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Posts Tagged ‘Michele Castelli’

Edito da Intra Moenia, il libro è appena uscito. Una “storia fotografica”, che ho scritto con cura e rigore scientifico assieme ad Attilio Wanderlingh. E’ un contributo serio alla conoscenza storica di Napoli, impreziosito dalle numerose foto inedite, molte delle quali provenienti dall’Archivio storico dei Pompieri. Quella che riporto qui è la mia introduzione. Non dovrei dirlo io, ma non amo le inutili ipocrisie: vale la pena di leggerla, magari un po’ alla volta, senza fretta e con attenzione, ma devo essere onesto e avvisarvi: se lo farete, metterete poi mano alla tasca e comprerete il libro. Quello che posso dire senza timore di smentite e che non ve ne pentirete.
Ne vogliamo parlare insieme? Se vi va, organizzate una presentazione e accetterò con piacere l’invito.

Giuseppe Aragno, Attilio Wanderlingh, Napoli in guerra. La città dei cento bombardamenti e del riscatto delle “Quattro Giornate”, Intra Moenia, Napoli, 2020

Introduzione      

L’antica via mostra i solchi delle ruote dei carri che l’hanno segnata nei secoli, ma non ricorda i sentimenti di chi l’ha percorsa, non ci restituisce le dolenti scintille del cavallo stramazzato. Gli edifici sono testimoni impassibili di moti popolari, pene capitali, lamenti di sventurati morti al gelo di inverni maledetti, sfilate di truppe in marcia verso la guerra, o giunte a imporre leggi straniere e barbare. Ci sopravvivono, ma non parlano di noi. E’ così anche con le opere urbane realizzate a Napoli dal fascismo. La guerra, le bombe e il lavorio degli anni, non le hanno cancellate, ma non parlano più a chi vive la città come l’abituale palcoscenico della vita o al turista che la percorre e consuma emozioni.
In questo senso, ricostruire per immagini la storia di Napoli dal fascismo alla guerra e al dopoguerra non significa solo cogliere la sensibilità di un tempo in cui l’immagine ha ruoli centrali; vuol dire anche tornare al messaggio originario che vie, monumenti ed eventi fissati dall’obiettivo intendevano diffondere per ricordare, ma anche deformare la realtà secondo criteri culturali e sociali appositamente definiti. Le foto, insomma, celano segreti e narrano storie. Benché le utilizzi a fini di propaganda, il fascismo non può evitare che il dato di testimonianza della realtà, presente comunque nelle foto, diventi «documento» e mostri anche ciò che si vorrebbe nascondere.

Nel 1925 l’istituzione del Commissariato per la Città e la Provincia di Napoli, consente al regime di dare enorme impulso alle iniziative urbanistiche. Michele Castelli, il funzionario che ricopre l’incarico, conta su poteri e finanziamenti tali, da garantire la realizzazione delle opere intraprese. Messi da parte scugnizzi e suonatori di mandolino, nelle foto degli anni Trenta del Novecento, la città è mostrata come un centro laborioso, attivo, inserito nel progetto fascista, con un popolo inquadrato in «milizie del lavoro», che costruiscono la potenza industriale e militare del Paese. In realtà, più che «regina del Mediterraneo» e base navale di un redivivo «impero romano», pronto a conquistare le terre d’oltremare, Napoli è un efficace ma fragile strumento di propaganda del regime.
Grazie all’ampio mandato, Castelli realizza il progetto, concepito inizialmente quasi come una «storia del fascismo scritta dai fascisti», ma non può evitare che la difficile convivenza tra modernizzazione e retorica del «porto dell’impero», sconti le inevitabili contraddizioni delle politiche innovatrici affidate al piccone. Per conservare le simpatie di imprenditori e gruppi finanziari, il regime non tocca la rendita mobiliare, abbandona l’iniziale intento di tutelare il patrimonio storico e artistico e non affronta le piaghe sociali dei vicoli in cui vive la povera gente. Com’è naturale, la politica del mattone apre così la via alla speculazione edilizia e strade, gallerie, edifici marmorei e imperiali come i palazzi della Questura, della Provincia, dei Mutilati e delle Poste, diventano il paravento di antichi mali, coperti da una maschera di ordine e modernità: mancanza di case, fondaci, analfabetismo e insufficienza delle strutture sanitarie.
Napoli era ed è una città che si legge a strati: ce n’è uno che brilla, abbaglia e copre quelli impresentabili. Il fascismo si adatta: nasconde e spesso peggiora ciò che non può o non vuole cambiare. Esemplare è la sorte dei «bassi», i tuguri in cui vive il sottoproletariato. Sbandierata l’urgenza di farli sparire, il regime ne chiude una piccola parte, pone una targa con la scritta «terraneo non abitabile» accanto a quelli che restano, poi, non avendo risposte concrete da dare, chiude in ricoveri per i poveri chi non può fittare una casa. Una «politica di occultamento», che, a partire dal 1932, è rafforzata dal decreto sulla «disurbanizzazione degli immigrati privi di possibilità di lavoro», che consente alla Questura di spedire per via coatta un gran numero di disoccupati ai paesi di provenienza.

Scelte disumane che non riguardano solo poveri e disoccupati. Anche gli scopi dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia sembrano nobili: tutelare la maternità e l’igiene sociale dei bambini, prevenire la tubercolosi infantile e la delinquenza minorile, reprimere i crimini contro l’infanzia e rieducare i fanciulli devianti. In realtà, strutture, fondi e distribuzione di farmaci sono inadeguati e l’Ente serve solo a sostenere la «battaglia demografica», voluta da un regime per cui la propaganda ai metodi anticoncezionali è proibita, l’aborto è delitto contro lo Stato e «la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo». La verità è che l’Ente non può tutelare la donna dal suo vero nemico: un regime al quale l’ossessione della quantità, sinonimo di potenza, impone di aumentare le nascite perché il numero dei soldati accresce la presunta forza militare.
Schiava di una morale maschilista, la donna paga a scuola il doppio delle tasse dei maschi, è esclusa da molti posti di lavoro, persino dalla dirigenza scolastica e dall’insegnamento di materie tecniche lettere e filosofia nei licei. L’«angelo del focolare», la «donna-madre», simbolo di fecondità e salute della razza, ha solo un compito: produrre soldati per le guerre del regime. In quanto ai minori, il fascismo crea per loro un corretto tribunale e avvia la «bonifica umana» che Dino Grandi fonda sul carcere, cloaca per minorenni irrecuperabili e socialmente pericolosi. Ragazzi e allo stesso tempo rifiuti umani, secondo criteri tipici di un regime perennemente in bilico tra inganno e violenza.

Di là dalla reale entità degli interventi sul tessuto industriale delle aree periferiche della città, gli impegni in parte traditi, soprattutto la rinuncia a colpire il blocco d’interessi che lega banche, imprese edili e proprietà fondiaria, non modificano i connotati parassitari di larghi strati della borghesia. Ha ragione perciò Francesco Soverina: più che fare di Napoli una moderna metropoli, il regime crea uno «spazio critico, in cui coesistono – e spesso si sovrappongono – arretratezza e modernità». E poiché è uno spazio in cui il fantasma della guerra è onnipresente, è quasi naturale che, al momento di mettere a frutto il lavoro svolto, è la guerra – l’atroce seconda mondiale – a impedire alle autorità comunali di rendere operativo con un regolamento edilizio il piano regolatore varato nel 1939 da esperti quali Luigi Piccinati, della Fondazione Politecnica del Mezzogiorno, Riccardo Fiore, ingegnere capo del Comune, Vincenzo Gianturco e Marcello Canino, del sindacato ingegneri e architetti e Giuseppe Cenzato, dell’Unione Industriali.
Di fatto, l’eredità del regime non consiste nella parziale modernizzazione, ma nei danni della guerra ciecamente voluta. E’ la guerra, peraltro, a tener vivo il regolamento del 1935, che offre agli speculatori margini di manovra ben più ampi di quelli concessi dal Piano e l’occasione di avviare la cementificazione che prima della conflitto, ma soprattutto dopo, consente di stravolgere e talora distruggere elementi notevoli dell’ambiente e del territorio napoletano. Purtroppo alla realizzazione del «sacco della città», contribuisce il Comitato di Liberazione Nazionale, che nel 1945, ritenendolo figlio del fascismo, rinvia l’attuazione del piano del 1939, respinto poi dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nel 1950; le varianti favorevoli ai «palazzinari», volute dalla Giunta guidata dall’ex fascista Achille Lauro, consentono così di devastare le zone collinari della città.

Dopo la guerra, del resto, col ritorno a una faticosa normalità, violenza e guerra fanno da sfondo ai ricordi della gente. Durante un’inchiesta, invitati a descrivere l’intervento del regime a Fuorigrotta sulle zone paludose, per costruire la Mostra d’Oltremare e avviare una nuova urbanizzazione, gli anziani del posto ricordano come una violenza subita le repentine demolizioni, le Case Popolari date a piccolo-borghesi e l’abbandono dei vecchi residenti, costretti a farsi ospitare dai parenti. «Fuorigrotta come la ricordo quando ero fanciullo, era un’oasi di pace», afferma un vecchio. E’ stato così «fino al 1939, quando è iniziato […] l’abbattimento di tutte le vecchie case, di interi rioni, compreso la bellissima chiesa di San Vitale, per far posto alla […] attuale Mostra d’Oltremare, al viale Augusto e a via Giulio Cesare». La sensazione dell’abbattimento inteso quasi come crollo è ancora così forte, da indurre un intervistato a dire che c’è «stata la guerra sul territorio ma non hanno abbattuto i palazzi e […] non si capiva più niente». L’uomo non pensa alle bombe inglesi, che nel 1940 distrussero il 60 % degli edifici della Mostra d’Oltremare: ricorda la violenza del piccone.
D’altra parte, nella città che cambia, tutto parla di guerra: gli incrociatori, i soldati che sfilano, i ragazzi in armi per l’addestramento bellico, sicché dietro la «volontà rinnovatrice» di «sua maestà il piccone» è facile scorgere il delirio militarista e autodistruttivo, che, dall’Africa alla Spagna conduce alla guerra mondiale, quando la retorica delle «baionette» fa i conti con l’inferiorità degli armamenti e causa la tragedia narrata con dolente efficacia dalle foto del libro. Non so se abbia ragione Gabriel Garcia Marquez, se davvero «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla»; sta di fatto che le foto del regime lontano dai problemi della gente ma trionfante, suscitano domande: l’ideale gerarchico fascista supera davvero l’innata indisciplina, il disincanto e la diffidenza di Napoli nei confronti del potere? La vocazione guerriera fascista e la politica di potenza giungono all’anima di una città che, con la fine di Matteotti, ha visto nelle sue piazze le ultime, grandi dimostrazioni dell’opposizione? E che ne è dei lettori del «Soviet» di Bordiga, del «Mondo» di Amendola e della «Rivista del Mezzogiorno» di Luigi De Filippis, che lotta con la censura fino al 1926 e a settembre del 1943 affronta il regime che l’ha imbavagliato? Per Renzo De Felice, grande storico del fascismo, nei primi anni Trenta il regime gode di forte consenso, ma i dubbi sono legittimi: la parola «consenso» riferita a una dittatura, non è una «contraddizione in termini»? Non trasforma in sinonimi due sostantivi antitetici – imposizione e adesione – rendendo realtà una finzione?

La verità è che non sempre una parola esprime compiutamente ciò che intende comunicare. Il «consenso» nasce da stati d’animo complessi e la ricchezza del latino, i suoi meccanismi logici nella scelta dei vocaboli, il suo affidare a parole differenti situazioni diverse tra loro, avrebbe impedito a De Felice un uso così ambiguo della parola consenso. In latino, infatti, consentire, nel senso che lo storico dà al verbo, indica sentire comune e condivisione di valori; è sinonimo di pace sociale, suppone piena libertà ed è incompatibile con la tirannia. «Opprimi», vale a dire sostegno forzato, è la parola adatta alla dittatura, per la quale il dissenso, come si manifesta é già sovversione. «Opprimi» però sta per cedimento ai colpi subiti, intollerabile pressione; indica la scelta di «piegarsi», non una libera adesione.
Se pensiamo ai rapporti fra Chiesa e fascismo a Napoli nel 1929, dopo i Patti del Laterano, col cardinale Ascalesi che appoggia il regime, essi sembrano ottimi. Di lì a poco, però, il Federale Natale Schiassi denuncia preti e «circoline», le consorelle dei giovani cattolici, per propaganda antifascista coperta da fervore religioso. La Questura riderebbe di un dissenso fatto di prediche e messe cantate, se nel 1931 volantini clandestini e incidenti coi fascisti non svelassero la debolezza del «consenso». In realtà, l’urto sull’educazione dei giovani e la chiusura dell’Azione Cattolica sono benzina sul fuoco di un conflitto per l’egemonia sull’istruzione, che a Mussolini serve per imprimere nei giovani gli ideali fascisti di forza, virilità e conquista e la Chiesa contende al regime perché sa che la formazione crea legami decisivi con le masse popolari.
I cattolici, profittando della disoccupazione, replicano agli assalti quadristi, promettendo lavoro e assistenza agli operai che aderiscono ai loro circoli. La ribellione giunge inattesa. Sono le donne, le «più addolorate del provvedimento di chiusura», soprattutto le insegnanti, a cospirare nelle abitazioni private e a manovrare abilmente bambini, che lacerano le foto di Mussolini nei libri di testo. Quando si giunge all’arresto delle maestre Annunziata e Anna Bonagura, per isti­gazione e oltraggio al capo del Governo, perché un alunno fa a pezzi il ritratto del duce e lo lancia dal balcone, dichiarando di appartenere a Gesù, non si sono dubbi: il regime ha contro i militanti di base del mondo cattolico, parte costitutiva della cultura politica del Paese. Parlare di «consenso» è quantomeno avventato.
Cessata la bufera, il dissenso sopravvive e produce i fermenti da cui nascerà la Democrazia Cristiana. Le leggi razziali del 1938, con la Chiesa che prova a tutelare gli ebrei convertiti al cattolicesimo ma non si schiera apertamente per la dignità umana degli israeliti, e poi la guerra mondiale allontanano ulteriormente il cardinale Ascalesi dai cattolici napoletani. Una distanza di cui c’è traccia nella posizione filo-polacca dei gesuiti, nell’iniziativa del centro «Orbet», che alla fine del 1942 prepara uomini armati in vista della crisi del regime, nell’attività di una comunità di base, che pubblica «Le Orfanelle di S. Rita alla Salute», un foglio ritenuto pericoloso dalla Questura, e in quella di alcuni operai, confinati per aver fondato un «Partito cattolico dell’Umanità» contrario al regime.

Certo, a marzo 1929 i voti contrari al regime sono poco più di duemila e quattro anni dopo non giungono a cento; si tratta però di plebisciti con voto palese, mentre scuola, università e mezzi d’informazione manipolano le coscienze e la repressione spaventa gli oppositori. E’ innegabile: nel 1935-36, quando la guerra riempie il porto di militari, autorità ed emigrati diretti in Africa, nascono speranze. I più ricchi inseguono sogni di gloria, la povera gente sogna un «posto al sole» e riempie di effimero entusiasmo Piazza Plebiscito. Dietro le terre d’oltremare e l’emigrazione in ripresa, ci sono però la propaganda che fabbrica illusioni, il partito che impone la partecipazione e la repressione che colpisce il dissenso. Per chi vuole vederli, però, all’orizzonte, si affacciano la delusione, l’alleanza con un nemico storico e un imperialismo straccione che vuole la guerra.

Quale rilievo abbiano i sogni che diventano incubi, è impossibile dire. Conosciamo bene, invece, il valore morale di un dissenso che si fa calvario per una parola sfuggita, un segno di ostilità o la difesa cosciente dei valori delle culture politiche storiche del Paese – liberale, cattolica, anarchica, socialista e comunista – arricchite da un europeismo che conta su giovani come Antonio Ottaviano, poi partigiano delle Quattro Giornate, processato per aver fondato l’«Europa Unita», associazione clandestina, che oppone una Federazione di Stati europei all’alleanza italo-tedesca e alla guerra che essa scatenerà. E’ un filo che percorre la città per vent’anni e che il regime non riesce a spezzare.
E’ il primo maggio 1925 – Michele Castelli è pronto ad avviare le opere volute dal regime – quando il socialista Enrico Motta finisce nel girone infernale dei «sovversivi schedati». In casa gli hanno trovato una foto di Matteotti e il testo di una canzone che circola per la città e ridicolizza il fascismo. Sono i mesi, in cui il regime sequestra per ragioni politiche il libretto di navigazione al marittimo Morello Canzio, che fino alla caduta del fascismo non avrà di che vivere e non saprà come provvedere ai figli. I mesi in cui Nestore Francia, un ferroviere licenziato per vendetta politica, fugge all’estero in tempo per evitare l’arresto, ma torna in città anni dopo e vive di stenti finché dura il fascismo. I tre perseguitati non si conoscono, ma come Antonio Ottaviano saranno assieme nella rivolta del 1943.

Anche a tener contro solo degli antifascisti presenti nelle Quattro Giornate, lo stillicidio di arresti, processi e misure di polizia racconta venti anni di lotte mai davvero domate. Sono militanti noti, come Antonio Cecchi, segretario della Camera del Lavoro, che, spedito al confino nel 1926, vivrà di stenti fino al crollo del regime, o antifascisti sconosciuti persino all’onnipresente Polizia Politica. E’ il caso di Amedeo Coraggio, un muratore che paga un canto socialista scritto su un muro dell’Ospizio di San Gennaro alla Sanità con la galera e una vita da «sorvegliato», vissuta da eterno disoccupato, tra miseria, arresti e perquisizioni. Un incubo da cui il Coraggio esce solo a settembre del 1943, quando affronta armi in pugno i nazifascisti e libera nello stesso tempo la città e quanto resta della sua vita.
Non sempre si tratta però di oppositori isolati. Carlo Cerasuolo, per esempio, sorpreso col comunista Espedito Ansaldo, ha contatti col PCI clandestino, sicché non a caso i due si ritrovano poi nelle Quattro Giornate. Alla famiglia di Federico Mutarelli, ex tramviere licenziato, confinato e ridotto alla fame, badano il «Soccorso Rosso» e compagni impauriti ma solidali. In Italia e all’estero vive tra soprusi e licenziamenti Tito Murolo, che guiderà la rivolta nella zona dell’Arenaccia. E’ in contatto con Ezio, il fratello, legato a sua volta agli antifascisti fuggiti in Francia, con i quali nel 1937 raccoglie fondi per i trenta volontari napoletani accorsi in difesa della Spagna assalita dai nazifascisti.

Mentre esalta le «opere del regime», la stampa ignora la repressione, di cui ci parlano oggi le carte della Questura. Nel 1927, il regime che apre la Via Litoranea toglie la gestione del Mercato agricolo di Pianura al dissidente Ruggiero Baiano, ma i figli, memori della miseria e dei soprusi patiti, dall’armistizio all’uno ottobre del 1943 guidano alcuni partigiani che impegnano duramente i nazifascisti. Nel 1928, mentre apre il cantiere per l’Ospedale XXIII marzo – l’attuale Cardarelli – ed entra in funzione la Funicolare Centrale finisce in manette il calzolaio Salvatore Mauriello, che nel 1921, nella Russia di Lenin, ha rappresentato i lavoratori italiani al congresso dei sindacati rossi. L’uomo però non cede, frequenta un gruppo legato a Bordiga e partecipa alla rivolta. Nel 1929, quando aprono lo Stadio Littorio e il Teatro Augusteo, finisce al confino il socialista Ermanno Solimene, che resiste fino al 1943, quando fonda il partito «Social Liberale» e di lì a poco combatte in un gruppo legato al giovane Adolfo Pansini. Nel 1930, anno di nascita di Piazza Medaglie d’oro e Piazza Sanluigi, un tentativo di ricostituire il PCI costa il confino a Ciro Picardi che però nel settembre 1943 organizza gruppi comunisti armati. A Capodanno del 1931, socialisti, anarchici e comunisti, tra cui Gino Vittorio, Saverio Merola, Eduardo Corona e Alfredo Pasqua, futuri insorti delle Quattro Giornate, beffano il regime con uno striscione rosso che, appeso al ponte della Sanità, rivela l’esistenza di contatti con gruppi di altre città e invita a non cedere: «Lavoratori, imitate i compagni di Milano e Torino. Scioperate!». 

Si potrebbe proseguire, perché il dissenso attraversa il Ventennio. Si prenda, ad esempio, il 1936, l’anno dell’impero che riappare «sui colli fatali di Roma», dei palazzi della Posta e della Provincia, dell’autostrada per Pompei e della Stazione Marittima. Un anno di trionfi, nel quale tuttavia c’è chi prova a riorganizzare il PCI, ci sono trenta antifascisti che vanno a difendere la Spagna dai fascisti, gli oppositori aumentano e tra loro troviamo Luigi Blundo, Salvatore, Giovanni e Alberto Angelotti, Gaetano Caso e Luigi Mazzella, tutti protagonisti del settembre 1943. Non bastasse, giunge da Barcellona, inattesa e rivelatrice, la voce di Ada Grossi, la speaker napoletana di «Radio Libertà». Una voce così ascoltata, che, per zittirla, il regime colloca un’antenna disturbatrice sulla Prefettura.
Il dissenso c’è e va ricordato, perché la sua dignità spiega la resistenza a fascisti e tedeschi. Certo, per anni Napoli insegue sogni diventati incubi. Eppure nella città in cui delle «grandi opere», del mito dell’impero presto distrutto dalle bombe, la polizia non smetterà di colpire oppositori, benché facciano i conti con la fame dei figli e la disoccupazione. Molti tra loro – più del 10 % dei combattenti – guideranno gli insorti nelle Quattro Giornate.

Dal 1938 a Napoli, come ovunque nel Paese, il «regime guerriero» prova a creare un clima di artificiosa mobilitazione; continue adunate, stretta di mano proibita, uso del voi, esami di laurea in camicia nera, vita audace e scomoda, «battaglia antiborghese». E’ il ridicolo «stile fascista» che infastidisce un popolo ironico e scettico. Quale distanza divida la gente dai «capitan fracassa» in camicia nera, dicono con chiarezza due episodi registrati dalla polizia. Anzitutto un fascicolo intestato a ignoti, da cui emerge l’ostilità di un popolo dissacratore, che il 5 maggio 1938 gioca con le parole, fa del Führer il «furiere» e mentre il tedesco percorre la città col braccio teso nel saluto nazista, trova una voce per il commento ironico: «sta vedenno si fore chiove! (Sta vedendo se fuori piove!)». Anche questo è dissenso. Così come due anni dopo, Paola Palombo, moglie di Eugenio Furolo, antifascista e partigiano delle Quattro Giornate, alla notizia che l’Italia è in guerra con l’Inghilterra, dichiara in tono gelido che lei si «sente inglese».
In effetti, l’antifascismo non è un dato marginale, non vive nel salotto di Croce e non fa da riferimento solo alla «dissidenza intellettuale», come accade per la «Libreria ‘900», di Ugo Arcuno e Salvatore Mastellone, a Calata Trinità Maggiore, la «libreria Detken» in Piazza Plebiscito, lo studio legale di Giovanni Benincasa a via Duomo e, finché visse, la casa di Giustino Fortunato. Più radicale il dissenso di un grande autore teatrale imbavagliato dal regime, Roberto Bracco, che apre la sua casa a esponenti dell’antifascismo popolare. Un ruolo attivo ma breve ha il comunista Emilio Sereni, che lavora all’Acquario, nella Villa Comunale, stampa «L’antifascista», ma nel 1930 è travolto dalla repressione. Un gruppo di letterati antifascisti, tra cui Giuseppe Marotta e Ubaldo Maestri, frequenta in via Duomo il «Caffè Uccello», che non è l’unico «bar sovversivo». «Sgambati», di fronte al Tribunale, ospita infatti avvocati antifascisti come il comunista Mario Palermo e il socialista Giuseppe Giudicepietro; «Perna» e «Cavour», alla Ferrovia, alloggiano rispettivamente comunisti e anarchici;  in via Foria, il «Caffè Napoli» di Vincenzo Pinto è un covo di repubblicani e al «Gambrinus», a Piazza Plebiscito, si vedono Eugenio Mancini e alcuni comunisti; qualcuno li chiama, beffardo, la «cellula Gambrinus», ma in molti faranno le Quattro Giornate.

Punti fermi per i militanti, sono Giuseppe Imondi e Francesco Lanza, i «dentisti rossi», noti per le cure gratuite offerte alla povera gente. Lanza, poi segretario delle sezioni del PCI di San Carlo all’Arena e Vicaria, tiene in casa riunioni clandestine, diffonde materiale di propaganda e partecipa alle Quattro Giornate. In casa degli anarchici Imondi, letterato e poeta, e della compagna Maria Beradi, troviamo molti combattenti delle Quattro Giornate: Alastor, figlio del dentista, gli anarchici Ciro Fortino, i fratelli Malagoli e il comunista Gino Vittorio, in veste di apprendista. A Piazza Dante, nello studio medico di Attilio Improta, si incontrano i socialisti liberali; in via Mezzocannone, Pasquale Schiano raduna anarchici, socialisti rivoluzionari e uomini di Giustizia e Libertà; al Policlinico l’ortopedico Salvatore Rollo, poi dirigente del Partito d’Azione e assessore nelle prime Amministrazioni della città liberata, raccoglie prima antifascisti e poi armi; nel palazzo del cinema Augusteo, orgoglio del regime, lo studio legale di Rocco D’Ambra e Gennaro Amendola è un covo di socialisti; al medico Giuseppe Sersale, fa capo infine la pattuglia di «Italia Libera», che si riunisce in un «basso» nei pressi di Piazze Dante, dove il partigiano Michele Di Stadio porta armi dei circoli fascisti con cui si lotterà sulle barricate di via Roma.
Non mancano artisti dissidenti. Gildo De Rosa, lascia il pennello per non piegarsi e muore per un incidente sul lavoro; comunista e allievo di Gemito, Luigi Pepe Diaz espatria come Carlo Bernari, autore del romanzo «Tre operai», ma nel 1940, in Francia, per sfuggire ai nazisti, si consegna ai fascisti e finisce in carcere; Guglielmo Peirce paga col confino i rapporti coi comunisti; più prudente, Paolo Ricci se la cava con pochi giorni di carcere prima della rivolta. Di alto spessore l’opposizione di Eduardo Pansini, pittore e scrittore d’arte, che, nel 1921 fonda il «Cimento», una rivista che conduce una battaglia culturale col fascismo in difesa dell’arte, dell’artista, dei suoi diritti e delle sue polemiche e si scontra col fascismo. Quando il regime tocca la libertà di pensiero dell’artista, Pansini attacca l’arte di Stato, i soprusi, le proposte del «Sindacato Artisti» e chiede l’«abolizione dell’influenza del Governo sopra le belle arti», perché l’arte è «patrimonio spirituale e […] gli artisti non possono legarsi con lo spirito e con le azioni alla intonazione unica di un partito politico». E’ una critica inconciliabile col regime, che nel 1936 chiude la rivista.

Alla scuola di Pansini crescono i figli Enzo e Adolfo, che formano un gruppo clandestino di studenti, per i quali l’unione spirituale cui il fascismo dice di avere educato il Paese è una menzogna; la maggioranza degli italiani l’accetta per paura ma professa in pubblico una fede fascista che in realtà detesta. Una scelta che ai giovani pare vile e li spinge alla rivolta. Tornato libero nel 1940, dopo un anno di carcere, Adolfo torna alla militanza e cade nella rivolta. Il padre non consegna le armi e divide tra la popolazione grandi quantità di cibo provenenti dal mercato nero e trovate in casa dell’ex Federale Sansanelli, futuro sindaco di Napoli. Arrestato a ottobre del 1943 inizia l’ultima battaglia politica, condotta ancora una volta dalle pagine del «Cimento» e ancora una volta chiusa dal sequestro della rivista.
Con la pace, giunta in anticipo rispetto a tanta parte del Paese, la città sogna cambiamenti, ma la realtà è terribile: la guerra continua, gli Alleati, attenti alle esigenze delle truppe, non aiutano la popolazione civile ridotta in condizioni insostenibili e governano Napoli come città occupata. Una rinascita morale, oltre che materiale, sarebbe urgente, ma sul conflitto tra gli interessi delle classi sociali, pesa molto l’influsso nefasto dei fascisti, colpevoli della tragedia e però impuniti. Mentre il baratro tra Stato e popolazione si allarga, le scelte per il futuro creano divisioni nei partiti della sinistra e una situazione che consente al Movimento dell’Uomo Qualunque il suo momentaneo ma significativo successo e spiega in parte perché al referendum del 2 giugno 1946 otto napoletani su dieci scelgono la monarchia.
Nell’analisi del voto, Pansini rifiuta i luoghi comuni sulla maturità del popolo napoletano e indica responsabilità politiche. Per conquistare alla repubblica un popolo a cui si sono «tolti i diritti del cittadino», un popolo che nutre «l’idea del re magnanimo», cui il plebeo ricorre di fronte a un’ingiustizia, ci volevano esempi e segnali di cambiamento; a sinistra si sono viste invece scissioni ed espulsioni e si è parlato molto di un’epurazione mai iniziata. Si è lasciato così che una reazione in abito patriottico, padrona di vasti settori del potere e della stampa, instillasse un senso di frustrazione nello «spirito repubblicano» del settembre 1943. Gente che chiedeva attenzione, difesa e leggi rispettose dei Diritti umani, ha visto confermato il Codice Rocco. Sono nati così delusione e pentimento. E’ un’analisi condivisa dal Prefetto sin dalla fine del 1944, quando scrive che, nel proliferare di «Comitati sezionali d’intesa democratica», voluti dal CLN, la popolazione vede il «sistema di organizzazione capillare dei deprecati circoli rionali fascisti» ed è «scettica verso tutti i partiti, che ad onta della loro conclamata solidarietà, si mostrano disuniti».
Anche Giulio Schettini, partigiano repubblicano passato al PCI, ha lottato per «un governo straordinario, dotato di tutti i poteri costituzionali dello Stato», in cui il CLN fosse l’anima di una rivoluzione democratica e intransigente; sono venuti invece compromessi che hanno creato sfiducia in «tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra», incapaci di compiere almeno un’epurazione che estirpi il fascismo e punisca i colpevoli della rovina. Colpevoli che tornano alla politica in questo o quel partito, mentre si tarda a riabilitare i perseguitati politici. Per i combattenti, è mancato lo sforzo di rieducazione, recupero e crescita di quanti non hanno potuto formarsi una coscienza democratica. Un giudizio fondato, ripreso anni dopo da Pasquale Schiano, protagonisti della resistenza a Napoli, per smentire chi accusa il popolo napoletano di essere stato con la «sua incoscienza politica […] la grande riserva della monarchia e del neofascismo». I responsabili del no di protesta alla repubblica uscito dalle urne nel 1946, afferma Schiano, sono stati «coloro che per debolezza o per tradimento verso lo Stato, sono venuti meno ai gravi compiti assuntisi di attuare il programma della nuova Italia».

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9e_automobiliIl primo ottobre 1943, mentre i tedeschi lasciano in tutta fretta la città che li ha costretti alla resa, Napoli, stremata dalla fame, dai bombardamenti e dalle ferite di tre anni di guerra, ingombra di macerie e morti ancora insepolti, diventa sede naturale del laboratorio in cui si prova a dar vita all’Italia “nuova”. Uniti per forza di cose da un comune nemico, i protagonisti dell’esperimento sono, in realtà, profondamente divisi tra loro. Al centro della vita politica, riemerse dal nulla, ci sono le autorità civili e militari badogliane, rappresentate per lo più da uomini compromessi col fascismo, che, in ogni caso, si sono screditati per la collaborazione con l’occupante nazista e la fuga al momento dell’insurrezione. In perfetta linea con la tradizione trasformista delle nostre classi dirigenti, essi mostrano tutti una passione quantomeno sospetta per la causa di quella democrazia liberale tradita vent’anni prima, per far posto al fascismo e scaricare sulle classi subalterne le spese della guerra imperialista. Anche stavolta in gioco ci sono interessi e privilegi di classe da tutelare, di fronte alla crescita di una sinistra che torna a far paura, ma non è un monolite e anzi, proprio a Napoli, lascia intravedere i sintomi di contraddizioni e fratture destinate a indebolirla…

Per continuare a leggere:Alfonso Nicolò un comunista di base tra continuità dello Stato e memoria negata.

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Appare sempre più chiaro. L’uso pubblico della storia riaccende le ostilità e i rancori d’una stagione politica che sembrava conclusa e, alla resa dei conti, la memoria e il ricordo trasmettono ai nostri ragazzi il veleno dell’odio.
Le parole che seguono non nascono per caso: la risposta a chi da qualche tempo ci toglie la parola, levando in alto i labari fiumani, va affidata al rigore della ricerca e ad una scuola dello Stato che torni ad essere naturale cerniera tra scienza e conoscenza.
La contestazione – la mia generazione lo ricorda bene – può essere occasione preziosa per suscitare interessi e indurre al confronto. Da studioso, ho avviato perciò una ricerca e la sorte mi è stata amica: credo di aver qualcosa di nuovo da raccontare e sono più sicuro di quello che dico. Il mio mestiere è insegnare, ma si insegna solo se si continua a imparare.
Quella che vi racconto è la vicenda di un’associazione, nata dalla “Dante Alighieri” e intimamente legata alla “Associazione Nazionale Volontari di guerra”: la “Pro Dalmazia”, costituitasi legalmente in Italia nel 1919, quando il primo conflitto mondiale ha spento nel sangue i miti della “Belle époque” e al tavolo della pace la nostra diplomazia è paralizzata dalle sue contraddizioni. Ne è l’anima la “nota” Irma Melany Scodnik, suffragetta nelle battaglie femministe, che ha ereditato dal cognato, Matteo Renato Imbriani, l’ormai tarda visione di un irredentismo che, dopo essersi presentato come figlio della tradizione garibaldina e mazziniana, ha perso l’iniziale carattere di lotta per la creazione di una nuova identità nazionale, ed è scivolato nei meandri dell’etica e nell’ambiguo patriottismo di Giovanni Bovio. Com’è naturale, essa rivendica l’italianità della Dalmazia, raccoglie gente di nome – ha tra i soci Armando Diaz, un principe d’Aragona, il principe Colonna di Cesarò, Eugenio Cosleschi, stretto collaboratore di D’Annunzio a Fiume – e per un po’ vivacchia tra sussulti di orgoglio nazionale, commemorazioni del “fatidico 24 maggio”, di Foscolo e di Lissa e interpreta, tra i primi, truci bagliori del nascente squadrismo, i “voti dei connazionali tutti di Zara e di Fiume“. Giungono così, consacrazione ufficiale, mentre il paese è ormai in mano fascista, i “sovrani ringraziamenti per l’opera svolta“.
In un Paese giunto buon ultimo nella gara violentissima tra gli imperialismi, il fuoco della retorica dannunziana e l’esasperato nazionalismo fascista, sensibile alle cupe tentazioni del razzismo, formano così il crogiuolo nel quale nasce, col ferro e col fuoco, la tragedia del “confine orientale”, le cui terre, con arroganza pari solo alla rozzezza, sono state ribattezzate col nome di “Venezia Giulia”. Una tragedia destinata a condurre fatalmente alle “foibe”.
Come in buona parte d’Italia, la “Pro Dalmazia” ha una sezione anche a Napoli, nella città fascista di Michele Castelli, ministro plenipotenziario a Fiume nel 1922 e poi Alto Commissario imposto dal regime, e di manganellatori del calibro di Aurelio Padovani. A fare il bello e il cattivo tempo nella sezione napoletana dell’associazione è ormai il regime, che vi ha inserito i suoi immancabili squadristi “antemarcia”: Giovanni Maresca di Serracapriola, che sarà poi convinto sostenitore dell’universalità delle Corporazioni, Raffaele Pescione, fortemente legato a Padovani e Francesco Picone, futuro Federale della città. Basta guardarci dentro, ed eccoli all’opera, mentre “suggellano l’amore di Napoli per Fiume”, tumulando in città, nel recinto degli “uomini illustri” i resti mortali d’una sventurata dodicenne fiumana o fanno circolare – è la “Dante Alighieri” che diffonde in Italia il volantino – il “commosso saluto di Caleo da Spoleto, un “goliardo dalmata oppresso che urla ai camerati: “Memento Dalmatiae” e, intonando un suo inno rabbioso – Quando saremo a Spalato – scrive con un odio che impressiona: “Ringhio! Ed il ringhiar mio non avrà fine se non quando la nostra lama avrà inchiodato nel granito adamantino delle Mura di Spoleto romana i profanatori dei nostri focolari, i bestemmiatori del nome sacro d’Italia“. L’originaria impostazione irredentista e tardo risorgimentale della “Pro Dalmazia” è ormai svanita nelle spire della violenza squadrista e l’associazione non punta solo, come pure dichiara nel programma, alla “difesa dell’italianità in Dalmazia, ma intende imporre, in nome dell’antica prepotenza romana, una pretesa superiorità etnica, che precede di molto – e in qualche modo annunzia – la vergogna delle leggi razziali.
E’ un crescendo che non lascia spazio a dubbi. Per l’anniversario della “Marcia di Ronchi”, nel 1926, si recitano i “Canti di Guerra” di Michele Novelli e si riesuma Odoacre Caterini con le sue “Visioni Dalmate”, la “latinità del sangue” e una Dalmazia che le “le aspre cime dei monti Velebiti e dei rupestri contrafforti delle Dinariche […] nettamente tagliano e dividono e staccano come un severo, inappellabile decreto di separazione etnica dalle retrostanti, turbolente terre balcaniche“. Una “separazione” che va difesa ad ogni costo; la sorte di chi si oppone, di chi rivendica le proprie radici e rifiuta la snazionalizzazione ce la raccontano i comunicati della “Stefani”, che scrive gelida e professionale: “questa mattina ore sei nelle prossimità di Pola è stata eseguita mediante fucilazione nella schiena la sentenza di condanna a morte emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a carico capo banda terrorista Vladimiro Gortan“; una sorte segnata.
Mussolini, però, ancora non è pago. Il 4 novembre 1928, la “Pro Dalmazia” è assorbita nel “Comitato d’azione Dalmatica”, sorto “allo scopo di uniformare alle direttive del Regime e di rendere sempre più efficace ed omogenea l’azione per la difesa dell’italianità e dei diritti d’Italia nella Dalmazia“. Tra il 1929 e il 1930, mentre si moltiplicano le commemorazioni di “Tommaso Gulli ed Aldo Rossi uccisi a Spalato il giorno 11 luglio 1920” e nelle città italiane compaiono “striscioline di carta con la scritta dattilografata Dalmazia o morte“, la nuova associazione, che ha sede a Milano, finisce sotto il totale controllo del regime, che affida a Eugenio Coselschi la direzione di un organo settimanale nazionale, “Volontà d’Italia”, di ispirazione imperialista e assorbe nella “Pro Dalmazia” i militanti di tutte le associazioni consimili, sciolte dai prefetti per espressa volontà del duce.
E’ così che il nuovo organismo alza il tiro e intreccia il suo percorso, sia pure in maniera prudente e non ufficiale, con l’eugenica e una più aperta ed esplicita impostazione razzista della cosiddetta difesa dell’italianità. Tramite dell’operazione, che rimane ovviamente marginale, è l’avvocato Alfredo Vittorio Russo, ex liberaldemocratico e sindaco di Napoli nel 1920, che ha lungamente esitato tra la collaborazione con Mussolini e l’adesione all’opposizione costituzionale, guidata nel 1924 da Giovanni Amendola, ma infine, benché fortemente osteggiato dai fascisti napoletani che non dimenticano, è passato tra i simpatizzanti del regime e si è messo a studiare l’eugenica. E’ su questo tema che egli offre al “Comitato d’Azione per la Dalmazia” il suo contributo, intervenendo a sostegno delle tesi del “complesso problema demografico, come […] posto da Benito Mussolini“. Il suo contributo ha una duplice chiave di lettura: quella del “razzismo esterno”, nei confronti delle altre etnie – il “pericolo giallo” – e quello di un “razzismo interno”, inteso come “selezione della razza” e volto a impedire che la riproduzione umana tenda “sempre più a incombere sulle classi inferiori, ossia sui più deboli, con progressivo ed evidente deterioramento della specie“. Contro i pericoli che vengono dall’esterno, contro “il rapido aumento della razza slava” e “la predominanza quantitativa dei popoli di colore“, egli ricorda che tra gli scienziati c’è chi si è spinto “al punto da rimproverare, quasi, ai bianchi la diffusione, da essi operata, delle norme igieniche nell’Asia e nell’Africa“. Di fatto, però, egli osserva, il problema reale è quello della “quantità e qualità” della razza. Nessuno, infatti, “potrà mai sostenere che la quantità in tema di popolazione, possa sostituire la qualità. La necessità che si impone, quindi, è quella di combattere la “degenerazione umana” e, “tra le diverse provvidenze“, due, apprese dal noto psichiatra Leonardo Bianchi, gli appaiono essenziali: “educare in istituti speciali ben per tempo i fanciulli anormali […] malati e tarati” e “ vietare in qualunque modo il matrimonio di persone malate che presentino decise stimmate fisiche e morali della degenerazione umana. Lo spirito umanitario, l’amore, la pietà familiare devono piegare innanzi all’ineluttabile veto di questa legge. […]. Gli interessi delle nazioni esigono una prole sana“.
Non siamo ad una organica dottrina della razza, ma nelle parole del Russo, ben prima che il nazismo metta in campo la sua feroce pazzia, ci sono i caratteri specifici della psuedo scientificità di una teoria razzista.
E’ in questo clima culturale, e su questa base mai apertamente dichiarata, che si va formando la gioventù italiana sin dalla metà degli anni Venti. Un clima in cui, mentre cresce e si diffonde il culto della personalità del duce, “assertore magnifico del diritto e della civiltà della romanità e del Fascismo, egida vigoroso della nuova Italia“, si tiene desta una rivalità che ha le tinte fosche dell’odio contro quella che – cito testualmente da documenti reperiti in archivio – è “la canaglia jugoslava“. Non altrimenti si spiegano, se non con l’odio alimentato ad arte dalla propaganda del regime, le parole che Antonio Amato, un semplice capobarca in servizio ai motoscafi del Genio Civile scrive all’Alto Commissario Baratono nel dicembre del 1932: “Dica al Duce, Eccellenza, che gli azzurri del Battaglione di Napoli attendono frementi di sdegno un Suo comando, e quando la diana di guerra squillerà, dia a noi l’onore di piantare in quel sacro suolo profanato il tricolore d’Italia, […] di versare fino all’ultima stilla di sangue“.
Sono parole dietro le quali si cela la propaganda del regime che, avviandosi all’avventura coloniale, lavora ad una trasformazione profonda di ciò che resta della vecchia “Pro Dalmazia” e dei suoi Comitati, assorbiti, come annuncia la “Stefani” nell’ottobre del 1933, nei “Comitati d’azione per la Universalità di Roma”. Un piano complesso, che Mussolini elabora personalmente con la collaborazione di Eugenio Conselschi, Maresca di Serracapriola, Pietro Castellino e Pannunzio, facendo sì che progressivamente i toni salgano e gli animi si accendano. Nel 1935, mentre Buffarini Guidi lavora perché in ogni città l’attività di tali Comitati divenga sempre più intensa, agevole e proficua, anche Ciano, Starace e i Principi di Piemonte sono coinvolti nelle manifestazioni promosse dal Comitato e, poco prima della guerra d’Etiopia, entrano in gioco persino Bruno e Vittorio Mussolini, che la sezione napoletana dell’associazione Volontari di guerra e azzurri di Dalmazia […] saluta vibrante di entusiasmo […] iscrivendoli soci onorari nostro sodalizio“. Il duce se ne compiace e, in un crescendo di entusiasmo dai toni velatamente razzisti, Maresca di Serracapriola, membro di del Consiglio centrale dei “Comitati d’azione per la Universalità di Roma”, può salutarlo come il “rinnovatore della stirpe“. A scuola – si teorizza – “una cultura irredentista fra i giovani non solo servirà a conquistare le terre che sono nostre, ma sarà la più sicura garanzia di saperle tenere in seguito.
Si apre la stagione delle peggiori avventure e dei crimini di guerra quando, alla fine di settembre, Edgardo Borselli, console d’Albania, ad “una conferenza sul tema dell’Abissinia indetta dalla sezione di Napoli del Comitato per l’universalità di Roma” si intrattiene “sulla crisi economica del dopoguerra e sulle divisioni delle colonie tra gli stati belligeranti con la quasi totale esclusione dell’Italia“. Quando il Berselli accenna “allo stato di barbarie dell’Etiopia” e agli orrori della mortalità specie infantile“, gli aerei della nostra aviazione da guerra stanno già caricando spezzoni, gas e bombe incendiarie con cui si accingono a seppellire sotto in un diluvio di fuoco i poveri villaggi etiopi stretti nella morsa del terrore e nella disperazione.
E’ l’inizio della fine. Hitler non ha ancora mostrato al mondo la cupa ferocia del nazionalsocialismo ma, in tema di razzismo e crimini di guerra, il fascismo e il militarismo italiani non hanno in verità nulla da apprendere.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4 aprile 2007.

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