Me ne accorgevo ora che aveva tirato fuori la verità e l’aria misteriosa degli ultimi tempi era sparita: coi suoi indifendibili quarant’anni, i capelli ormai tutti di un bianco opaco, molto vicino al grigio e le sue mille rughe, Francesco sembrava molto più vecchio di me. Il solo specchio dell’animo è il volto, pensai per un attimo, poi, superato lo smarrimento della sorpresa aprii gli argini alla rabbia.
– Che senso ha?, urlai, mentre il telefono ostinato riprendeva a suonare e io, più ostinato, continuavo a non rispondere. Lui, però, stava zitto e io ricominciai:
– Mi dici che senso ha? Non verrete più qui a fare consulenza. Né tu, né Franco, né Ciro. Nessuno. Tutti, mi dici, vi aspettavate un rappresentante di zona delle vostre parti. Ma che storia è mai questa, insinuai, cos’è, un campanilismo di tipo nuovo, o una spartizione di posti che non vi è riuscita?
Il gesto plateale della mano che lo mandava a quel paese era più disperato ed eloquente della voce che tremava. Per quanto mettessi nelle domande una furia astiosa, lui subiva con un distacco che mi pareva sprezzante e io sentivo con sgomento che avevo solo una gran voglia di mettermi a piangere. In quegli anni al sindacato, Francesco era stato un compagno leale, ormai però una guerra per bande, dolorosa, ma senza quartiere, ci vedeva nemici nel nostro stesso campo e il passato non contava più. Non serviva parlare, mancava la voglia di capire e contava ferirsi. Era quella la via più facile e non mi aspettavo perciò spiegazioni, quando replicò:
– I tuoi grandi principi. A quello badi tu, l’uomo tutto di un pezzo. I principi. La vita, però, è altro, la vita è compromesso e anche fango. Tu lo sai, ma non le dai tempo…
– Lascia stare, che è meglio, lo interruppi. Il tempo della vita è una storia incompiuta.
Mi fermai un attimo. Francesco pareva lontano e quando ripresi, parlavo soprattutto a me stesso:
– Volente o nolente ti ci trovi e reciti la tua parte, però più avanti vai, più ti accorgi che sul copione il finale non c’è e infine, mentre provi inutilmente a capire se sei entrato nel ruolo, te ne vai, scivoli via dalla scena ma, come se nulla fosse accaduto, il sipario non cala, la rappresentazione prosegue e si trova subito un rimpiazzo. E’ lui il futuro che hai costruito e non potrai vedere, lui, il rimpiazzo che di te non sa niente, come niente, in fondo, tu sai di lui. Il tempo della vita, Francesco, è solo un intervallo incerto tra le nostre due sole certezze, uno spazio che riempi di te, ma è sempre pronto al vuoto.
Scosse la testa, ma rimase zitto. Dopo la rabbia, sopraggiungeva la rassegnazione, mentre una lama di sole anemico che tagliava in due la scrivania, pareva segnare fisicamente il confine che ormai ci separava. Il terremoto c’era stato, ma nella stanza tutto era rimasto com’era, anche se per me nulla aveva più senso e mi guardavo attorno spaesato: la pila di vecchie riviste ammonticchiate lungo le pareti, i manifesti che ricordavano un tempo nel quale il conflitto aveva ancora cittadinanza tra noi, lo striscione delle grandi occasioni, piegato alla bell’e meglio dietro il vecchio armadietto di legno scheggiato e l’annuncio di uno sciopero generale che ci aveva uniti per l’ultima illusione. I ricordi esaltanti non bastarono a curare le ferite e la mia domanda suonò come una provocazione:
– Te la ricordi, tu, quella lotta? – gli chiesi, rompendo il silenzio che s’era fatto pesante e indicai col dito il manifesto col suo slogan, leggendo con enfasi:
– Giù le mani dalle pensioni!
– Giù le mani, certo, e il governo finì a gambe all’aria, fece Francesco pronto, ma svogliato, perché sapeva che la vicenda non era finita lì. Sapeva tutto, Francesco, e il solco che gli si approfondì tra gli occhi alla radice del naso, pareva una richiesta di armistizio.
– Sì, il governo finì a gambe all’aria, replicai, ma poco dopo, il ministro fece una capriola, cambiò bandiera, passò dalla nostra parte e la guerra finì. Questo te lo ricordi?
Non era giusto trattarlo così. Contro il ministro prestato al governo dalla Banca d’Italia, contro la sua “modernizzazione” che sapeva di antico e puzzava di imbroglio, perché cancellava diritti e negava tutele, il sindacato aveva reagito come un sol uomo e s’era mosso con incredibile sincronia. Io e Francesco, il consulente e il dirigente, eravamo partiti all’attacco a corpo morto, senza fermarci neanche per tirare il fiato. Una pazzia esaltante. Lui che mi spiegava il calcolo delle pensioni, io che imparavo a muovermi abilmente tra “montanti“, coefficienti e rendimenti e a poco a poco disegnavo nella mia mente ogni giorno più chiara la “scaletta” per le assemblee. A fare da perno, il percorso storico che ci aveva condotti dove eravamo e più il tempo passava, più sentivo la forza delle nostre ragioni e meno temevo le ragioni della forza che ci opponevano i padroni. Vennero così le notti in bianco, i giorni di fuoco nei posti di lavoro e una certezza inattaccabile: era in gioco il futuro e si faceva sul serio.
– Nelle assemblee, trovavi parole che andavano al cuore, esclamò d’un tratto Francesco, che s’era evidentemente perso come me sul filo dei ricordi. Mai visto tante adesioni tra i colleghi. Ana, la mia amica rumena, una volta mi disse commossa: mi ha fatto ricordare i giorni della rivoluzione.
– Ci credevo. Ci credevamo tutti, replicai, mentre il telefono tornava a suonare metodico e petulante, ma non rispondevo. Ci credevo e non ricordavo più gli scontri per gli elenchi degli iscritti che non avevo mai potuto aggiornare, le mezze parole, gli accordi sottobanco già firmati, mentre si tenevano in piedi lotte ormai chiuse e s’illudeva la gente che non poteva immaginare.
Guardai Francesco. Per quanto amara, una questione personale io e lui l’avremmo superata; dietro il nostro dissenso, però, c’erano problemi ben più complessi di beghe personali. La verità era che per alcuni anni, senza nemmeno capire bene quello che accadeva, ci eravamo trovati a vivere uno di quei rari momenti in cui il treno della storia prende a correre a tutta velocità e non sai dove ti porti. Anche a saperlo, del resto, che fare? Ammesso che ognuno pesi davvero quanto può su quello che gli accade attorno, noi tutt’al più disegniamo un futuro. Il presente no, perché fa i conti col passato; il suo treno percorre, perciò, binari che altri hanno costruito ed è raro e difficile che qualcuno riesca ad azionare uno scambio e lo mandi in una diversa direzione. Quando finalmente la corsa terminò, il mondo era profondamente cambiato e, a guardarsi attorno, pareva di vedere la realtà attraverso un cannocchiale messo alla rovescia: invece di diventare più grandi, le cose s’erano rimpicciolite ed erano lontane all’orizzonte. Per inerzia, continuammo a definirci riformisti e rivoluzionari, ma la stagione delle riforme era chiusa da un pezzo e la rivoluzione era ovunque battuta. Sopravvivevamo a noi stessi, testimoni inconsapevoli o impotenti dei giochi meschini di un potere pervasivo che allungava le sue ombre fin dentro le nostre stanze e dietro il mito dell’organizzazione che “sa sempre quel che fa” celava le ambizioni e gli affari di opportunisti e mercenari. Come accade assai spesso di fronte al dolore, ci fu chi mise la fede avanti alla ragione o in un eccesso di disciplina non volle vedere e si ritrovò cieco. A torto o a ragione ormai conta davvero poco, dopo la corsa del treno, l’onesto e leale Francesco era diventato una sorta di soldato di Cristo, un gesuita fedele al suo vangelo, rispettoso di tutti i misteri gloriosi per i quali un credente pensa di vedere la luce del sole là dove regna il buio più profondo e santifica nella sua fede ciò che, di norma, gli appare inaccettabile in quella degli altri. Nella sua testa quadrata di militante addestrato ad “obbedir tacendo e tacendo morir“, l’appartenenza, sposa del “realismo“, aveva generato un figlio malato e l’aveva battezzato col nome più lungo e pericoloso del mondo: “nonsipotevafarediversamente“. Qui le nostre strade s’erano inevitabilmente separate, ma non c’era tra noi chi avesse ragione o torto: è che il dubbio e la certezza non conoscono accordi se l’uno vuole tutto e l’altra non sa cedere nulla. Forse, se avessi abbassato la guardia, se solo mi fossi deciso a rispondere al telefono che suonava e non si arrendeva, le cose tra noi avrebbero preso una piega diversa. Al telefono, però, non risposi e invece, come per chiudere i conti, tornai a far domande:
– Sai cos’era l’Icme?, gli domandai a bruciapelo e mi guardò stupito.
– No, non lo so e non capisco che c’entri con quello che ti ho detto.
– C’entra, risposi. Vedrai che c’entra. E’ stato subito dopo lo sciopero per le pensioni. C’era una riunione confederale nei locali della Mostra. Una di quelle cose che non si sa a che servano, non hanno l’onore della cronaca, perciò non interessano nessuno, non richiamano grandi nomi da Roma, non c’è vetrina e chi può non ci va. Mi fu detto di rappresentare la scuola e rimasi incastrato.
Francesco dava ormai segni d’impazienza e il cicalare prolungato del telefono era insopportabile.
– Diavolo, perché non rispondi?, mi chiese.
– Perché no, risposi indisponente, senza perdere il filo. Lui ammutolì e io ricominciai.
– Ci andai, rassegnato al tran tran e deciso a far atto di presenza. Arrivai che ormai avevano già cominciato e. il segretario regionale dei metalmeccanici provava a infilare il sindacato in un ambiguo progetto sull’utilizzazione delle aree industriali dismesse. Gli operai ce li trovammo addosso d’improvviso. Sulle tute, in petto, si leggeva chiaro il nome della fabbrica, più chiara, sui loro volti scuri, si leggeva una rabbia che faceva paura. Strappato il microfono all’oratore, pallido come uno straccio, uno dei lavoratori cominciò a parlare. Ufficialmente, spiegò, l’Icme era una fabbrica chiusa da un anno. L’azienda sosteneva che non aveva più mercato, ma loro, gli operai, l’avevano occupata e da un anno tiravano avanti con le scorte di magazzino. Noi produciamo e vendiamo, il mercato c’è, urlava con forza disperata l’operaio, E’ il padrone che se ne va Dio sa dove a sfruttare mano d’opera e nessuno fa nulla. Nessuno, nemmeno il sindacato. Eravamo praticamente prigionieri. Presero per il collo Vassallo, il segretario che stava parlando e lui, livido e pauroso promise mari e monti: “Andremo a Roma assieme, compagni. Il sindacato c’è. Vedrete che c’è. Ci andremo e non molleremo finché non si trova una soluzione”. Com’erano venuti, i lavoratori sparirono. Appena si chiuse la porta, Vassallo si riprese il microfono e urlò: “Estremisti del cazzo! Compagni, per questi dell’Icme s’è fatto quel che si poteva, ma è già tutto deciso e il partito è d’accordo. Sono problemi delicati, l’Europa ci impone quote di produzione”. I presenti non trovarono nulla da obiettare. Tutti erano sollevati per il pericolo scampato e uno solo, non ricordo, chi, urlò dall’ultima fila: “E allora perché mentire? Perché promettere Roma e una soluzione? Che c’entra il partito? Noi che ci stiamo a fare qui in tanti, se non serviamo a niente?”. Vassallo non si scompose. “Voi siete dirigenti, replicò. Basta con inutili estremismi”. Attorno a lui il silenzio era complice e indifferente. Il pericolo era lontano e quelli dell’Icme irrimediabilmente condannati. Ora l’hai capito che c’entra l’Icme? Se continua così, caro Francesco, rappresenteremo solo noi stessi. E temo che non ci sia più tempo.
Francesco m’avrebbe certamente esposto i suoi dogmi sulla trattativa con la prevedibile conclusione sul caso classico per cui qualcosa perdi e qualcosa guadagni, ma non ne ebbe il tempo. Il telefono riprese la sua danza e stavolta risposi:
– Località Soffritti? – domandai sorpreso. Non so dove sia… Ai Camaldoli, vicino al Monastero? Sì, è nella mia zona, preside, ma se bruciano copertoni e sono minacciosi, meglio i carabinieri che il sindacato… No? C’entra il sindacato? D’accordo, vengo. Il tempo di arrivare, ma sono chilometri, ora sto a Pozzuoli… Certo che vengo, preside, prometto.
– Ma dove vai? Che c’entri tu con gli incidenti di piazza?, fece Francesco stupito.
– E’ una scuola e se ho capito bene c’è un problema sindacale…
– Non è compito tuo, vada la polizia, poi il sindacato vedrà!
Uscii senza rispondergli. Ero maledettamente stanco. Da tanto, troppo tempo giravo a vuoto e non concludevo nulla. A Francesco, però, non l’avrei mai detto, non lo dicevo nemmeno a me stesso, però lo capivo: la stanchezza dell’animo ti chiede forze che non pensi di avere. Le trovi, è vero, ma è perché lo sai: se ti fermi, ti perdi. Era scritto, tuttavia, e anche questo sapevo. Prima o poi mi sarei fermato. E perciò mi sarei perso.
Uscito su “Fuoriregistro” l’11 aprile 2012