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Posts Tagged ‘Edoardo Pansini’

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Amedeo Coraggio

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Era stato deciso a Parigi nel 1889 e un anno dopo cominciò: manifesti incollati di notte sui muri, riunioni più o meno segrete per evitare l’arresto e la decisione di astenersi dal lavoro.
La risposta dei padroni non si fece attendere: manifesti strappati dai muri, circolari segrete e piantine delle città per indicare ai comandanti delle truppe i luoghi da presidiare e poi cariche e arresti:

“Le SS.LL. sapranno già come da vari gruppi di affiliati ai partiti sovversivi si studi con ogni sorta di maneggio di animare l’agitazione pel 1° maggio che, secondo i disegni dei più arrischiati, dovrà, come essi dicono, segnare una data memoranda nella storia di queste agitazioni.
Al gruppo di questi ultimi appartengono tra gli altri i noti anarchici Mariano Gennaro Pietraroia…”

Da quel giorno Abbiamo avuto di tutto – Crispi, Rudinì, Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris, Mussolini, Scelba, ma il lavoro e i lavoratori sono il fondamento della nostra società e l’insostituibile pilastro della democrazia. Oggi, perciò, sia pure in maniera virtuale non voglio che la loro festa possa mancare, perciò, eccoli sfilare tra polizia e pandemia. E’, come vuole la polizia un corteo “pericoloso”:  sovversive e sovversivi schedati!
Dalla prima fila: Amedeo Coraggio, Domenico Aratari, Ugo Arcuno, Giovanni Bergamasco, Leopoldo Capabianca, Antonio Cecchi, Maddalena Cerasuolo, Ferdinando Colagrande, Guido Congedo, Domenico D’Ambra, Ugo Del Giudice, Nicola De Bartolomeo, Carmine Cesare Grossi, Ada Grossi, Aurelio Grossi, Renato Grossi, Libero Merlino, Lista Alfonso,  Maria Olandese, Mario Onorato, Luigi Pappalardo,  Gennaro Mariano Petraroja, Ugo Margiotta, Salvatore Mauriello, Enrico Motta, Ignazio Mottola, Tito Murolo, Luigi Felicò, Luigi Romano, Enrico Russo, Tommaso Schettino, Edurado Trevisonno, Umberto Vanguardia, Felice Di Nuzzo, Pasquale Di Vilio, Canio Canzi, Edoardo Pansini, Emilia Buonacosa.

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Ho letto con attenzione, ma anche con crescente disappunto, il ricco elenco di iniziative e ho sperato fino alla fine di trovarci ciò che era naturale ci fosse; conclusa la lettura, ho dovuto trarne, invece, una inevitabile e triste conclusione: dopo settant’anni, il grande assente è l’antifascismo. C’è di tutto nel programma: una giornata che ha per protagonisti i carabinieri, una iniziativa che riguarda la cultura ebraica e una sui luoghi dell’insurrezione; ci sono Napoli, la Campania, il Mediterraneo, il vento del Sud, i combattenti inquadrati nell’esercito. L’antifascismo no. L’antifascismo non c’è. Si direbbe quasi che si sia evitato con cura ogni cenno a quei combattenti – e a quella città – che non lottarono solo contro i nazisti, ma sorsero in armi anche contro i fascisti. Quei combattenti, intendo dire, che avevano alle spalle un lungo passato di antifascismo militante e si battevano in nome di ideali politici. Non si trattò di casi sporadici o di figure di secondo piano, come comunemente si crede, ma di protagonisti di primo piano, che diedero all’insurrezione il suo volto politico e la inserirono a pieno titolo nella storia della Resistenza.
Mi riferisco, per fare dei nomi, ai fratelli Murolo che animarono la rivolta a Poggioreale e al Vasto: Ezio, confinato politico, giornalista del “Mondo” e molto vicino a Giovanni Amendola, e Tito, di formazione anarchica. Penso a Edoardo Pansini, antifascista diffidato, simpatizzante degli azionisti e protagonista della lotta al Vomero assieme al comunista Antonino Tarsia in Curia. Penso al giovane Adolfo, suo figlio, che prima di cadere armi in pugno aveva conosciuto la galera fascista. Mi riferisco a Federico Zvab, confinato politico che portò sulle barricate la tragedia istriana e una lunga esperienza di lotta armata al fascismo, maturata nei fatti di “Vienna la rossa” e nella guerra di Spagna. Penso alla nutrita pattuglia di comunisti – Ennio Villone, i confinati Eduardo Corona, Giuseppe Cafasso, Ciro Picardi ed Eugenio Mancini, per ricordarne alcuni – e mi tornano in mente il fuoruscito Luigi Maresca, radicale e seguace di Nitti, Antonio Ottaviano, che aveva affrontato il Tribunale Speciale e arricchito l’insurrezione dei suoi precoci ideali europeisti, il sindacalista Federico Mutarelli, attivo dai tempi di Bordiga, i socialisti schedati Rocco D’Ambra e Giuseppe Benvenuto, Ettore Ceccoli, che aveva agito nell’ombra per “Italia Libera”, conducendovi tra gli altri il giovanissimo Gaetano Arfè, e alcune belle figure di libertari, quali Ermidio Abbate, dirigente del sindacato ferrovieri, che aveva già tenuto testa alle squadre fasciste negli anni Venti, il giovane Malagoli e Alastor Imondi, il cui padre, Giuseppe, benché schedato, fu un riferimento sicuro per ogni militante in difficoltà nel ventennio. Potrei continuare ancora a lungo, ma mi pare che l’elenco basti a spiegare il mio sconcerto.
Non ce l’ho con gli uomini in divisa – il capitano medico Spoto era comunista e i tenenti Armando Dusatti e Aiello Santi furono antifascisti schedati e parteciparono tutti valorosamente alle Quattro Giornate – non dimentico, però, che autorità politiche, vertici militari e buona parte degli ufficiali superiori consegnarono la città ai tedeschi; lo fecero,  perché ritennero l’«ordine  costituito», quale che fosse, persino quello affidato ai nazisti, molto più rassicurante per gli interessi dei ceti abbienti che non il popolo in armi. E’ vero, ci sono stati carabinieri valorosi, ma sarebbe pericoloso dimenticare che già a metà ottobre, mentre si udiva ancora l’eco delle fucilate, furono proprio i carabinieri ad arrestare Edoardo Pansini, che proseguiva la lotta e stanava i vecchi gerarchi. Non si può fingere d’ignorare che di lì a poco, mentre si costruiva la nuova Italia, Guido Dorso non esitò a chiedere esplicitamente lo scioglimento dell’Arma dei carabinieri. Di tutto questo purtroppo non c’è cenno nel programma. La lettura che viene proposta diventa così tutta “sociale” e pare fatta apposta per mettere in ombra il significato politico dell’insurrezione.
Spiace dirlo, ma così si rischia di fare il gioco del revisionismo.

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Nei documenti di archivio i fatti del settembre ’43 sono diversi da quelli che racconta il rituale delle commemorazioni; l’armistizio non è la «morte della patria» e le Quattro Giornate non le ha fatte una città di lazzari e scugnizzi. Mentre osservo avvilito carte preziose, minacciate dai tagli alle spese e dalle ingiurie del tempo, mi assale l’angoscia. Il mio sogno è un settembre senza retorica.
Adolfo Pansini nel carcere di Sant'Eframo 1940Dei tragici giorni in cui i «compiti a casa» li assegnava la storia, vorrei parlare alla Merkell per raccontarle di soldati tedeschi pallidi come cenci – la paura non è un’esclusiva dei PIGS – con un fazzoletto bianco stretto al braccio in segno d’una pace che non verrà. Era il 9 settembre e quegli uomini conoscevano i buoni motivi per cui la gente li stimava poco. Non era questione di un banale dissidio tra presunte cicale e sedicenti formiche. Nonostante la scuola prussiana, per troppo tempo si erano dovute difendere le donne da militari «alleati» che non confermavano la favola tradizionale della galanteria teutonica; per troppo tempo s’era lottato coi depositi di munizioni celati dai «furbi» soldati del Reich in condomini esposti a bombe angloamericane. Nemmeno la furbizia è merce tutta mediterranea. In quanto al mito della «corretta amministrazione», il contrabbando di carne, messo su dal Comando Aeronautico tedesco, aveva arricchito la mensa ufficiali e «privatizzato» i velivoli della  Luftwaffe, per portare la merce nel Reich e farci affari d’oro.
Nessuno dei nostri politici, dopo l’anticamera col cappello in mano, ha ricordato alla Merkell che ognuno ha la sua storia e meglio sarebbe non salire in cattedra. Nessuno ha mostrato alla «maestra» tedesca gli ordini dei Comandi della Wermacht che autorizzavano furti e rapine. Eppure anche questo è amministrare. Per il buon esito della guerra, Kesserling e i suoi incorruttibili ufficiali non si limitarono a requisire armi, automobili e autocarri; arraffarono anche «apparecchi radio, strumenti musicali, orologi da polso e da tasca, macchine fotografiche e strumenti ottici». E poiché, come vuole la dottrina Merkell, anzitutto si bada al bilancio, l’ordine era chiaro: «il controvalore degli oggetti è da mettere in conto alla Prefettura». Gli italiani derubati pagarono così il debito tedesco.
Fa pena al cuore un settembre che tornerà sugli scugnizzi. A me piacerebbe raccontare di Edoardo Pansini e del figlio Adolfo, che nessuno ricorda perché la loro insurrezione non è compatibile con lo stereotipo degli Alleati «liberatori» e del popolo lazzarone che si leva in armi per fame, poi vende il voto al miglior offerente. Come inserire in questo rozzo cliché Adolfo Pansini? Come farci entrare uno studente che a diciott’anni va in galera perché organizza giovani antifascisti e a venti cade, armi in pugno, nelle Quattro Giornate? Come far posto a Edoardo, il padre, che l’ha educato agli ideali di Mazzini e sta con gli azionisti? Meglio, mille volte meglio, gli scugnizzi incoscienti e sanfedisti.
Edoardo Pansini, che sopravvive al figlio, è un personaggio scomodo: rappresenta idealmente quella parte di città che non accetta di essere «liberata», come i settantaquattro militari napoletani che, nei Balcani, dopo l’armistizio, entrano nella «Divisione Italia» e danno man forte ai partigiani di Tito. Non a caso, Pansini non scioglie il suo gruppo, prova a stanare i gerarchi, sfonda le porte delle loro case, sequestra il cibo che vi nascondono per alimentare il mercato nero e lo distribuisce al popolo stremato. Ha replicato con fermezza alla tracotanza nazifascista, ha messo i «democratici» Alleati di fronte a un popolo che possiede coraggio e dignità, ma questo non conta. Pansini è un intralcio per gli americani, che non vogliono colpire i fascisti e lasciarsi alle spalle gente libera di cui temere. Sono loro, gli americani, a chiudere una sua rivista già censurata dal regime, mentre le manette dei carabinieri chiudono la sua carriera di rivoluzionario. Il Codice Rocco, ancora oggi prodigo di aiuti per chiunque miri alla dignità d’un popolo, giunge a immediato sostegno e il capo partigiano dovrà difendersi dall’accusa di violazione di domicilio e furto della merce sottratta al contrabbando.
La repubblica per cui Adolfo Pansini morì e uomini come suo padre lottarono non è forse mai nata. Prevalsero la fedeltà ai blocchi nati a Yalta e l’antifascismo degli «uomini d’ordine» come Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica, che in Tribunale difese i collaborazionisti, nemici giurati dei partigiani. Per il grande avvocato s’era trattato solo di cause di forza maggiore, per il politico si poteva accettare tutto, tranne un popolo che decide di sé. Un modo come un altro per saldare conservatori e reazionari a tutela di interessi di classe. Un’intesa spuria che l’Europa delle banche ha rafforzato e non riguarda più solo l’Italia. E’ per questa sintonia classista che la Cancelliera tedesca può farci lezione e assegnarci i suoi  «compiti» deliranti.

Uscito su Report on Line il 3 settembre 2013, su Liberazione il 5 settembre 2013 e sul Manifesto l’8 settembre 2013

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Ha torto Napolitano. L’orrore per gli “accordi” tra forze politiche inconciliabili non solo è del tutto comprensibile, ma ha radici profonde nella storia della repubblica e riguarda direttamente la vicenda della parte politica in cui ha militato per buona parte della sua vita. Di quell’orrore di cui egli si fa giudice sprezzante, la sua carriera e le sue scelte di dirigente sono, a ben vedere, una delle cause non secondarie.

Per quanto m’è dato sapere, non se n’è mai scritto o parlato. L’ho scoperto da un po’, cercando il “volto politico” delle Quattro Giornate di Napoli, che furono davvero l’inizio della Resistenza, con cui condividono pagine eroiche e domande che attendono invano risposte. Non so se avrò forze e vita per proseguire le mie ricerche e giungere a raccontare in un libro il mondo che sto scoprendo, ma ho promesso a me stesso di non sprecare tempo. Intanto, come s’usa fare talora ai dotti convegni, voglio annunciare qui i primi risultati della mia appassionante ricerca.

Un valoroso partigiano, Edoardo Pansini, che aveva preso parte all’insurrezione col figlio Adolfo, studente di architettura caduto al Vomero, armi in pugno, negli scontri sanguinosi coi tedeschi alla Masseria Pezzalonga, lo aveva sostenuto subito, sin dal dicembre del 1943: nell’Italia dilaniata dalla guerra, non c’erano “liberatori”. C’era un popolo che aveva ritrovato se stesso e la sua dignità e lottava per un mondo migliore. Lo diceva chiaro, Eduardo Pansini, in un discorso che avrebbe voluto leggere alla radio e finì invece censurato dagli “alleati” assieme al “Cimento”, una sua rivista soppressa dai fascisti, tornata in vita subito dopo la rivolta e prontamente “silenziata” dagli anglo-americani. Già perseguitato politico durante il fascismo, poche settimane dopo le Quattro Giornate, di cui era stato protagonista, nell’indifferenza di buona parte della sinistra, che non aveva “orrore” per le “intese” con forze politiche incompatibili, il Pansini finì addirittura in manette, arrestato da quei carabinieri che, nonostante il sacrificio di alcuni tra loro – l’eroico Salvo D’Acquisto, il manipolo di militi fucilato dopo la strenua difesa della Centrale telefonica – non vennero meno alla loro tradizionale fedeltà al padrone di turno.

Repubblicano di formazione mazziniana, Edoardo Pansini, che aveva visto il figlio sacrificare la sua giovane vita agli ideali cui egli l’aveva educato, non si piegò ai compromessi con la monarchia, non accettò gli accordi tra partiti incompatibili, i cavilli legali cui si attaccava con successo il futuro Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, difendendo in Tribunale e nella battaglia politica gli esponenti del regime; egli pagò con una spietata cancellazione dalla storia il suo rifiuto della “larga intesa” e il tentativo di proseguire la lotta iniziata con le Quattro Giornate, per stanare i gerarchi impuniti e impedire che si riciclassero all’ombra degli anglo-americani, della Democrazia Cristiana e di parte della rinascente sinistra, che si mostrò subito più papalina del papa. Quella sinistra che, intesa dopo intesa, disfatta dopo disfatta, uomini come Napolitano hanno prima snaturato, poi condotto all’estinzione assieme alla Costituzione, esempio nobile di compromesso che, non a caso, il “nuovo” Presidente ha barattato con il fatale marciume di intese così “larghe”, da mettere assieme la politica nobile e quella ignobile, nella nebbia di una retorica nazionale che assolve persino chi, corrotto, corrompe.

Nessuno ci ha fatto mai caso, ma il figlio di Pansini, ucciso in combattimento, non fu decorato. Si preferì confermare la ricostruzione americana e la prima, nobile pagina della Resistenza fu ridotta così alla rivolta degli “scugnizzi”. Eppure non si trattava di un caduto senza storia o di un “eroe per caso”. Appena ventunenne, il giovane studente di architettura, era un antifascista conosciuto dalla polizia politica perché anni prima, dopo aver organizzato un gruppo di giovani cospiratori, era stato scoperto, aveva subito un processo ed era stato in carcere per quasi un anno. Non uno “scugnizzo”, quindi, ma un valoroso militante dell’Italia che nasceva. All’epoca Giorgio Napolitano, più o meno coetaneo di Adolfo Pansini, si dilettava a fare il critico teatrale nel gruppo universitario fascista, collaborava con il settimanale “IX maggio” e faceva la fronda, civettando molto prudentemente con alcuni antifascisti. Lì forse, all’università, fermo a metà del guado tra fascismo e antifascismo, in attesa che giovani come Pansini decidessero il corso della Storia e dessero la vita perché nascesse la Repubblica che oggi presiede, Napolitano sperimentava per la prima volta la sua dottrina delle “larghe intese”.

Perché Pansini non fu proposto per la decorazione? Perché guastava il “quadro” della città di plebe che si rivolta solo per disperazione? E perché gli altri capi delle rivolta prima non protestarono e poi non hanno mai raccontato? Forse perché la scelta della “continuità dello Stato” e la prima “larga intesa” non lo consentivano? Per quanto mi riguarda, più scavo nel passato e più mi pare di capire perché l’ombra lunga del “compromesso” giunge fino ai giorni nostri. Nel passato negato o taciuto c’è molto probabilmente la spiegazione profonda della  sconfitta di oggi. Nella lettura di ciò che sta accadendo alla repubblica c’è un equivoco di fondo. Napolitano non è, come i lascia credere, l’inevitabile figlio della crisi. No. Lui e molti dei suoi sedicenti “compagni” ne sono evidentemente i naturali e legittimi genitori.

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