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Archive for the ‘Radici’ Category

Me ne accorgevo ora che aveva tirato fuori la verità e l’aria misteriosa degli ultimi tempi era sparita: coi suoi indifendibili quarant’anni, i capelli ormai tutti di un bianco opaco, molto vicino al grigio e le sue mille rughe, Francesco sembrava molto più vecchio di me. Il solo specchio dell’animo è il volto, pensai per un attimo, poi, superato lo smarrimento della sorpresa aprii gli argini alla rabbia.
Che senso ha?, urlai, mentre il telefono ostinato riprendeva a suonare e io, più ostinato, continuavo a non rispondere. Lui, però, stava zitto e io ricominciai:
Mi dici che senso ha? Non verrete più qui a fare consulenza. Né tu, né Franco, né Ciro. Nessuno. Tutti, mi dici, vi aspettavate un rappresentante di zona delle vostre parti. Ma che storia è mai questa, insinuai, cos’è, un campanilismo di tipo nuovo, o una spartizione di posti che non vi è riuscita?
Il gesto plateale della mano che lo mandava a quel paese era più disperato ed eloquente della voce che tremava. Per quanto mettessi nelle domande una furia astiosa, lui subiva con un distacco che mi pareva sprezzante e io sentivo con sgomento che avevo solo una gran voglia di mettermi a piangere. In quegli anni al sindacato, Francesco era stato un compagno leale, ormai però una guerra per bande, dolorosa, ma senza quartiere, ci vedeva nemici nel nostro stesso campo e il passato non contava più. Non serviva parlare, mancava la voglia di capire e contava ferirsi. Era quella la via più facile e non mi aspettavo perciò spiegazioni, quando replicò:
I tuoi grandi principi. A quello badi tu, l’uomo tutto di un pezzo. I principi. La vita, però, è altro, la vita è compromesso e anche fango. Tu lo sai, ma non le dai tempo…
Lascia stare, che è meglio, lo interruppi. Il tempo della vita è una storia incompiuta.
Mi fermai un attimo. Francesco pareva lontano e quando ripresi, parlavo soprattutto a me stesso:
Volente o nolente ti ci trovi e reciti la tua parte, però più avanti vai, più ti accorgi che sul copione il finale non c’è e infine, mentre provi inutilmente a capire se sei entrato nel ruolo, te ne vai, scivoli via dalla scena ma, come se nulla fosse accaduto, il sipario non cala, la rappresentazione prosegue e si trova subito un rimpiazzo. E’ lui il futuro che hai costruito e non potrai vedere, lui, il rimpiazzo che di te non sa niente, come niente, in fondo, tu sai di lui. Il tempo della vita, Francesco, è solo un intervallo incerto tra le nostre due sole certezze, uno spazio che riempi di te, ma è sempre pronto al vuoto.
Scosse la testa, ma rimase zitto. Dopo la rabbia, sopraggiungeva la rassegnazione, mentre una lama di sole anemico che tagliava in due la scrivania, pareva segnare fisicamente il confine che ormai ci separava. Il terremoto c’era stato, ma nella stanza tutto era rimasto com’era, anche se per me nulla aveva più senso e mi guardavo attorno spaesato: la pila di vecchie riviste ammonticchiate lungo le pareti, i manifesti che ricordavano un tempo nel quale il conflitto aveva ancora cittadinanza tra noi, lo striscione delle grandi occasioni, piegato alla bell’e meglio dietro il vecchio armadietto di legno scheggiato e l’annuncio di uno sciopero generale che ci aveva uniti per l’ultima illusione. I ricordi esaltanti non bastarono a curare le ferite e la mia domanda suonò come una provocazione:
Te la ricordi, tu, quella lotta? – gli chiesi, rompendo il silenzio che s’era fatto pesante e indicai col dito il manifesto col suo slogan, leggendo con enfasi:
Giù le mani dalle pensioni!
Giù le mani, certo, e il governo finì a gambe all’aria, fece Francesco pronto, ma svogliato, perché sapeva che la vicenda non era finita lì. Sapeva tutto, Francesco, e il solco che gli si approfondì tra gli occhi alla radice del naso, pareva una richiesta di armistizio.
Sì, il governo finì a gambe all’aria, replicai, ma poco dopo, il ministro fece una capriola, cambiò bandiera, passò dalla nostra parte e la guerra finì. Questo te lo ricordi?
Non era giusto trattarlo così. Contro il ministro prestato al governo dalla Banca d’Italia, contro la sua “modernizzazione” che sapeva di antico e puzzava di imbroglio, perché cancellava diritti e negava tutele, il sindacato aveva reagito come un sol uomo e s’era mosso con incredibile sincronia. Io e Francesco, il consulente e il dirigente, eravamo partiti all’attacco a corpo morto, senza fermarci neanche per tirare il fiato. Una pazzia esaltante. Lui che mi spiegava il calcolo delle pensioni, io che imparavo a muovermi abilmente tra “montanti“, coefficienti e rendimenti e a poco a poco disegnavo nella mia mente ogni giorno più chiara la “scaletta” per le assemblee. A fare da perno, il percorso storico che ci aveva condotti dove eravamo e più il tempo passava, più sentivo la forza delle nostre ragioni e meno temevo le ragioni della forza che ci opponevano i padroni. Vennero così le notti in bianco, i giorni di fuoco nei posti di lavoro e una certezza inattaccabile: era in gioco il futuro e si faceva sul serio.
Nelle assemblee, trovavi parole che andavano al cuore, esclamò d’un tratto Francesco, che s’era evidentemente perso come me sul filo dei ricordi. Mai visto tante adesioni tra i colleghi. Ana, la mia amica rumena, una volta mi disse commossa: mi ha fatto ricordare i giorni della rivoluzione.
Ci credevo. Ci credevamo tutti, replicai, mentre il telefono tornava a suonare metodico e petulante, ma non rispondevo. Ci credevo e non ricordavo più gli scontri per gli elenchi degli iscritti che non avevo mai potuto aggiornare, le mezze parole, gli accordi sottobanco già firmati, mentre si tenevano in piedi lotte ormai chiuse e s’illudeva la gente che non poteva immaginare.
Guardai Francesco. Per quanto amara, una questione personale io e lui l’avremmo superata; dietro il nostro dissenso, però, c’erano problemi ben più complessi di beghe personali. La verità era che per alcuni anni, senza nemmeno capire bene quello che accadeva, ci eravamo trovati a vivere uno di quei rari momenti in cui il treno della storia prende a correre a tutta velocità e non sai dove ti porti. Anche a saperlo, del resto, che fare? Ammesso che ognuno pesi davvero quanto può su quello che gli accade attorno, noi tutt’al più disegniamo un futuro. Il presente no, perché fa i conti col passato; il suo treno percorre, perciò, binari che altri hanno costruito ed è raro e difficile che qualcuno riesca ad azionare uno scambio e lo mandi in una diversa direzione. Quando finalmente la corsa terminò, il mondo era profondamente cambiato e, a guardarsi attorno, pareva di vedere la realtà attraverso un cannocchiale messo alla rovescia: invece di diventare più grandi, le cose s’erano rimpicciolite ed erano lontane all’orizzonte. Per inerzia, continuammo a definirci riformisti e rivoluzionari, ma la stagione delle riforme era chiusa da un pezzo e la rivoluzione era ovunque battuta. Sopravvivevamo a noi stessi, testimoni inconsapevoli o impotenti dei giochi meschini di un potere pervasivo che allungava le sue ombre fin dentro le nostre stanze e dietro il mito dell’organizzazione che “sa sempre quel che fa” celava le ambizioni e gli affari di opportunisti e mercenari. Come accade assai spesso di fronte al dolore, ci fu chi mise la fede avanti alla ragione o in un eccesso di disciplina non volle vedere e si ritrovò cieco. A torto o a ragione ormai conta davvero poco, dopo la corsa del treno, l’onesto e leale Francesco era diventato una sorta di soldato di Cristo, un gesuita fedele al suo vangelo, rispettoso di tutti i misteri gloriosi per i quali un credente pensa di vedere la luce del sole là dove regna il buio più profondo e santifica nella sua fede ciò che, di norma, gli appare inaccettabile in quella degli altri. Nella sua testa quadrata di militante addestrato ad “obbedir tacendo e tacendo morir“, l’appartenenza, sposa del “realismo“, aveva generato un figlio malato e l’aveva battezzato col nome più lungo e pericoloso del mondo: “nonsipotevafarediversamente“. Qui le nostre strade s’erano inevitabilmente separate, ma non c’era tra noi chi avesse ragione o torto: è che il dubbio e la certezza non conoscono accordi se l’uno vuole tutto e l’altra non sa cedere nulla. Forse, se avessi abbassato la guardia, se solo mi fossi deciso a rispondere al telefono che suonava e non si arrendeva, le cose tra noi avrebbero preso una piega diversa. Al telefono, però, non risposi e invece, come per chiudere i conti, tornai a far domande:
Sai cos’era l’Icme?, gli domandai a bruciapelo e mi guardò stupito.
No, non lo so e non capisco che c’entri con quello che ti ho detto.
C’entra, risposi. Vedrai che c’entra. E’ stato subito dopo lo sciopero per le pensioni. C’era una riunione confederale nei locali della Mostra. Una di quelle cose che non si sa a che servano, non hanno l’onore della cronaca, perciò non interessano nessuno, non richiamano grandi nomi da Roma, non c’è vetrina e chi può non ci va. Mi fu detto di rappresentare la scuola e rimasi incastrato.
Francesco dava ormai segni d’impazienza e il cicalare prolungato del telefono era insopportabile.
Diavolo, perché non rispondi?, mi chiese.
Perché no, risposi indisponente, senza perdere il filo. Lui ammutolì e io ricominciai.
Ci andai, rassegnato al tran tran e deciso a far atto di presenza. Arrivai che ormai avevano già cominciato e. il segretario regionale dei metalmeccanici provava a infilare il sindacato in un ambiguo progetto sull’utilizzazione delle aree industriali dismesse. Gli operai ce li trovammo addosso d’improvviso. Sulle tute, in petto, si leggeva chiaro il nome della fabbrica, più chiara, sui loro volti scuri, si leggeva una rabbia che faceva paura. Strappato il microfono all’oratore, pallido come uno straccio, uno dei lavoratori cominciò a parlare. Ufficialmente, spiegò, l’Icme era una fabbrica chiusa da un anno. L’azienda sosteneva che non aveva più mercato, ma loro, gli operai, l’avevano occupata e da un anno tiravano avanti con le scorte di magazzino. Noi produciamo e vendiamo, il mercato c’è, urlava con forza disperata l’operaio, E’ il padrone che se ne va Dio sa dove a sfruttare mano d’opera e nessuno fa nulla. Nessuno, nemmeno il sindacato. Eravamo praticamente prigionieri. Presero per il collo Vassallo, il segretario che stava parlando e lui, livido e pauroso promise mari e monti: “Andremo a Roma assieme, compagni. Il sindacato c’è. Vedrete che c’è. Ci andremo e non molleremo finché non si trova una soluzione”. Com’erano venuti, i lavoratori sparirono. Appena si chiuse la porta, Vassallo si riprese il microfono e urlò: “Estremisti del cazzo! Compagni, per questi dell’Icme s’è fatto quel che si poteva, ma è già tutto deciso e il partito è d’accordo. Sono problemi delicati, l’Europa ci impone quote di produzione”. I presenti non trovarono nulla da obiettare. Tutti erano sollevati per il pericolo scampato e uno solo, non ricordo, chi, urlò dall’ultima fila: “E allora perché mentire? Perché promettere Roma e una soluzione? Che c’entra il partito? Noi che ci stiamo a fare qui in tanti, se non serviamo a niente?”. Vassallo non si scompose. “Voi siete dirigenti, replicò. Basta con inutili estremismi”. Attorno a lui il silenzio era complice e indifferente. Il pericolo era lontano e quelli dell’Icme irrimediabilmente condannati. Ora l’hai capito che c’entra l’Icme? Se continua così, caro Francesco, rappresenteremo solo noi stessi. E temo che non ci sia più tempo.
Francesco m’avrebbe certamente esposto i suoi dogmi sulla trattativa con la prevedibile conclusione sul caso classico per cui qualcosa perdi e qualcosa guadagni, ma non ne ebbe il tempo. Il telefono riprese la sua danza e stavolta risposi:
Località Soffritti? – domandai sorpreso. Non so dove sia… Ai Camaldoli, vicino al Monastero? Sì, è nella mia zona, preside, ma se bruciano copertoni e sono minacciosi, meglio i carabinieri che il sindacato… No? C’entra il sindacato? D’accordo, vengo. Il tempo di arrivare, ma sono chilometri, ora sto a Pozzuoli… Certo che vengo, preside, prometto.
Ma dove vai? Che c’entri tu con gli incidenti di piazza?, fece Francesco stupito.
E’ una scuola e se ho capito bene c’è un problema sindacale…
Non è compito tuo, vada la polizia, poi il sindacato vedrà!
Uscii senza rispondergli. Ero maledettamente stanco. Da tanto, troppo tempo giravo a vuoto e non concludevo nulla. A Francesco, però, non l’avrei mai detto, non lo dicevo nemmeno a me stesso, però lo capivo: la stanchezza dell’animo ti chiede forze che non pensi di avere. Le trovi, è vero, ma è perché lo sai: se ti fermi, ti perdi. Era scritto, tuttavia, e anche questo sapevo. Prima o poi mi sarei fermato. E perciò mi sarei perso.

Uscito su “Fuoriregistro” l’11 aprile 2012

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Pina entrò nella mia vita per caso. Ci si fece un posto che pochi hanno mai avuto e nessuno glielo avrebbe tolto se, quindici anni dopo il nostro incontro, una mattina di quelle che non sono uguali ad altre, non avessimo scelto di affidare la nostra sorte al caso. E allora sì, perché noi lo volemmo, poi ci si divise e ciò che venne dopo doveva venire: non si affida impunemente alla sorte ciò che dà un senso a molta parte della propria vita.
I fili che ci avevano condotti al nostro appuntamento erano parte di una storia collettiva: sessantottini si prendeva a dire qua e là, chi per invidia malevola, chi con disprezzo astioso, mettendo insieme qualche ragione e numerosi torti. E’ vero, si potrebbe provare a smentirli, ma a che servirebbe fare qui la storia di un manipolo di giuda mercanti, che vendono fumo dalle colonne di giornali prezzolati e s’arrampicano sugli scranni untuosi di quelle istituzioni tante volte spregiate? Ogni tempo li porta con sé: hanno largo consenso nei giorni della storia che dal passato si avviano a quel futuro che sarà il presente di nuove generazioni, poi, esclusi da ogni tempo, si perdono in una irrimediabile oscurità. Esistono sempre e non sono mai esistiti.

Io e Pina avevamo viaggiato sullo stesso treno, ognuno una carrozza, ma il binario era quello: dalla stessa parte, con gli stessi sogni, sulla stessa barricata. E ci eravamo attardati nella giovinezza senza accorgerci della maturità alla quale un’idea cronologica della vita ci aveva assegnati. E’ una verità banale, ma puoi stentare a capirla: col tempo che passa, occorre diventare adulti. Fa parte del gioco e, se non ci arrivi da solo, qualcuno prima o poi te lo dice. Ma è proprio vero che l’apparenza inganna: piccola, i capelli neri tagliati a caschetto, il viso lievemente largo che aveva preso a truccare molto tardi, usando il rimmel molto più che l’ombretto, Pina pareva una di quelle “signorine charleston” degli anni ’30.
Inganna l’apparenza, le avevo confessato in un giorno di stanchezza mortale, in cui tutti, chissà perché, persino lei, solitamente così acuta, tutti mi vedevano felice e forse, a vedermi, felice davvero dovevo apparire.
Ma felice di che? – la interruppi, mentre mi si era messa sottobraccio e mi teneva stretto – Felice perché?
E non lo vedi? I ragazzi ti stanno attorno, ti cercano, ti vogliono bene. Perché non sei contento?
C’era quasi timore nella sua voce dalle inflessioni fini, articolate, che se aveva paura tremava, se era felice si spezzava, se lottava con l’ansia era concitata. La voce di chi mette l’anima nelle parole ed esprime nel tono e nella musica dei suoni ciò che dentro gli vive.

Sembravo contento e sorridevo. Ma contento di che?
‘O pruvessore! – aveva gridato qualcuno mentre entravo in classe. Gli evviva mi avevano sommerso e Pina se li era goduti. Conoscevo da tempo la sua teoria:
Se apri una breccia nei cuori, poi si parla. Parlano poi – diceva – e, se lo fanno, vai dal cuore alla testa e lasci il segno.
Contento di che? Che ne avremmo poi fatto di Formisano, se persino la natura s’era divertita a farlo doppio nel viso, come doppio sempre più gli facevano il cuore in petto la scuola della strada, le regole della famiglia e la miseria morale che gli affaristi della politica contrapponevano giorno dopo giorno alla miseria materiale da cui traeva forze la camorra. Che ne avremmo fatto di quello spilungone col viso d’un coniglio e un occhio storto che gli faceva il profilo destro diverso da quello sinistro e gli inquietava il volto che inquietava?
Contento di che? Tornerei a chiedertelo oggi ancora, amica mia, se solo sapessi come farmi ascoltare e dove andare a cercare la risposta. E una, una almeno tu l’avresti, non ho dubbi. Breve, di quelle che facevano luce nel buio che dentro mi insidia da sempre.
Contento di che, Pina? Di essermi trovato a passare con l’auto davanti al crocchio dei giovani eccitati, chiusi a cerchio attorno all’aggressione? Perché fu naturale soccorrerlo Formisano, che la lingua e le mani non sapeva e non voleva tenerle a freno, messo sotto da tre, quattro ragazzi più grandi e più grossi, mentre prendeva calci e pugni e, senza lamenti, restituiva come poteva, colpo su colpo, persino coi morsi, e soccombeva insanguinato? Perché il pugno che presi anch’io mi spezzò un dente, mentre qualcuno s’era messo a urlare: E’ ‘o pruvessore!
Contento di che? Del filo di sangue che disegnando un rivolo giù, fino alla camicia, sconfiggeva penosamente le mie impossibili lezioni sulla superiorità del dialogo? Quella superiorità che il ragazzo insanguinato non aveva mai voluto accettare e tornò a rifiutare in un soffio, mentre lo strappavo a viva forza dalle grinfie dei suoi carnefici:
Avite visto chi aveva ragione?
Contento di che? Di quel consenso che mi trasformava in uno di loro?
Solo così si può provare a parlargli – mi disse Pina senza rabbuiarsi – solo così e lo sai: tu suoni a orecchio. Uno di loro. E’ la musica giusta.

E suonai, Pina, suonammo, dopo che un terremoto più terribile di quello che aveva scosso ogni pietra della città divenne un’onda d’urto micidiale che investì le coscienze e tutti incarognì. Suonammo, Pina, senza gli strumenti. Me la ricordo ancora la tua ragazza violentata dal padre – quanto parlasti, quanta strada facesti dal cuore alla testa! – quella ragazza che un giorno si lanciò a corpo morto nella vetrata del balcone dell’aula. E quell’improbabile fantino grassoccio che giorno dopo giorno mi incalzava:
Venite pruvessò, stasera è sicuro, ve facit’e sorde. Tengo ‘o cavallo buono e a vuie v’o dico! Stasera arrivo primmo, pure si trovo nu cavallo ch’è chiù forte. Venite pruvessò, stanotte chiudimm’a strada pe’ Casoria e ve facite ‘e sorde.
Suonammo, Pina, sorridendo, quando la malizia delle ragazzine che sapevano tutto della vita ci sussurrò all’orecchio:
Site ‘na bella coppia, ma tenite famiglia… – e i colleghi maligni se ne stavano zitti, ma facevano sì con la testa.

Ex sessantottini, Pina. Ma cosa vuol dire? Quelli che sanno mettere insieme un “Comitato genitori e docenti” a Via Cannola al Trivio, nel vecchio Rione Sant’Alfonso, alla Siberia, dove siamo di casa e dove gli alunni che hanno già un “nome” ci fanno da scorta? Dove comanda ‘O romano, un criminale latitante, ufficialmente super ricercato all’estero, mentre i nostri ragazzi ci dicono orgogliosi che va e viene da casa perché “ten‘e sorde e si paga l’amici pulite, ‘a gente comm’ a vuie?”.
Cosa vuol dire? Che siamo gente che nel “Comitato” hanno saputo portare le mogli e le sorelle dei camorristi e quelle si rivoltano contro i padri e i mariti che fittano la scuola data in prestito ai terremotati per farne casa d’appuntamento, deposito di droga e refurtiva, covo per ricercati? Che tutto quessto non serve a niente perché finiamo contro il muro invalicabile dei silenzi e delle collusioni? Contro il muro custodito da scienziati della borghesia passati ai posti di comando?
Vedite, pruvessò, chi aveva ragione?

Ex sessantottini, Pina. Che vuol dire? Che tutti i giorni la stampa cittadina confeziona un prodotto da tre soldi per raccontare, come fossero imprese coraggiose ed epiche, che il “gruppo di fuoco legato alla potente famiglia di Bakù ha riaperto lo scontro per il controllo del territorio“. Tutti i giorni, là dove si potrebbe titolare semplicemente: “Un deliquente esce dal fango e spara“? Che vuol dire? Domandiamolo al giornalista famoso, sceso una volta al Sud dal suo Piemonte – è storia antica. Quello che, entrando in città dalla tangenziale, attraverso lo svincolo del Corso Malta, sull’alto viadotto che sovrasta la “Siberia”, si ricorda – chi vuoi che non lo sappia? – che quella è la “più insanguinata strada di Napoli perché la città per cui passa è divisa fra i clan della camorra; le rese dei conti avvengono nei punti di confine, rapide sparatorie, scontri e fughe su motociclette potenti, e, a cose fatte, arrivano i “falchi”, i poliziotti motociclisti o gli “zingari”, come chiamano i carabinieri in divisa nera. I cadaveri non li tocca nessuno prima che arrivino le autoambulanze a ritirarli. Lungo la tangenziale avvengono anche molti scippi classici; due in motoretta che raggiungono la donna con la borsetta a tracolla e gliela tirano via come una frustata“.
Ma che dice, Pina, questo giornalista scrittore e partigiano? Il giornalista che non si ferma giù nell’inferno, non scende là dove i cadaveri si toccano: che storia è mai questa, chi glielo ha detto dei carabinieri zingari e di quello che si tocca? Non scende, no, perché gli basta vedere dall’alto l’oleografica strada che va dall’aeroporto al mare, e mostra in fondo il Vesuvio a gobbe da cammello e raccontare alla gente la favola delle borsette a tracolla e degli scippi sulla tangenziale. Gli basta raccontare con le parole di un tassista che è inutile dirlo, “ha una bella faccia feroce e istrionica“, gli parla del tempo che è cambiato, del “sole acqua” che sta sulla città e non inserisce il tassametro perché vuole rubargli qualcosa sulla corsa: “uno o due euro, purché sia lui a deciderlo, lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi“.

Che vuol dire, Pina, ex sessantottini? Che ogni denuncia del “Comitato genitori e docenti”, in via Piazzolla al Trivio, cadeva sistematicamente nel vuoto e per un miracolo del Signore vecchi malati comparivano d’incanto nei loro lettucci nella nostra scuola data in prestito a inesistenti terremotati ogni volta che a sirene spiegate arrivavano in forza polizia e carabinieri?
Tutto questo ci siamo raccontati in un giorno, un giorno solo, uno di quelli che non sono uguali ad altri e ti lasciano il segno. Quel padre – ricordi? – che ci aveva pregato in un italiano inusuale e stentato di non continuare a denunciare il figlio che non veniva a scuola.
Lavora, gli ho trovato un posto – ripeteva – e cu ‘sti carabinieri ‘o posto chillo ‘o perde!
Il posto ce l’aveva davvero: una bancarella che ufficialmente vendeva sigarette di contrabbando ma copriva lo spaccio di eroina.
Tutto ci siamo raccontati in un giorno. Che la scuola chiudeva, perché ora a sinistra ci si orientava per l’efficienza e i tagli alla spesa pubblica e, a conti fatti, costavamo troppo. Dimensionamento, razionalizzazione, accorpamento erano le parole d’ordine della scuola azienda. Tutto ci siamo raccontati quel giorno, e io ti ricordai – ridesti fino alle lacrime – di quella rappresentante dei genitori in Consiglio di classe ch’era venuta a una riunione affannata e in ritardo, con una creatura stretta tra le braccia, chiedendo scusa a tutti – c’eravamo guadagnati un gran rispetto! – e s’era accomodata al suo posto.
Scusate per il bambino, nun tenevo a chi lasciarlo!
Ma il bambino tutto sporco, che lei teneva in braccio con amore, puzzava in maniera insopportabile e anche di questo la donna si scusò:
Se tornavo a casa per lavarlo, ccà nun ce venevo. E ci tenevo a venire. Sapete come vanno qua le cose. Sono uscita dal portone, pochi metri e hanno cominciato a sparare. Tenevo davanti ‘o cassunetto ‘e zinco da’ munnezza. Voi che avreste fatto al posto mio? Ci ho messo dentro il bambino e me so’ arreparata. E’ per questo che puzza!

Non so più quante volte l’avevamo detto, Pina:
Ma perché non chiediamo il trasferimento? Sono quindici anni che stiamo qua.
Sono stanca, dicesti.
Anch’io, risposi.
Testa o croce, mormorasti, e mi desti la monetina. Croce. E’ il trasferimento…
Un lampo di tristezza.

Uscito su Fuoriregistro il 28 febbraio 2006

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La mia vita da lontano: fili sospesi nel vuoto. Ci cammino come un funambolo stanco che oscilla, si ferma e va avanti, stretto tra il timore di cadere e il bisogno di muoversi, tra la paura di aprire gli occhi e il bisogno di spalancarli per giungere, passo dopo passo nel tempo che gli è dato, dove conduce la strada segnata dai fili. Prima o poi verrà la notte a coprire d’ombra il mio spazio e il mio tempo. Un funambolo sa bene che un giorno cadrà. In piedi su un filo non si può stare mai del tutto fermi ed è impossibile muoversi con passo spedito. Si sta e si va, come un’onda che ruota spinge un’onda e poi un’altra: ciascuna al suo posto e tutto il mare in moto. Si sta e si va, adattandosi alla fatale delusione che ogni equilibrio comporta. Poi uno squilibrio pone fine al viaggio.
La guardo la mia vita – solo così posso farlo – passando per il filtro misterioso della memoria. Ho un punto di vista, un osservatorio precario e l’unico possibile: il futuro subito passato che diciamo presente. Di là guardo il futuro diventato passato: mi scorre davanti, istante dopo istante, e mi meraviglio: è di nuovo un’attesa che andrà delusa.
No, non gioco con le parole.
Il futuro, quale che sia stato, sogno, speranza, incubo o illusione, non ha mai avuto il volto del presente e non è stato mai fermo un istante, mai ne ho colto l’anima, mai l’ho fissato in una successione di fotogrammi. Se n’è andato come un sogno all’alba e mi resta il passato, un sedimento di sogni, un baleno d’illusione, il sapore amaro della delusione, il mito perduto e una triste consapevolezza: indietro non si torna se non con le parole di un racconto.
Torno indietro, quindi. Narro, cantastorie di me stesso, il respiro del tempo: il breve mio tempo di uomo affannato e quello profondo e cavernoso dell’umanità; torno indietro e colgo intrecci impensati, un mondo dentro un altro, come se guardassi una goccia d’acqua al microscopio; torno indietro, ordino eventi, individuo legami, sequenze logiche di cause e di effetti, incontro il caso cinico e beffardo, scelgo nel tempo ciò che penso stia fermo e ciò che pare che avanzi e trascorra cambiando. Cantastorie di me stesso, torno indietro e scrivo: storie nella storia.
Dal mio punto di vista, aperto su un mondo di pupi sorretti da fili, sono fortunato: non so bene per quale inganno ottico, i fili io li ho sotto i piedi. Cantastorie di me stesso, mi reggo da solo e non sono sorretto. Li vedo sospesi nel vuoto, i cavi sottili sui quali ho vissuto e torno ai sussulti di panico, ai soprassalti d’orgoglio, alle rivolte sedate, alla rassegnazione rifiutata, ai patti con me stesso, ai compromessi, all’eterna paura di cadere cercando un equilibrio nuovo. Sono lì, davanti a me, sono io che guardo me stesso su fili che intrecciano fili, e li riconosco: la mia storia e quella di un mondo nel quale hanno vissuto insieme quattro o cinque generazioni, ciascuna col suo tempo, tutte in un unico tempo, entrando o uscendo una ad una dal tempo dell’altra. Ho un figlio, potrei avere un nipote, ho visto uscire dal mio tempo mio padre che non aveva più tempo. Non c’è stato, ma poteva esserci, il tempo di mio nonno che non ho conosciuto. Eppure l’ho visto così presente nella mia infanzia – me ne hanno parlato a lungo mille cantastorie di se stessi – che senza incontrarlo ho ricavato dal tempo suo il senso misterioso della storia che regola il mio oscillante cammino sui fili. E storia del resto era la vita di quel nonno sconosciuto e affascinante che mio padre mi narrava quand’ero bambino:


Papà era un socialista – mi raccontava spesso – amico di Mussolini quando il dittatore dirigeva l’Avanti! e spesso si fermava da “Aragno“.
Era quello per me un linguaggio incomprensibile e magnetico: il duce, l’omicidio Matteotti, la lotta antifascista, il comandante Giulietti – che mio padre trasformava in Giolitti – un organizzatore sindacale della “gente di mare” che aveva sistemato mio nonno al “punto franco” nel porto di Napoli; e mio nonno stesso – “ fuoruscito” diceva mio padre con orgoglio – si faceva magnetico e incomprensibile: un uomo che non scappa per paura, no, tutt’altro, uno che scappando ha coraggio. Due nani erano al confronto lo squadrista e il poliziotto che lo attesero per anni sotto il portone di casa e un giorno svanirono nel nulla. Tenevo per me mille domande e giungevo subito al cuore del problema:
Perché sparirono? Domandavo puntualmente come se già non sapessi. E puntuale giungeva la risposta:
Perché era morto. L’avevano ucciso. Non sappiamo nemmeno dove lo seppellirono.
Troverò la tomba del nonno, concludevo ogni volta che mio padre smetteva di raccontare. E sul suo viso bruno lo sguardo schietto si faceva luminoso.
Le prime, confuse lezioni di storia le ebbi così: una vicenda ripetuta mille volte, sempre nuova e mai definitivamente conclusa, un nonno ucciso e mai sicuramente morto, un assassino feroce, ignoto e, ciò che più mi colpiva, fino a prova contraria innocente, un tempo lungo che oggi vogliamo breve e, sullo sfondo, due fedi contrapposte, il socialismo e il fascismo, che ormai, al mercato delle pulci hanno lo stesso prezzo svilito e un’etichetta che le rende assurdamente uguali, come uguali potessero essere Lutero e Sant’Ignazio, solo perché ebbero entrambi a che fare con la religione. Sullo sfondo quel socialismo, per cui un uomo poteva scegliere di morire, e il fascismo, origine d’un odio così feroce da ridurne un altro ad ammazzare i compagni. Il rosso e il nero, valori contrapposti in un tempo lungo. Qualcuno anni dopo mi avrebbe raccontato del secolo breve e dei danni causati dall’ideologia: il secolo breve, proprio così, breve, in modo da mettere quanto più tempo possibile tra un tempo nato vecchio ed uno nuovo per definizione, tra un male e un bene nettamente scissi tra loro, come se fosse possibile annullare il legame che c’è tra l’essere e il non essere, come se potesse esistere un male senza che ci sia il bene e viceversa, un bene senza male. Secolo breve, certo, per ingannare e ingannarsi, come se il tempo della storia potesse nascere e morire là dove comincia o finisce un segno sul calendario.
Aragno e Mussolini, storie nella storia, storie di uomini nella storia dell’uomo. Carne ed ossa nel loro tempo né breve né lungo, incantarono misteriosamente la mia giovane fantasia, che presto rifiutò le intollerabili dosi della sciapita pappina scolastica, tutta massacri e truculento amor patrio, tutta politici e generali sorti dal nulla e divenuti arbitri tra destini d’uomini e fortune di popoli. Quando mi resi conto che la preistoria amazzonica e australiana vivevano assieme alla sofisticata tecnologia degli “sputnik”, mi sembrò che la linea del tempo fosse solo una stupida astrazione e sentii fino in fondo le ragioni di Diogene e della sua lampada:. in una storia fatta di morti risultava impossibile trovare la tomba di mio nonno. Sepolto dagli eventi di cui era stato protagonista, l’uomo scompariva.
Come un filosofo, mio padre mi aveva involontariamente insegnato che la storia della civiltà ha le mille sfumature della vita degli uomini. Di essi, tuttavia, nei libri di storia trovavo raramente traccia. Tutti i quanti i plebei messi assieme non avevano il peso di un Menenio Agrippa, le molte pugnalate patite da Cesare cancellavano completamente lo strazio di Vercingetorige, Alesia era un nome geografico e non un bagno di sangue, Roma non era mai chiamata a vergognarsi per Spartaco, le persecuzioni subite dai Cristiani avevano il nobile volto di Pietro e Paolo e rimandavano alla follia di Nerone, ma non intaccavano il mito della “patria del diritto” e non davano nome e volto alla sventurata gente di Linguadoca. Allo stesso modo, il Concilio di Trento aveva un’assoluta preminenza sui milioni di senza nome macellati dal Sant’Uffizio, l’Asiento era tutt’al più la causa di qualche guerra ma non segnava a fuoco col marchio dell’infamia l’Occidente schiavista e non è certo un caso che gli schiavi abbiano avuto bisogno d’un letterato per acquistare un nome e un volto; di fatto, però, essi sono tutti Tom e il loro posto è una capanna che non fa ombra a quel mito americano per il quale Buffalo Bill può tranquillamente essere un clown da circo equestre e i pellerossa ebrei di seconda mano per i quali la storia può serenamente smemorarsi.
Studente di materie letterarie a Salerno, divenni maestro senza aver risolto i nodi ingarbugliati del mio complesso rapporto con la storia. Tornato a casa dai “Censi” senza un’oncia di forza, preparavo gli esami con scrupolo, ma l’università potevo frequentarla veramente poco. Il corso pomeridiano di storia contemporanea però non volli perderlo e feci miracoli per non mancare. Se ne diceva un gran bene e un gran male e se ne discuteva persino sulla stampa. Lo teneva un gran nome, un comunista che, uscito dal Pci dopo i fatti d’Ungheria, s’era dato anima e corpo allo studio del fascismo, aprendosi strade impensate tra memorie di protagonisti e carte d’archivio, ma non s’era lacerato le vesti per i marines a Santo Domingo, per il moltiplicarsi delle repubbliche delle banane, per la Baia dei Porci, per il napalm Vietnamita o per la libertà uccisa dal dollaro a Santiago del Cile.
Non c’è nulla che ci aiuti a diventare adulti più che il dolore d’una cocente delusione. Così si dice ma è un luogo comune falso e meschino: le delusioni ci incupiscono e il dolore ferisce. Di quel corso di storia contemporanea che mi vide andare avanti e indietro da Napoli a Salerno per mesi e mesi ho ricordi splendidi, ma ciò che ne seguì prese la forma della contraddizione che spezza fili dentro.
Seguii col respiro sospeso. Non mi associai al consenso mostrato in aula da moderati servi sciocchi a caccia di un voto da scroccare, non condivisi le critiche saccenti dei futuri scienziati della borghesia che, fuori dai corridoi, censuravano arditamente il “venduto passato a destra” e si preparavano ad appendere ai pali della luce i “nemici del popolo”. Non ho mai amato le mille controfigure di Che Guevara che si riempivano la bocca di un gergo da iniziati, storcendo le labbra e pontificando sullo spontaneismo anarchico o si atteggiavano ad avanguardia proletaria esaltandosi al ritmo di slogan ritmati il più lontano possibile dall’aula di storia: “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tsé Tung!”.
L’uomo mancava di fascino. La fronte, ampia sotto i capelli grigi tirati verso la nuca, si separava troppo bruscamente dagli occhi vivaci, intelligenti, cerchiati e luciferini; il naso grande e aguzzo si allungava fino al disegno delle labbra che, nello sforzo di tenere stretto l’eterno sigaro, si inarcavano costantemente verso l’alto, segnando il viso con un’aria involontariamente clownesca; il collo era corto, la vita larga e le mani nervose diventavano adunche quando aiutavano il pensiero. Non aveva fascino, ma sapeva ricostruire un evento, inserendolo in un contesto e non una parola era detta a caso: dietro ogni fatto citato c’erano prove e documenti. La storia del fascismo che ci raccontava era un mosaico che teneva conto delle tessere più minute.
I particolari, sottolineava sorridendo, sono essenziali. Occorre tener conto anche di quelli che sembrano fuori tono. La realtà italiana negli anni del fascismo fu complessa e articolato fu il fenomeno. Non capireste l’Italia vedendola superficialmente come una realtà unitaria e non capirete il fascismo se lo estranierete dalla complessità che pone le sue componenti in un rapporto tra loro dialettico. Se è moralmente consentito distinguere nell’antifascismo concezioni politiche, interessi, personalità, illusioni e fantasie, è e deve essere moralmente consentito cercare differenze tra Grandi, Farinacci e Mussolini, senza per questo doversi difendere dall’accusa di voler riabilitare il fascismo o il suo capo.
Storie nella storia, pensavo, mentre il viso molto pallido del professore si tingeva di un rosa vivo. E mi pareva che la sua strada conducesse alla tomba di mio nonno.
Un giorno ci spiegò che Croce aveva sentito sempre così viva la repulsione per il fascismo che non aveva mai voluto scriverne: gli ripugnava troppo.
Tuttavia, aggiunse, il filosofo napoletano ammise la necessità di rendere aperta giustizia a quanti si diedero al fascismo mossi non da vili interessi, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene immaturi e privi di equilibrio critico.
Ne ricavai l’idea che essere uccisi da banditi da strada è assai meno onorevole che finire per mano d’un nemico che ha fede, sebbene riponga il suo credo in un ideale omicida chiaramente scellerato. Mi sembrò che la lampada di Diogene avesse diretto la sua luce su segni di presenza umana e che la vicenda Mussolini-Aragno si dirigesse verso una via capace di renderla comprensibile. Intuivo però che, per giungere davvero alla tomba di mio nonno, occorreva evitare che fascismo ed antifascismo fossero considerati una vicenda storicamente conclusa e collocata nel passato. La questione del tempo – mi venne di pensare – è essenziale nella storia: il passato concluso perde la sua attualità e non aiuta a decifrare il presente. Indietro si torna se non con le parole di un racconto: ma a che serve raccontare qualcosa che proprio non ci riguarda più? Pensarlo e dirlo fu una cosa sola.
Posso fare una domanda?
Certo.
Ritiene che una nuova interpretazione del fascismo, professore, quale che essa sia, possa prescindere dai valori morali e politici che sono alla base della realtà del nostro tempo e della nostra Carta costituzionale?
Il giudizio morale non compete allo storico.
La risposta secca non consentiva repliche e dentro mi rimase la sensazione di una ambiguità. La lampada di Diogene smise di dare segnali: l’uomo era evidentemente ancora tutto da scoprire. L’esame orale, dopo quello scritto, si aprì con una bellissima sorpresa. L’assistente, dopo avermi chiamato, lasciò che sedessi, poi si rivolse al titolare:
Professore, questo è Aragno.
Il sorriso che ormai conoscevo si aprì verso di me con una curiosità compiaciuta che lo rese affettuoso:
Lei è parente degli Aragno proprietari del famoso caffè letterario?
Uno era mio nonno, ma non l’ho conosciuto. Fu amico del Mussolini socialista, ma morì prima che nascessi, molto probabilmente ucciso dai fascisti.
Lei ha fatto un compito scritto molto interessante, ha due esami di storia contemporanea e sta facendo la tesi col mio assistente. Le piacerebbe venire qui a lavorare con noi dopo la laurea?
Il viso del professore s’era fatto d’un tratto ammaliante. Toccai il cielo con un dito e acconsentii senza esitare.
Non le prometto molto, aggiunse, ma un posto di esercitatore lo troviamo. Si faccia vedere appena ha terminato. Mi racconterà di suo nonno. Ci tengo molto.
La strada per l’università non mi era parsa mai così ridente come quando passai il ponte sull’Irno e girai a sinistra verso la palazzina tutta nuova dove mi attendevano per prendere accordi e cominciare. Due mesi dopo il professore mi aveva già aperto la sua casa, la sua biblioteca, i suoi preziosi documenti e mi aveva offerto un’amicizia calda e imprevedibile. Mi pare di vederlo ancora davanti al cancello della sua casa romana a Monteverde, mentre mi veniva incontro sorridente, in canottiera, e mi accoglieva nello studio ingombro di libri e carte fino all’inverosimile. Su di una mia ricerca discutemmo per un anno ardentemente e fu per me una guida davvero preziosa. Ascoltava, sorrideva, prendeva tempo, mi invitava a prenderne, rifletteva, mi induceva a riflettere, leggeva e infine valutava:
Ora va davvero bene. Ma c’è un punto che chiarirei.
Ed era certamente un nodo che non avevo sciolto.
Su questo episodio dovrebbe esserci qualcosa di interessante in archivio.
E c’era di sicuro una carta da scovare.
Ti sarà utilissimo questo libro. Te lo presto – mi diceva scherzando – ma guai a te se non me lo riporti: non se ne trova una copia in tutt’Italia.
Andava a colpo sicuro tra migliaia di volumi, tirava fuori il suo tesoro e me lo consegnava con un’aria festosa che mi faceva sorridere.
Gli spiaceva che fossi comunista, ma era convinto che studiando avrei scelto altre vie. Io scuotevo il capo e replicavo che non sarei mai passato in campo liberale. Gli dicevo quello che pensavo e sosteneva che il dissenso non creava barriere tra noi; era evidente però che lo preoccupava.
Questa tua idea di una superiorità etica dei valori dell’antifascismo – mi ripeteva continuamente – è una posizione da militante. Tu rischi così di far prevalere il momento etico su quello scientifico.
Io mi difendevo con estrema semplicità: non credo alla neutralità dello storico, sostenevo convinto. Prendevo quel suo rimprovero come la lezione d’un precettore a un alunno che stima, ma non sentii mai pesare il potere che pure possedeva e non mi pareva mai di essere chiamato a scegliere tra “carriera” e valori. Certo, un velo gli passò negli occhi una volta che il discorso cadde sul consenso conquistato dal fascismo nel paese.
Un’opposizione inesistente. Ridotta a nulla senza ricorrere ai gulag, Aragno. E’ questo che conta. I numeri parlano chiaro.
Dopo le manganellate e l’olio di ricino, dopo il confino e il tribunale speciale. Col rischio del licenziamento e una famiglia da mantenere. Cose banali forse, ma i numeri non dicono ciò che pensa la gente. A casa mia, professore, ci furono balilla e piccole italiane. Non ci fu un fascista.
Quando giudicò concluso il mio saggio e mi annunziò che l’avrebbe pubblicato sulla prestigiosa rivista che dirigeva, mi sembrò di aver ottenuto una sorta di consacrazione.
Devi aver pazienza. L’anno prossimo verrà il tuo turno. Per quest’anno sulla rivista non c’è un rigo libero.
Un anno dopo lasciò Salerno per Roma e raccomandò il suo giovane pupillo a tutti quelli che contavano:
Trattatemelo bene. Ci tengo.
Ci sentivamo per telefono assai spesso e le volte che andavo a fargli visita a Roma aveva sempre strade da indicarmi e ricerche da avviare. Una volta, però, mentre sedeva alla scrivania con l’aria molto stanca, mi guardò sorridendo e confessò: sai una cosa? Guardandomi allo specchio stamattina ci ho visto Mussolini.
Scossi la testa, pensando agli antifascisti lasciati da poco in archivio:

Tutti abbiamo dentro i nostri fantasmi, professore. Se fanno compagnia va bene. Se no, occorre liberarsene. Dicono che Montesquieu abbia lavorato per decenni al suo “Spirito delle leggi”. C’era sempre qualcosa da rivedere e non si decideva mai a concludere. Domani si ripeteva, ma quel domani non veniva mai. Fu così che un giorno si accorse di avere un demone dentro. Si accostò al manoscritto, aprì l’ultima pagina ed esclamò: tu hai deciso di vedere la mia morte e io ti uccido. Prese la penna e scrisse la parola fine.
Rimase pensoso e non rispose. Se il suo duce gli fosse entrato davvero fin dentro il cuore, come il demone di Montesquieu non saprei dire. Cercava più carte di quante ne servissero e, fra tutte, sceglieva sempre quelle che aprivano uno spiraglio e chiudevano porte. Se due parole servivano a giustificare, tutte le altre finivano nella penombra di frettolose note in calce: un muto elenco di carte.
L’ultima volta che l’ho visto a casa sua aveva l’ombrello aperto nel giardino di casa. Pioveva e mi aveva accompagnato al cancello. Salutandomi mi assicurò:
I tuoi sindacalisti rivoluzionari sono al varo. Nel prossimo numero stampo il tuo saggio.
Aveva il solito viso sorridente e mi poggiò la mano sulla spalla. Nessuno dei due poteva immaginarlo quando il cancello si chiuse quel giorno dietro di me come tante altre volte prima: il filo che ci aveva uniti era logoro e stava per spezzarsi. Eravamo delusi. Mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo e si era accorto che non sarei mai stato un suo allievo. Io, che gli dovevo molto e gli volevo bene, sapevo che non l’avrei mai considerato un maestro. Scrivere di storia in fondo è un po’ come andare in trincea: il cuore è nel presente. Il suo Mussolini e il mio Aragno, irriducibili avversari da vivi, erano incompatibili da morti. Stanco della mia indipendenza – frequentavo compagnie accademiche che riteneva selezionate apposta tra i suoi peggiori nemici – il maestro scelse la via chirurgica.
Il saggio non uscì: bisognava rifarlo – troppo il tempo trascorso – e all’università occorreva scegliere: o lasciare la scuola o andare via.
Il ponte sull’Irno non era mai stato così triste come quando me ne andai. Nel cortile tardi epigoni del Sessantotto, che da tempo straparlavano di diciotto politico e di esame di gruppo, trovarono il coraggio di appiopparmi l’etichetta che non si erano mai permessi di tirare fuori:
il fascista va via.
In cattedra poco dopo andarono gli “apprendisti di bottega”, alcuni dei tardi sessantottini che mi dopo avermi chiamato fascista impararono a ragionare con moderazione, rinunciando ad appendere in piazza i nemici del popolo.
Non ci contavo, più, ma molti anni dopo il vecchio professore si accorse di me.
Ha pubblicato una bella recensione sui tuoi socialisti – mi informò qualcuno – e nel tuo libro ha trovato uomini e non solo fatti.
La lessi: “ C’è una concezione alta e indipendente della vicenda storica, c’è la passione dello storico militante e ci sono ricerca e documenti“. Sorrisi amaramente.
Il telefono della casa a Monteverde non era cambiato.
Aragno, che piacere!
E sembrava sincero.
Volevo ringraziarla per la recensione. E’ bella.
E’ bello il tuo lavoro. Ora non potrai negarlo, avevi bisogno di maturare.
Può darsi, replicai. Tutti ne abbiamo bisogno. Una cosa però voglio dirgliela. Lei mi ha insegnato davvero molto di quello che so: ho imparato da lei come si fa ricerca. Il saggio che mi restituì, però, non l’ho rifatto. Così com’era poi divenne un libro. Ci aggiunsi un paio di capitoli e a Salerno lo adottarono come testo d’esame.
Stette un attimo zitto, poi esclamò cordialmente:
La mia rivista è a tua disposizione. Se scrivi qualcosa mandamelo.
Troppo tardi, avrei voluto dirgli. Ho lavorato e scritto molto. Fuori dei circuiti accademici però si incide poco. Ma come spiegarglielo? Avrei rischiato di sentirgli ripetere la lezione sulla neutralità dello storico e sui rischi che il giudizio etico fa correre alla scientificità della storia.
Non gli mandai nulla e non lo rividi mai più: un anno dopo morì.

Uscito su “Fuoriregistro“, il 7 luglio 2005.

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I “Censi“a Secondigliano non esistono più da una vita; li ha cancellati la ruspa alla fine degli anni Settanta quando il Comune avviò il “Piano di recupero delle aree periferiche” che, bella incompiuta, s’è perso sulla soglia di un limbo: dove i sogni muoiono e nascono gli incubi. Sulle macerie dei “censi“, tra “recupero” e terremoto dell’Ottanta, vennero su, come per incanto case popolari e una camorra da società dei consumi che non ha niente da spartire con l’onorata società di lazzaroni e guappi. E, d’altra parte, i “Censi” non avevano nulla a che vedere con la periferia napoletana e col vicino deserto cementificato di Scampia, coi palazzi troppo alti per essere considerati semplici caseggiati e troppo bassi per sembrare grattacieli. Nulla a che vedere, in fondo, nemmeno con le bestie che si vanno facendo la pelle per istinto ferino, mentre cronisti di ultima generazione si ingegnano a raccontarceli come fossero uomini che hanno pensieri. E’ questo il nostro tempo, questo il futuro che si è fatto presente: un incubo nuovo nato per non aver futuro. Questo è il nostro mondo. I “Censi” no. Fondete in un corpo rachitico la miseria, l’ignoranza e la rassegnazione, radicate nell’ombra di ripugnanti tuguri marciti assieme alla povera gente che ci abitava l’aborto che ne viene fuori, ed ecco i “Censi” come li vidi per la prima volta, negli anni Settanta del secolo scorso, addensati inspiegabilmente tra il cimitero, gli stucchi umbertini, stinti ma pretenziosi, dei palazzoni di Corso Italia e gli alveari anonimi e degradati di Via del Cassano: viuzze parallele nate nel ‘700 e, tra un vicolo e l’altro, file di casupole affacciate su entrambe le strade, anticamente destinate a depositi e scantinati. Un agglomerato di terranei irregolari che la stagione faceva gelati o bollenti, cupi, asfissiati in dedali scivolosi e grovigli di umanità diffidente che pareva straniera e ti seguiva con la coda degli occhi fino a quando poteva.
Così, con la sensazione d’essere seguito li attraversai per la prima volta – e così ci passai da allora quasi ogni giorno per sei anni, solo che gli sguardi che mi seguivano s’andarono facendo via via affettuosi – così me li lasciai alle spalle, attraversando per la prima volta via Tagliamonte, prima di sbucare su una spianata di terra battuta, coperta di radi ciuffi d’erba di un verde tendente all’olivastro, che aveva al centro due prefabbricati grigi con mille finestre dai vetri rinforzati, circondati a loro volta da un muro di tufo, preso in mezzo da cumuli d’immondizia, carcasse d’auto, bidoni anneriti dal fumo di notturni falò, tende, roulotte e zingari accampati. Una specie d’inferno, stretto d’assedio da gipponi della celere e agenti in tenuta antisommossa, che facevano da argine a una folla inferocita.
Non fanno a tempo ad andarsene via questi – mi spiegò poco dopo il direttore didattico – e ne arrivano altri. La mia vita da insegnante, per me che da studente avevo sbattuto la porta promettendo di non mettere mai più piede in una scuola, cominciò così, tra zingari recalcitranti, mamme inviperite, celerini pronti all’assalto e bambini di prima elementare che entravano in classe e si smarrivano, scavalcando timidamente compagni sdraiati a terra che, avvinghiati alle caviglie delle madri urlanti, singhiozzavano la loro disperazione per quel primo giorno di scuola che ci metteva insieme perché il destino è beffardo. Lo seppi subito, ne fui immediatamente certo, mentre mi perdevo dentro quegli occhi disperati, capaci di parlare molto più che le bocche: la scuola che avevo odiato mi avrebbe ancora profondamente ferito. E però l’avrei amata.
Erano giorni di gran fermento e ad ogni svolta le bombe incrociavano la crescita sindacale, la protesta giovanile e le riforme quasi leniniste che, intaccando le “strutture“, avrebbero dovuto condurci per forza – la formula era allora usuale – ad un cambio di sistema. C’era chi già ne vedeva i segnali e chi ci faceva su i conti, sciorinando il bel parlare della sinistra colta, che se ti scegli il tempo e l’occasione, trasforma la piazza e il movimento in palazzi e poltrona.
La grande “vittoria” dei Decreti Delegati stava producendo la scuola di massa.
Ai “censi” la “democrazia partecipata” ebbe subito vita animatissima: per un anno i genitori colti – ce n’erano più di quanto pensassi – occuparono il potere sull’onda del voto politicizzato e di una polarizzazione sinistra-destra che consegnò, come assai spesso accade, la direzione dell’orchestra all’equilibrio attendista di che si tiene al centro. A destra ci furono lotte dure per cacciare pidocchi e pidocchiosi dalla scuola in nome di un classismo arrogante ed elitario, e lotte durissime ci furono a sinistra per tenerseli, pidocchiosi e pidocchi, in nome di un nobile ed astratto egualitarismo. A centro non si lottò e non si fecero proposte, ma il prete in parrocchia consigliò moderazione alla destra e concretezza alla sinistra. In definitiva, il destino dei pidocchi non fu mai scisso da quello degli sventurati pidocchiosi, ai quali, tuttavia, un ogni occasione elettorale, tutti regalarono pettini stretti, aceto e certa miracolosa polvere bianca in barattolini verdi bucherellati, e tutti chiesero il voto, quale che fosse il “colore politico“: si votasse per il consiglio di Circolo o per quello Comunale, per la Provincia o per il Parlamento, il voto ai pidocchiosi dei “Censi” lo chiesero tutti. Ho conosciuto maestri che così hanno iniziato la scalata e qualcuno è salito anche in alto, barcamenandosi tra destra, centro e sinistra. Le lotte feroci – quanto futuro c’è sempre nel presente che si fa passato e quanta storia dell’uomo viviamo senza capire che è storia – furono interrotte solo da significative alleanze contro gli zingari, che tutti volevano mandar via, quale che fosse il pulpito dal quale si predicava – e contro il corpo docente, spaesato dalla rivoluzione della scuola di massa e in buona parte cialtrone nel mimetizzarsi. Sì arrotondò il corpo docente, si ammorbidì, si fece flessuoso e viscido come quello d’un verme e si arroccò istintivamente su ideali centristi e interclassisti fondati sulla nostalgia per i bei tempi andati, lo schifo per i pidocchi della scuola di massa – che era il corrispettivo concreto dello schifo ideale nei confronti delle masse – e benedisse i furbi, quelli che aprirono contenziosi su servizio e carriera e giunsero ai sindacati di classe – dirigenti s’intende – scollati dal mondo operaio, alfieri delle riforme democratiche, sempre più contingenti e meno strutturali, degli esoneri a vita per i quali spendere ogni energia. Presto la “società civile” piantò baracca e burattini e si rivolse al privato.
Per suo conto, il Direttore Didattico, che non giunse mai ad essere dirigente e nemmeno si sognava il futuro manageriale che gli preparavano i suoi colleghi diventati controparte sindacale, impiegò tutto il suo coraggio di ex combattente per far quadrare i conti, ma alla scuola di massa mancò sempre qualcosa, dai bidelli agli arredi, dalle aule alla palestra, dai laboratori ai sussidi. Tutto o quasi e, alla fine, gli insegnanti male educati alla massificazione, tennero la posizione meglio che altri. La “democrazia partecipata” si spense col tempo, nella solitudine degli Organi Collegiali, nell’assedio invincibile di zingari, copertoni e carcasse d’auto rubate, nello scontro al coltello con lo stipendio da fame e nella consapevolezza che, appena avviate, le riforme di struttura chiudono l’onda alta delle stagioni del riformismo.

L’ispettore che mi giunse in classe al biennio – inequivocabilmente uno scienziato della borghesia nel campo degli studi umani – non si annunciò. Mi si disse poi che usava farlo con le colleghe per renderle disponibili a transazioni. Non chiesi e non so dire quale utile commercio abbia mai combinato, ma era la sua via. Chiese ai ragazzini irrequieti l’inno d’Italia e non ebbe risposta, trovò che quasi tutti scrivevano buoni pensierini ma nel dettato erano scadenti – questioni di velocità ignorate, non saprei dire con quanta consapevolezza – e si fissò sul suo impeccabile abbigliamento:
Di che colore sono i pois della mia cravatta?
Rivolse la domanda a Iavarone, seduto nel panico al primo banco, e gli occhi neri fattisi inespressivi lo irritarono. Ci riprovò con Bruognoli e Marani, due di quelli bravi, e fu silenzio di tomba. Prima che aprisse nuovamente bocca, lo bruciai sul tempo.

Statemi a sentire. L’ispettore vò sapè ‘o culore de’ palle ca tene ncopp’a cravatta.
Rosse e gialle! Rosse e gialle!
Un coro.
Ispettore – gli dissi indicando i ragazzi – questi sono dei “censi”. Il francese non lo conoscono e i pois li chiamano palle!
Un lieve tic all’occhio fu la reazione. Io ero impallidito per un’ira improvvisa e incontenibile:
– Lo metto fuori, pensavo. Caccio fuori lui, la cravatta e i pois. Così se ne ricorda e impara.
Se ne andò invece da solo, brontolando un saluto indispettito, con i miei registri sottobraccio, leggendo ad alta voce le prime parole di una programmazione: “Qui è legione straniera. Un avamposto nel deserto. La scuola c’è per segnare un possesso: territorio della repubblica. Ci manca tutto, comanda la camorra. La mia cultura non serve: sto imparando il mestiere sulla pelle degli alunni“.
Quando il Direttore mi chiamò, mentre i ragazzi ordinati in fila mi salutavano affettuosamente e Marani mi chiedeva dei compiti in italiano, aveva un’ombra nello sguardo.
Era un uomo corpulento. Alto, stempiato fino ad essere quasi calvo, biondo ancora benché vicino alla pensione, aveva occhiali dorati dalle lenti spesse, occhi azzurri vivissimi sopra il naso grande e le labbra curve in basso disegnavano una piega amara. Si agitò un attimo, nel grigio doppiopetto trasandato e poi sbottò:
Ma che mi hai combinato? Se n’è andato come un pazzo! Gliela do io la legione straniera! Gliela do io! Un pazzo pareva.
E non faceva niente per nascondere un’ilarità compiaciuta e complice che gli sollevava la piega della bocca fino a disegnarvi un sorriso.
Dice che il biennio non lo passi – proseguì provando a farsi serio – Io però sono stato chiarissimo. E’ giovane. La forma non è quella giusta, ma la sostanza c’è. Avresti dovuto vederlo: se n’è andato furioso, ma non farà il cretino. Non ha gli elementi e lo sa.
Gli dissi delle palle sulla cravatta. Prese a ridere, si congestionò, tossì come un pazzo e riprese fiato accendendo una sigaretta che lo rimise miracolosamente in sesto.
Con i ragazzi trovati in prima giunsi fino alla quinta. In prima, quando si fu a Natale, non ce n’era uno che leggesse o scrivesse. Grandi cerchi fuori dai righi, ominidi stilizzati come se ne trovano a volte nelle caverne del paleolitico, dipinti da macchiaioli e impressionisti era tutto quanto avevo ottenuto seguendo una “Guida per il maestro” pensata per un ragazzo tipo che non prevedeva i “Censi” ed ero disperato. Le classi “buone” facevano progressi, il ghetto nel quale m’ero chiuso vegetava tra gli zingari e i pidocchi. Mi volevano un bene dell’anima, si sforzavano di seguirmi e facevano miracoli di disciplina. Profitto zero e prese a divorarmi un’ansia che non aveva nome. La notte sognavo segni e disegni dell’alfabetiere, mi svegliavo col cuore in gola e la fronte sudata e mi calmavo preparando gli esami per l’università.

Il miracolo avvenne a fine febbraio, dopo un baleno accesosi negli occhi solitamente spenti del povero Bocchetti, che mi portò trionfante un foglio tutto parole uguali ma corrette. Balbettava un poco di solito, Bocchetti, e se la doveva vedere con un tremito nervoso che diventava invincibile quando i compagni gli facevano il coro, ma quella volta fu fermo e deciso. In un quadratino in alto a sinistra, com’era prescritto dalla “Guida“, aveva disegnato in maniera accettabile un bel topo pasciuto acquattato sulla lunga coda sottile e la pagina era piena di ordinatissime ti: maiuscole, minuscole, in corsivo e in stampatello. Tutto preciso. Tutto pulito.
Bravissimo! – gli dissi sobbalzando – E che hai scritto?
Prufesso’, la z di zoccola! Rispose con la luce negli occhi.
E luce si fece così nella mia povera testa confusa. Per quei ragazzi il topo aveva due nomi: sorice o suricillo se si trattava di un topolino, zoccola o zucculona se le dimensioni si intendevano grosse. Era terra straniera.
Lavorai per un giorno e una notte e quando fu tutto finito ero uno straccio, ma ai “Censi” giunsi all’alba. Le tende degli zingari erano accerchiate, la celere si schierava e circondava la scuola, io però non ci feci caso e come un fulmine tappezzai l’aula di nuovi cartelloni. La z di zoccola ebbe il posto d’onore, ma a fianco, a scanso d’equivoci, misi e tenerle compagnia un vivace suricillo con le sue invitanti e colorate letterine: s maiuscola e minuscola, in corsivo e in stampatello. Più in basso trionfavano due gatti stampati con cura su due cartelloni diversi, uno bianco e nero, uno fulvo, con le inequivocabili iniziali: la i di iatta e la m di mucillo. Questo era il gatto dei “Censi“: ‘a iatta e ‘o mucillo. Una botte marrone con le sue doghe nere evocava, senza possibilità d’errore, la v di votta, un’oca grande e grossa stava lì per la p di paparella, cui tenevano compagnia una balena, che con la p di pesce confermava la p di paparella, un frate francescano che insegnava la zetaze’ monaco ai “censi” era un purismo – e via così, doppi e tripli cartelloni che in poco meno d’un mese misero la lettura e la scrittura tra le conquiste dei miei caprioleggianti ragazzi e allentarono la molla della tensione che nelle mie notti sempre più agitate rischiava di spezzarsi.
Quegli anni non furono mai rose e fiori ma divenni maestro. Non domandatemi quanti errori feci e che danni. Andò come poteva andare. Mi vollero bene, li amai. Ignoranti e di cuore, vivevano in un ghetto e, tranne miracoli, non avevano futuro, ma sul viso spesso pallidissimo compariva ancora con frequenza il rosso improvviso dell’imbarazzo, della vergogna e della timidezza. Negli occhi c’erano l’innocenza dell’infanzia che un velo talvolta appannava, perché l’insidia della vita era già nota, la luce dei sogni che una parola bastava a spegnere, una timida domanda di affetto contrastata da un’ombra nascente nei momenti delle apprese violenze. Nessuno era ancora perduto. C’erano ancora in loro re e principi, galantuomini e sognatori, scrittori arguti e pittori geniali, l’arte e la scienza, l’umanità incorrotta. Tutto il bene del mondo era dentro di loro. I loro padri erano invisibili, le madri a trent’anni già vecchie.

Attorno il veleno della “società civile” ci assediava assai più che gli zingari e la celere. Sullo slargo dopo Via Tagliamonte i cortei di protesta che scuotevano la città non sono mai giunti. La politica era il piano di recupero delle periferie che mise i suoi ghetti di cemento al posto dei formicai, era la licenza di funzionare concessa alla scuola privata che accoglieva i figli dei borghesi benpensanti e convogliava a centro voti progressisti; la politica era il favore chiesto in cambio del favore, il voto che valeva lavoro, il commissario governativo per gli esami di stato scelto ad arte tra chi era disposto a non vedere o sentire, o il commissario governativo che non sarebbe stato mai più chiamato perché aveva voluto vedere e sentire e la “busta” l’aveva rifiutata. Troppo giovane e impulsivo – si disse – un immaturo, che ancora non ha imparato a non creare inutili imbarazzi, che tanto poi non serve.
Promisi a me stesso di non imparare, rimasi immaturo e mi feci una buona reputazione tra la gente, ma un alunno di certo lo persi. Uno piccolo di statura, che ogni giorno annunziava: ‘‘o Mecedes là fore me piace. Dimane voglio vede’ comme cammina.
Un giorno i carabinieri inseguirono per un’ora un’auto di grossa cilindrata. Girarono a sirene spiegate per tutto il quartiere: al volante non c’era nessuno, ma era come la guidasse un pilota di formula uno. Quando strinsero la Mercedes tra muro e marciapiede, Esposito Gennaro, era sdraiato al posto di guida. Toccava i pedali con la punta dei piedi e teneva il volante tra le mani dio solo sa come. Vedeva giusto avanti e gli bastava.
Il giorno dopo era sulle prime pagine dei giornali e a scuola mi guardò per sfidarmi:
Ve l’avevo ditto.
Sulle prime pagine tornò anni dopo: finito all’ergastolo per una rapina. Aveva ucciso il custode di una fabbrica con una fucilata.
Degli altri non ho saputo più nulla. Passai alle medie e ai “Censi” non ci tornai più. Me li sono portati dentro per sempre. Ce li ho ancora, anche oggi che non esistono più.

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Da bambino mi affacciai raramente nella parte di pianeta abitata dalle donne. Mi ci accostavo inquieto, come una barca che affronta la burrasca, e tornavo di corsa sui miei passi, senza voltarmi indietro. Ogni volta, però, tornato al riparo, mi portavo negli occhi le illusioni soavi di un caleidoscopio, tutto vetri e pietruzze rilucenti: nulla che avesse a che fare con il sesso, di cui non sapevo e che non riconoscevo nemmeno in mia madre, angelo e diavolo che abitava l’inferno e il paradiso. Una donna era per me l’abito che indossava – vissi in un tempo di insuperabili discriminazioni sessuali in fatto d’indumenti – e, in quanto al resto, tutto ciò che in qualche modo conducesse l’abito al corpo che copriva, mi risvegliava il dolore misterioso d’una ferita invisibile e profonda, un graffio nella mente, un colpo antico, inferto a tradimento da un coltello inatteso, in una notte mai più terminata, alla fine d’una corsa impazzita, negli anni dell’infanzia violentata. Per un po’, di quella ferita, sentii con orrore il calore del sangue che colava e rimasi atterrito, ma presto lo stillicidio trovò canali interni in cui defluire e sfuggì alla guardia dei sensi, benché mia madre cucisse e ricucisse la ferita con l’ago e il filo doppio delle sue accuse a mio padre, che di ago e filo doppio si serviva a sua volta replicando.
Come un baco da seta che si imbozzola, chiusi nel sangue raggrumato di quella ferita il coltello che me l’aveva inferta e, nel fondo irraggiungibile dell’animo, rimase il bozzolo infetto di sangue annerito. Emise a lungo un fetore di fogna, acuto e nauseabondo, e, prima di sparire, mi procurò, negli anni della mia agitata adolescenza, un’inquietudine frequente e devastante; ne coglievo i sintomi improvvisi nel fastidio causato dal muoversi incontro, dal reciproco curvarsi, o anche solo sfiorarsi, di abiti maschili e femminili, dentro i quali cominciavo a riconoscere uomini e donne, nel palpitare agitato del cuore in petto di fronte ai gesti e alle parole dell’amore intuiti nell’ombra di un vicolo, disegnati su locandine dei film, persino nell’abbraccio di parenti: in tutto ciò che avesse odore o colore di contenuti d’abiti avvicinati. Non so perché, eppure l’inquietudine si fece tormento, quando un moto vitale mi prese e mi spinse curioso ad esplorare la mia ancora inconsapevole mascolinità ed a giocarci con puerile lascivia. Come un lampo mi torna alla memoria – e ancora m’inquieta – il senso di colpa doloroso e soffocante che me ne derivava e mi induceva a pregare non so bene che Dio, affinché, per quella che sentivo come una intollerabile vergogna, alla quale, tuttavia, non sapevo sottrarmi, mi facesse meritatamente soffrire le pene dell’inferno.
Poi l’inferno finì: non ne chiesi più le pene e i desideri torbidi dell’adolescenza sembrarono bruciare in un sol fuoco memoria, paura e miasmi del grumo perso dio sa dove. Dentro mi rimase il camino di un vulcano quiescente, sepolto sotto strati di lava sedimentati da scordate eruzioni, e il futuro mi si fece presente: divenni uomo, ignaro come tutti del futuro, immemore del mio passato e dei legami oscuri che il tempo andato aveva col tempo che sarebbe venuto.
Uomo – come non mancò di osservare compiaciuto, mio padre, per una volta stranamente attento – chiusi la voglia di lotta fisica nei campetti di calcio della periferia, portiere biondo e lunatico, che strabiliava e indisponeva per le sua pazze capriole, le sospensioni magiche del volo, i tuffi delle uscite a catapulta su attaccanti lanciati a tutta corsa e per gli imprevedibili strafalcioni delle giornate storte e dei palloni facili diventati d’un tratto irraggiungibili e beffardi. I palloni, come i pensieri, quasi avessero un’autonoma capacità di calcolare traiettorie e parabole alternative. Ai pensieri toccava zittirsi, al portiere accettare il coro feroce dei rari spettatori: “tirate in porta, ca ‘o portiere è scemo!”.
Uomo, come annotò grossolano ed ironico al liceo il professore fascista: e lo guardai negli occhi come fa un uomo che non ha paura.
Uomo, come registrai da solo, per i mille cambiamenti del corpo, sui quali preferivo non fermarmi.
Uomo, benché nella parte di pianeta abitato dalle donne, continuassi a spingermi assai poco e senza mai fermarmi: scorribande veloci, sconfinamenti brevi lungo sentieri ignoti. Un andare e tornare, mai per chiedere o dare. Poi vetri e pietruzze rilucenti, esplose d’un tratto dal caleidoscopio, portarono il pianeta fino a me.

Allora avevo ancora dentro fili interi. Non grovigli celati alla luce infelice della coscienza, non trame soffocanti di viluppi, nessun ricordo di trucidi coltelli imbozzolati. E se provo a domandarmi cosa ancora ricordi di quegli anni, quando la giovinezza non era ancora storia e non avrei mai pensato che mi sarebbe toccato di provare a ricostuirla, spiegarla e non capirla, bene, ciò che ancora ricordo con maggior chiarezza fu proprio quel pianeta che sbucò s’improvviso all’interno del nostro, come un cratere che si apre entro un cono già in fiamme. Le donne: un mondo – il mondo – messo a fuoco in una camera oscura e rivoltato -quella sì, quella davvero fu rivoluzione – un, mondo nato ai margini dell’altro in cui vivevo, e diventato d‘un tratto l’occhio della terra.
Le donne, vetri e pietruzze rilucenti, d’età diversa, condizione varia, eppure equivalenti, solidali, senza ufficiali e soldati: stesse parole di un linguaggio antico.
Non lasciatevi incantare dall’inganno del tempo. Lo so, voi le vedete oggi, piegate su stesse dal saldo in rosso che abbiamo accumulato con la vita. Peggio, assai peggio. Voi le vedete disanimate, neutralizzate, nelle dosi prescritte di pellicola tagliata, ridotta, censurata, stravolta e montata con inesorabile perizia tecnica, dagli eterni soldati di ventura della manipolazione televisiva, che prestidigitano la storia nei documentari o raccontano chi fummo e insieme che facemmo. Voi le vedete, come pupazzi abbigliati secondo comune regole formali, intruppate nei cortei della protesta, bocche che urlano, ma non hanno la voce o le parole, stereotipi al femminile d’una generazione ridotta a merce di consumo intellettuale, simboli commerciabili di un eterno luogo comune: il contrasto tra generazioni. Ma è una bestemmia.

Chi le ha viste lo sa: fu come sognare. Anna Kuliscioff, Maria Rygier, Angelica Balabanof, Maria Verone: mi sembrò che incarnassero i modelli che avevo dell’universo ribelle femminile. E loro no, loro ostinate e nuove, mi cambiarono l’universo e mi tolsi dalla testa la tentazione di fare accostamenti. Non c’era modello che tenesse: facevano politica secondo libertà, opponevano il riso e il pianto, le unghie e i denti all’antica bestialità di lacrimogeni e manganelli. Donne, come finalmente le vidi in un pianeta unico in cui vivere insieme – e pensai fosse per sempre – corali, uguali, dignitose pensarono un mondo nuovo e ci strapparono tutta quanta la parità che si poteva.
Nulla di tutto questo resta. Nelle manipolazioni dei soldati di ventura le donne sono pupazzi vestiti secondo una maniera, intruppati nei cortei della protesta, con le bocche che urlano senza voce o parole. Furono invece bellezza trasparente, corpi lievi che ballavano tenendosi sottobraccio senza toccare terra, furono dita veloci su corde di chitarra, sfrontate mani in alto sopra la testa, i pollici contro i pollici, gli indici contro gli indici, e trovarono parole che hanno scalato montagne.
Donne, riprendiamoci la vita!”, incitarono alcune, annunciando rivolta. Altre, più semplici e immediate, ma concrete e rivoluzionarie, ci avvertirono: “le donne escono dalla cucina”. E se alcune, già sposate e affaticate, strinsero il pugno chiuso, affiancando i compagni e urlarono sul viso ai questurini:
E sorde so’ pochi e nun ponno abbastà!
E sorde so’ pochi e nun se po’ campa’!”,
subito si sentirono quelle che gridavano, lucide e conseguenti:
donne unite, donne unite,
tutta la vita dobbiamo cambiare,
per questo, per questo vogliamo lottare
“.
Mi pare di sentirle e vederle, le donne, vetri e pietruzze rilucenti, esplose dio sa come dal caleidoscopio che pareva un altro pianeta, mentre ci lasciavano indietro, nel nostro sogno di un mondo migliore che non prendeva mai corpo; tenevano, con le mani avanti al petto, il lungo striscione rosso delle femministe: Contro tutte le oppressioni.
Anche contro la nostra. E questo ci separò, più di quanto non ci avessero uniti le barricate che provammo a fare assieme per la casa, il lavoro, la pace, il divorzio, l’aborto. Le dighe nelle quali oggi si aprono brecce. Perdemmo così nelle piazze, dove pure le avevamo incontrate, le mogli che avremmo avuto, e per noi, figli del patriarcato, oppressori che facevamo le lotte egalitarie, fu impossibile sentire quanto vero e profondo fosse lo strappo nella famiglia che non c’era e sarebbe venuta. Le nostre compagne, belle, lucide e conseguenti, capaci d’inseguire l’invisibile concretezza dei sogni, fecero della parità possibile la loro bandiera. A noi era rimasto dentro l’ossigeno maschilista respirato da bambini, e un desiderio smisurato di quel potere contro il quale facevamo la guerra. Tutto troppo difficile e veloce, tutto accaduto in un tempo troppo breve e troppo presto concluso.
Avessi avuto modo di capirlo, avrei alzato dei muri, ma tutto fu troppo veloce e sasso e pietruzza mi si presentarono insieme in una figurina contegnosa e bruna. L’attrazione fu subito fortissima.

Giovanna mi abitava di fianco, porta a porta, a Vico Zuroli, nel cuore di Forcella. Non me n’ero mai accorto. Era tutta occhi profondi e neri e subito mi parve che dentro vi corressero i pensieri elevati. Aveva in più, ma non me lo dicevo, capelli ricci e corvini attorno a un viso acceso e appassionato, sul quale si apriva un sorriso ammaliante. Per mesi ci contrapponemmo. Io rifiutai di prendere in considerazione il seno che le spuntava sul torace, troppo grande per le sue spalle ancora infantili, e i fianchi che si andavano allargando sulle cosce diventate forti, sotto una gonna che non stava mai ferma, e lei, Giovanna, si studiò, con incredibile innocenza, di dimostrasi donna.
Tutto accadde sotto gli occhi dei parenti; la madre di Giovanna, soprattutto, pittrice torinese d’una sensibilità nervosa e riservata, piccola e tonda, capitata dio sa come in quel budello a ridosso dell’antico decumano, nel cuore della della Vicaria spagnola – e mia madre, attenta e impenetrabile, che pareva facesse la guardia.
Più volte capitò che seduti di fianco per ripetere assieme la storia – quella, di disciplina, c’era parsa fra tutte la più adatta a ripassare assieme – ci toccammo. Più volte, antichi flash produssero disagio nel mio petto e spensero la luce nei miei occhi. Più volte ricacciai fantasmi e ripresi a parlare di storia.
Lei sedici anni, io ventiquattro, tra la sua testa e le sue mani vidi la luce del mondo.
Tutto quanto voleva, se l’avessi potuto, le avrei dato: ma non chiedeva nulla.
Per quello che facevo e pensavo io ero il regno della libertà, il signore dei sogni, il padrone del tempo. Il futuro era già nel presente – forse che non l’amavo per la sua indipendenza? – ma lo leggi il futuro, solo quando s’è fatto passato.
Facemmo assieme una corsa lunghissima, senza tirare mai una volta il fiato. Corremmo avanti, quanto bastò per intrecciare radici profonde, per amarsi senza capirsi, scegliersi senza conoscersi, legarsi per non separarsi, incatenarsi dopo aver buttato via le chiavi del lucchetto.
Facemmo una corsa lunghissima – corsa in avanti – senza guardarci più attorno.
Un fuoco d’artificio.
Se il suo liceo occupato ebbe fama d’inviolabilità, io ci entrai ed uscii: nel movimento avevo un qualche nome ed una posizione estrema.
Marx, di cui tutti parlavano a casaccio, lo leggemmo e studiammo nel gruppo delle intelligenze fini che splendeva allora in città, e lei, acutissima, corresse più volte Lucia, che se a scuola di marxismo della Rossanda avrebbe fatto poi strada e faville, già mostrava l’ambiguità che l’ha condotta a destra.
Se ad altri servivano parole, a noi bastavano il silenzio ed un cenno della testa; quando negli altri il silenzio svelava un gelo d’incomprensioni, noi avevamo le infinite parole dell’intesa. Dividemmo tutto: i sogni e la realtà: una l’idea di sinistra, una la prospettiva, uno il fastidio estremo dei teoremi.
Teoria e prassi – le dicevo, ridendo.
Prassi e teoria – rispondeva battendo il palmo della bella mano sul mio palmo aperto.
Una corsa lunghissima senza prendere mai una volta fiato. Il nostro tempo se ne andò accompagnato dagli accordi della sua chitarra e disegnato sulla tela dal pennello col quale fissava in pochi tratti una sua umanità senza confini.
I miei fantasmi sembravano svaniti e, per quello che sembrava necessario, ci demmo regole e fummo di una chiarezza senza fine.
Un figlio se lo vorremo in due.
Un figlio se lo vorrai.
Se tu ti stancherai…
Te lo dirò.
Senza tradire.
Una volta, d’un tratto, un’ombra oscurò il cielo: la donna che sarebbe nata era già nella sua testa. Io però non la vidi.
In piazza c’erano stati morti e da tempo qualcuno tirava fili oscuri. Ad un corteo sotto la pioggia mi calai sul viso un passamontagna e a pugno teso in alto mi strinsi ai compagni inferociti. Puntò i piedi come un purosangue che rifiuta l’ostacolo, disse in soffio:
E così che lo vogliamo un mondo nuovo? Se tu vuoi, va bene, resta pure. Io però me ne vado. Sono stanca di rivoluzionari che ricorrono agli stessi simboli e comportamenti del potere contro il quale si scagliano. Basta con questa storia della libertà rivoluzionaria. Noi non abbiamo un ideale superiore. Noi vogliamo potere. In tutto questo non c’è nessun valore superiore.

Su un sogno di liberazione, lei poco più che bambina, io uomo appena, costruimmo una vita e una prigione. Ci ingabbiò la natura politica dei rapporti di coppia nella famiglia borghese che avevamo distrutto dentro di noi e volemmo vivesse.
Giovanna non suona più e l’ultima volta che ha messo il pennello sulla tela ne è nata una testa di donna tra Medusa e Cassandra. Non dipinge più Giovanna e il ritratto di Andromaca, che con angoscia scoprii di aver sperato volesse dipingere non è mai nato. Piuttosto non ha più dipinto. La corsa un giorno si fermò: teoria e prassi ormai discordavano, parole e silenzi non trovavano più l’antica sincronia.
Ognuno aveva una sua verità e non sapevamo nemmeno se l’amore fosse finito.
Eravamo finiti noi com’eravamo e, al momento di patteggiare una resa, l’uno non era più più nemmeno riconoscibile per l’altra. Per mio conto, ritrovai un’inquietudine frequente e devastante; ne colsi i sintomi improvvisi nel fastidio causato dal muoversi incontro, dal reciproco curvarsi, o anche solo sfiorarsi, di abiti maschili e femminili, dentro i quali erano chiusi di nuovo uomini e donne, nel palpitare agitato del cuore in petto di fronte ai gesti e alle parole dell’amore intuiti nell’ombra di un vicolo, disegnati su locandine dei film, persino nell’abbraccio di parenti: in tutto ciò che abbia odore o colore di contenuti d’abiti avvicinati.
Nel petto e nella testa, i I fili che parevano doversi spezzare rimasero apparentemente intatti, ma dove le tensioni avevano sfiorato lo strappo, si formarono a poco a poco nodi insidiosi e tenaci e una rete complicata di bava setolosa, un viluppo di maglie via via più strette, un invisibile filtro che mi ingolfò la testa con scorie di sensazioni, brani di immagini condotti alla coscienza da lampi di invisibili flash e frammenti di pensieri, sepolti chissà dove nella loro interezza. Più la trama crebbe e si avvinghiò al respiro della vita, più la logica segreta dell’ordito mi sfuggì e, come un ragno smarrito nel suo tragico labirinto, mi scoprii prigioniero di fili, che si intrecciavano per moto spontaneo in una ragnatela soffocante. Stretto in quel groviglio, scoprii un altro me stesso, nascosto in un’ombra inesplorata.
Terrorizzato, lo lasciai dov’era.

Uscito su “Fuoriregistro” il 9 ottobre 2004

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Dopo sai qualcosa di te, solo dopo che è accaduto davvero tutto. E molto ti pare di averlo sognato.
Dopo sai che un giorno qualunque e banale della tua storia è parte della storia di tutti, e che numerosi altri giorni, quelli che ti erano apparsi lucenti, sono opachi.
Dopo cosa?
Dopo che tutto il tuo passato si è fatto il presente: figlio di eventi di un altro presente, la storia si dice – futuro di generazioni lontane, presente che tu non conosci – figlio del caso, dell’accidente, delle scelte degli altri, talvolta di ciò che hai pensato di volere. Il presente consentito dal passato tuo profondo, dal grumo incapsulato di ciò che hai decolorato nel tempo ignoto della tua vita, che hai confinato negli incubi notturni e nelle cancellature della memoria, che medicano ferite entro la tua testa e mettono maschere ai fantasmi della tua vita.
Dopo che tutto hai vissuto istante per istante, senza sapere quasi mai mettere assieme i mille frammenti del tempo tuo, i molti giorni slegati tra loro, per coglierne la complessità, dopo, solo dopo che ogni cosa, da futuro ch’è stata s’è fatta passato, solo dopo sai un poco di te. Di te come ti hanno conciato, di te come ti sei ridotto, di te come non sembri e sei. Di te come non vuoi, ma appari.
Uno separato dall’altro, i brani di tempo che vivi non hanno un significato particolare e soprattutto non sembrano mai legarsi davvero l’uno con l’altro.

Così, tornando da Cava dei Tirreni ch’era quasi giorno, l’andirivieni di mia madre ancora lì nel suo mondo affumicato, non sembrava avere alcun nesso con la strada appena fatta di corsa e con quella di una notte lontana, di corsa ancora, una donna e un bambino, fino al buco nero che si apriva nella mente d’una donna. Mia madre persa per sé, sempre più difficile da ritrovare per me. Eppure, che io lo sapessi o no – e non sono in grado di dire se davvero non ne avessi il sospetto – il buco nero che aveva risucchiato al fondo d’una spirale il senso della sua vita apriva da tempo coni d’ombra agghiaccianti nella mia coscienza.
Due diverse corse, verso un solo traguardo.

Quel mattino l’invito ad un concorso per il quale non avevo fatto domanda di partecipazione fecero a mia insaputa di me un insegnante. Era solo questione di tempo e, d’altro canto, a mia insaputa ero stato ricondotto a scuola da studente.
Certo avrei potuto dire di no tutt’e due le volte. Ma è così: sai di te solo dopo ch’è stato.
La forza dell’inerzia, che fa spesso da binario a un’esistenza, mi condusse al concorso e talune qualità che, al bilancio finale, possono pesare più di mille difetti fecero il resto.
Alla prova scritta ha incantato!
Così letteralmente mi disse poi un commissario d’esami filosofo, che amava Wittgenstein ma faceva italiano, stravedeva per Proust, sapeva a memoria Sanguineti e metteva in soggezione i colleghi con questa sua scienza variegata, che sospettai messa insieme alla rinfusa per certe sbavature logiche e la difficoltà nell’esser chiaro. Era un botolino pelato e frenetico, che ostentava una anacronistica cravatta a farfalla, portata con la sicurezza di chi sa di non avere nulla da perdere in fatto di stile e affida alla finzione d’un estremo snobismo la speranza segreta di farsi perdonare. Sotto le lenti tonde, che mi fecero pensare a Nenni fuoruscito, gli occhi cerulei esaltavano la fronte troppo ampia e aggrottata e il viso mal rasato era un campionario inesauribile di cenni d’intesa; non saprò mai perché quell’uomo volle a tutti i costi dare alla mia vita un futuro da insegnante. So che ci riuscì, annuendo alle mie osservazioni banali su questioni di pedagogia di cui non conosco che nomi, raddrizzando la montatura storta sul naso aquilino e facendo larghi cenni ai colleghi, se ne indovinavo qualcuna di più acuta sull’arte dello scrivere e sulla storia.
Volle e riuscì, il filosofo, persino quando un irritato e segaligno commissario di storia per fargli dispetto prese a tormentarmi con una petulanza provocatoria, pretendendo che gli dicessi nome e cognome di “noti garibaldini”. Era già nato un piccolo screzio, dopo che lo spilungone, che stentava a tenere le lunghe gambe piegate sotto la cattedra, aveva tenuto a correggermi quando avevo accennato alla spedizione dei mille:
Mille e ventisette. Glielo assicuro – aveva sibilato stringendo occhi da cinese che gli davano un’aria inquisitoria.
Il filosofo aveva dato segni di insofferenza, ma io me n’ero stato calmo. Per me, che alla storia già pensavo come a ricerca in archivio, quella estrema precisione poteva sembrare anche giusta.
Li avrà studiati tutti – pensavo tra me, facendo appello alla memoria che non ho mai avuto eccellente – magari esiste un elenco, un qualche registro degli arruolamenti… Ma si contenterà di quelli famosissimi… Bixio, Nievo, Abba… Carlo e Benedetto Cairoli, Crispi…
Infilavo un nome dietro l’altro, ma il commissario cinese mi guardava inespressivo, gli occhi taglienti sempre più stretti. Voleva ancora nomi, ed io chiamavo a raccolta la pazienza. Un sorriso stentato mi apparve sul volto mentre mi sforzavo di ricordare:
Baratieri – dissi in un soffio – Fanelli…
L’ultimo lo pronunciai pianissimo e aggiunsi gelidamente: – morto pazzo, lo saprà di certo. Grande amico di Bakunin.
Il filosofo, che doveva aver messo in gioco la dignità di esperto di scienza della valutazione, fece segno che poteva bastare. Gli altri esaminatori parlavano tra loro, decisi a non immischiarsi e il commissario insistette, indecifrabile: qualche altro lo saprà!
Non famosissimo – replicai stavolta, perché tutti ascoltassero, mentre facevo nome e cognome quasi sillabando – Giuseppe Aragno.
Lo conoscerà.

Esitò, come scorresse mentalmente un suo elenco, poi ebbe come un lampo:
Che fa, prende in giro?
La replica fu calma, ma inoppugnabile.
Il mio bisnonno. Garibaldino a Calatafimi.
Il filosofo scelse il tempo giusto e impedì la reazione:
Passiamo a matematica!

Non avrei voluto passare l’esame. Non avrei voluto insegnare e pensai che avrei trovato al più presto altre vie.
Ho avuto con me tantissimi ragazzi. Qualcuno oggi è uomo fatto. Uno sconta un ergastolo per rapina e omicidio, un altro l’ho lasciato a terra, stroncato a vent’anni da un colpo alla nuca per questioni di droga. Ne ho avuti tanti. Sono una folla di cognomi e nomi, di volti che non esistono più, sono un interminabile elenco di errori commessi e di lezioni apprese. Sono fuori dal tempo, si confondono con me stesso, con i miei compagni di scuola, sono una parte della mia vita per la quale ho lottato, ho penato, ho gioito. Ho dato e mi hanno dato, ma sono stati la fonte di una intollerabile contraddizione. A fatica ho imparato ad insegnare come si possa amare una cosa che tuttavia si odia.
Non avrei voluto passare l’esame. A mia madre, che percorreva il suo mondo nelle nuvole di fumo di sigarette infinite, non l’ho mai detto. Ho avuto sempre nei confronti del suo rifiuto di continuare a vivere un rispetto irrazionale, ho nutrito la convinzione che fosse una sua interpretazione teatrale della vita, la finzione scenica d’una attrice che lavora fuori dal palcoscenico, l’odio estremo d’un amore tradito che non ha saputo perdonare. Ancora oggi, che conosco fino in fondo il gelo della depressione, non so dire dove inizi la finzione e dove cominci la realtà.
A Cava dei Tirreni non tornai mai più e armi non accettai di prenderne, nemmeno quando a molti sembrò che non ci fosse scelta. Più e più volte, però, sfogliai quell’album di famiglia di cui confusamente ebbe a scrivere Rossana Rossanda e mi fece impressione: ci portavamo appreso, noi, che dicevamo di voler fare la rivoluzione proletaria, un numero incredibile di borghesi anticomunisti. L’album di famiglia era stato truccato. Rozzamente truccato.
Mi crebbe dentro un senso di impotenza.
Uno ad uno gli scienziati della borghesia presero posto nelle trincee di retrovia e di là partirono alla conquista del posto per il quale erano nati. Le libere professioni, l’ambigua trafila da galoppini nei giornali della sinistra chic, l’occhio cautamente strizzato a un non senso – la “società civile”, ve la raccomando – la via sempre negata del “cursus honorem”, la vicenda sempre più oscura nella sinistra sindacale.


Se ne andò in quei giorni senza dar fastidio, Pino Grizzuti. Come un pesce fuori dall’acqua, s’era confinato nel limbo del Cilento, e i viaggi faticosi verso Napoli s’erano diradati. L’angustiavano sempre più la frattura scomposta della “sinistra vera”, la crescente pinguedine che gli affaticava il respiro, l’abbandono a cui l’avevamo condannato. Io quasi non me ne accorsi e giunsi tardi e di malavoglia a trovarlo in ospedale. Mi accompagnarono alla sala mortuaria e lo trovai pallidissimo e sereno. Non un capello in testa, nessuna croce. Io e lui da soli, dopo tanto tempo, un poco ci parlammo. Mi chiese dove contassi di andare, gli risposi che non lo sapevo e che mi sarebbe piaciuto parlarne seriamente un po’ con lui.
Mi pare tardi, mi dovette dire, e non aveva torto. Mi tornò in mente com’era, orgoglioso dietro il grande striscione bianco di “Nuova Resistenza”: era una strada quella, che sarebbe stato bello rifare. Anche per questo era però tardi. Una merito gli riconobbi onestamente: se dietro non hai la gente non vai da nessuna parte, combatti per te stesso. Tu me l’hai insegnato compagno.
La parente che c’interruppe mi raccontò dei ragazzi che aveva conquistato a Celle di Bulgheria, della vita solitaria cui s’era ridotto, di certe crisi nervose che l’avevano tormentato. Qui al sentirla fuggii. Ogni bufera si annuncia.

I Nuclei Armati Proletari, ch’erano nati a Napoli nessuno saprà bene come, si sparsero per l’Italia e finirono allo sbando, lasciandosi dietro i morti di una guerra disperata. Qualcuno, cadendo, ebbe il potere inspiegabile di accendere gli animi e fece sognare. Poi il sogno divenne incubo e ci furono molti che decisero di andare fino in fondo.
Si urlava: “Walter, Martino, non siete morti invano. Riprenderemo presto i vostri mitra in mano”. Ma c’era un equivoco di fondo e ne avevamo fatto da anni uno slogan minaccioso:
Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata”.
Ma il popolo non c’era e, quando qualcuno decise che poteva bastare e la fece finita, la furia della lotta si placò come d’incanto. Pagarono in molti, dall’una e dall’altra parte: sangue e galera. I rivoluzionari armati ingenui e feroci non servivano più. Era venuto il tempo di mettere dentro colpevoli e innocenti.
In archivio studiavo carte del “Soccorso Rosso”. Ebbi un’idea che mi sembrò praticabile. Ne parlai solo a pochi: fidati. Denunciammo più volte lo smarrimento o il furto della carta d’identità. Altro non ricordo. Passavano per molte mani i documenti smarriti; uno, l’ultimo a cui giungevano, attraversava il confine. Chi ne fece uso non aveva mai preso la pistola.
Giusto o sbagliato che fosse, la mia rivoluzione terminò così: a metà del guado. Dentro mi portai per sempre una nuova ed intollerabile contraddizione. Non avrei voluto che finisse così, ma non feci veramente nulla perché andasse davvero in un’altra maniera.
Le contraddizioni intollerabili, tuttavia spezzano fili dentro.

Uscito su “Fuoriregistro” il 18 giugno 2004

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Disarmato

tempdt[1]Com’era accaduto col manganello della celere, anche la spranga e il coltello mi sorpresero disarmato. Stavolta, però, la violenza subìta scatenò i mostri che ogni uomo si cova dentro dalla notte dei tempi e l’inattesa tempesta mi colse impreparato.
Accade spesso del resto: la prima volta che incontri una bufera sul mare aperto non la riconosci e ti pare solo un curioso gioco di luci ed ombre, un movimento anomalo sulla curva dell’orizzonte. A poco a poco, però, un gregge numeroso e compatto irrompe tra cielo e mare e ti corre velocemente incontro. E’ un momento: squarci di cielo livido si fanno rapidamente strada nell’azzurro rassicurante ed un vento salato, forte e tagliente ti prende d’infilata. Quando la luce del giorno si fa elettrica ed il mare, nero come l’inchiostro, ti si alza davanti minaccioso, cavalcato dalla schiuma bianca che fluttua sulla cresta delle onde, finalmente capisci: la prua ti spinge dentro la bufera e non c’è più rimedio. Se non governi, la barca cola a picco.
Governai allora, aggrappato al timone, nel vento del mare in burrasca, senza avere una rotta da seguire.
Governai d’istinto, e salii più volte su in alto superando montagne d’acqua con un grido di gioia, più volte vidi la prua precipitare in basso, verso l’abisso spalancato tra muraglie ribollenti e più volte il mare mi passò sopra la testa.
Governai, finché la breve storia d’un compagno non s’intrecciò con la mia e fu la stella che segnò la rotta.
Conoscevo da anni Luigi Capone, ma sapevamo poco l’uno dell’altro, sebbene il viso spigoloso sotto i lunghi capelli lisci e corvini, gli occhi neri perennemente accesi da lampi di passione e la figura ossuta e doppia che esprimeva una forza raccolta e soffocata mi fossero da tempo familiari. Avevamo frequentato insieme, tra topi e scafisti, un collettivo di studenti e lavoratori che teneva riunioni semiclandestine al Borgo Marinaro. A Cava dei Tirreni, in una bella villa umbertina, ci eravamo incontrati più volte con un torinese che arruolava soldati brigatisti, poi ci eravamo persi di vista.
La rivoluzione non si fa senza la gente – avevo ripetuto ostinatamente nel nostro ultimo incontro col torinese. Poi via.
Ognuno per la sua strada, mi ero detto.
La strada di Luigi s’era fermata tre mesi dopo. Un colpo di pistola d’un carabiniere poco fuori Roma.
Quando il telefono squillò, mia madre se ne andava avanti e indietro nel buio della camera da letto con l’eterna sigaretta in bocca, trascinando i piedi nelle vecchie pantofole di stoffa consumata. Da molti mesi il suo mondo era lì, in quella stanza perennemente scura e affumicata, e tutto quello che potevo fare per lei l’avevo già fatto.
Mentre lasciavo Nolte e i suoi “volti del fascismo”, per rispondere al telefono, non potevo saperlo, ma il prezzo che avrei pagato per quella tragedia scura che mi si agitava davanti in maniera ossessionante, era già tutto nella stretta violenta che avvertivo al diaframma.
Sì?
Sei Geppino? sentii urlare dall’altro lato del telefono. La voce mi colpì: l’avevo già sentita.
Sì, sono io, risposi. Ed aggrottai la fronte.
Ascoltami bene, e non fare troppe domande – cominciò lo sconosciuto senza smetterla di urlare – non c’è molto tempo…
Non c’è dubbio – pensai mentre ascoltavo – è il brigatista venuto da Torino.
Ricordi la villa di Capone a Cava dei Tirreni?
Certo, che mi ricordo, ma…
Niente ma – m’interruppe – sta zitto, sei in un casino. Poco fa – proseguì, ed ora non urlava – il tuo amico è morto. Gli hanno sparato… i carabinieri…
Morto – lo interruppi con la voce spezzata – ma che dici? Chi sei?
Proseguì, come non avessi parlato:
Nella sua villa c’è un’agenda. Prendeva appunti e ci sei dentro anche tu…
D’un tratto mi accorsi della violenta tensione che mi irrigidiva il diaframma. Poi, mentre la linea cadeva, le ultime parole aprirono ferite nella mia mente:
Prima di domani non ci arriva nessuno. Devi distruggere quell’agenda.
Come in un incubo, accesi la radio. Mia madre non camminava più nella sua stanza buia e mi guardava, piccola nella camicia da notte diventata enorme per il suo corpo rinsecchito. La conferma giunse come uno schiaffo:
Come abbiamo già detto nel precedente annunzio, un giovane non ancora identificato, che viaggiava con un’alfetta, è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri. Un compagno, che lo seguiva in motocicletta è riuscito a far perdere le sue tracce. Nessuna dichiarazione ufficiale, ma tutto lascia credere che si tratti di un terrorista.
Scagliai la radiolina contro il muro, mandandola in frantumi e mi trovai di fronte mia madre, uscita d’improvviso dalla stanza in cui da mesi aveva confinato se stessa e i fantasmi che le facevano guerra. Dritta, per quanto potesse drizzarsi con quella sua figurina smilza e nervosa, ferma, senza quel tremito feroce che da mesi non le dava più requie, mi si parò davanti e mi sembrò che tutto ciò che avesse di vivo si fosse concentrato in quegli occhi azzurri ch’erano stati d’una bellezza struggente ed avevano ora un che di diabolico che incuteva timore.
Hai visto se sono pazza? – domandò con la voce insinuante del suo eterno delirio – Hai visto? Io ti ho avvertito, te l’ho detto che è gente pericolosa – insistette sillabando – Pericolosa! Tutta colpa di tua padre. Ora può essere contento -concluse -e mi dispiace per te che non mi hai voluto ascoltare. Lo vedi che il pazzo vero è tuo padre?
Conoscevo a memoria il filo di quel ragionamento che riconduceva ogni avvenimento ad una banda di delinquenti messa su da mio padre per farle del male. Banda pericolosa, che tutto sapeva e di tutto reggeva i complicati fili. Banda sterminata, che cresceva di giorno in giorno e reclutava ancora, ovunque e sempre: il mondo intero ormai si affiliava e non bastava.
Mentre le lacrime mi bagnavano il viso e un tremito di febbre mi scuoteva e mi rimpiccioliva, le carezzai il viso pallido e sconvolto e, in un lamento ferito e sconvolto le sussurrai dolcemente: Hai ragione, mamma. Ma ora la facciamo finita.
No! – urlò disperata – non uscire! Sono troppo forti figlio mio! Non uscire!
Urlava ancora, quando mi tirai la porta alle spalle senza girarmi, mi strinsi nel giaccone rabbrividendo per il freddo umido che veniva dal bosco e affrontai le scale ignorando il tremito agitato che le indeboliva.
Capodimonte affondava in una nebbiolina notturna che rendeva spettrali le poche luci del castello di San Martino, mentre la mia vecchia Fiat Ottocentocinquanta, grigia e malandata, a malincuore si rassegnava a seguirmi sulla stretta e pericolosa via di Salerno: aveva sempre pagato con sofferenze terribili l’inconciliabile dissenso tra le mie scorribande notturne e la miopia che nessuna lente ha mai corretto bene.
La vecchia autostrada mi accolse senza particolare attenzione. Misi quanta benzina potei con i soldi che avevo, lasciandomi in tasca gli spiccioli, e pregai che bastasse, poi la lunghissima e scura curva della zona industriale mi colse impreparato, assorto in pensieri tumultuosi. Frenai nel peggior modo, immaginai preoccupato l’affanno doloroso dell’auto – tu cammina stasera! le ingiunsi perentorio – poi la strada sparì dalla mia testa.
Credere o non credere, pensavo, conta poco. Devo andare…
Ma non sapevo bene perché dovessi.
A Luigi non volevo pensare. Cosa sia la morte, quando coglie così improvvisa, non è facile sentire fino in fondo, soprattutto se chi muore non è ti è così caro da farti stare davvero molto male e, per il resto, spesso non sai se sogni, non sai se aver paura o essere felice, non sai cosa fare e ciò che fai non ha senso. L’intera nostra vita se ne va via così: cogli tardi il valore delle cose immense, sciupi la tua attenzione sui particolari. Non te ne accorgi – no, davvero non puoi – ma c’è sempre una lente deformante attraverso la quale passano le tue sensazioni immediate.
Di ciò che avvenne davvero a Waterloo oggi sappiamo molto meglio noi, che i disgraziati impegnati nella grigia giornata. E questo non vuol dire che chi fece la battaglia non la visse. Ognuno a suo modo, come ognuno a suo modo, tra chi sopravvisse, di certo raccontò la sua battaglia, sicché ci furono migliaia di Waterloo e forse nessuna.
Mentre correvo nel buio, la strada s’era fatta finalmente presente nei miei poveri occhi affaticati e nella testa che provava a stare assieme alle ruote: in qualche modo bisognava pure ritrovarla quella villa, della quale ricordavo gli orribili fronzoli, la curva non segnalata che si apriva sul viale d’ingresso non appena si entrava a Cava e l’inspiegabile scritta latina – parva sed apta mihi – che salutava gli ospiti e, date le dimensioni, celebrava il trionfo della relatività.
Più andavo avanti, più mi abituavo al buio della notte, più netta si faceva la sensazione di estraneità: non io correvo – così decisamente mi pareva – non io avevo paura di essere accusato di terrorismo, non io lottavo per evitare un naufragio, non io mi ponevo le mille domande sul destino degli uomini e sul corso della storia.
Accade tutto dopo. Dopo sai di te. Dopo trovi risposte. Dopo raggiungi la riva. Ma hai lasciato buona parte di te nella tempesta.

Uscito su “Fuoriregistro” il 27 marzo 2004

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pigr1[1]La lunga linea che un tempo separava Caponapoli dalle chine dei Miracoli, dei Cristallini e della Sanità, avviando al Sebeto e al mare il fango e l’acqua che piovevano a valle, infuriando da Capodimonte e dai Vergini nei giorni di tempesta, segnava la terra di nessuno tra fascisti e comunisti: ‘a lava ‘e Virgini, ricordavano ancora i vecchi della mia prima infanzia e mormoravano impauriti: ‘o pateterno s’è scurdato ‘e l’acqua!
Per me, che stavo a sinistra, la risicata sicurezza era stretta d’assedio in un’isola rossa, compresa tra via Duomo e via Pessina, Portalba e Piazza Cavour.
Un breve “camminatoio” arrischiato e strenuamente difeso conduceva a ridosso di Santa Chiara, dove la casa di Attilio e Lucia offriva rifugio a qualunque ora del giorno e della notte. Tutt’intorno il nero minaccioso dei mazzieri fascisti e le regole non scritte d’una convivenza diffidente ed astiosa.
La città ormai ci ignorava. Curiosa e stranamente compiaciuta, aveva vissuto con noi la giocosa follia del Sessantotto, ospitando nelle piazze disincantate e indolenti i suoi ragazzi variopinti e musicali: Napoli non si lascia facilmente impressionare. L’onda lunga e rossa dei cortei, con le ragazze mai viste in prima fila e i grandi striscioni di protesta, si era incontrata quasi naturalmente con la furia dei senzatetto, la disperazione dei disoccupati e le manifestazioni degli operai in lotta per il posto di lavoro. Ognuno per la sua strada però: un’anima comune non s’era trovata. Gli operai, appena intravisti fuori i cancelli delle fabbriche che una dietro l’altra chiudevano, erano stati per gli studenti la “classe operaia” e non avevano sapore d’officina; in quanto agli studenti, che pure cominciavano ad essere figli di tutte le classi, erano stati e rimanevano per gli operai i “figli di papà”: quelli di Pasolini a Primavalle. In quella sintonia tra l’intellettuale eretico e i lavoratori del Pci, scarsamente acculturati, si sarebbe potuta leggere la storia d’un isolamento. Ma il presente nasce dal passato e non può avere radici nel futuro: gli manca la consapevolezza d’essere la storia.
Diversamente da quello che poteva apparire, tuttavia, la protesta aveva trovato spazio tra la furia e la disperazione, aveva indovinato la sua lunghezza d’onda e non s’era impantanata nell’antico scetticismo della plebe, che inghiottiva tutto nella sua apatia beffarda.
Di giorno era un susseguirsi di manifestazioni e scontri: torme di senzatetto, operai espulsi dalle fabbriche che chiudevano tra scontri sanguinosi e promesse dei politicanti, studenti in lotta per il diritto allo studio. Il progetto d’una società di eguali era il cuore di un gran sogno, ma aveva contorni indefiniti e si faceva ideologia. Le “masse”, separate, tenevano le piazze con onore, senza firmare accordi, poi la notte il presidio toccava alle esplosioni d’un dissenso che aveva le tinte estreme e la radicale impotenza dell’individualismo anarchico.
mt[1]Fece epoca un incredibile acrobata in motocicletta, che la notte sfidava la questura dandole appuntamento, incontrandola e beffandola, inafferrabile primula rossa che si esibiva nelle sue incredibili gimcane, trascinandosi appresso l’impotenza delle guardie, il tifo aggressivo e devastante dei teppisti, che scaricavano su vetrine e questurini la rabbia repressa e l’odio insopprimibile per lo Stato e per la borghesia malsana e redditiera. Austino ‘o pazzo – Agostino il pazzo – lo chiamava la gente mentre usava i vicoli dei Quartieri Spagnoli come fossero quinte d’un teatro e si precipitava a tutta corsa verso via Toledo, piombando dall’alto tra le ovazioni del suo pubblico e la furia degli agenti che manganellavano qualunque cosa avessero a tiro. Agostino e basta, per me che l’avevo conosciuto bambino, nel vicolo di Forcella dov’eravamo nati: inquieto, la miseria e l’ignoranza alle spalle, un fratello sparito in un misterioso incendio che l’aveva risparmiato per caso e restituito più solo al suo destino.
Agostino e le sue acrobazie svanirono nel nulla; sulla città calarono a poco a poco ombre dense di agguati e si montarono le scene per un dramma. Nessuno ha mai saputo chi ci fosse davvero dietro le quinte oscure, ma vennero notti amare, che rubarono le piazze alla folla e lasciarono un filo di sangue sulla strada di un sogno.
Fu la strage di Stato a rubarci l’innocenza e non prestate fede a chi ha venduto l’anima: quando nascemmo, avevamo per armi le parole. Avemmo contro il fuoco dell’inferno, un nemico vile, lo capimmo col tempo e non fu certamente facile arrivarci. Un’idea però ve la potete fare: tutto il fascismo delle fogne repubblicane, sopravvissuto in uomini e pensiero entro le istituzioni, la feccia invecchiata nei bordelli del regime che gli anglo-americani liberatori avevano passato a nuovo sotto nastri e mostrine, toghe, feluche e palazzacci, il pattume mimetizzato nell’ombra dei corridoi che legano tra loro i poteri – quelli che Montesquieu vanamente concepì separati nell’inganno giuridico borghese – tutto recitò con perizia scellerata la cupa vendetta di Salò. No, non fu facile arrivarci, ma ci fu tra noi chi riconobbe gerarchi dietro il sipario che calò sulla tragedia.
Quando nascemmo, avevamo per armi le parole, e furono parole a fare la rivoluzione. Anche qui, non date credito a chi sorride beffardo: uno che si vende non ricorda più niente, ma quando ci fermammo il paese non era più lo stesso.
Io no. Io mi ricordo bene ciò che accadde: presi il mio treno in corsa e feci buona parte del viaggio scomodamente poggiato in predellino.
Era andata come capita spesso: il passato ti si para davanti col presente, si traveste, disegna le trame più impreviste e costruisce il futuro. Poi, d’accordo, è anche vero: quisque faber fortunae suae. Ma è un fabbro che trova bell’e pronta la fucina, usa attrezzi già usati e completa un lavoro.mm[1]
Così fu per me, che alla nascita del movimento studentesco, avevo fatto in tempo a dare ai miei studi faticosi il valore legale del diploma, dopo che mia madre aveva posto il suo definitivo sigillo alla vita che m’aveva dato.
Del mondo che intorno a lei cambiava così radicalmente, aveva, mia madre, percezioni rallentate: tra la foto delle cose che davano i suoi occhi e la lettura elaborata che ne faceva il suo cervello, c’era di mezzo un invisibile filtro. Tutto era un enigma nella sua camera oscura, ma spesso ne venivano fuori lampi d’impressionante acutezza. Così, quando tutti, io stesso, gli amici, la famiglia, ritenevamo ormai chiuso il tempo dei miei studi, lo aveva riaperto nella sua maniera imprevedibile di mutare il corso degli eventi.
La licenza per esami, che riuscì a sottrarmi per due settimane ai lunghi mesi di guardia alla paludosa caserma, portava i segni delle sue lacrime, ma io ci vidi solo il corpo flessuoso d’una ragazza che mi aspettava a Napoli.
Ci vai con la divisa? – suggerì: rifiutai.
Prometti che ci provi? – domandò.Non promisi.
M’avrebbe maledetto, lo so, ancora lo sento, se non m’avesse amato a suo modo da morire, e non lo fece; m’avrebbe accarezzato, ma non glielo consentivo ormai da tempo.
Pregò, sono certo che lo fece e ancora pregava, quando il presidente della commissione mi rifiutò infastidito un attestato di presenza:
Ah, guardi, la prenda come vuole, ma gli scritti lei me li fa e consegna solo dopo le ore prescritte! Tutti, capisce? Me li fa tutti, e si ritira il giorno degli orali. Solo allora, se vuole, le firmo l’attestato.
Feci gli scritti per diventare maestro nelle due ore prescritte e giunsi a passare matematica ai giovani e nuovi scienziati della borghesia, creando un caso spinoso. La scuola è sempre stata un assurdo e invano, per cambiarla, ne avremmo fatto di lì a poco il quartier generale della rivoluzione: la soluzione algebrica, che il mio professore fascista al liceo avrebbe trovato “certamente originale, ma tortuosa, caro Aragno”, risultò una patata bollente per la commissione di esame. Gli studenti d’un istituto magistrale di quella matematica non avevano idea, come io del resto non conoscevo le lungaggini della matematica magistrale. La soluzione è corretta, ma il compito copiato, conclusero i borghesi scienziati antichi e in quanto a quelli nuovi e sospetti, il compito l’avevano copiato nello stile degli amanuensi: senza sapere che cosa scrivessero. C’erano gli orali per fare giustizia.

es[1]Come sia andata agli altri non ho mai saputo. A me, che chiedevo l’attestato e un paio di giorni per la mia paziente ragazza, il presidente della commissione oppose un rifiuto nettissimo – esami o nulla, condizioni “non negoziabili” – e m’invitò a sedere mentre si lasciava cadere sulla sua sedia e sulla cattedra che aveva davanti, allungandosi verso di me e portandosi una mano alla fronte, come volesse dirmi : ma sei pazzo, insomma!
Era una sorta di molosso buono, con gli occhi acquosi e i capelli cortissimi, l’uomo che quel giorno diede una svolta improvvisa alla mia vita.
Lei ha fatto lo scientifico, ma il diploma non ce l’ha. E’ così? mi chiese a bruciapelo, mentre mi sistemavo.
No – replicai infastidito – ma non sono qui per gli esami… non ho studiato. Sono militare in licenza e… vorrei andar via.
Si allungò e si distese con l’aria insinuante, gli occhi acquosi si fecero dolcissimi e le parole sembrarono carezze:
Ha fatto ottimi scritti. Non può andarsene. Non può fare una sciocchezza simile. Resti e faccia vedere al professore di matematica che è lei quello che ha passato il compito ai compagni. Solo lei può essere stato.
Ce n’era quanto bastava per vincere la mia resistenza e il diploma compensò le mie infinite amarezze di proletario fra i futuri scienziati della borghesia e la fede incrollabile di mia madre.
Un anno dopo, studente all’università, mentre nelle aule espugnate si attaccava la selezione di classe, tornai in quella scuola per una ragazza filiforme che mi aveva incantato e un corso di storia autogestito, in cui feci da riferimento per la Resistenza.
Cominciarono così i giorni in cui sognammo il riscatto. Di ciò che fummo restano tracce ovunque, ma non siamo gli stessi. Ora che passo a piedi giù per via Pessina, dove ogni sera sbucavamo come dal nulla, uscendo dall’antica sala alla galleria Principe di Napoli, mi fa male vedere ch’è sparita la grande tabella con la falce e il martello e i segni degli attacchi improvvisi dei fascisti sulle pareti scalcinate.
Di là partii la sera che conobbi la lama della paura e del coltello fascista. Di là, una sera che s’era fatto tardi per fare attacchinaggio – fuori zona di notte non piaceva a nessuno – e m’ero trattenuto per la riunione della Commissione Scuola, dove portavo esperienze e ferite mai rimarginate. S’era aperta la piaga dei rapporti tra studenti e operai, e bastava sentirlo Fassataro, segaligno e curato, mentre parlava delle difficoltà di comunicazione, perché la difficoltà assumesse un’anima ed un corpo: era egli stesso la difficoltà, con la sovrabbondanza delle parole prese in prestito da letture di politica e storia – la sua vita era lì, ma serviva se stessa – che disegnavano un circuito chiuso, e la tentazione mai superata di insegnare là dove c’era solo da imparare. Scienziato borghese – quanti ne ho conosciuti nel mio campo – non sapeva ascoltare. Imbastiva ragionamenti sottili, produceva analisi corrette, e però non ascoltava. Anche quella sera, che aveva messo al centro gli operai e gli studenti, non ascoltava. Parlava a se stesso, Fassataro, debordava e, movendosi lungo molteplici raggi, percorreva archi sempre più lunghi d’una circonferenza, copriva a grado a grado, tutto intero un cerchio e lasciava sepolti sotto il fiume di parole i dati reali del problema: eravamo due mondi che non si incontravano.
Io ne provai fastidio:
Tu vuoi quadrare il cerchio, lo interruppi d’un tratto, nel fumo delle sigarette e nel silenzio improvviso.
Fui brusco, mi ricordo, e mi cavai fuori dall’animo un discorso “su erre e su pi greco” – così mi venne di dire – tirando a bruciapelo:
Fuori dalla geometria di questo nostro linguaggio da un po’ di tempo io vedo solo una sorta di processo estetico: è giusto ciò ch’è detto bene, ed è detto bene ciò che conferma un assunto. E’ un processo illogico. Più ci penso, e più mi pare che il fine delle parole sono le parole. Noi poniamo questioni di progresso sociale. Siamo filosofi e illuministi. La politica, però, non c’entra. Prendete questa storia degli operai, per esempio. Lui disegna un cerchio: è l’area nella quale ci muoviamo. Gli operai ne sono fuori, ed è logico che sia così: noi diciamo fabbrica, capitale e lotta, loro hanno i turni e la fatica, il regolamento e la repressione. Come funziona fuori dal cerchio? Non lo sappiamo: fuori dalle nostre parole, in fondo c’è soltanto il vuoto. La circonferenza che ci racchiude è una barriera insormontabile: gli operai, dentro il nostro cerchio, sentono solo uno spazio saturato. Tra noi e loro c’è un muro: bisogna consentire una circolazione, occorre aprire una breccia.
lc[1]– Però,
m’interruppe Lucia pensierosa, nemmeno tu vai molto lontano. C’è un muro, dici, quindi apriamo una breccia. E va bene. Ma come? Le parole…
La interruppi. Lungo la schiena mi correva un brivido, perché la risposta mi sembrò subito chiara e raggelante:
Aprire una breccia in senso militare, sussurrai, mentre lasciavo la riunione. Provocare uno scontro di tale violenza, che la barriera cada e ci vengano dietro.
Pochi minuti dopo ero in strada, seguito da due liceali con il secchio di colla, un pennello e i manifesti arrotolati. Li precedevo, mani in tasca, stretto nel giaccone, e non avevo voglia di parlare. Quello che c’era da dire l’avevo già detto: niente scherzi che ce la fanno pagare. Se n’erano stati zitti e m’era bastato.
Da quando ci avevano assaliti a Via Bellini, stentavo a controllare la tensione faticosa dei ricordi e il respiro si faceva corto mentre tornavano improvvisi il rumore della corsa sul selciato, le ombre sbucate dal nulla nell’umido della sera, la furia delle catene, il vapore delle bocche ansimanti e l’urlo di Lucia caduta in ginocchio, col sangue che colava a rivoli dalla testa sull’eskimo strappato, la chitarra spezzata e lo stupore sul viso addolorato. Mi pareva di sentirla la corsa sul selciato che sprofondava nella notte gli aggressori; la corsa, che ora me li riportava, emersi nuovamente dal nulla, nell’ombra umida delle notte, col vapore sulla bocca, le spranghe e le catene: c’erano addosso, mentre istintivi e lenti, a piccoli passi guardinghi cercavano alle spalle la tutela del muro.
Con la coda dell’occhio la vidi e tremai: a pochi metri da me, sulla fiamma tricolore del Movimento Sociale, la falce e martello si piegava in avanti sulle prime parole di un manifesto incollato a metà: “Una bomba in Parlamento” c’era scritto. Pensai per un attimo a Valpreda e sorrisi, mentre la paura quasi mi schiacciava.
Idioti! – esclamai. E mi chiesi sconcertato: Quanti ne hanno coperti? Poi scossi la testa, sconsolato: quanti bastavano a tirarceli addosso.
Giunsi spalle al muro e mi fermai. Eravamo in trappola: non una via di fuga. La salita della Sanità era un budello nero nella notte fredda ed il silenzio cupo e gli spintoni facevano male: i due ragazzini inesperti avevano le mani in alto, come soldati che si arrendono. Uno implorava: – non ci fate male.
Pallido come un cencio, io tremavo e mi odiavo per quel tremito irrefrenabile che non sapevo fermare. Avrei pianto di rabbia perché avevo paura, quando dal gruppo dei mazzieri si fece avanti un ragazzo bruno e quadrato, stretto nei jeans scoloriti e in un giaccone di velluto verde scuro. Lo vidi: frenò con un cenno i camerati. Era il caposquadraccia e sotto i capelli corti e la fronte sfuggente, gli occhi sottili sembravano cattivi.
Chi comanda? Domandò rabbioso, poi mi poggiò sotto il mento il coltello che stringeva in pugno: è l’età la più antica gerarchia.
Il freddo della lama mi gelò ed a stento sentii le parole minacciose scivolarmi sul viso assieme all’alito condensato in vapore:
Ora tu fai togliere uno a uno i manifesti che avete incollato sopra i nostri e poi ci fai vedere come strappate quelli che portate sottobraccio.
Alle mie spalle un’edicoletta votiva proiettava sul viso del capetto le ombre tremolanti d’un lumino di cera. Vacillai, ma il muro mi sostenne, quando, vincendo la repulsione viscerale che provo per il coltello, scostai lentamente con la mano la lama minacciosa e mi volsi ai miei compagni impauriti con una voce che non riconobbi:
Andiamo, ha ragione: pareggiamo il conto. Togliamo i manifesti che coprono i loro e strappiamo uno dei nostri ogni volta che quello di sotto si è rovinato. I manifesti che ci restano– proseguii rivolto al capobranco – li portiamo con noi.
Mi sembrava che un altro avesse parlato per me. Un altro che non aveva la mia terribile paura.
Non obiettarono. Ci scortarono, mentre in tre scollavamo e strappavamo, poi, come se avessimo preso un accordo, giunti a piazza Cavour ci separammo. Non una parola. Né noi, né loro.
Quando sparirono nella notte, mi poggiai al muro e vomitai.

pigr[1]

Pablo Picasso, “Natura morta“, 192; “Composizione con teschio“, 1908; “Clarinetto e violino“, 1913; “Coppia” (ceramica), 1963.
Mosaico di Ercolano: La morte di Archimede

Uscito su “Fuoriregistro” il 5 gennaio 2004

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Tarini non aveva età. Alto e robusto com’era, si muoveva sgraziato per i viali alberati della caserma e ti prendeva al cuore con i grandi occhi liquidi e azzurri, la testa irrequieta sotto il cappello, i capelli offesi dal taglio all’Umberto e quell’accento che dire toscano non serve a spiegare.
“Comunista di Pontedera” – come usava presentarsi beffardo – era giunto alla scuola d’artiglieria contraerea di Sabaudia dopo aver opposto all’esercito tutto ciò che di lecito e d’illecito si poteva tentare. Per non partire, s’era dato persino ammalato alla testa e aveva impavidamente affrontato la dovuta permanenza in “osservazione” tra i matti veri – se mai la scienza medica ne abbia correttamente individuato qualcuno – e quelli presunti, che erano quanto di più rigorosamente indecifrabile e non omologabile esistesse tra gente non abbiente negli anni in cui la prima generazione del dopoguerra tagliava il traguardo della maggiore età.
Gli anni che scompensarono il sistema.
– Nulla da fare, Cristo! – raccontava sconsolato – Nemmeno il matrimonio civile con la ragazza ingravidata li ha potuti fermare!
– Meglio fare come me, Tarini! – replicavo mandandolo in bestia – Coglierli in contropiede, metterli in ansia! Non vedi come sono confusi? Questo qui – si chiedono – se ne poteva stare a casa ed è partito? Ma è pericoloso! Eccolo un pazzo vero: uno che parte e poteva evitarselo!
– Un grullo, vorrai dire! Un grullo!
– urlava Tarini con quanta forza aveva – E pure tonto. Ecco quello che tu sei per me.
Provenienti da mezza Italia – io da Napoli, lui da Pontedera, Settanni da Lecce, Cavallo dalla Bergamasca, Nigro da Alessandria e Caponnetto, basso tarchiato e tondo come un corto barile, dal mare africano di Mazara del Vallo – ci eravamo incontrati al corso di specializzazione per aerologisti, selezionati coi criteri “rigorosamente scientifici” prescritti da non so bene che regolamento. A parte Caponnetto, inserito nel gruppo all’ultimo momento per far numero, dopo la defezione d’un fantasma in divisa trasferito sotto casa per “ordini superiori”, io ero stato scelto perché, giunto al quarto liceo scientifico, non potevo “non avere dimestichezza coi numeri”, Tarini perché dietro la cortina fumogena dei malanni inventati e dello smoccolare frequente, intercalato da un musicale e inimitabile “te tu sei tonto e pure grullo”, celava la frequenza ai corsi d’ingegneria. In quanto agli altri, rapporti assai vaghi con scienze d’ogni tipo motivavano una scelta evidentemente casuale.


Ciò che avevamo in comune – ma la scoperta fu davvero tutta nostra – era una tendenza ad una confusione assolutamente inconciliabile con la formulazione d’un corretto “bollettino meteobalistico”, una collocazione politica monocromatica – rosso per tutti nelle più diverse gradazioni – un rifiuto consapevole di stupide convenzioni ed una pigrizia pervicace che, per non scendere a compromessi, era disposta a sconfinare nell’insubordinazione e sapeva giungere ad espressioni di un dissenso che toccarono a volte toni anche alti. Tarini, ad esempio, non trovando altro modo per cacciar via la ricorrente tentazione della diserzione, fece della sua permanenza in divisa da artigliere un banco di prova della sua capacità di rivoluzionario; giunse così a contrasti estremi: montava, smontava, ingrassava e rimontava indifferentemente antiquati moschetti Beretta, agili carabine Winchester e gli automatici e pesanti Garand con l’abilità consumata d’un veterano, ma sbagliava sistematicamente di passo nei brevi percorsi a drappello inquadrato: un modo come un altro per dire non ci sto; come non bastasse, giunse a piegare la sua volontà di lottatore indomito – un rivoluzionario deve saper rinunciare, teorizzava – dichiarandosi solidale con le mie scelte di “dissenso etico”, come mi piaceva definire i miei due più ostinati rifiuti: quello di allungare con la mia presenza le sconce file di ragazzotti in divisa, che ritenevano questione d’onore la visita a due o tre miserevoli baldracche in giro quindicinale per le terre della bonifica littoria – sono gli uomini che non ci vanno, giunsi a proclamare rivolto al gruppo dei semibruti più irridenti con lo sguardo della sfida, e nessuno ebbe più l’animo di porre la questione della “normalità” sessuale – e l’altro rifiuto, non meno testardo e, dal mio punto di vista, più dirompente e significativo: quello di alimentare la catena di sant’Antonio dei furti operati per “risarcimento” dei furti subiti.
Per un mese diedi i numeri in caserma, calzando un rumoroso e strascicato quarantotto – questo m’aveva lasciato un misterioso ladro al posto delle scarpe da libera uscita numero quaranta – e indossando – frutto anch’essi d’uno scambio non chiesto – pantaloni larghi e lunghi, con cui mi presentavo al picchetto per l’uscita serale. Credo che non sarei davvero più uscito dalla caserma se Tarini un giorno non m’avesse proposto lo scambio.
– Tutto questo mi pare solo moralismo sentimentale – esordì una sera il toscano, mentre infilavo i piedi nelle due barche nere che usavo per scarpe – solo moralismo, testone d’un napoletano, e però può andar bene lo stesso. D’accordo, non rubiamo, non facciamo la rivoluzione e non rubiamo. E però, via, o penserò davvero che te tu sei tonto e pure grullo: ‘odesto si può fare – proseguì insinuante, tirando fuori dallo zaino un paio di scarpe lucide evidentemente piccole per il suo piede – io ti do questo quaranta che ti va a pennello e tu passi a me il tuo immenso quarantaquattro.
Su questo terreno maturò un accordo di profilo decisamente alto: aveva da “scambiare”, in aggiunta, dei pantaloni che facevano finalmente quadrare i miei conti e non potevo assolutamente rifiutare.
– E’ roba mia?
– Potrebbe darsi
– rispose – ma non è lo stesso che rubare. Mettiamola così: in questa bischerata, la roba tua va a me e la mia ce l’hai tu. Noi si fa semplicemente ordine.
– Socializziamo il danno?
– E sabotiamo la produzione! concluse in un sibilo felice.

Non dimenticherò mai quel suo sorriso gongolante, quando ci ritrovammo poco dopo tirati a lucido fuori dalla camerata per presentarci all’uscita. Il piantone vedendoci si scosse dal torpore e fece festa:
– Che fai napoletano, esci stasera?
Finì che il sergente mi dichiarò “perfetto” e il tenente giunse a schierare la guardia. Passammo così io e Tarini – poco più di quarant’anni in due quasi quarant’anni fa – nel rosso del tramonto del cielo paludoso tra Sezze, Priverno e Latina. Un numero da circo equestre, con il saluto militare assolutamente scorretto, le misure delle scarpe incredibilmente pari, le stature decisamente dispari e un’aria borghese irrimediabilmente incompatibile con la marzialità del picchetto irrigidito dietro fucili, baionette e giberne.
In quanto all’insubordinata pigrizia capace talvolta di assurgere a dignitoso rifiuto del sistema, mia fu l’idea della scopa che l’intero gruppo degli aerologisti adottò compatto come strumento di opposizione all’arroganza dei superiori. Me la portavo appresso ovunque andassi in caserma, la scopa: una simbiosi.


Ci passavo il tempo libero tra un turno di guardia e l’altro, la pausa tra il servizio e la mensa, un’esercitazione di tiro, i quattro passi con Tarini, quando il discorso si faceva puntualmente politico. Mi tornava utilissima ogni volta che incontravo i sottufficiali eternamente bisognosi d’uomini da impegnare in fatiche oscure e vane.
– Non si recluta mai chi già lavora – spiegavo ai compagni con aria sorniona, mentre con due o tre colpi secchi sull’asfalto dei viali m’impegnavo in un lavoro di pulizia liberamente scelto, che evitava le penose corvé.
Aerologisti così attenti alla pulizia dei viali non se n’erano mai visti e il maresciallo Marchioto, che aveva la responsabilità diretta del “bollettino meteobalistico” – un mastino in mostrine e stellette, basso tarchiato e scuro come un tizzone – covò da allora un’ira smisurata che lo rese pericoloso come un serpente velenoso.
Spavaldo negli atteggiamenti esteriori, ma vile coi superiori – che odiava tutti allo stesso modo e tutti giudicava incapaci – Marchioto si rivaleva sui subordinati con un astio senza misura e con la sicumera che gli veniva dai gradi. Nei giorni della routine, quando le batterie tacevano, si appassiva sino alla depressione e tornava alla vita nei giorni dell’azione, quando poteva angariare i soldati e dar sfogo al piacere del comando. Lo coglieva allora una smania d’esibirsi che sfociava progressivamente in un’ansia aggressiva e pignola che non trovava e non dava requie. La pulizia e la manutenzione degli “strumenti” prendeva allora ad assillarlo e si placava solo per far posto ad una frenesia progressiva che imponeva prove notturne d’allarme, affardellamenti inconsulti di zaini, tempi di entrata in azione scrupolosamente cronometrati in un crescendo di peggioramenti direttamente collegati alla successione contraddittoria dei comandi, all’accumularsi della stanchezza ed al crescere delle minacce destinate a far giustizia dell’indolenza con la quale rispondevamo all’unisono alle sue reiterate “prove generali”. Non c’era scampo, rimanevamo tutti “consegnati” in caserma, per sentirlo urlare a intervalli regolari:
– Stai punito Tarini! State tutti puniti! State puniti sino al congedo!
Una rabbia impotente l’afferrava così la sera che precedeva il fuoco. Ci impegnava allo stremo attorno al camion attrezzato a laboratorio, nella verifica dei sincronismi, nella preparazione di una strumentazione varia e complessa, di cui nessuno tra noi – prima degli altri egli stesso – conosceva davvero l’utilizzazione migliore. La tuta mimetica fuori posto, lo zainetto tattico in spalla di sghimbescio, un’inezia insomma, e la furia si materializzava nella frase tipica, detta in due tempi; il primo sillabato, col dito puntato a sostegno della voce che calava progressivamente: – Io i tipi come te… – poi la pausa minacciosa e l’esplosione – li… spezzo!
L’alba dell’addestramento a fuoco delle batterie ci trovava sfiniti. Montavano sul camion in una confusione indescrivibile di bestemmie pronunziate nei più svariati dialetti, in una babele di zaini e fucili, cartucciere e caricatori, e ci affidavamo alla guida senza lampi di Marchioto, che si teneva in coda alla colonna d’uomini e mezzi diretti al poligono, dove piantavamo le tende, con una flemma che metteva rabbia, a poche centinaia di metri dai cannoni bruni ed angoscianti.
Il ruolo da protagonista, che elettrizzava Marchioto sino all’inverosimile, accentuava la naturale tendenza al disfattismo di Tarini e Caponnetto, cui m’associavo sempre di buona voglia, e l’indolenza inguaribile di Settanni, Nigro e Cavallo.
Marchioto rimaneva con noi fino alla comparsa d’una grande tenda da campo che montavamo al riparo dal vento, a ridosso del camion. L’ultimo ordine giungeva da lontano e la voce era rotta:
– Via gli oggetti appuntiti!
Toglievamo gli anfibi, mettevamo stelle, cinture e mostrine negli elmetti, lasciavamo il tutto fuori della tenda, poi Cavallo si faceva il segno della croce ed entrava nella tenda. Caponnetto e Nigro rimanevano fuori, accanto all’erogatore dell’idrogeno, io e Tarini seguivamo Cavallo, prendendo posto agli angoli della tenda, e prendevamo a pompare idrogeno in un pallone che cresceva rapido in mezzo a noi. Circondavamo con le braccia ed i pensieri il drago feroce pronto ad emetter fuoco ed a ridurci in cenere, ma avevamo visibilmente paura e nessuno fiatava. Ad un segnale convenuto – stop urlava con voce roca ed ansiosa Settanni – Caponnetto chiudeva l’idrogeno, Nigro s’infilava sotto il pallone spaventoso e vi appendeva una sonda, lavorando frenetico con le mani sottili e tremanti. Il mostro incombeva giallo, galleggiando nell’aria, tenuto a freno dalle nostre braccia: un buco aperto da un urto e il fuoco ci avrebbe avvolti. Portavamo il pallone fuori dalla tenda tra soffocate bestemmie e ansiose cautele, ingaggiavamo una lotta sorda per non essere trascinati in alto, ed al via urlato da Cavallo la liberazione. Il drago conosceva la rotta: un volo obliquo verso l’alto, lungo la tangente d’una casamatta superata di striscio, poi il balzo nel cielo, contemporaneo al nostro respiro di sollievo, che ci accasciava al suolo, e al saluto degli uomini dalle batterie. Avevamo compiti precisi. Il vento e la pressione alle diverse quote soprattutto. Settanni, trovato il contatto con la sonda, urlava il suo rituale quesito:
– Pronti per il top?
E rituale, in coro, veniva la risposta:
– Pronti!
Giunta a cinquecento metri, la sonda cominciava ad inviare dati. Una pioggia di dati. Aghi sottili e sensibili trasformavano così l’atmosfera e il suo stato in una serie di indecifrabili elettrocardiogrammi. Cilindri di carta srotolata si allungavano in strisce veloci sul pavimento del camion. A mille metri occorreva approntare il primo bollettino, ma eravamo sempre in ritardo sui tempi. Nigro, l’alessandrino signore del vento – un Eolo vero, tutto ciuffi brevi sfuggiti alle ingiurie del taglio all’Umberto e scomposti tra le dita nervose – interrogava con gli occhi scuri ed esitanti i tracciati, inseguendoli a terra, nelle curve impossibili tra i piedi di sedie e tavolini, senza osare tagliare le strisce:
-Un infinito casino – esclamava disperato – eccoli i dati! Qui brezza e là raffiche!
– L’è il caos cosmico
– commentava Tarini – il caos, bischero d’un Eolo. Hai davanti la radice de’ tempi, grullo matricolato, e te ne lagni? Eccola la verità delle cose, cervello intisichito! Eccolo il bollettino: la balistica del disordine! Madonna bucaiola, Nigro, non lo vedi? Il padreterno è uno di sinistra!


I segnali intanto si ripetevano incalzanti, con una serie di bip, e la sonda saliva: duemila metri e un vuoto d’aria che la spingeva giù, per darci un’ultima chance. Settanni, in attesa di elaborazioni che non giungevano, guardava Cavallo. Caponnetto adottava la maschera inespressiva della superiorità:
– Laureati della minchia. Se mi sputo sul dito e lo metto qui fuori, il bollettino vero ve lo faccio io. Sbagliamo qualche cosa solo sulla pressione!
Il bip si affievoliva e spariva. Lo salutava una risata collettiva e una certezza: l’avremmo fatto bene il bollettino se non ci avessero spiegato che “serve soprattutto per l’artiglieria da campagna, che ha il tiro lungo, esposto ai capricci delle intemperie”, se avessimo avuto meno rabbia in corpo per il pallone poco protetto ed il sergente che spariva.
Il “sergente Mongolfier”, lo chiamava Tarini.
Il segreto alla fine era la sintesi che giungeva dopo calcoli complicati. Diventammo perciò maestri nella sintesi e facemmo a meno dei calcoli. Semplificammo sempre: la prima volta per mancanza di tempo, la seconda per dichiarato pacifismo, la terza per protesta silenziosa contro Mongolfier. Infine la sintesi senza calcolo fu regola e scienza. Tarini usava per il vento Caponnetto e il dito insalivato, Settanni dava i millibar calcolandoli sulla presunta pressione sanguigna del sergente Marchioto – valutata in rapporto a minacce, bestemmie e tempo della fuga finale – Cavallo e Nigro valutavano l’umidità secondo criteri che tennero sempre gelosamente segreti. In quanto a me, data la riconosciuta capacità di immaginare e trasformare i sogni in parole credibili, ero quello che stilava un’ipotesi di “bollettino meteobalistico” – la sublimazione del caos chiosava Tarini – che il gruppo vagliava democraticamente, per assunzione di responsabilità, ed approvava unanime.
Il tiro delle batterie non fu mai preciso, ma non capitò nemmeno che le nuvolette dello sbarramento si addensassero ad est, mentre il bersaglio trainato dall’aereo si posizionava ad ovest.
– E’ che non serve ad un cazzo! – sosteneva Nigro.
– Tirano ad occhio! – replicava Cavallo.
– E’ l’artiglieria del… caos! – ripeteva serissimo Tarini, mentre i colpi rintronavano cupi, gli artiglieri proteggevano i timpani con le mani e il bersaglio incombeva sempre più lento e vicino, giù, giù, sopra le nostre teste.
L’andamento dei tiri occupò per lunghi mesi gli ufficiali superiori. Marchioto finì più volte nell’occhio del ciclone, rischiò la carriera – come ammise solenne – ma non avviò mai un’indagine seria, perché non intendeva avere in alcun modo a che fare con la tenda, l’idrogeno e il pallone e si rifiutava di ammettere che l’aerologia che ci aveva spiegato non stava né in cielo e né in terra.
Minacciò stragi di fogli di congedo e secoli di galera, urlò, vaneggiò e studiò le vendette più feroci – Caponnetto sostenne di aver dimenticato il colore del suo mare africano – ma oltre non andò. Non ci andò, sino a quando non cominciò a circolare la “stampa clandestina”.


Tra le mille attività che m’impegnavano in caserma, un posto di primo piano toccava a un diario tutto note ed appunti, in cui, tra l’altro, raccontavo le imprese del sergente Mongolfier: fughe di fronte all’idrogeno comprese.
Capitate in mani a Tarini, le pagine dedicate al sergente ebbero inattesi momenti di gloria e indussero Marchioto ad affrontare il toro per le corna.
– Tu, scrivi e non preoccuparti. Al resto bada Tarini!
Io scrissi e fu un ciclone.

Per la caserma presero a circolare misteriosi fogli volanti, scritti a mano e copiati di notte, in fondo a depositi di munizioni nelle notti di guardia, nei magazzini vestiario, nei bagni e nelle celle della prigione. Ci mettevo la cronaca puntuale delle fughe eroicomiche, i deliranti biglietti di punizione, gli inconsulti “ti spezzo!”, le licenze strappate, gli ordini insensati e i contrordini paralizzanti, tutto in stile tagliente e lucido, tutto debitamente chiosato. Poche copie clandestine, passate di mano in mano rapidamente e nessuno tradì: reclute e anziani, studenti ed operai, per una volta restammo tutti uniti. Non bastarono promesse, non intimorirono minacce. La mia prima rivoluzione mentì spudoratamente sugli uomini: eravamo giovanissimi, questo è vero, e in fondo si rischiava più a tradire che ad esser fedeli. Le leggi della caserma – quelle non scritte intendo – sanno essere d’una ferocia inaudita e i gradi assegnati dall’esercito sono meno ambiti di quelli riconosciuti tra i soldati. Non c’era nulla per cui valesse vendersi. Donne nemmeno: la parità dei sessi non aveva cittadinanza da nessuna parte, meno che mai in caserma, e la rivoluzione femminile non aveva ancora militarizzato mamme, fidanzate e sorelle.
Fallite indagini e corruzione, minacce e adescamenti, Mongolfier decise di venire allo scoperto:
– Si va a Foce Verde, annunciò, e stavolta faccio io!
– Stavolta non tirano
– mormorò Tarini, rischiando la cella di rigore, ma il sergente non replicò.
Capitò una giornata di vento e fu annunziata la visita del generale ispettore dell’arma di artiglieria.
Mongolfier si fece pallido, poi rosso, poi carogna. Non ci fu nessuno cui non toccassero giorni di cella di rigore, non ci fu nulla che andasse per il verso giusto.
Caricammo e scaricammo mentre il vento infuriava e Marchioto impazzava. Trottava da un punto all’altro della valletta in cui ci eravamo fermati e ingarbugliava ogni cosa con ordini e contrordini. Impiegammo due ore a fare quello che facevamo in pochi minuti. Nulla gli andava bene. Si piantava un picchetto tre volte per spostarlo d’un dito, una corda senza nodi veniva nelle sue mani per inventarsi garbugli indicibili. Pensammo più volte che non avremmo mai montato la tenda e ci riuscimmo solo facendo l’esatto contrario di ciò che chiedeva.
Quando finalmente la tenda drizzata sfidò il vento, Mongolfier ci mise in riga e gridò:
– Spero che ora abbiate imparato!
Mangiammo senza fiatare, noi seduti a terra, lui alla mensa sottufficiali.
Tornò con l’occhio abulico dell’alcol e avvisò:
– Chi sbaglia paga!
Non sbagliammo, perché nel gonfiaggio si tenne a debita distanza e si limitò a controllare. Entrò in azione quando fu tutto pronto e ritenne il pericolo passato: il pallone era gonfio, la sonda attaccata, il paracadute per il recupero fissato. Bisognava lanciarlo, evitando urti, lottando col vento e facendo mille giochi. Non so quale fosse lo stato d’un quartier generale di Cesare o Napoleone al momento di attaccare, ma ricordo perfettamente la situazione nostra quando avvenne quel lancio: confusione, ovunque e dappertutto confusione. Al centro, confusione delle confusioni, Marchioto a dettare ordini illogici, a mostrare punti, luoghi e posizioni, a calcolare soluzioni, percorsi e variazioni, a gridare ingiurie miste a lacrimevoli preghiere che si facesse con attenzione e precisione. Quella volta, che c’era il generale, v’era nell’aria tutta quanta l’elettricità dei fulmini di Giove.
Avvenne così che correndo come un ossesso dietro al pallone per tentare il lancio, mentre il vento lo spingeva a terra – non scorderò mai più quel pallone gigantesco e dispettoso che correva e trascinava Mongolfier che voleva trascinarlo – Marchioto perdesse del tutto la bussola e diventasse egli pallone ed il pallone sergente. Un sergente bizzoso che prese a correre diritto contro una casamatta, la solita, posta chissà perché lungo il breve percorso. Attimi così non si dimenticano. Mongolfier, volto a Cavallo, che teneva la sonda e lo seguiva trottando, urlava disperato:
– La sonda Cavallo, la sonda!
E per esser sicuro che quello l’ascoltasse, si voltava a guardarlo, mentre il pallone impazzito nel vento curvava in ogni direzione e si portava appresso il lanciatore imprudente. Persa la bussola, Mongolfier smarrì poi fatalmente anche l’equilibrio e precipitò in un burroncello di tre metri, lasciando finalmente il pallone: ormai era tardi. Cavallo, deciso a non farsi coinvolgere ulteriormente, mollò la sonda proprio quando il pallone libero si impennò verso il cielo, dando l’impressione di respirare meglio dopo che Mongolfier l’aveva lasciato. La sonda, intanto, disegnata una curva nell’aria, si distese in coda al pallone che saliva, oscillò per un istante, poi incontrò la casamatta e si schiantò senza scampo, salutata dalle grida lacrimose di Marchioto, che dal fondo del burroncello rantolava:
– La sonda, Cavallo ! La sonda!
Lo raccogliemmo che piangeva sibilando: il generale, il generale!
Si alzò trascinandosi la gamba visibilmente malconcia, poi folle di rabbia e di timore prese a spingerci verso il camion e gli strumenti inutili.
– Pronti per il top? – chiedeva e rispondeva da solo – Pronti!
– Non trasmette, s’è rotta!
– gli gridò Tarini – Te tu sei veramente grullo! E pure tonto!
– Pronti per il top? Pronti!
Una scena dantesca, col generale apparso d’improvviso, non saprò mai da dove, che infieriva :
– Ma l’ha rotta, sergente! – e Mongolfier che si metteva sull’attenti zoppicando e replicava: – lui, l’ha rotta. Lui!
E indicava Cavallo.
Era davvero un diavolo, mentre lo conducevano in infermeria e Tarini lo seguiva e ne imitava la voce, accentando in toscano: Papè satan, papè satan aleppe.
In questo clima infernale ci sorprese al ritorno in caserma la notizia dolorosa. Arabi e israeliani erano in guerra.


Consegnati in caserma dopo la vittoria fulminea di Moshe Dayan – si partiva per l’ONU a fare da forza di interposizione – facemmo circolare un numero speciale del “Bollettino Meteobalistico – foglio clandestino della Resistenza palestinese” e Tarini ottenne che ci riunissimo per una “discussione franca tra compagni”. Caponnetto voleva che si aggiungesse “d’armi”, io lasciai il testo immutato e la notte clandestina riunì semplicemente compagni.
Tarini fu chiarissimo: – Lo ammazziamo. Se ci mandano con lui nel deserto lo ammazziamo. E’ per legittima difesa: o lui o noi.
A tutti sembrò giusto e la sorte mi scelse come killer, ma Tarini si offrì di sostituirmi e decidemmo di sparare in due.
– Dubbi? – Domandò poi Tarini quando fummo soli.
– No – replicai – con gente così non resta altro.
La guerra lampo e le discordie internazionali fecero poi naufragare i buoni intenti e l’ONU non intervenne. Non so cosa avrei fatto se fossi partito, ma se ci penso dopo tanto tempo, mi accorgo che gli anni di piombo iniziarono prima di quanto si pensi.

Uscito su “Fuoriregistro” il 19 settembre del 2003

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Nascosi rabbia, vergogna e disperazione in un angolo buio del cervello e andai avanti senza un’idea precisa. Per un po’ confusi il passato col futuro e vissi senza presente. Il tempo della vita non coincideva col tempo della logica e il modo della certezza presentava evidenti paradossi.
Imparai a diluire la tristezza nelle fatiche ostinate di traduzioni notturne e quando la mia Lesbia mi sostituì col più odioso scienziato del liceo, piansi più volte con Catullo e non volli mettere in versi italiani il suo lacerante “fulsére tibi quondam candidi soles”.


Cercai un lavoro – quale che fosse, tre soldi per non sentirmi un peso – e mi disposi a cogliere in ciò che m’accadeva solo i toni di rosa: questione di sopravvivenza. Iniziai dallo sportello d’una “sala corse”, raccogliendo scommesse, e ci conobbi un “grossista” distributore di medicinali che “non scommetteva per soldi” e cercava un “ragazzo sveglio” per un suo ufficio al centro. Alto, snello, elegante, coi capelli crespi sotto il cappello scuro, aveva un viso tagliente che incuriosiva per il contrasto tra le labbra sottili e il naso largo e schiacciato in mezzo agli occhi neri e un po’ assenti, i modi spicci di chi si è “fatto da sé” e un’aria vagamente schietta che lo rendeva affidabile. Mi feci avanti e lui non perse tempo: referenze, competenze, titolo di studi: nulla di tutto questo. Non giunsi a dirmelo, ma andò così: per un po’ sentii vacillare le mie convinzioni sugli imprenditori – “razza padrona” a qualunque livello – e pensai a “sistemarmi”.
Pochi giorni, quanto bastava per mettermi alla prova, poi il “grossista” annunziò:
– Nessuna carta scritta. Sia ben chiaro!
Mise in fila gli impegni da rispettare, le multe per le inadempienze e chiuse con la paga: molto più che alla sala corse, molto meno di quanto mi sarebbe spettato per fatica e responsabilità. Non ci fu trattativa ovviamente. Avrei accettato per molto meno e, in ogni caso, poter mettere in ordine i conti con me stesso fu un sollievo. Non avevo più dubbi: un vero pescecane, pensai mentre si faceva d’un tratto paterno e mi dava un consiglio:
– Ricordatelo bene e mi ringrazierai. Guarda più in alto che puoi e impara la scienza sociale: prima di tutto te stesso, così non pesi su nessuno. E’ bene solo quello che ti va bene.
– Una regola d’oro
– replicai e soggiunsi ironico – diffonderla però è uno strappo pericoloso.
Finse di non cogliere e lasciò che gestissi da solo vendite e consegne in un bugigattolo d’ufficio situato sopra un ampio locale sotterraneo nel quale giacevano accatastati in un ordine approssimativo medicinali d’ogni tipo.
Di dove giungesse la merce non ebbi mai idea.
– Si “carica” di notte per evitare fastidi e perdite di tempo Traffico, parcheggio. Questa città è impossibile.
Andava bene così. Lavoro nero, certo, sei giorni alla settimana per otto e più ore, ma in perfetta autonomia. La mattina ricevevo telefonate, scovavo la merce, preparavo conti e il pomeriggio facevo brillantemente fronte all’andirivieni di ragazzi in camice nero che ritiravano i pacchi di medicinali in cambio di ricevute da firmare. Il sabato veloce rendiconto: il titolare giungeva dopo pranzo, allegro e puntuale, intascava le ricevute firmate e mi pagava.
Durò tre mesi.
Un sabato l’uomo non venne e non chiamò. Il lunedì, mentre aprivo, si presentarono due agenti e mi ritrovai in questura. Un interrogatorio rapido e ironico. Ero solo un idiota: me lo ripeterono per ore poi mi lasciarono tornare a casa. Per qualche tempo sui giornali tennero banco indagini su medicinali rubati e farmacie implicate in non so quale scandalo presto soffocato. Attesi a lungo il mandato di cattura, ma nessuno mi cercò.


Quando i giornali presero a occuparsi di altro, uscii da un incubo e mi guardai attorno con gli occhi del bisogno.
La città mi sembrò subito diffidente e pericolosa: tutta domande e mai una risposta. Un’anima scura ovunque mi girassi ed una consapevolezza disperata: non è vero che il mondo cambia, siamo noi che lo vediamo diversamente.
Non me n’ero accorto. La gente, che fino a poco tempo prima m’era parsa uguale a sempre, aveva messo sul viso lineamenti spigolosi, labbra sottili, occhi scaltri e indifferenti. Gli uomini tozzi e franchi, calati in tute d’ogni foggia e giacche di panno militare, erano tutti spariti e spariti erano pure quelli spicci e decisi, infilati in camicie larghe con le maniche risvoltate fino a metà avambraccio, il cappello di giornale in cima al viso rugoso e abbronzato.
Spariti, come gli altri, quelli che incontravo al tramonto con le mollette dei panni strette sulla piega dei pantaloni e le vecchie biciclette cigolanti che ancheggiavano, scansando i solchi centenari scavati dagli antichi carri nel vecchio basolato di piperno.
Sotto il cemento colato a fiumi sulle antiche cave, sui materiali di risulta che colmavano i valloni, lungo gli impervi canaloni creati da secoli di pioggia erano sparite persino le ferite della guerra. Strade e veicoli, gente e palazzi sprofondavano però dalle colline al mare. Ferita ben più che dalle bombe, Napoli era irriconoscibile. La destra della speculazione edilizia ne aveva fatto un’altra città. Sconosciuta. L’attraversavo ogni giorno in lungo e in largo senza un progetto di vita, incrociando i senzatetto sloggiati a forza, i disoccupati minacciosi, gli operai delle fabbriche in lotta e le cariche sempre più violente della polizia. Dall’angolo buio del cervello una rabbia scura mi prendeva alla gola, ma imparavo a filtrarla con la sapienza di chi distilla liquori.

Maturavano scelte.
Lo sentivo nell’aria, me lo dicevano i poveracci che chiamavo “compagni” nel fuoco di uno scontro che bruciava, quando presi a seguire i cortei senza badare al perché. Era un mondo nuovo, che la cronaca tradiva: ci aspettavano al varco ed erano i candelotti tirati dai moschetti a provocare gli scontri. L’umanità dolente dei disoccupati espulsi dal processo produttivo, che lottavano per non scivolare fuori dalla società civile, il dramma di sfollati e senzatetto in guerra tra loro per le case popolari, le manifestazioni degli studenti senza scuola, degli operai serrati in file strette e fitte per difendere il posto di lavoro erano un magma incandescente nel quale mi tuffavo gridando slogan, reggendo striscioni, respingendo l’urto sempre più cieco della celere e destreggiandomi abilmente tra cariche e gipponi.
Nuovi “compagni”, legami stretti ed intese sperimentate in piazza mi accoglievano alle assemblee di comitati che sorgevano qua e là, al centro come in periferia. Nuove riflessioni mi agitavano il sonno e diventavo sempre più estraneo alla prudenza delle discussioni serali al Circolo “Curiel”, dove i giovani comunisti prendevano a misurare, senza averne ancora ben chiare le dimensioni, la distanza che separava teoria e pratica della politica A cinquant’anni dalla rivoluzione sovietica, sulla tessera della Federazione giovanile del Pci, Lenin levava il pugno e ricordava: “1917-1967: sulla via dell’ottobre cinquant’anni fatti da noi”.


Di cinquant’anni non potevo rispondere – sebbene carte ingiallite che cominciavo a scovare in archivio inducevano al sospetto – ma degli ultimi ero certo: non avevamo nulla a che vedere con Lenin. E non ero il solo a pensarlo. Sembrava un ritornello: facciamo brillantemente opposizione e opponiamo il progresso alla conservazione. Non altro. Anni dopo, quando il futuro rivoluzionario sarebbe diventato il presente della conservazione, da destra e da sinistra, gli intellettuali con scarpetta e pipa, pantaloni di velluto e sigarillo, le femministe pentite mascolinizzate, gli esperti di scienza dell’immagine, i signori della sciatteria elegante e della erre moscia, i professionisti del gergo rivoluzionario possibilista, gli esploratori della terra di nessuno situata tra potere, opposizione e opportunismo, incantandoci con le false “memorie”, le militanze spericolate e le pacificazione obbligate, ci avrebbero spiegato che Lenin e Hitler formavano due rovesci d’una stessa medaglia e che alla fine avevano perfettamente ragione i politici liberali del cordone sanitario e gli economisti del libero mercato: il capitale non ha alternative.
Ce l’avrebbero spiegato da cattedre e giornali antichi compagni e notissimi mazzieri. Quando il futuro diventa presente, il passato non conta e come negarlo? Solo chi non pensa non cambia mai idea.

Uscito su “Fuoriregistro” l’8 marzo 2003

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