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Posts Tagged ‘Di Pietro’

Non lo dirò col linguaggio da trivio del deputato che mostra il dito, ma la premessa è d’obbligo: se il variegato campionario di zerbini che impazza coi sondaggi la piantasse di spacciar veline, il terremoto sarebbe evidente: la maggior parte degli italiani non ne può più di Monti e della sua maggioranza bulgara che, fuori dal Parlamento, è una screditata minoranza. Sui modi si potrà discutere, sulla sostanza c’è poco da dire: l’on. Barbato ha ragione. Se dici Monti, Bersani, Alfano e Casini, più del quaranta per cento degli italiani, quasi metà Paese, si prende l’orticaria, brandisce il crocefisso e urla come invasata: “Vade retro Satana!”. In quanto alla mezzaluna votante, 20 stanno con Grillo, 15 si dividono tra Vendola, Di Pietro, Maroni e Ferrero e il dato, infine, non è solo chiaro, ma rivelatore: fuori del Palazzo, la Bulgaria di Monti è un’invenzione pericolosa, l’effetto d’una causa su cui si impone il silenzio ad ogni costo.

Alla prova dei fatti, Monti in testa, i celebrati professori si sono rivelati asini matricolati. Pochi giorni fa, Squinzi, il Presidente della Confindustria che, com’è universalmente noto, s’è formato alla scuola del bolscevico Zinoviev, gliene ha cantate quattro in tono tutto sommato misurato e se l’è presa col pinco pallino, chiamato a far da ruota di scorta a un governo che, su un percorso accidentato, buca copertoni un metro sì e uno no: il ragioniere Bondi, ha detto, in sostanza il noto sovversivo, ha “fatto solo macelleria sociale”. Se un giudizio così chiaro, netto e pesante nasce a destra, per  volontario “fuoco amico”, non c’è scampo, tu pensi: il venditore di tappeti che nessuno ha mai votato e occupa come un clandestino la poltrona che fu di Giolitti, perché, si dice, il governo eletto non sapeva governare lo spread, tenterà la via della risposta politica. Invece no. Invece la testa sopraffina che ha gettato sul lastrico per errore o dolo centinaia di migliaia di onesti cittadini, che ha affamato i pensionati, che guadagnano mille volte meno di lui, ha cancellato lo Statuto dei lavoratori e ci ha fatto registrare picchi vertiginosi nella disoccupazione giovanile, l’ineffabile professore, non ha trovato di meglio che attaccarsi di nuovo allo spread, che evidentemente neanche lui governa, e invitare Squinzi a star zitto. Sarà pur vero che pinco pallo è un macellaio, nessuno deve dirlo. “Taci, il nemico ti ascolta!”,  è stata, quindi,  la risposta demenziale. D’accordo, à la guerre comme à la guerre, ma quale generale punta alla vittoria, sparando addosso ai suoi? Qui c’è altro e va detto.

Fosse stato in piazza, alla testa di familiari di imprenditori suicidati dalle banche, il Presidente di Confindustria avrebbe probabilmente sperimentato il significato concreto del monito postdemocratico: una banda di manganellatori in divisa protetti dall’anonimato gli avrebbe spaccato le ossa, come accade di norma nelle piazze del belpaese, poi il Manganelli si sarebbe scusato – c’è una beffarda sintonia tra le parole e i fatti – e il sottosegretario De Gennaro avrebbe espresso la sua solidarietà nei confronti dei “servitori dello Stato” che, non a caso, hanno sempre più spesso in petto i segni distintivi delle campagne di guerra e sono scelti apposta tra “guerrieri della democrazia” che girano il mondo, sparando a pescatori e “terroristi” nelle eroiche guerre che sosteniamo alla faccia della Costituzione.

Se ancora qualcuno non l’avesse capito, questa banda d’invasati è decisa a imporre con la censura e la violenza una  ricetta velenosa. Da Genova a Basiano corre un filo rosso e insanguinato ed è ormai chiaro: siamo indigeni in un Paese coloniale. Ha ragione Angelo D’Orsi quando scrive che “le lacrime e il sangue non sono più metafora”, ma il discorso a questo punto non può fermarsi qui. La finanza e i tecnocrati si muovono con violenza perché seguono un progetto preciso e conoscono Marx meglio di noi. Sanno bene che “una nuova rivoluzione non è possibile, se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra”. Lo sanno e si preparano; perciò Monti intima a Squinzi di tacere e scatena il manganello. E noi, noi che la crisi la paghiamo, noi che ormai vediamo versare lacrime e sangue, noi che faremo? Lasceremo che rigore e violenza tengano a battesimo la nuova dittatura?

Uscito sul “Manifesto” il 14 luglio 2012 e su  “Fuoriregistro” il 14 luglio 2012

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Tragicommedia. Non poteva che finir così. C’è davvero l’Italia di oggi nei cori sprezzanti dei tifosi contrapposti, nei cortei che si schierano davanti ai palazzi d’un potere sempre più estraneo, come fedeli davanti agli altari, in attesa dell’immancabile “miracolo”. Nell’incredibile confusione tra “liberazione” e “rito liberatorio“, c’è la comica tragedia d’un Paese che non s’è mai veramente “liberato“. Che il fascismo sia stato, come scrisse lucido Gobetti, l’autobiografia degli italiani, ora sì, ora si vede chiaro in questo surrogato di “liberazione“, che ci fa più servi in un inevitabile crepuscolo della democrazia. E’ vero, Berlusconi cade – e questo fa certamente bene – ma a chi torna ai ritmi del poeta latino – “nunc est bibendum” – il vino va alla testa e tutto si confonde nel gioco delle parti. Cade, sì, ma per mano di lanzichenecchi della finanza e di squallidi capitani di ventura, suoi pari, come Sarkozy e la Merkel, che l’hanno detto chiari e minacciosi a Papandreu: se si rompe il giocattolo, si torna all’Europa dei conflitti. Cade e l’Italia fa festa o protesta; in piazza c’è chi l’ha combattuto per anni, impotente, inascoltato e tradito da opposizioni complici che non l’hanno mai inchiodato al conflitto d’interesse, e chi l’ha liberamente eletto, esaltato e spesso idolatrato; strati sociali così vasti e così variamente connotati, che parlare ancora di “società civile” pare non abbia più senso. Brinda, fa festa o protesta, l’Italia, ma è un’Italia avvilita che non trova rappresentanza politica e cerca invano una classe dirìgente capace di arrossire, che mostri senso del pudore e quella capacità critica che distingue gli uomini liberi dai servi sciocchi. Canti, cori, dirette televisive e l’eterno salotto buono, con Di Pietro, folgorato sulla via di Damasco, che non parla più di “macelleria sociale“, Concita De Gregorio, pronta a sostener la tesi insostenibile che è stato il governo a scatenare la crisi economica nata negli Usa, Casini berlusconiano per due e più lustri, Fini capobanda fino all’anno scorso e il solito Floris con una batteria di servizi terroristici sui bancomat in tilt e i soldi sequestrati in banca per effetto del fallimento. Un polverone sollevato ad arte per coprire la miseria morale di una “uscita” dalla crisi di governo che, da qualunque parte la si guardi, non va d’accordo coi principi della democrazia e, quand’anche fosse l’unica, amara e necessaria medicina, non meriterebbe certo una festosa accoglienza.
Morto il re, viva il re, ma operai e docenti stiano allerta. Il “nuovo che avanza” ha già detto basta alla nefasta influenza marxista e al suo “arcaico stile di rivendicazione che è un grosso ostacolo alle riforme” e “finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati“. La ricetta è il solito veleno – il “vincolo della competitività” – e quanto sia efficace s’è “visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili“.
In fabbrica, quindi, flessibilità e mano libera al signor padrone e, in quanto alla formazione, basta col valore legale del titolo di studio e via con l’incubo americano: il figlio del ricco borghese che studia a Milano vale il doppio del cocciuto figlio di poveracci che va a scuola a Canicattì. Che ci va a fare? Lo studente non conta niente, vale il “nome” dell’istituto. Ci sono lauree e pezzi di carta in un mondo in cui chi ha i quattrini per farlo si costruisce la scuola e l’università. Chi decide è il mercato…
Così, Mario Monti, sul Corriere della Sera del 2 gennaio scorso. Altro che nuovo! Monti al governo – un “governo tecnico“, s’intende, di colpo di Stato non si parla più – è una fucilata sparata a bruciapelo sulla democrazia! Lo sanno tutti, Napolitano, gli “scamiciati” del Governo di Unità Nazionale, il rosso Vendola con la formula diplomatica del “Governo di scopo“, Bersani e i suoi, stretti attorno alla bandiera tricolore di un “Governo di transizione” che ci porta difilato al patibolo della Bicciè. Lo sanno tutti, ma fingono di non sapere: dopo un lungo scontro, c’è una resa incondizionata e tutto avviene nello stesso campo: la trincea è quella del peggior capitalismo. Nulla a che vedere coi diritti e la fatica della povera gente, costretta con un colpo di mano a pagare il prezzo d’una crisi per cui Monti è responsabile più o meno quanto Berlusconi. Monti, sì, che, guarda caso, è stato International Advisor della “Goldman Sachs“, ha libero acceso al chiuso “Gruppo Bildeberg, è membro stimato della “Commissione Trilaterale” creata da Zbigniew Brzezinski e Rockefeller e ha partecipato in prima linea, come Commissario europeo per l’economia, alla creazione del mostriciattolo che ci si ostina a chiamare “Unione Europea”.

Uscito su “Fuoriregistro” il 14 novemente 2011 e sul “Manifesto” del 15 novembre 2011 col titolo “Il nuovo avanza ma il capitalismo è sempre lo stesso”.

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Nessuno se n’è accorto, ma i black bloc hanno cambiato colore. Ieri, come sempre irriconoscibili, avevano caschi azzurri e, invece del classico passamontagna, si coprivano il viso con una celata di plastica trasparente che ti fa vedere tutto senza che nessuno ti veda in viso. Non c’è dubbio: gente che sa il fatto suo. Abbandonati i sampietrini, si son portati appresso i più efficienti manganelli ed eccoli abilmente mimetizzati. A vederli, sembravano proprio tutori dell’ordine a cui d’un tratto aveva dato di volta il cervello: cariche violente contro cortei di studenti inermi che, a mani alzate e volto scoperto, urlavano il loro dichiarato pacifismo.
Carica dopo carica, i black bloc mimetizzati hanno avuto progressivamente la meglio sui sogni democratici dei nostri studenti e si son viste scene di sapore vagamente cileno: ragazzi a mani in alto, fotografati, identificati e probabilmente schedati in un “Casellario Politico” raccolto chissà perché dagli anarco-insurrezionalisti. Sfilavano uno dietro l’altro, come prigionieri di guerra, tra due file di black bloc dai fiammanti caschi azzurri ormai padroni del campo, mentre la Costituzione repubblicana sembrava sospesa e non c’era l’ombra d’un carabiniere che mettesse un po’ d’ordine in quell’incredibile sceneggiata delle inafferrabili primule nere che indossavano gli azzurri caschi della polizia.
Diciamola tutta. Dell’oscura vicenda la nota più inquietante non viene dall’isolamento dei pacifisti – gli studenti erano soli, ma si sa, l’indignazione della sedicente “società civile” vive di lampi improvvisi e subito s’acqueta – e non veniva nemmeno dalla paura dei genitori che, recuperati i figli malconci nelle piazze, si guardavano bene dal dare del “fascista” ai black bloc travestiti dal poliziotti. Il dato inquietante, quello che più preoccupa e colpisce, è la muta afasia della politica. Nessuno, nemmeno Di Pietro, ha invocato stavolta la Legge Reale e si direbbe quasi che i black bloc abbiano addirittura agito, forti di un incredibile consenso istituzionale.
Violenza“, si dice ogni giorno, “guardiamoci dalla violenza“. Un monito sacrosanto. C’è, però, chi si chiede come mai stamattina i grandi giornali non abbiano aperto con le foto e i filmati dei teppisti da identificare. Sembra quasi che la violenza si giudichi ormai dal colore: nera e coi passamontagna è caccia all’uomo, azzurra e coi manganelli passa sotto silenzio.
La commedia è finita, se v’è piaciuta, applaudite“, recitavano un tempo giullari e scavalcamonti, che mettevano in scena la ferocia del potere. Non c’è nulla di più vivo e vero che la finzione del teatro, ma quando cala il sipario e si fa buio sulla ribalta, chissà perché lo spettatore si tranquillizza, ingannando se stesso: la vita non è teatro. Eppure lo vediamo: non c’è tragedia recitata su un palcoscenico che non viva nelle case e nelle piazze che popoliamo. E’ che noi non vogliamo vedere.

Uscito su “Fuoriregistro” il 4-11-2011 col titolo Gli studenti contro i black bloc e sul “Manifesto” il 5-11-2011 col titolo.

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Avrebbero avuto ben altro senso, la condanna della violenza e l’improvvisa passione legalitaria, se ci si fosse sdegnati con pari veemenza per i patti con Gheddafi, gli omicidi libici e le leggi razziste di questi anni. Non è stato così e i nuovi ”nonviolenti“ hanno votato indifferenti due destre responsabili di violenze ben più gravi di quella che li indigna. Sarebbe stati credibile il palpito di “nonviolenza“, se dei presidi messi in piedi dai nostri figli contro i campi di concentramento per stranieri, avessimo fatto bandiera di legalità violata da una inaudita violenza di Stato. Se, dico per dire, quando i giovani, violentemente privati del futuro, lottavano per la scuola della Costituzione, tra cariche e lacrimogeni, i “neononviolenti”, nati evidentemente a Roma il 15 ottobre del 2011, fossero stati con loro per protestare sull’invalicabile linea rossa che il 14 dicembre scorso protesse i violentissimi tagli della Gelmini e la compravendita parlamentare. Mi sarei “tolto il cappello” se, in nome della “nonviolenza”, si fosse scesi in piazza per restarci, quando i responsabili dell’ordine pubblico condannati per i fatti di Genova furono premiati con oscene promozioni. Se, vado a caso, quando fu ucciso vilmente Cucchi, avessimo incrociato le braccia per condannare la violenza di Stato che l’ammazzò. Non è stato così, ma prendo atto: alleluia! Il 15 ottobre è resuscitata la “nonviolenza“. Forse non era ciò che volevano gli ignoti quindicenni incappucciati, che sono figli nostri, forse il parto è stato così travagliato che la creatura, se non cieca, ora è orba – qui combatte animosa la violenza, lì è complice e non sai perché – ma, dice il poeta, “nunc est bibendum“. Col tempo migliorerà.

In piazza il 15 ottobre parlava la gente che soffre. Più voci, certo, non ancora l’armonia del coro, qualche stecca, la nota stonata, ma un pullulare d’anticorpi e la rappresentazione plastica d’una “crisi di rigetto”. Era lampante: il circo Barnum ha messo le tende a Montecitorio, l’antipolitica governa la politica e invano pennivendoli e velinari aprono un fuoco di fila di analisi a “senso unico”, recitano l’opera buffa dello sdegno e fanno i paladini di “indignati” traditi da “teppisti”. “Buoni” contro “cattivi”. il potere sperimenta la sapienza latina: divide et impera. E’ il vizio di chi, perso il pelo, non solo rimane lupo ma, per sopramisura, si fa pure volpe.
Scatenato, il circo mediatico fa lo specchio deformante. Il punto, dice, è la violenza, ma lo sapevano tutti: c’era chi la voleva, chi la temeva e chi la preparava. nessuno parlava, perché, a cose fatte, serviva l’allarme: “è ora di reagire”. E via con le leggi speciali. Tempo perso. Se schiacci i popoli, la rabbia cresce e non bastano prediche di neopacifisti o minacce di provvedimenti. La storia non fa sconti e il punto non è la violenza, il punto è la sofferenza.

Violenza, si ripete. Qualcuno sta li a rivendicarla con passione quasi “estetica” – e magari se n’è stato prudentemente a casa – altri puntano il dito su compagni diventati d’un tratto nemici e non manca chi prende la via sperimentata del “complotto” e degli immancabili infiltrati. In tanti, e qui forse è il punto delicato, sorpresi e impauriti, danno l’addio alle armi e in piazza non si vedranno più. Non gli servirà a molto: la fame attraversa i muri e apre ogni porta.
Violenza, dite? D’accordo, violenza se ci tenete, ma una parola ha mille sfumature e spesso cela inganni. La violenza del dissenso siriano, per esempio, qui trova mercato, ha la bellezza struggente e il fascino della libertà. E’ una rivoluzione asettica, fa impazzire di passione democratica e non fa paura, tanto, si sa, che c’entriamo? “Lì c’è una dittatura”. Sfumature così sottili e ingannevoli, che s’è scoperta persino la violenza “umanitaria”, proditoria, sanguinosa e spudorata come in Libia, ma capace di passare per un’affermazione della “democrazia”. Il monopolio della violenza, che tocca allo Stato, fa i miracoli dei santi: le bombe per un verso sono una straordinaria “difesa dei civili”, per l’altro fanno a pezzi con tanto di diritto legale al macello. Bollo e timbro delle Nazioni Unite. Che volete di più? La violenza è il barbaro pilastro della guerra alla barbarie del terrorismo, un totem da venerare ovunque c’è una rapina di petrolio da legalizzare, diritti di popoli da negare e uno sconcio da contrabbandare per amara necessità di “esportare democrazia”. L’immancabile, ambigua, nobile e diabolica “democrazia occidentale”.

Ma cos’è oggi la democrazia cui si consente tutto e contro la quale la violenza è prima bestemmia e poi sacrilegio?
Il diritto riconosciuto a Trichet di imporre licenziamenti di massa e uccidere la speranza, l’arbitrio concesso a Marchionne, che schiavizza i lavoratori, la lettera di Draghi che affama i vecchi e rapina i giovani, questo è democrazia. Atroce messinscena. La violenza, oggi, si chiama così: democrazia. Violenza e democrazia sono allo stesso tempo i conti pubblici piegati agli interessi delle banche e la vita della povera gente sacrificata alle regole del mercato. La democrazia oggi è la violenza usata a Montesquieu in nome dei profitti, la restaurazione della Bastiglia, il commercio dei voti in un Parlamento che fu tabernacolo di “civiltà borghese”. Democrazia è violenza di leggi fuorilegge. Democrazia è polizia armata fino ai denti coi soldi di tutti noi, ipocriti moralisti, per internare gli immigrati, massacrare di botte i pastori sardi nel porto di Civitavecchia, sostenere con la forza armata bande di privilegiati, tutelare gli evasori, i “condonati” e i loro padrini politici, imporre a manganellate discariche velenose a popolazioni che non ci stanno. Questo è democrazia: lunghe file di immigrati davanti alle questure, il miserabile contrabbando di permessi di soggiorno e la guerra tra poveri e disperati.
Questa inaudita violenza è oggi la democrazia, ma va bene così e si dice che mercato e profitto son legge di natura, che il capitale non è un fenomeno storico intessuto di arbitrio e sopraffazione, ma l’ultima delle tavole consegnate a Mosè.

A ben vedere, la sola violenza che apre la porta della galera e accende i salotti buoni televisivi è la rabbia dei giovani che si rivoltano per tirarsi dietro precari scippati, lavorati sfruttati, disoccupati umiliati e poveri sempre più poveri e disperati. Questa sì, questa è violenza. E qui, tutti allerta, qui ci schieriamo contro scandalizzati: il fenomeno è italiano. E’ falso. Cameron insegue teppisti, la Grecia ha gli anarco-insurrezionalisti e se non ci sarà via d’uscita, non so quando, non so con quale nome, sarà rivolta ovunque una lettera di Draghi produrrà disperazione.
La verità è che quando i popoli lottano per la sopravvivenza e la dignità, quando si dice crisi per dire che si rifiuta la terapia del dolore ai malati terminali e si avvelenano l’aria, l’acqua e il suolo in nome del delirio neoliberista, quando lo sfruttamento feroce nega speranze a intere generazioni di giovani, la violenza è nelle cose, si chiama potere e colpisce le ragioni della civile convivenza. In queste condizioni, la rivolta, esito fatale di inaccettabili provocazione, è racconto di una indicibile sofferenza, narrazione leggibile e comprensibile di un terremoto annunciato. Non c’è dubbio, c’è una incalcolabile differenza tra un’auto bruciata e l’urto contro la “zona rossa”; tuttavia la tensione crescerà e, violenza o non violenza, conterà soprattutto l’efficacia della “narrazione”. Se i fatti parlano, il dolore aggrega. Si dice – ma andrebbe verificato – che questo non è politica, perché la politica suscita e orienta forze, indica modi e pratiche che producono incontri e “civilizzano” lo scontro. Ma dov’è la politica? E’ il dito di Bossi la politica? Lo è diventato perché per D’Alema è “costola della sinistra”? E’ D’Alema, che battezza Bossi? E’ Berlusconi, che il partito di Bersani salvò dall’inferno con la bicamerale? Sono Fini e Casini la politica, gli ex amici dell’amico di Mangano? Dov’è la politica che ora, scandalizzata, invoca leggi speciali? Si chiama Vendola che da sinistra fa blocco con sceriffi alla Di Pietro? E’ Draghi la politica o per caso Trichet? Dov’è la politica? In quanto all’etica, che d’un tratto trova mille amanti, se un ruolo vuole avere occupandosi di violenza, si guardi attorno: il campo della violenza del potere è inesplorato.
Non si governa senza crimine, insegnò Machiavelli, ma i rivoluzionari borghesi elessero la loro risposta a principio universale: la rivolta contro i governi ingiusti è diritto dei popoli, legittima difesa.
Il dito puntato di chi mi farà la lezione, lo metto nel conto: “questo è giustificazionismo delirante”.

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Se affermo che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, non esiste alcun motivo che giustifichi una disparità di trattamento tra ragazzi italiani e figli di immigrati. Tradotto in termini costituzionali, questo vuol dire che non c’è governo che possa imporre a un insegnante di entrare in una classe composta ope legis da soli bambini stranieri o di accettarne una formata solo da italiani perché ne sono stati esclusi i figli di immigrati. Una legge che sancisce discriminazioni di questa natura è semplicemente – e tragicamente – razzista e ripugna alla mia coscienza di uomo libero e civile.

Il Presidente Napoletano si offende se l’on. Di Pietro gli fa notare che ci sono provvedimenti che non andrebbero sottoscritti. Eppure ci sono.
Di Pietro ha ragione: non vanno firmati, a costo di dimettersi.
Un governo come quello attualmente guidato da Berlusconi, che approva a colpi di maggioranza leggi di questo genere, non viola solo palesemente uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, ma fa carta straccia di tutti gli articoli che riguardano la pari dignità sociale, l’uguaglianza fra le razze, le lingue, le religioni, il dovere dello Stato di educare, istruire e formare i cittadini gratuitamente. Napolitano lo sa certamente meglio di me, ma Salvemini l’ha insegnato a tutti: “La prova migliore del valore di una libera Costituzione è la misura in cui provvede alla protezione delle minoranze“.
Ci sono verità che vanno dette e nessuno può trincerarsi dietro la “forma” quando in discussione è la tenuta democratica del Paese. Questo governo ignora volutamente – e apertamente disprezza – lo spirito della carta Costituzionale e i vincoli che essa pone al potere esecutivo.

Nonostante l’accorato appello venuto dal mondo della scuola, Napolitano ha ritenuto di dover firmare senza battere ciglio la legge Gelmini che nell’impianto, nella filosofia che l’ispira, negli effetti concreti che produce, cancella brutalmente non solo l’articolo nove di quella Costituzione di cui il Presidente della Repubblica è supremo garante, impedendo lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, ma ignora i principi che ispirano gli articoli 33 e 34: quelli che disegnano in maniera vincolante il sistema formativo del Paese.
A Napoli, città natale di Giorgio Napolitano, nel corso di un celebre processo politico costruito ad arte a fine Ottocento con l’intento di equiparare il dissenso alla sovversione e imbavagliare così ogni tipo di opposizione, Giovanni Bovio, principe del foro e maestro di democrazia, in modi forse meno impulsivi e con parole più raffinate di quelle usate dall’onorevole Di Pietro, invano ricordò ai giudici il dovere dell’imparzialità e della neutralità politica. Quei magistrati non vollero ascoltarlo e aprirono così la via a Crispi e ad una delle pagine più buie della nostra storia. Ai lavoratori imputati, cui la reazione e la condizione di imputati negavano diritto di parola, Bovio, seppe e volle dar voce con accenti e toni che vale la pena riprendere:

Non vi neghiamo i tributi e la difesa – dissero per bocca di Bovio a chi li governava i pionieri di quel socialismo di cui Napolitano è figlio – e neppure il lavoro vi neghiamo, ma solo che rimuoviate gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile o sterile per noi. E giacché di là dai confini vivono lavoratori come noi, vi chiediamo di non ucciderli: vogliamo la pace. Questo vi chiediamo, e non ci rispondete coi fucili nelle mani dei nostri figli e con aspre sentenze di giudici, pagati col prezzo degli ultimi monili levati alle nostre donne. I chierici ci fecero dubitare di Dio; i signori feudali ci fecero dubitare di noi stessi, se uomini fossimo o animali; la borghesia ci fa dubitare della patria, da che ci ha fatti stranieri sulle terre nostre; non ci fate, voi giudici, non ci fate, per queste braccia scarne, per carità di voi stessi e per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non ci fate dubitare della giustizia. Che ci resterebbe? Temiamo di domandarlo a noi stessi: di noi temiamo, non della sentenza. “Io fui nato ad esser cavaliere e tu mi hai fatto malfattore, ed ora ti fai giudice!”. Così gridò il figlio a Nicolò terzo estense, provocatore e parricida. E noi chiediamo a quelli che ci chiamano fratelli: noi fummo nati al lavoro e deh, non fate noi delinquenti e voi giudici!.

I nostri soldati, sono in armi fuori confine al fianco di popoli invasori. La scuola, che i nostri padri vollero statale, è privatizzata; i magistrati che perseguono la corruzione politica rischiano la carriera, gli insegnanti che hanno il compito di formare in piena indipendenza i nostri giovani rischiano di essere sottoposti a un padrone in una scelta di privatizzazione che ha natura politica e stravolge la lettera e lo spirito della nostra Costituzione. Come non bastasse, c’è ora chi propone l’istituzione di albi regionali per i professori, per costringerli ad insegnare solo nella regione di origine. Una frattura pericolosa si apre tra potere e regole, tra politica e valori repubblicani. Una frattura che non consente scelte: o si ricompone – e solo il Presidente della Repubblica ha l’autorità per avviare il processo – o, costi quel che costi, non ci resta che opporre tutti i no che detta la coscienza.

Uscito su “Fuoriregistro” il 30 gennaio 2009

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