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barbiana-di-don-milani-408683.660x368Quando qualcuno mi chiede di credere per fede, mi ricordo la domanda di un ineguagliabile maestro e inevitabilmente mi dispongo al rifiuto: «sei tu realmente convinto che il perfetto cristiano non critica?». Sentirselo dire da un prete fa pensare.
Prima di firmare a scatola chiusa un programma di buone intenzioni, non posso fare a meno di ricordare la più bella critica a una dichiarazione d’intenti che mi è mai capitato di leggere: «Nel suo programma d’italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora l’ha letto? Non si vergogna? E’ la vita di mezzo milione di famiglie».
L’importanza del dubbio l’ho appresa soprattutto da un altro immenso maestro. Ero poco più che un ragazzo, ma quell’insegnamento non l’ho dimenticato e ancora oggi che sono vecchio mi fa da bussola nelle tempeste della vita:
«Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola…».
Mi fermo qui, ma vale la pena di leggere fino in fondo, per giungere alla conclusione rigorosa e tagliente:
«Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perché hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!».

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slide_3Sto cercando di tirare le somme e valutare se i miei duecento antifascisti dimenticati che fecero le Quattro Giornate meritano di essere raccontati; soprattutto mi sto interrogando: te la senti di mettere penna su carta e cominciare? Non sarà fatica di poco conto.
Il mondo ovviamente corre e non aspetta me. Ci mancherebbe. A Napoli prima si è deciso di organizzare una manifestazione nazionale contro la guerra e poi ci si è riusciti. Nunc est bibendum, mi sono detto, benché da quasi trent’anni son diventato santo e non bevo più. Come accade però sempre più spesso, anche su questo tema prima ci sono state discussioni e poi i dissensi sono degenerati. Così funziona da tempo ormai e non s’è ancora spenta l’eco dei litigi per la faccenda greca. Alla manifestazione c’è stato chi ha spinto e chi è stato spinto, chi ha allontanato dal corteo e chi è stato allontanato e ora c’è chi la racconta cotta e chi cruda e siamo tutti fascisti. Tu per lui, lui per te e tutti contro tutti.
Io non c’ero. Ero a Roma da mio figlio che vedo molto raramente, ma se ci fossi stato mi sarei sentito come un pesce fuori dall’acqua. Anche questo accade da tempo ormai. In questi giorni ho scoperto che, chiunque parli di Siria, il più ignorante della compagnia sono io. Ho scoperto anche che devo stare attento a ciò che dico, perché basta una sfumatura e subito c’è chi pensa che, quando nessuno mi vede naturalmente, metto una sciarpa littoria e mi pavoneggio. Succedeva così anche quando ero giovane e si discuteva tra stalinisti, autonomi, trotzkisti e compagnia cantante.
Non ho difficoltà a riconoscerlo: come di centomila altre faccende, sulla Siria non ho informazioni sicure e stento a capire che accada davvero da quelle parti. Di conseguenza, faccio fatica a dire la mia. Non mi fido dei giornali e delle televisioni e non riesco a verificare le centomila notizie giornaliere e le reciproche accuse tra le parti che la gente mi posta su facebook. Non scherzo, lo giuro solennemente: vorrei avere almeno una delle certezze che dimostrano di avere tutti quelli che inondano la mia bacheca, sostenendo tutto e il contrario di tutto. Tutti quelli che mi spiegano quotidianamente che Assad è un governante lungimirante e la Siria un modello di tolleranza. Per quello che ne so, la Siria è governata da un dittatore e sono in molti a volerlo morto. Per carità, lo so, questo non basta a schierarsi e alla fine non sono del tutto scemo: mi ricordo bene ciò che è accaduto in Irak, in Libia e in mille altre parti del mondo. Me lo ricordo e ho anche scritto più volte in questi anni che i paesi capitalisti, di qualunque religione e credo politico, sono una piaga per l’umanità. Questo però mi pare sufficiente per convincermi a schierarmi contro UE, USA, Russia e Israele e cialtroni col turbante, ma non basta a farmi indossare una maglietta con la faccia di Assad. Sono un ignorante che è in grado di elaborare solo pensieri semplici.
Di una cosa sono sicuro e non cambio idea: non sto con chi bombarda la Siria per attaccare Assad, non sto con chi la bombarda per difenderlo e non sto nemmeno con i piloti dei suoi bombardieri. Tutti – lui, i suoi difensori e i suoi nemici – stanno ammazzando tantissima povera gente inerme. Gente che mi fa una pena immensa.
Nella mia ignoranza, semplice fino al semplicismo, trovo incomprensibile che si dica di non volere la guerra e poi si scelga di stare dalla parte di uno che la fa.

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Dopo la pantomima dell’opposizione che attacca, nemmeno Cuperlo, che pure gliene ha dette di tutti i colori, ha votato contro. Il tempo dirà fin dove intende spingersi Renzi, il «sindaco d’Italia» nato in provetta dall’ibrido connubio tra terze file dell’ex DC e scarti del PCI, ma un dato certo, dal quale partire purtroppo esiste: siamo più che mai la «serva Italia» che Dante immortalò nei suoi amari versi: «nave senza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!»
IT.ACS.AS0001.0000614.0002Negli Atti della Costituente, a futura vergogna di chi finge di ignorarlo e di un popolo complice – geneticamente fascista direbbe Gobetti – che tace o, peggio ancora, consente, c’è l’ordine del giorno di Antonio Giolitti, nipote del famoso statista liberale, approvato dall’Assemblea ma escluso dal testo definitivo dello Statuto, per evitare di rendere costituzionale la legge elettorale: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale». Questo è lo spirito autentico della Costituzione, ma Renzi non lo sa e – c’è da giurarci – se qualcuno glielo dicesse, non muterebbe d’una virgola la sua oscena legge elettorale. Per farlo, dovrebbe ragionare da politico, ma non gli interessa e non ha gli strumenti culturali per farlo. A chiunque lo attacca ormai, replica, con toni ricattatori: ti stai mettendo contro tre milioni di voti. E’ questo il suo unico argomento: tre milioni di oggetti misteriosi, tessere false e berlusconiani d’origine controllata che lo hanno «votato» al prezzo di due euro. Il prezzo che marca anche fisicamente la distanza dai nullatenenti, un problema che non riguarda più il Partito Democratico; ci penseranno forse camini e forni, come il Mediterraneo pensa ai migranti.
«Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi», ebbe a scrivere Brecht, ma Gaetano Arfè, maestro di una stagione felice della nostra storia, conscio della tragedia incombente, al tramonto della sua vita, lucidamente, corresse: «fortunato quel paese che quando ha avuto bisogno di eroi li ha trovati, sventurato il paese che non sappia mantenersene degno». L’Italia ha disperato bisogno di eroi, ma non ne trova uno nemmeno in fotocopia. Ce ne fosse ancora di gente della tempra di Amendola, Matteotti, Gobetti, Gramsci e Rosselli, Renzi dovrebbe ammazzarli, ma eroi non ne abbiamo e al neofascismo non occorrono certo pugnali, manganelli e spedizioni punitive; la nostra dose quotidiana di olio di ricino e botte in testa la prendiamo da tempo, grazie allo strapotere mediatico dei padroni schierati a sostegno: De Benedetti con la Repubblica, il Gruppo Espresso, i nove supplementi, tre radio nazionali, quindici quotidiani locali e numerosi periodici, Berlusconi con la possente Mediaset, Urbani Cairo, un ex di Berlusconi alla Fininvest, che alla Giorgio Mondadori ha ora sommato «la Sette». E si potrebbe continuare. Con un’armata simile alle spalle, capace di un volume di fuoco davvero paralizzante, il caudillo «democratico», che solo due anni fa Bersani aveva ridotto al silenzio, ha fatto agevolmente la sua via e ora, se non vuol cadere nella polvere in un battibaleno, così com’è salito alle stelle in un momento, deve solo eseguire, rapido e senza esitazioni, gli ordini di chi in un giorno l’ha reso leader.
Di leggi elettorali e Costituzione, Renzi non capisce praticamente nulla – «ha la parlantina troppo facile per dargli il tempo di leggere e informarsi», ha giustamente osservato Giovanni Sartori – ma i padroni l’hanno affidato a un tutor di gran nome, il politologo Roberto D’Alimonte, uno che, guarda caso, ha un posto d’onore nei salotti buoni televisivi e ripete fino alla nausea il principio base della sua pericolosa scienza elettorale: «una cosa sono i valori su cui si fonda un regime democratico, un’altra cosa è il suo funzionamento». Quando l’immancabile amico degli amici gli ha «anticipato» le motivazioni della sentenza di una Corte Costituzione opportunamente rinforzata da Napolitano con Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giuliano Amato, in quattro e quattr’otto Roberto D’Alimonte ha riscaldato la pietanza precotta: niente voto di preferenza, un premio di maggioranza da «legge truffa» e cancellazione dell’idea di «rappresentanza». I vizi costituzionali sono forse meno evidenti di quelli messi assieme da Calderoli, ma stavolta più gravi e non c’è dubbio: Antonio Giolitti e il suo ordine del giorno sono stati sprezzantemente ignorati.
Quella di Renzi non è «demagogia», come pensa Sartori, inseguendo il feticcio della governabilità, è la condanna a morte della democrazia parlamentare.
J. P. Morgan e il grande capitale finanziario ci avevano avvisati e non c’è scampo: la Costituzione troppo «socialista», sarà massacrata.

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Voto segreto? Sì, e guai a chi dubita. E’ verità di fede e principio di filosofia: a coltivare certezze si vive sereni. Lo so. In matematica esistono principi che si danno per scontati. Si chiamano assiomi e sono verità così vere, che non vanno dimostrate. Perché, quindi, star sempre a dubitare? Lascio in pace cuore-rosaBrecht e la sua lode del dubbio, e provo a dirlo da me, senza illudermi di trovare consen-si. A parte il fatto che anche la «scien-za esatta» scopre ogni tanto le sue corbellerie, applicare alla politica leggi matematiche o è una tragica idiozia, o un inganno micidiale. Voto segreto sì? E’ tutto chiaro, o si tratta dell’enne-sima frode d’una banda di criminali che ci ha regalato il Napolitano bis?
Non tenterò un’impossibile sintesi del-la nostra storia parlamentare. Occor-rerebbero trattati e mi fa difetto la scienza. Ho letto da qualche parte, tuttavia, che in seno alla Costituente sull’argomento ci fu battaglia ed è vero. Poiché l’informazione qui da noi somiglia ormai a una sorta di drone, che vola e bombarda senza pilota perché lo guida qualcuno da terra, val la pena ricordarlo: sì, è vero, fu Aldo Moro, giovane deputato della DC alla Costituente, a soste-nere che lo scrutinio segreto «sottrae i deputati alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte al corpo elettorale per quanto hanno sostenuto e deciso nell’esercizio del loro mandato». Su questa posizione si orientò la maggioranza dei costituenti. Scopiazzando dal web fonti di seconda mano, i sostenitori del voto palese ignorano che Moro stava discutendo della formazione delle leggi, non del voto come tale. Per completezza d’informazione, sarebbe stato corretto segnalare, perciò, l’opposizione dei deputati di Democrazia del lavoro, azionisti, comunisti e socialisti, che ritenevano il voto segreto un efficace strumento di lotta parlamentare, in grado di acuire eventuali contrasti nella maggioranza. Lo stesso Moro, del resto, pur «riconoscendo che il voto segreto ha già dato luogo a tanti inconvenienti», volle precisare che, chiedendo il voto palese per la fun-zione legislativa delle Camere, non intendeva  «respingere il principio della vo-tazione a scrutinio segreto  […] che resta impregiudicata e va deferita per la sua decisione alla sede regolamentare». Moro sapeva bene che pochi anni prima, tra la fine del 1938 e i primi del 1939 era stato Benito Mussolini ad abolire il voto segreto alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
La conosco, l’ho già vissuta nella Cgil, la levata di scudi che suscita nella se-dicente sinistra anche un cenno al fascismo. Ti va bene se ti liquidano con due parole sprezzanti: «chiacchiere da bar sport». Mi ricordo ancora gli sguardi iro-nici ai tempi in cui il sindacato, deciso a stroncare le spinte dal basso e la con-flittualità degli anni Settanta-Ottanta, chiese di «ridefinire le condizioni d’uso del diritto di sciopero per salvarne la sostanza di fronte alle degenerazioni di un conflitto corporativo ed irresponsabile». Ne nacquero l’autoregolamentazione dello sciopero e, cito a memoria e scusate se sbaglio, la legge 146 del 12 giugno 1990, le cui conseguenze si sono poi viste nel tempo. Se ti azzardavi a obiettare che stavamo regalando un’arma ai padroni, la replica più moderata ti definiva ex sessantottino, estremista e veterocomunista. «I padroni», ti dice-vano, ormai non esistono più, ora ci sono gli imprenditori. Quando è arrivato Marchionne, è stato tutto chiaro, ma non c’era più tempo e stavano demolendo anche lo Statuto dei lavoratori.
E’ vero, la libertà di mandato degli eletti e il voto segreto possono favorire gesti meschini e sporche manovre. Di questi tempi, però, mentre è in atto un tentativo palese di manomettere la Costituzione, un’evidente forzatura che parte dal Presidente della repubblica e passa per il Governo, liberarsene, nella improvvida certezza che nessuno mai più, né governo, né capo dello Stato, oserà insidiare la libertà dei deputati nelle urne, sarebbe pericoloso come credere alla storiella dei padroni spariti. I nominati, che danno ormai conto solo al loro capobastone, decretino la decadenza di Berlusconi, lo facciano con gli strumenti che hanno a disposizione e pongano fine alla commedia degli equivoci. Noi, se è possibile, per quanto ci riguarda, proviamo a non fare come i topi che andarono appresso al pifferaio di Hamelin, Ricordiamoci che non fu per caso che Mussolini abolì lo scrutinio segreto alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni nel 1939. Era accaduto che pochi mesi prima qualche ignoti nominato in camicia nera, aveva cominciato a dubitare di un assioma – «il Duce ha sempre ragione» – e, nel segreto dell’urna, s’era astenuto sulle leggi raz-ziali.
Nessuno può dire con certezza cosa valga di più tra la trasparenza di ciò che fanno gli eletti e la tutela della loro libertà di voto. Occorrerebbe valutare se il gioco vale la candela e ricordare che il voto, pubblicamente espresso sempre e per ogni questione, consegna in mano a governi e segretari di partito mandrie di pecore che un cane e un pastore conducono dove vogliono. Un tempo si diceva «in dubio pro reo», e si sarebbe concluso che non c’è bisogno di creare pericolosi precedenti; gli strumenti per vincere la partita esistono già. Purtrop-po, però, noi siamo ormai in pieno «sogno americano» e lì, si sa, le lobby giu-dicano i deputati dalle loro scelte palesi sulle leggi che contano. Chi non conta è la gente.

Uscito su Report on Line l’1 novembre 2013

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La recensione di Salvatore Prinzi uscita poi sulla “Rivista calabrese di Storia del ‘900” (n. 2 del 2012) e su “Storia e Futuro”, n. 31, marzo 2013, non è qui per fare pubblicità all’autore. Chiede solo un po’ di spazio per replicare alle incredibili ragioni con cui il giornaledistoria.net l’ha censurata. Un caso “esemplare”, che mostra fin dove siano giunti il controllo autoritario sulla ricerca e la spudorata rivalutazione del Fascismo. Ecco il breve testo della rivista:

Di seguito le considerazioni su alcuni brani estratti dalla recensione. Quando si parla di “esclusione dei cittadini dalla vita politica e culturale” aggiungendo che  “in quest’ottica il consenso mussoliniano si rivela basato sull’estorsione e la minaccia” e che “dunque non è altro che una parvenza, una conseguenza dell’oppressione” (pp.1/2) si fa un’affermazione ormai da molti anni superata (già da De Felice fino ad Emilio Gentile ed altri): le cose sembrano in realtà, soprattutto sulla base anche di una più attenta valutazione dei documenti disponibili, molto diverse. Il fascismo è stato soprattutto un regime inclusivo e questo non deve essere confuso con la forza di un presunto e da molti invocato ed enfatizzato “totalitarismo” o con l’azione della miriade di enti e simili (ONMI, OND, GIL e via dicendo). Appare poi sinceramente fuori luogo il fatto di insistere su un fantomatico “revisionismo imperante” (tra l’altro non è chiaro a cosa l’A. si riferisca). Certamente negli ultimi anni si sono dette cose nuove, ad esempio sulla cultura e sul rapporto con gli intellettuali, sulle “modernità fasciste” e si è riflettuto molto sulle evidenti aporie del regime fascista. Ma questo non ha nulla a che vedere con un “revisionismo” inteso nell’accezione negativa del termine che l’A. usa. Quanto alla “resistenza insorgente dai tanti militanti oscuri” anche in questo caso sono stati fatti passi avanti studiando le diverse componenti (cattolica e comunista in primis) ma rimane anche il fatto incontestabile (alla luce anche e soprattutto di documenti recenti) di una non trascurabile zona di “consenso” nei confronti e del regime e di Mussolini”.

La nota, rigorosamente anonima, è, nel suo genere, un vero capolavoro. Cosa significhi dittatura “inclusiva” è un mistero glorioso.  Sul piano linguistico, prima ancora che storiografico, la parola “consenso”, riferita a una dittatura, è un nonsenso. A sostegno della censura l’anonimo referee cita Renzo De Felice ed Emilio Gentile. Un maestro, il suo allievo e una “scuola”. La logica, quindi, è quella del pensiero unico, della verità per fede – ipse dixit – e fa venire in mente il celebre dialogo tra filosofi, quando l’anatomista dimostra il ruolo centrale del cervello rispetto al cuore nel sistema nervoso e il tomista risponde impassibile: ti crederei, se Aristotele non avesse detto il contrario. Per il censore, c’è una verità acquisita in eterno, che cancella storici del valore di Arfè e Cortesi e ignora il recente lavoro sul “consenso imperfetto” pubblicato due anni fa da Ferdinando Cordova, recentemente scomparso. Eppure, persino De Felice, maldestramente tirato in ballo, sentì il bisogno di chiudere in limiti temporali l’idea di “consenso”: 1929-1936. Storico vero, cedette al fascino dalla personalità del “duce”, ma fu mai così supeficiale da descrivere un ventennio di “dittatura inclusiva”. Da allievo indocile e ripudiato, sono testimone diretto: aveva una prosa noiosa, ma conosceva perfettamente il valore e il significato delle parole che usava. Ora, ecco la bella recensione di Prinzi, che non è priva di acuti spunti critici, per i quali posso solo ringraziarlo.

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Il realismo dell’impossibile di Salvatore Prinzi

Una nota sul libro “Antifascismo e potere. Storia di storie” di Giuseppe Aragno. Piccoli ritratti di sovversivi e dissidenti che combatterono il fascismo.

Antifascismo e potereI. A osservarla con attenzione, molto da vicino, senza farsi impressionare dai grandi nomi o dalle date memorabili, la Storia pullula di figure singolari. Figure che non sono per nulla ricordate, pur avendo fatto qualcosa di importante; esistenze non comuni, senza essere celebri; persone di un certo spessore umano e morale, e tuttavia esposte come tutte allo sbaglio, allo scoramento, alla stanchezza. Uomini e donne, per dirla con Gaetano Arfè, che non trionfano mai ma che non sono mai vinti. Se la vittoria non vede in prima fila a raccogliere onorificenze, la sconfitta, che pure li avvolge, non li abbatte, e quando pure li afferra non li tiene.
Sono proprio queste figure, eroiche solo in un senso molto sobrio, ad essere al centro dell’ultimo libro di Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie (Bastogi, Foggia 2012). Un libro che tira fuori dall’oblio le vicende di otto antifascisti e le fa rivivere sotto i nostri occhi, mostrandone l’attualità, la clandestina vicinanza al nostro tempo. Un libro in cui la storia stessa si fa presente, è un altro presente. Un libro che, proprio per questo, vale la pena di prendere sul serio.

II. Aragno è uno noto studioso del movimento operaio, autore di numerose pubblicazioni che cercano di ricostruire la complessa storia del lavoro a Napoli e in Campania, e le vicende delle correnti anarchiche, socialiste, comuniste nei primi cento anni della storia d’Italia. Qualche anno fa suscitò parecchio interesse un suo libro, Antifascismo popolare (Manifestolibri, Roma 2009), che raccontava il mondo variegato e per nulla “ortodosso” dell’opposizione al regime di Mussolini. Ora di quel libro esce una sorta di sequel: Antifascismo e potere è infatti una raccolta di piccoli ritratti di sovversivi e dissidenti, principalmente napoletani o in qualche modo legati a Napoli, che combatterono, ciascuno a suo modo, il fascismo. Ma quest’ultimo libro, pur confermando l’impostazione storiografica del lavoro precedente, va oltre, perché intende mettere in questione non solo il potere fascista e le modalità feroci del suo esercizio, ma il potere tout court. Vediamo meglio.
La ricerca di Aragno muove, sin dalle sue prime pubblicazioni, dal lavoro di De Felice, assumendo come problematica quella questione del consenso che è il perno di ogni discorso revisionista. In effetti, dire che Mussolini seppe costruire consenso intorno a sé vuol dire in fondo – siccome lo scopo del politico è proprio quello di creare uno spazio e un sostegno alla sua azione – riconoscerlo come “grande statista”. Cioè come un pacificatore delle tensioni nazionali, come il costruttore e persino il modernizzatore di un’Italia uscita povera e dilaniata dalla Grande Guerra. Il problema di Aragno è appunto quello di mostrare su quale rimozione si sia fondato questo consenso e la sua narrazione: ovvero sull’asportazione, prima materiale e poi anche storiografica, della questione sociale, della vita concreta di milioni di contadini e di operai, così come sull’esclusione dei cittadini dalla vita politica e culturale. In quest’ottica il consenso mussoliniano si rivela basato sull’estorsione e la minaccia, e dunque non è altro che una parvenza, una conseguenza dell’oppressione.
Su questa via, l’impostazione di Aragno finisce però per contrapporsi anche a quell’antifascismo istituzionale che, rimuovendo anch’esso la ragione sociale del regime, sembra incolparlo unicamente della violazione dei “diritti umani” o della negazione dei “principi democratici”. Quasi come se il fascismo fosse una parentesi illiberale in una lunga storia italiana fatta di “regole chiare”, di uguaglianza e di condivisione dello stesso destino, quest’antifascismo di rito – e forse proprio per questo sempre meno sentito – presenta la Resistenza come il compimento del percorso Risorgimentale, come la riscossa nazionale di una libertà senza bandiere né colori contro una dittatura cattiva, ormai sconfitta una volta per tutte…
Sulla scia di storici come Arfè e Luigi Cortesi, Aragno contesta dunque il revisionismo imperante in questi anni ma non cade nella retorica di una Resistenza combattuta solo in nome della patria, di una Resistenza avulsa dal conflitto di classe, diretta dall’alto da integerrimi dirigenti di partito e disinteressatamente sostenuta dagli Alleati. Al contrario: Aragno mostra come ci sia una fortissima continuità fra l’antifascismo – che sorge nel momento stesso in cui nasce il movimento fascista, dato che questo è la sintesi più rigorosa e conseguente dell’attacco che le classi dominanti portavano da decenni contro il proletariato – e la Resistenza, che è sì un moto di liberazione ma anche di sovversione. Un moto che quindi non inizia il 25 luglio o l’8 settembre del 1943, ma attraversa, pur se a fatica e a caro prezzo, tutto il Ventennio. Con il suo approccio “dal basso” Aragno riesce così a mostrare le svariate forme e i diversi intenti che contraddistinguono l’opposizione al regime, mettendo in luce come la Resistenza vittoriosa abbia tratto la sua forza da questa Resistenza insorgente, da questi sacrifici quotidiani, dai tanti militanti oscuri, dai tanti “no” detti a mezza voce, dai rifiuti e dai sospiri di migliaia di reclusi, confinati, bastonati.

III. Proprio per questo, il modo migliore di leggere il libro di Aragno è partire dal suo sottotitolo, Storia di storie. Perché nel sottotitolo c’è già un’impostazione teorica, un certo sguardo. Appare subito, infatti, il motivo che sostiene tutto il testo: l’idea che la Storia sia fatta da una pluralità di voci, di vicende singolari, di percorsi individuali. E che sia il loro incontro, la loro circolazione, tutto questo vorticoso aggregarsi e scomporsi di vite, a mettere capo alla Storia, a quella totalità che sembra sempre investirci e travolgerci, e che si lascia pensare solo sulla taglia del Grande Evento. Il vestito storico, sembra dirci Aragno, è tessuto di fili sottilissimi, ma ogni filo ha il suo spessore, la sua lunghezza, il suo colore, e vale la pena di seguirlo fino in fondo. Ripercorrendo quella vita non tanto e non solo come caso eclatante o come testimonianza privilegiata, e nemmeno come scarto che andrebbe recuperato quasi per pietà, per un senso di giustizia verso chi è stato travolto, ma, più profondamente, come una vita attiva, partecipe e persino protagonista del proprio tempo. In altri termini, per capire davvero la Storia, per dirsela tutta, lo storico si deve mettere al microscopio. D’altra parte il passo fra biografia e biologia è breve: è quello che c’è fra lo scrivere, il disegnare, l’incidere i tratti di una vita, e il comprenderli, il discorrerne, il cercarne i principi.
È questa specifica scienza storica, questa comprensione del particolare per meglio arrivare alla totalità, che ci sembra essere il metodo del libro di Aragno, e anche il suo principale merito. Il lavoro rigoroso sugli archivi, la meticolosa ricerca di fonti, l’osservazione di tutte le tracce che una vita lascia, e la narrazione che mette tutto in sequenza, ci restituiscono il pensiero e l’azione di questi otto personaggi altrimenti destinati a restare ignoti. Perché chi può dire di conoscere le peripezie affascinanti e dolorose degli anarchici e socialisti Clotilde Peani, Umberto Vanguardia, Emilia Buonacosa, Giovanni Bergamasco, perseguitati prima dalla polizia “liberale” e poi da quella fascista per le loro idee di uguaglianza e per il loro impegno sindacale, per la loro voglia di sollevare i lavoratori al livello della decisione politica? Chi può dire di aver già sentito le storie di Kolia Patriarca o di Luigi Maresca, non due militanti senza macchia, ma due persone “normali”, tranquille, con l’unico torto di aver avuto delle idee e di averle manifestate, condannandosi a vagare da un paese all’altro, irrimediabilmente lontani dalle loro famiglie? E ancora, chi può immaginare che al fascismo si potesse opporre, e proprio negli anni del supposto consenso, anche un uomo di destra come Pasquale Ilaria, patriota pluridecorato della Prima Guerra Mondiale, e che il “potente” regime potesse temere anche ragazzi evidentemente spauriti, soli e traumatizzati come Renato Grossi?
Aragno è pienamente cosciente di stare compiendo un’operazione in un certo senso salvifica, di stare cioè resuscitando i morti, i sommersi, come direbbe Primo Levi. Basta prendere questa sua frase: «di ciò che siamo davvero, tutto si perde nel silenzio dei secoli e il tempo nostro “personale” raramente coincide col “tempo collettivo” di cui rimane traccia. Tutto si perde, a meno che storici o artisti non lo ricordino a chi, dopo di noi, farà la sua parte sul palcoscenico che ci vide all’opera» (p. 98). In questo senso Aragno sembra rispondere alle scomode domande di quel famoso lettore operaio di Brecht, che, imbattendosi nella Storia, si chiedeva chi la facesse per davvero: chi ci fosse dietro a Tebe, a Babilonia, a Roma, chi avesse materialmente costruito quei grandiosi monumenti, chi avesse realmente combattuto le guerre, chi fosse, insomma, il regista nascosto dai nomi, sempre troppo altisonanti, degli attori… Invece la storiografia ufficiale – affascinata dai grandi destini, dalle manovre diplomatiche, dagli intrighi di Palazzo – tende “naturalmente” a dimenticare il lavoro, la sofferenza, l’oppressione patite dagli uomini. E a maggior ragione dalle donne.

IV. E qui è di un’estrema importanza che il libro di Aragno riservi tanto spazio alla figura femminile, mettendo in apertura l’anarchica Peani e continuando subito con Varia, la coraggiosa moglie di Patriarca, per descriverci poi l’attività politica instancabile e itinerante dell’operaia Buonacosa, per chiudersi infine con le straordinarie Maria e Ada Grossi. Donne che, per quanto capaci di affrontare le peggiori avversità, non vengono mai riconosciute dai questurini capaci di una volontà indipendente, di una posizione politica. La rappresentazione della donna che emerge infatti dagli archivi delle forze dell’ordine oscilla fra quella dell’eterna tentatrice che «suscita eccitamento tra la folla e con la sua audacia può trascinare i compagni» (p. 11), come riferisce un poliziotto romano a proposito della Peani, e quella “classica” della «donna di facili costumi» (p. 57), come scrive un comandante dei Carabinieri di Salerno a proposito della Buonacosa. Convergono qui il senso comune maschilista, che vuole perduta ogni donna che non sia santa, e quella particolare cattiveria che il servo dello stato esercita contro il militante rivoluzionario. Così sorprende solo fino a un certo punto vedere come questi burocrati si ergano anche a maestri di rettitudine e non disdegnino nelle loro note informative di ragionare sulla «cattiva condotta morale» o sulla «vita irregolare» (p. 10) delle loro vittime. E quando pure gli riconoscono un’opinione politica, questa non è mai il prodotto di un pensiero autonomo, di un percorso individuale che muove dalle ingiustizie subite per arrivare infine alla chiarezza di azione: è sempre su istigazione dell’uomo, per imitazione, per amore, che la donna si impegna – senza che questo paternalismo produca peraltro condanne più miti… Insomma: anche quando si muove, la donna è mossa. Non fatichiamo a credere che sia ancora questo il pensiero di tanti questurini d’oggi.

V. Ed è forse proprio a partire da questo riferimento al presente, da questa continuità di certe logiche coercitive, che possiamo capire fino in fondo il senso del titolo del libro, non meno eloquente del sottotitolo, Antifascismo e potere. Qui appare il collante che tiene insieme queste biografie così diverse fra loro: è la cieca ferocia della “ragion di Stato”, l’assurda razionalità dell’ordine costituito, che impone dall’alto le sue decisioni e sempre si autoassolve.
In effetti, è proprio l’opposizione al potere – di cui il fascismo è solo l’espressione più becera, più violenta, più infame – a essere all’incrocio di traiettorie politiche e umane così diverse. Innanzitutto perché alcune delle figure che Aragno ci presenta conoscono l’allontanamento, il carcere, la persecuzione giudiziaria ben prima del fascismo, sotto il governo di Giolitti, facendoci toccare con mano la continuità delle politiche repressive fra l’Italia “liberale” e quella mussoliniana (ma, si potrebbe dire, anche fra questa e quella repubblicana, vedendo come falliranno subito i processi di defascistizzazione, quale sarà l’esito dell’amnistia, quali i nomi dei giornalisti, dei giudici, dei prefetti e dei questori che saranno riciclati nelle istituzioni “democratiche” appena finita la guerra…). In questo modo Aragno mostra che il fascismo non è solo un determinato regime, sconfitto una volta per tutte, ma una logica di governo del conflitto sociale di lungo periodo, imperniata intorno alla tutela a ogni costo delle classi dominanti e dei loro profitti, al restringimento degli spazi del dissenso, e infine alla guerra (tratti che, ancora una volta, Italia liberale, fascista e repubblicana hanno in comune: basti pensare a come si chiude il cerchio della FIAT, da Giovanni Agnelli a Marchionne passando per Valletta, o all’intervento tricolore in Libia, oggi come un secolo fa).
Su questa linea, altre biografie testimoniano di un’ostilità al potere ovunque esso si manifesti, dalla Francia in cui tanti oppositori al regime si erano rifugiati, alla Spagna verso cui molti esuli, come la famiglia Grossi, si sposteranno per dare il proprio contributo alla lotta contro il fascismo. Un’ostilità al potere che Aragno sembra condividere con i suoi personaggi, anche quando – ed è il caso di Patriarca – si tratta di criticare la stessa Rivoluzione Sovietica, la cui orizzontalità, inclusività, apertura, cambiano definitivamente di segno nell’epoca staliniana, finendo per erigere un altro potere, gerarchico, paranoico, persecutorio.
Da questo punto di vista – ed è un altro motivo di interesse del libro – l’utilizzo di qualsiasi strumento, anche della scienza, per liquidare l’opposizione politica, è il migliore indicatore di come i poteri si assomiglino tutti, di come, per Aragno come per De André, non ci siano poteri buoni. Dall’epoca di Lombroso fino a oggi, sociologia, criminologia, psicologia e infine psichiatria convergono infatti nel produrre un sapere disciplinante, un sapere che autorizzi il controllo della popolazione, la reclusione dei corpi, la loro forzosa separazione dal contesto umano con la pretesa di rieducarli e la volontà di punirli. Senza scomodare Foucault, Aragno ci mostra come ad esempio la psichiatria venisse usata là dove la detenzione comune non poteva arrivare: in mancanza di evidenze per condannare subito un oppositore al carcere, una gigantesca macchina burocratico-amministrativa lo teneva sospeso sulla soglia della colpevolezza per anni, fino a farlo impazzire, o meglio, fino a poter constatare in lui quei segni sufficienti a giudicarlo pazzo, e sbarazzarsene in qualche manicomio. In questo modo non ci si liberava solo di un avversario politico, ma si screditava tutta l’opposizione, la si riduceva all’impossibilità di parlare, esibendola da subito come irrazionale solo perché in contrasto con la razionalità dominante. In effetti un detenuto politico ha delle ragioni, lo si può odiare, biasimare, non condividere, ma ha i suoi motivi, i suoi scopi, che si possono capire. Un fanatico o un pazzo no: sono brutture da cancellare, residui arcaici, devianti che ignorano gli assunti di base del vivere sociale… Qui l’accusa di utopia vale immediatamente come certificato di follia, anche se a distaccarsi un attimo dalla quotidianità appaia evidente come la sola utopia e la sola follia siano quelle che pretendono che nulla cambi mai. Ma allora, se così stanno le cose, non si tratta tanto di capire chi, fra il medico (l’apparato repressivo e disciplinare) e il malato (il rivoluzionario che ha osato sfidarlo e che non ritratta), sia il vero folle: si tratta piuttosto di capire dove passi la linea di demarcazione fra follie condotte in maniera estremamente saggia e cose sagge condotte in maniera estremamente folle, come diceva Montesquieu. Cioè fra il contenuto assurdo dell’ordine dominante, con la sua logica spietata e il suo vestito presentabile, e la ragionevolezza di chi domanda un ordine nuovo, e lo fa sfidando le convenzioni, a rischio del carcere e della morte… A ben vedere i rivoluzionari, giudicati e condannati per la loro condotta nel presente, vengono assolti dalla storia per il buon senso delle loro idee.

VI. In ogni caso, è su questo punto dell’opposizione al potere – di cosa sia il potere e di cosa voglia dire opporvisi – che il libro di Aragno apre davvero la discussione, lasciandoci anche liberi di obiettare o completarne il pensiero. Innanzitutto da un punto di vista storico. Se infatti è certamente decisivo che alle tante esperienze di opposizione al fascismo venga dato finalmente rilievo, se è importante tenere a mente ogni torto subito, è altrettanto fondamentale ricordare che la capacità degli antifascisti, e in particolare di quelli comunisti, è stata la capacità di costruire, nel contesto difficile di una dittatura, reti di contatto e di coordinamento che sono riuscite a sopravvivere alle infiltrazioni e alle retate del regime, che hanno permesso che non si spezzasse, almeno nelle fabbriche e nei quartieri popolari, il filo rosso dell’opposizione. Insomma, dietro e attorno alle vite che Aragno ci presenta, che in ultima istanza sembrano così sole, ci sono invece sindacati, partiti, culture politiche, famiglie, reti amicali, insomma, tutta una vicenda collettiva che bisogna stare attenti a non mettere troppo sullo sfondo. E questo ci porta al problema centrale del testo.
Se infatti uno dei suoi scopi è di far sì che dal passato si traggano degli insegnamenti, c’è indubbiamente un insegnamento che subito balza agli occhi: che è impossibile combattere il potere da soli, che l’attività principale della repressione è proprio quella di dividere, di isolare e semmai marchiare il soggetto, davanti al pubblico e davanti a se stesso, come folle. Molti degli esiti tragici di queste storie fanno cioè pensare che – se il “no” che si pronuncia è sempre una questione privata, è un atto di responsabilità personale, un’invenzione assolutamente singolare – l’unico modo per far durare questo “no” è quello di posizionarlo e stringerlo in una rete collettiva, che lo sostenga nei momenti di difficoltà, che lo renda più forte, in modo da non poter essere facilmente attaccato e distrutto. Ma fare questo non vuol dire appunto creare organizzazione? E l’organizzazione non è anche una forma, per quanto embrionale e relativa, di potere? E d’altronde, che cos’è il potere? È una forza che sta solo dal lato del dominio, pura coercizione, o non è anche e innanzitutto un poter fare, da cui ognuno di noi è investito? E se così è, se cioè il potere trova anche in noi il suo momento iniziale o terminale, mettersi insieme e produrre effetti non vuol dire già contrastare il potere, praticando forme di contropotere? Forme che sappiano ostacolare quella temporalità lunga del potere costituito, quel suo perenne poter aspettare, con una temporalità rivoluzionaria, quella che riesca a mantenere il “no” pronunciato un giorno, a sedimentare le esperienze, a far durare l’insorgenza… D’altra parte, se il libro di Aragno vuole appunto fare presente un’altra storia, oggi non facciamo proprio esperienza dell’assenza radicale di questa organizzazione e di quest’altro potere? Dai singoli militanti alle piazze “indignate”, non circola ossessivamente la domanda – dopo trent’anni di smantellamento di contenitori collettivi, di istituzioni che potessero tenere insieme e dar conto delle diverse volontà – di programmi e strumenti che possano imporre, alle logiche di potere della borghesia, l’altra logica del potere popolare? Da questo punto di vista, denunciare il «pragmatismo politico» come «tecnica di dominio» tout court (p. 7), come a volte sembra fare Aragno, non rischia piuttosto di condannarci all’impotenza? La “ragion di Stato” ha il suo più tremendo avversario nell’autenticità e nelle moralità individuali, o nel contropotere effettivo che pone già nell’ordine esistente un’altra moralità, collettiva e niente affatto individuale? Insomma, fra il realismo senza scrupoli del potere e un’utopia incantata quanto inefficace, non c’è forse lo spazio, risicato ma certificato storicamente, di un altro realismo, che ha di mira qualcosa che ancora non si vede, ma può essere qui? C’è forse da scegliere fra purezza dei mezzi e pragmatico perseguimento dei fini o il movimento è lo stesso? Fra eroismo e rinuncia, fra il non venire mai a patti e l’esserci già venuti, non si apre forse una strada, quella che è stata percorsa – e ancora oggi, se abbiamo il coraggio di allargare lo sguardo oltre la provinciale Europa, viene percorsa – dai movimenti rivoluzionari, quella che Che Guevara indicava con il celebre motto: siamo realisti, vogliamo l’impossibile?
Certo, non sono domande a cui questo libro può rispondere. Ma di sicuro, ponendole, facendoci riflettere a partire dalla concretezza storica, Aragno dà un contributo importante a questo realismo dell’impossibile oggi ancora tutto da pensare e da praticare. A patto che il lettore voglia davvero ricominciare le sforzo di questi antifascisti, e magari portarlo fino in fondo, verso un esito – anche solo un poco – più felice.

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