, dopo tre “augh“, s’è ritirato infuriato tra i bisonti. In paradiso è crisi di regime: il padre contro il figlio, lo spirito, non più santo, contro padre e figlio. Pare che Sant’Ambrogio rifiuti la cittadinnaza della Padania e San Gennaro minacci di sospendere il celebre miracolo. E c’è pure chi teme un golpe di San Pietro.
Il padreterno, mormorano i santi, è un modello perfetto di “fannullone” brunettiano. Se nella sola settimana di lavoro vero che ha vissuto in tutta sua eterna vita di creatore non avesse scelto il sabato fascista – “il settimo giorno riposò” dicono le scritture – avrebbe avuto tempo per riparare i guasti e oggi non sarebbe il disastro. Figlio di quel malaccorto riposo, giurano con filosofiche ragioni Agostino e Tommaso, sono senza dubbio Bossi, Maroni e la Padania razzista e sconsacrata. Fosse stato attento, li avrebbe certamente fulminati. E non è tutto. Figli naturali del suo divino fannullonismo, mormorano angeli, arcangeli, santi e beati, sono Brunetta, Gelmini, Sacconi e la Carfagna e ognuno si lagna. In quel fatidico “settimo giorno” vissuto da scioperato, il Signore Celeste ha dato vita più o meno eterna al venditore di tappeti alloggiato nel miniparadiso di Arcore. Stanco senza ragione – un vero sfaticato, sostiene il demonio che è molto interessato alla faccenda – per godersi l’eterno riposo del “settimo giorno”, quando la morte, sua figlia prediletta, gli ha portato finito il verde Bossi, ha dovuto mollarlo: il padreterno non aveva voglia di giudicarlo e il diavolo se l’è visto sfuggire dalle grinfie. Com’è naturale, l’inferno è in sciopero generale e qui a terra siamo a questo: mancano all’Italia – nel delirio del riposo non li ha messi al mondo – personaggi irrinunciabili. E’ incredibile, si trova tutto, anche se costa un occhio della testa, non viene fuori un Cassio nemmeno se lo cerchi col lanternino e non trovi Bruto neanche a pagarlo a peso d’oro. Li avesse creati, potrebbero coronare il sogno di Berlusconi: avere finalmente qualcosa in comune con Giulio Cesare. Allora sì, allora i nostri tempi sarebbero degni della grande storia romana e il miniduce potrebbe stare alla pari col grande Cesare almeno in una cosa: le classiche trentatre pugnalate finali. Voi ve li immaginate Capezzone e Cicchitto nei panni di Ottaviano e Marco Antonio?
Il padreterno però s’è riposato e l’Italia rimane purtroppo quella che Dante conosceva bene: “Non donna di provincie ma bordello”.