Diciamolo subito e poi lasciamoci dietro le discussioni inutili di chi si arrampica sugli specchi per giustificare i «bravi ragazzi che rischiano la vita»: è vero, ci sono carabinieri perbene che perdono la vita in servizio. Diciamolo una volta per tutte, na ricordiamo i lavoratori muoiono ogni anno “in servizio”, uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Qui da noi si muore di lavoro e la vita la rischiano in tanti, a cominciare dai pompieri, ma non risulta a nessuno che il pompiere-mela-marcia pesti di botte chi gli ha chiesto soccorso.
Vorrei che su questo argomento noi di «Potere al Popolo!» portassimo un contributo originale, in grado di evitare il battibeccare fazioso dei favorevoli e dei contrari. Non sono molti a saperlo, ma comiciamo col ricordarlo: la proposta di sciogliere l’Arma non è nata in questi ultimi anni in seguito ai casi clamorosi di Cucchi e di altri sventurati come lui. Quando si parla di scioglimento dell’Arma occorre risalire direttamente agli anni in cui fu ricostruito il Paese dopo la tragedia del fascismo.
La proposta, infatti, partì da Guido Dorso, “azionista” e grande meridionalista che conosceva bene la nostra storia e non usò mezze parole: se vogliamo costruire davvero una democrazia, sostenne Dorso nel 1945, occorre sciogliere l’Arma dei carabinieri. Aveva ragioni da vendere e le spiegò con lucida chiarezza. Come tante questioni serie poste in quegli anni da chi guardò lontano, non solo la proposta fu ignorata dai grandi Partiti, ma chi va a cercare in archivio scopre che non solo i carabinieri rimasero tranquillamente al loro postom ma schedarono Dorso, che finì segnalato come se il fascismo non fosse caduto, la libertà di pensiero costituisse ancora un reato e il grande meridionalista non fosse altro che un «sovversivo pericoloso».
Diciamolo chiaro perciò e non abbocchiamo all’amo dei ciarlatani frequentatori di salotti televisivi: non si tratta solo di Stefano Cucchi, che di per sé sarebbe già un caso inaccettabile. E’ che noi non sappiamo a quanti Cucchi è stata spezzata la vita con una scarica di botte, con un rapporto che ti mandava e ti manda in carcere, o al manicomio, finché i manicomi sono stati aperti. Non sappiamo quante siano state dall’unità d’Italia a oggi le vittime di una violenza che non ha un nome, un cognome o un indirizzo. Quante siano e quante purtroppo saranno. Sappiamo che quando è accaduto non è mancato il servo sciocco di un potere capace di stritolare, il quale se n’è venuto fuori con i bravi ragazzi che rischiano la vita. L’intellettuale del «particulare», per dirla con Guicciardini, è nel DNA della nostra storia: ci siamo abituati e la memoria è corta.
Qualcuno si è accorto che tempo fa sotto un appello a marciare contro il razzismo, c’era la firma di Marco Rossi Doria, ex paladino del dialogo con Casapound? No. Non se n’è accorto nessuno, perciò diciamolo chiaro, Guido Dorso, messo d’un tratto sotto controllo, non è impazzito. Lo studioso antifascista sa bene quanta miseria umana ha prodotto il fascismo. Sa che i carabinieri, folgorati sulla via di Damasco e convertiti all’idea repubblicana, hanno cominciato a incarcerare partigiani e «dissidenti» di sinistra. Glielo consentono il Codice Rocco – che nessuno provvederà mai a bandire – e di lì a poco l’amnistia, di cui si parla da tempo e che Togliatti firma, dopo averne affidato il testo a un vero campione di democrazia: Gaetano Azzariti, compromesso con la Magistratura fascista fin dal 1928, zelante collaboratore del ministro Dino Grandi nell’elaborazione del codice civile e di procedura civile, Presidente del Tribunale della razza, ministro con Badoglio e – perché no? – giudice della Corte costituzionale nel 1955. Giudice e poi presidente.
Dorso sa. Per questo a novembre del 1945, mentre la repubblica è in gestazione, esamina in maniera critica l’essenza dello Stato italiano; vengono fuori così due figure chiave: il «Prefetto che costituisce l’architrave dello stato storico» e il «Maresciallo dei RR. CC.», l’equivalente di «quello che gli architetti chiamano la voltina». Nonostante la guerra partigiana e il sommovimento tellurico che l’ha lesionata «la piccola ma robusta voltina è emersa tra i calcinacci pericolosi, mostrando la sua intima connessione con l’architrave prefettizio e con le altre principali strutture dell’edificio», prima di tutte quella Magistratura per la quale il maresciallo è come il Papa.
Cucchi non è morto per le botte. L’ha ucciso questa struttura rimasta intatta. Oggi come allora, la quasi totalità dei Magistrati, proprio come scriveva Dorso nel 1945, giura «in verba Marescialli con assoluta convinzione. Ipse dixit, come Aristotele». Per questo elementare motivo, che ha radici profonde nella nostra storia, Dorso riteneva che occorresse sciogliere l’Arma. Dopo decenni, il suo ironico ricorso ad Anatole France e al caso Crainquebille e un capolavoro di giornalismo.
Crainquebille, ricorda Dorso, è un venditore ambulante protagonista di un caso giudiziario tipico di una giustizia sciocca, feroce e vendicativa. Un caso apparentemente banale: un vigile intima all’ambulante di circolare per non intralciare il traffico, il venditore non ubbidisce subito, ne nasce un battibecco e la guardia, che non ammette di essere contraddetta, denuncia, imprigiona e trascina davanti al giudice l’ambulante. Crainquebille non ha scampo: è condannato, malgrado un medico testimoni a suo favore in maniera più che convincente. Scontata la pena e tuttavia isolato, perde i clienti, il lavoro e presto anche la testa. Era un brav’uomo, diventa cattivo, non ha di che vivere – né un tetto né un tozzo di pane – e quando pensa che è meglio farsi arrestare ancora, per cercare scampo a spese dello Stato che l’ha distrutto, scopre che nemmeno la galera è disponibile ad accettarlo.
Sono «di moda nelle nostre Corti di giustizia», le considerazioni «che concludono il malinconico racconto del caso Crainquebille». Così scrive Dorso e potrebbe essere oggi. La parola del maresciallo dei Carabinieri è verità di fede per il giudice e se il maresciallo ti vuole rovinare, lo fa. Il giudice, i benpensanti, la società perbenista optano sempre per «il potere costituito». E’ stata questa la morte che ha ucciso Cucchi, la stessa che uccide i «dissidenti», i «diversi», i Rom, gli immigrati e chiunque si metta di traverso. L’Arma è la migliore garanzia di questa feroce continuità dello Stato. Credo che Potere al Popolo!, nato per «fare tutto al contrario», non possa contentarsi della pietà per Cucchi, della solidarietà per la sorella Ilaria e della repulsione per quento emerge in questi giorni. Come Dorso, deve chiedere lo scioglimento dell’Arma, il miglior alleato di un potere costituito, rappresentato alla perfezione da ministri dell’Interno come Minniti, che ha consentito la partecipazione di Casapond alle elezioni, e come Salvini, amico dichiarato dei fascisti del terzo millennio.
L’Arma dei carabinieri e la democrazia malata
26/07/2020 di giuseppearagno
Egregio professore,
è un ottimo articolo. Purtroppo siamo una democrazia da fondare.Le invio un lungo commento personale che fa però affidamento alla realtà vissuta.
Abbiamo una classe di politici che in nessun conto tiene la responsabilità personale, né la incoraggia e fa di tutto perché il cittadino abbia occasioni di pagare qualche multa o avere fastidi per i più svariati e ridicoli motivi. Così né i carabinieri né i magistrati tengono in conto l’articolo 21 della Costituzione. I carabinieri ritenendosi incapaci di ragionare in proprio e per non avere rogne, succubi della magistratura e il magistrato può capitare che sia un fascista, come è capitato a me, il quale dopo avere letto a voce alta che io sono nato in Libia e dopo avermi guardato, sollevò con sentimento mani ed occhi al cielo pronunciando la frase: « Ah, già …allora avevamo un Impero! »…mona ti e el to impero…ma non solo fascista, anche disonesto. Infatti dopo un anno e forse più si decise ad ammettere che non c’era motivo di mandarmi a processo perché con quei manifesti io non avevo inteso offendere la religione, né i cattolici; però, avvertito dai carabinieri che alcune beghine si erano lamentate/i dei manifesti, diede ordine ai carabinieri di strappare gli 8 manifesti, senza indugio, ma per i quali io avevo pagato la relativa tassa di affissione. Non capisco come sia arrivato alla conclusione che io non volessi offendere perché se essa derivava dal testo dei manifesti avrebbe dovuto sopprassedere subito alla loro distruzione: non lo fece al solo scopo di perdere tempo? E si consideri pure che il testo non era un classico della letteratura, come non lo è l’articolo 21 della Costituzione: l’avranno mai letto?, e quindi già i carabinieri avrebbero potuto leggerlo con responsabilità e provvedere. A me pare un comportamento disonesto, oltreché per nulla professionale. E diciamo pure di quei magistrati, certi pm e certe procure di parte (io ho avuto esperienza con una chiaramente di destra ed espressamente partitica), che operano inventandosi reati inesistenti, forse per giustificare il proprio stipendio, reati che mantengono in piedi sine die con la scusa che i loro uffici non hanno organico sufficiente: però per inventarsi i reati inesistenti l’organico e il tempo lo trovano. Come trovano il tempo per accettare denunce di cazzate o per fatti inesistenti, per reati che nascono nelle Procure da parte di esponenti della Procura solo per fare un favore all’amico di partito.
Se vedete un cosiddetto rappresentante, di qualunque livello rubare a man bassa sotto i vostri occhi, fregatevene perché nella teoria e nella pratica del diritto proprio della visione liberale e borghese la pena ha funzione ignota, così come la giustificazione e la misura di essa; tanto che si comminano 10 anni di galera e lavori forzati a Jean Valjean per avere rubato una forma di pane per soddisfare la fame dei suoi piccoli nipoti, mentre ad un criminale seriale, già condannato ad anni di galera mai fatti, dalla personalità psicopatica tanto che dorme un paio di ore per notte, una liberale commissione e borghese ha comminato una semplice multa per il reato di falso in bilancio teso a realizzare un maniaco e malato amore per i soldi e la ricchezza comunque accumulata: una multa che il diretto interessato, immagino, avrà utilizzato come, ancorché improprio, accessorio igienico sanitario; anche perché con la falsificazione del bilancio si era già messo in tasca un bel po’ di soldi : quelli di tasse non pagate proprio grazie alla falsificazione del bilancio: per non dire di altri reati che la depenalizzazione del falso in bilancio ha mandato in prescrizione.
Da notare che il multato aveva già un piede in galera e che questa era ciò che lo spaventava, per sua esplicita ammissione, e che lo avrebbe potuto consigliare di modificare in meglio la sua condotta…ma sopravvenne, inaspettata?, la commissione borghese e liberale con la multa.
La differenza tra i due casi è data dalla circostanza che mentre il primo caso, quello di Jean Valjean, è parto della fantasia di un romanziere, che suppongo comunque fedele alla legge corrente o al senso della giustizia al tempo della narrazione, il secondo caso è fedele esposizione di fatti reali di casa nostra e realmente accaduti. Ma appartiene anche alla nostra epoca la condanna per furto di una mela per fame, pur con tutte le attenuanti possibili per il reo, mentre per lui si dovrebbe sentenziare di trovargli un lavoro adeguato perché possa sfamarsi nel presente e nel futuro.