Diciamolo subito e poi lasciamoci dietro le discussioni inutili di chi si arrampica sugli specchi per giustificare i «bravi ragazzi che rischiano la vita»: è vero, ci sono carabinieri perbene che perdono la vita in servizio. Diciamolo una volta per tutte, na ricordiamo i lavoratori muoiono ogni anno “in servizio”, uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Qui da noi si muore di lavoro e la vita la rischiano in tanti, a cominciare dai pompieri, ma non risulta a nessuno che il pompiere-mela-marcia pesti di botte chi gli ha chiesto soccorso.
Vorrei che su questo argomento noi di «Potere al Popolo!» portassimo un contributo originale, in grado di evitare il battibeccare fazioso dei favorevoli e dei contrari. Non sono molti a saperlo, ma comiciamo col ricordarlo: la proposta di sciogliere l’Arma non è nata in questi ultimi anni in seguito ai casi clamorosi di Cucchi e di altri sventurati come lui. Quando si parla di scioglimento dell’Arma occorre risalire direttamente agli anni in cui fu ricostruito il Paese dopo la tragedia del fascismo.
La proposta, infatti, partì da Guido Dorso, “azionista” e grande meridionalista che conosceva bene la nostra storia e non usò mezze parole: se vogliamo costruire davvero una democrazia, sostenne Dorso nel 1945, occorre sciogliere l’Arma dei carabinieri. Aveva ragioni da vendere e le spiegò con lucida chiarezza. Come tante questioni serie poste in quegli anni da chi guardò lontano, non solo la proposta fu ignorata dai grandi Partiti, ma chi va a cercare in archivio scopre che non solo i carabinieri rimasero tranquillamente al loro postom ma schedarono Dorso, che finì segnalato come se il fascismo non fosse caduto, la libertà di pensiero costituisse ancora un reato e il grande meridionalista non fosse altro che un «sovversivo pericoloso».
Diciamolo chiaro perciò e non abbocchiamo all’amo dei ciarlatani frequentatori di salotti televisivi: non si tratta solo di Stefano Cucchi, che di per sé sarebbe già un caso inaccettabile. E’ che noi non sappiamo a quanti Cucchi è stata spezzata la vita con una scarica di botte, con un rapporto che ti mandava e ti manda in carcere, o al manicomio, finché i manicomi sono stati aperti. Non sappiamo quante siano state dall’unità d’Italia a oggi le vittime di una violenza che non ha un nome, un cognome o un indirizzo. Quante siano e quante purtroppo saranno. Sappiamo che quando è accaduto non è mancato il servo sciocco di un potere capace di stritolare, il quale se n’è venuto fuori con i bravi ragazzi che rischiano la vita. L’intellettuale del «particulare», per dirla con Guicciardini, è nel DNA della nostra storia: ci siamo abituati e la memoria è corta.
Qualcuno si è accorto che tempo fa sotto un appello a marciare contro il razzismo, c’era la firma di Marco Rossi Doria, ex paladino del dialogo con Casapound? No. Non se n’è accorto nessuno, perciò diciamolo chiaro, Guido Dorso, messo d’un tratto sotto controllo, non è impazzito. Lo studioso antifascista sa bene quanta miseria umana ha prodotto il fascismo. Sa che i carabinieri, folgorati sulla via di Damasco e convertiti all’idea repubblicana, hanno cominciato a incarcerare partigiani e «dissidenti» di sinistra. Glielo consentono il Codice Rocco – che nessuno provvederà mai a bandire – e di lì a poco l’amnistia, di cui si parla da tempo e che Togliatti firma, dopo averne affidato il testo a un vero campione di democrazia: Gaetano Azzariti, compromesso con la Magistratura fascista fin dal 1928, zelante collaboratore del ministro Dino Grandi nell’elaborazione del codice civile e di procedura civile, Presidente del Tribunale della razza, ministro con Badoglio e – perché no? – giudice della Corte costituzionale nel 1955. Giudice e poi presidente.
Dorso sa. Per questo a novembre del 1945, mentre la repubblica è in gestazione, esamina in maniera critica l’essenza dello Stato italiano; vengono fuori così due figure chiave: il «Prefetto che costituisce l’architrave dello stato storico» e il «Maresciallo dei RR. CC.», l’equivalente di «quello che gli architetti chiamano la voltina». Nonostante la guerra partigiana e il sommovimento tellurico che l’ha lesionata «la piccola ma robusta voltina è emersa tra i calcinacci pericolosi, mostrando la sua intima connessione con l’architrave prefettizio e con le altre principali strutture dell’edificio», prima di tutte quella Magistratura per la quale il maresciallo è come il Papa.
Cucchi non è morto per le botte. L’ha ucciso questa struttura rimasta intatta. Oggi come allora, la quasi totalità dei Magistrati, proprio come scriveva Dorso nel 1945, giura «in verba Marescialli con assoluta convinzione. Ipse dixit, come Aristotele». Per questo elementare motivo, che ha radici profonde nella nostra storia, Dorso riteneva che occorresse sciogliere l’Arma. Dopo decenni, il suo ironico ricorso ad Anatole France e al caso Crainquebille e un capolavoro di giornalismo.
Crainquebille, ricorda Dorso, è un venditore ambulante protagonista di un caso giudiziario tipico di una giustizia sciocca, feroce e vendicativa. Un caso apparentemente banale: un vigile intima all’ambulante di circolare per non intralciare il traffico, il venditore non ubbidisce subito, ne nasce un battibecco e la guardia, che non ammette di essere contraddetta, denuncia, imprigiona e trascina davanti al giudice l’ambulante. Crainquebille non ha scampo: è condannato, malgrado un medico testimoni a suo favore in maniera più che convincente. Scontata la pena e tuttavia isolato, perde i clienti, il lavoro e presto anche la testa. Era un brav’uomo, diventa cattivo, non ha di che vivere – né un tetto né un tozzo di pane – e quando pensa che è meglio farsi arrestare ancora, per cercare scampo a spese dello Stato che l’ha distrutto, scopre che nemmeno la galera è disponibile ad accettarlo.
Sono «di moda nelle nostre Corti di giustizia», le considerazioni «che concludono il malinconico racconto del caso Crainquebille». Così scrive Dorso e potrebbe essere oggi. La parola del maresciallo dei Carabinieri è verità di fede per il giudice e se il maresciallo ti vuole rovinare, lo fa. Il giudice, i benpensanti, la società perbenista optano sempre per «il potere costituito». E’ stata questa la morte che ha ucciso Cucchi, la stessa che uccide i «dissidenti», i «diversi», i Rom, gli immigrati e chiunque si metta di traverso. L’Arma è la migliore garanzia di questa feroce continuità dello Stato. Credo che Potere al Popolo!, nato per «fare tutto al contrario», non possa contentarsi della pietà per Cucchi, della solidarietà per la sorella Ilaria e della repulsione per quento emerge in questi giorni. Come Dorso, deve chiedere lo scioglimento dell’Arma, il miglior alleato di un potere costituito, rappresentato alla perfezione da ministri dell’Interno come Minniti, che ha consentito la partecipazione di Casapond alle elezioni, e come Salvini, amico dichiarato dei fascisti del terzo millennio.
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L’Arma dei carabinieri e la democrazia malata
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Anatole France, carabinieri, Casapound, Crainquebille, Guido Dorso, Ilaria Cucchi, Minniti, Salvini, Stefano Cucchi on 26/07/2020| 1 Comment »
Guido Dorso: sciogliere l’Arma
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged Gaetano Azzariti, Guido Dorso, Ilaria Cucchi, Parlmiro Togliatti, Potere al popolo, Stefano Cucchi on 10/04/2019| 3 Comments »
Va bene, basta. Diciamolo e poi superiamo le discussioni inutili, che si fanno ad arte per giustificare i «bravi ragazzi che rischiano la vita»: ci sono carabinieri perbene o, per dir meglio, ci sono persino carabinieri perbene che perdono la vita in servizio. Diciamolo e però ricordiamo quanti lavoratori muoiono ogni anno uccisi da imprenditori che non rispettano le norme di sicurezza. Non ce n’è uno che uccida i padroni. Qui da noi si muore di lavoro e la vita la rischiano in tanti, a cominciare dai pompieri e non risulta a nessuno che il pompiere-mela-marcia pesti di botte chi ha chiesto soccorso.
Non ho scelto per caso «Potere al Popolo!» e vorrei che lo dicessimo: quando si trattò di costruire la Repubblica sulle ceneri del fascismo, Guido Dorso, che non frequentava centri sociali, ma conosceva la nostra storia, fu netto e coraggioso: se vogliamo che sia davvero una democrazia, dobbiamo sciogliere l’Arma dei carabinieri. Basta andare a cercare in archivio per sapere come finì: i carabinieri sono ancora al loro posto e Dorso finì segnalato come se il fascismo non fosse caduto, la libertà di pensiero costituisse ancora un reato e il grande meridionalista non fosse altro che il solito «pericoloso sovversivo».
Diciamolo chiaro anche noi e non abbocchiamo all’amo dei ciarlatani dei salotti televisivi: non si tratta solo di Stefano Cucchi, che di per sé sarebbe già un caso inaccettabile. E’ che non sappiamo a quanti Cucchi è stata spezzata la vita con una scarica di botte, con un rapporto che ti mandava e ti manda in carcere, al soggiorno obbligato e al manicomio, finché i manicomi sono stati aperti. Non sappiamo quante siano state dall’unità d’Italia a oggi le vittime di una violenza che non ha un nome, un cognome o un indirizzo. Quante siano e quante purtroppo saranno. Sappiamo che quando è accaduto non è mancato il servo sciocco di un potere capace di stritolare, il quale se n’è venuto fuori con i bravi ragazzi che rischiano la vita. L’intellettuale del «particulare», per dirla con Guicciardini, è nel DNA della nostra storia: ci siamo abituati e la memoria è corta.
Qualcuno si è accorto che sotto l’ultimo appello a marciare contro il razzismo, c’è la firma di Marco Rossi Doria, che pochi anni faceva il paladino del dialogo con Casapound? No. Non se n’è accorto nessuno, perciò diciamolo chiaro, Guido Dorso, messo d’un tratto sotto controllo, non è impazzito. Sa bene, lo studioso antifascista, quanta miseria umana ha prodotto il fascismo. Sa che i carabinieri, folgorati sulla via di Damasco e convertiti all’idea repubblicana, hanno cominciato a incarcerare partigiani e «dissidenti» di sinistra. Glielo consentono il Codice Rocco – che nessuno provvederà mai a bandire – e di lì a poco l’amnistia, di cui si parla da tempo e che Togliatti firma, dopo averne affidato il testo a un vero campione di democrazia: Gaetano Azzariti, compromesso con la Magistratura fascista fin dal 1928, zelante collaboratore del ministro Dino Grandi nell’elaborazione dei codici civile e di procedura civile, Presidente del Tribunale della razza, ministro con Badoglio e – perché no? – giudice della Corte costituzionale nel 1955. Giudice e poi presidente.
Dorso sa. Per questo a novembre del 1945, mentre la repubblica è in gestazione, mette sotto l’obiettivo della sua critica l’essenza dello Stato italiano; vengono fuori così le due figure chiave: il «Prefetto che costituisce l’architrave dello stato storico» e il «Maresciallo dei RR. CC.», l’equivalente di «quello che gli architetti chiamano la voltina». Nonostante la guerra partigiana e il sommovimento tellurico che l’ha lesionata «la piccola ma robusta voltina è emersa tra i calcinacci pericolosi, mostrando la sua intima connessione con l’architrave prefettizio e con le altre principali strutture dell’edificio», prima di tutte quella Magistratura per la quale il maresciallo è come il Papa.
Cucchi non è morto per le botte. L’ha ucciso questa struttura rimasta intatta. Oggi come allora, la quasi totalità dei Magistrati, proprio come scriveva Dorso nel 1945, giura «in verba Marescialli con assoluta convinzione. Ipse dixit, come Aristotele». Per questo elementare motivo, che ha radici profonde nella nostra storia, Dorso riteneva che occorresse sciogliere l’Arma. E’ ancora oggi un capolavoro di giornalismo l’ironico ricorso ad Anatole France, e al suo Crainquebille – un venditore ambulante protagonista di un caso giudiziario caratteristico di una giustizia sciocca, feroce e vendicativa, al quale un vigile intima di circolare per non intralciare il traffico. Ne nasce un battibecco e la guardia, che non ammette di essere contraddetta, denuncia, imprigiona e conduce al processo, Crainquebille non ha scampo: è condannato, malgrado un medico testimoni a suo favore in maniera più che convincente. Scontata la pena e tuttavia isolato, perde i clienti, il lavoro e presto anche la testa. Era un brav’uomo, diventa cattivo, non ha di che vivere – né un tetto né un tozzo di pane – e quando pensa che è meglio farsi arrestare ancora, per cercare scampo a spese dello Stato che l’ha distrutto, scopre che nemmeno la galera è disponibile ad accettarlo.
Sono «di moda nelle nostre Corti di giustizia», le considerazioni «che concludono il malinconico racconto del caso Crainquebille». Così scrive Dorso. La parola del maresciallo dei Carabinieri è verità di fede per il giudice e se il maresciallo ti vuole rovinare, lo fa. Il giudice, i benpensanti, la società perbenista optano sempre per «il potere costituito». E’ stata questa la morte che ha ucciso Cucchi, la stessa che uccide i «dissidenti», i «diversi», i Rom, gli immigrati e chiunque si metta di traverso. L’Arma è la migliore garanzia di questa feroce continuità dello Stato. Credo che Potere al Popolo!, nato per «fare tutto al contrario», non possa contentarsi della pietà per Cucchi e della solidarietà per la sorella Ilaria. Come Dorso, deve chiedere lo scioglimento dell’Arma, il miglior alleato di un potere costituito, rappresentato alla perfezione dai due ultimi ministri dell’interno: Minniti, che ha consentito la partecipazione di Casapond alle elezioni, e Salvini amico dichiarato dei fascisti del terzo millennio.
Agoravox, 12 aprile 2019
Quando la memoria storica soffre d’ignoranza politica
Posted in Interventi e riflessioni, tagged Guido Dorso, Quattro Giornate, Salvini on 02/08/2018| Leave a Comment »
«Molti nemici, molto onore» ha dichiarato non a caso Salvini, ma pare che nemmeno questo sia bastato purtroppo a far suonare con forza un campanello di allarme. E’ accaduto mille volte: la percezione di una tragedia storica è infinitamente più lenta della rapidità con cui essa si abbatte su un popolo inconsapevole e complice e lo travolge senza possibilità di scampo.
Fa male scriverlo, ma si direbbe che le cose stiano così anche stavolta, in questo terribile 2018 che, a partire dall’insediamento del «governo del cambiamento», ci ha portato un episodio di violenza razziale ogni due giorni e la resurrezione del fascismo, adattato ai nostri tempi e però saldamente ancorato a quello storico. E’ per questo forse, per una consapevolezza che dovrebbe esserci ma non c’è, che anche in un anno come questo le «celebrazioni» dell’anniversario delle Quattro Giornate sembrano collocarsi nel solco di una tradizione di ricostruzioni parziali e mezze verità, che non ha mai reso un buon servizio alla causa della democrazia.
E’ sconcertante che una corona di fiori sulla lapide della basilica di Santa Chiara distrutta il 4 agosto 1943 da un bombardamento degli Alleati apra quest’anno le manifestazioni per ricordare le Quattro Giornate di Napoli. Spero sia solo una falsa partenza, ma mi domando perché almeno stavolta non si colga l’occasione per aprire un dibattito serio e approfondito sulle terribili responsabilità italiane. Una discussione in cui si dica infine ciò che di solito si tace – la guerra è una barbarie che l’Italia aveva voluto e fu combattuta al fianco dei nazisti – e si denunci la vergognosa medaglia posta recentemente sul «valoroso petto» di un nostro centenario pilota, uno di quelli che per primi sperimentarono l’uso terroristico dell’arma aerea a spese della Spagna repubblicana, aggredita senza dichiarazione di guerra.
Quanti sanno, che nostri purtroppo, anche nostri e non solo nazisti, furono gli aerei, le bombe e i piloti che rasero al suolo Guernica e colpirono Barcellona, bombardando a tappeto persino la preziosa «Escola do mar»?
Mi chiedo perché – e lo dico con il rispetto dovuto a Salvo D’Aquisto – non si colga l’occasione per ricordare il ruolo dell’Arma dei carabinieri, soprattutto dei suoi ufficiali, che, a parte qualche nobile eccezione, prima fuggirono, lasciando ai civili il compito di combattere contro nazisti e fascisti, poi, tornati impuniti ai loro posti nella città liberata, si diedero da fare per proteggere i gerarchi fascisti, dare la caccia ai partigiani che non consegnarono le armi e ammanettare gente come Eduardo Pansini, perseguitato politico e comandante partigiano napoletano. Quei carabinieri – perché non dirlo? – di cui l’azionista Guido Dorso chiese lo scioglimento e per questo fu schedato tra i sovversivi.
Per ricordare le Quattro Giornate in quest’anno tragico sarebbe necessario uscire dal solito terreno celebrativo e legare il passato al presente con un gesto di coraggio e di verità. Bisognerebbe farlo, perché questo non è un anno come gli altri e mai come stavolta la storia, «maestra di vita», non può essere ridotta a luogo comune.
Quello in cui viviamo non è l’Italia che sognarono e per la quale diedero la vita i nostri partigiani. Se è andata così e ci troviamo a fare i conti con Salvini è anche perché per anni si è taciuto sui notri crimini e si è insistito sulla ferocia nazista e sulle bombe degli altri.
Alla città che fino a qualche tempo fa si dichiarava «ribelle», ma è andata poi a votare in massa per gli alleati di Salvini, più che gli errori degli altri, occorre ricordare i nostri, spiegare che nel 1943 si è combattuto anzitutto contro le nostre bombe e la nostra ferocia, per un’Europa diversa da quella che è poi nata e ci opprime. Si è combattuto – ma nessuno lo dice – contro quelle bombe e quella ferocia che, tornate di nuovo sulla scena in aperto contrasto con la Costituzione, hanno trasformato la Libia in un tragico lager.
Di ciò non si parla purtroppo e questo silenzio è il miglior alleato del neofascismo.
I carabinierI di Michele Serra, ovvero tecnica della disinformazione
Posted in Carta stampata e giornali on line, tagged carabinieri, Crispi, disinformazione, Guido Dorso, Luigi Bifulco, Michele Serra, Mussolini, Renzi-Napolitano, repressione on 19/10/2014| 7 Comments »
Due parole a mente fredda sulla morte di Luigi Bifulco. Due parole oggi, quando la stampa di regime, compiuta la missione, ha chiuso la pratica e ha sepolto la verità con il ragazzo. Due parole per controinformarzione, sul velenoso trafiletto che Michele Serra scrisse per Repubblica l’undici settembre:
«La tragedia napoletana che ha visto morire un ragazzo per mano di un carabiniere è una specie di memento della catastrofe sociale italiana. Si vedono e si sentono i coetanei di Davide piangere e inveire, scandire slogan con il braccio teso nel modo degli ultras (la cultura “politica” largamente egemone tra i giovani dei ceti popolari di tutta Italia, anche fuori dagli stadi), e ieri chiedere e ottenere che il capo degli “sbirri” – un maresciallo civile, gentile – si levi il cappello davanti al lutto popolare. Ne sono morti dieci, cento volte di più per mano di camorra, di ragazzi come Davide, qualcuno anche innocente come lui, ma non risultano boss con il cappello in mano, a chiedere scusa.
L’illegalità implacabile che regola la vita di quei quartieri è l’evidente causa di questa e altre morti, fermarsi a un posto di blocco o mettere il casco o avere documenti in regola non fa parte delle premure messe a tutela degli altri e di se stessi. Nel clima di guerra l’assenza di pietà, i nervi tesi, lo sfoggio continuo di prestanza fisica e di impudenza sono le “qualità” richieste ai maschi giovani, e ne è rimasto vittima anche il carabiniere che ha sparato, lui, almeno, riconoscibile da una divisa e da quella divisa inchiodato alle sue responsabilità. Ma le responsabilità degli altri? Di tutti gli altri? Quanto se ne è parlato, in questi giorni? Quanto ha dominato il coro, invece, il lamento contro lo Stato sbirro e traditore, eterno alibi per non vedere il quotidiano tradimento contro se stessi di così tante persone?».
La deformazione dei fatti è cosi strumentale e brutale che, al confronto, la violenza sul ragazzo ucciso diventa carezza. Basta leggere attentamente per capirlo: Serra è fuori da una dimensione storica, è colto, ma stranamente ignora che all’alba della repubblica Guido Dorso chiese di sciogliere l’Arma dei Carabinieri, minaccia per la democrazia. Per Serra, il cuore del problema sono i nervi tesi del carabiniere che, guarda caso, è «vittima» assieme al ragazzo che ha ucciso. Il punto è che, senza coperture istituzionali, la camorra sarebbe finita. Dal «dittatore», Garibaldi, che a Napoli affida l’ordine pubblico a Liborio Romano, fino alla nascita della Repubblica e alla mafia che apre la strada ai «liberatori», è andata così. Porti la «cartolina precetto», che sottrae al lavoro contadini e operai, spari nella schiena al fantaccino che scappa sulla linea del fuoco nella «Grande guerra», tiri un colpo di rivoltella al ragazzino di un quartiere abbandonato al suo destino, o si tolga gentilmente il cappello, il carabiniere costituisce uno dei pilastri di un’antica ingiustizia: tutela gli interessi dei ceti dominanti. Così fu con Crispi, così con Mussolini, così oggi col governo Renzi-Napolitano.
Chiacchiere da bar? Non direi. Partiamo da fatti solo apparentemente lontani. Tra 1948 e 1950 le forze dell’ordine denunciano decine di migliaia di lavoratori e i giudici fascisti, che l’amnistia ha lasciati al loro posto, grazie al codice del fascista Rocco che nessuno ha voluto mandare in pensione, condannano oltre 15.000 “sovversivi” a 7.598 anni di carcere. Per farsi un’idea del clima che c’è nel Paese, basta un raffronto coi dati dell’Italia fascista, in cui, tra il 1927 e il 1943, il Tribunale Speciale condannò complessivamente gli imputati per reati politici a 27.735 anni di carcere. Per un triennio di storia repubblicana, quindi, la media annuale è di 2533. Molto più dei 1631 che fu la media annuale dell’Italia fascista. Nell’Italia repubblicana, nel 1948-52, in piazza le forze dell’ordine fecero, secondo dati ufficiali, 65 vittime (82 secondo fonti non ufficiali); in quegli stessi anni, in Francia si ebbero 3 morti, in Gran Bretagna e in Germania 6. A conferma del ruolo delle forze dell’ordine e della Magistratura, c’è l’intramontabile “modello Fiat”, varato dal fascista Valletta, passato agevolmente tra le maglie dell’epurazione: reparti-confino (tornarti di moda con Marchionne), schedature politiche e licenziamenti per rappresaglia di lavoratori comunisti, socialisti e anarchici. Nel 1974, una legge riconobbe la qualifica di “perseguitati politici” a 15.099 lavoratori e lavoratrici vessati in ogni modo tra il gennaio 1948 e l’agosto 1966.
Non sarà male ricordare sinteticamente a Serra i numeri agghiaccianti delle vittime. Non “casi” che vivono ancora nella coscienza del Paese, come quello di Giuseppe Pinelli, anarchico volato giù dalle finestre della Questura di Milano il 12 dicembre 1969, affidato al fascista Marcello Guida, già direttore della colonia penale di Ventotene, dove il regime aveva confinato lo stato maggiore dell’antifascismo militante a partire da Sandro Pertini. Si tratta di morti dimenticati, uccisi negli anni che vanno dalla caduta del fascismo ai giorni nostri.
26 luglio-27 settembre 1943 (caduta del fascismo-Quattro Giornate di Napoli e inizio Resistenza): il governo Badoglio ordina alla forza pubblica di sparare su chi protesta. A Bari, Bologna, Budrione, Canegrate, Colle Val d’Elsa, Cuneo, Desio, Faenza, Genova, Imperia, La Spezia, Laveno Mombello, Lullio, Massalombarda, Milano, Monfalcone, Napoli, Palma di Montechiaro, Pozzuoli, Reggio Emilia, Rieti, Roma, Rufino, San Giovanni di Vigo di Fassa, Sarissola di Busalla, Sassuolo, Sesto Fiorentino, Sestri Ponente, Torino, Urgnano, carabinieri, polizia e reparti dell’esercito in servizio di ordine pubblico fanno almeno 98 morti nelle manifestazioni seguite all’arresto di Mussolini e nelle lotte per carovita, lavoro, pace e libertà dei detenuti politici. In un sol caso, a Torino, durante uno sciopero alla Fiat, gli Alpini rifiutano di sparare. il 18 dicembre a Montesano, (SA), mentre ormai si lotta per la liberazione , le ultime vittime del tragico 1943. Il paesino insorge contro il malgoverno e paga con 8 morti. I carabinieri fascisti, ora badogliani, accusano ovviamente “elementi comunisti”. Ai carabinieri di Napoli un record insuperabile: l’arresto del primo partigiano, Eduardo Pansini, uno dei capi delle Quattro Giornate, a pochi giorni dall’insurrezione in cui è caduto da eroe il figlio Adolfo. Nei giorni di lotta sanguinosa, gli ufficiali superiori dei carabinieri, delle Forze Armate e dei corpi di Polizia se l’erano squagliata, lasciando in balia dei nazisti i loro uomini e la città.
Il 1944 con 35 vittime accertate e numerose rimaste ignote non va molto meglio. Il 13 gennaio a Montefalcone Sannio e a Torremaggiore esercito e polizia sparano ai contadini in lotta. Un conto preciso dei morti non s’è mai fatto. A Roma un carabiniere uccide un minorenne che manifesta contro gli accaparratori di grano, a Regalbuto i carabinieri uccidono Santi Milisenna, segretario della federazione del Pci. Di lì a poco cade una donna che manifesta per la mancanza di cibo, 3 morti si registrano a Licata, dove polizia e carabinieri sparano contro chi protesta perché all’ufficio del collocamento è tornato il dirigente fascista. A Ortucchio i carabinieri, giunti a sostegno dei principi Torlonia durante un’occupazione di terre, fanno due morti. A Palermo, una protesta per il caropane costa 23 morti. Stavolta sparano i soldati. Seguono due morti a Licata, un morto a Roma, e i tre morti di dicembre tra i separatisti siciliani
1945: 38 morti tra cui Vincenzo Lobaccaro, bracciante, scambiato per un ex confinato politico;
1946; 42 morti (7 cadono tra le forze di polizia);
1947: 8 morti (6 sono i militi uccisi;
1948: 35 vittime (ci sono anche 7 agenti caduti);
1949: 22 morti;
1950: 19 caduti;
1951: 4 morti;
1952: 2 vittime;
1953: 12 uccisi;
1954: 6 morti.
1955: non si spara e c’è tempo per un bilancio che non riguarda i morti. Secondo dati incompleti e parziali dal 1 gennaio 1948 al 31 dicembre 1954 ci furono 5.104 feriti e 148.269 arrestati.
1956: 7 morti;
1957: 4 vittime;
1959: 2 caduti;
1960: 11 morti ;
1961: 1 caduto;
1962: 2 vittime.
Una lunga pausa in coincidenza con l’esperienza del centro-sinistra, poi la contestazione giovanile e il triste elenco che si allunga:
1968: 3 morti;
1969: 5 caduti (1 poliziotto ucciso), cui si aggiungono Giuseppe Pinelli e Domenico Criscuolo, tassista incarcerato a Napoli durante una manifestazione sindacale. L’uomo si uccide dopo un colloquio con la moglie, che gli confessa di non sapere come procurarsi il denaro per vivere, insieme ai 5 figli. Strage di Stato e Servizi Segreti fanno i 17 morti del 12 dicembre a Milano uccisi da una bomba esplosa alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. E’ la cosiddetta “strategia della tensione“, che consentirà la repressione dei movimenti di massa di quegli anni. Per la strage di matrice fascista furono accusati senza alcuna prova gli anarchici, tra cui Pinelli e Pietro Valpeda.
Gli anni di piombo non rientrano un questo doloroso elenco. Furono anni di guerra civile strisciante e occorrerebbe un discorso a parte.
Il ritorno alla “normalità” si ha con il G8 di Genova nel 2001, quando una pistolettata uccide Carlo Giuliani e si registrano le feroci torture alla caserma Bolzaneto e alla scuola Diaz. Forse l’elenco che segue è incompleto e gli ammazzamenti non sono della stessa natura, ma basta avanza a giustificare la nausea per l’operazione di Serra.
11 luglio 2003: Marcello Lonzi, finito nel carcere di Livorno.
5 settembre 2005: Federico Aldovrandi, ucciso mentre viene arrestato.
27 ottobre 2006: Riccardo Rasman, finito per “asfissia da posizione”.
14 ottobre 2007: Aldo Bianzino, trovato morto nel carcere di Perugia.
11 novembre 2007: Gabriele Sandri, ucciso come Bifulco da un colpo accidentale.
14 giugno 2008: Giuseppe Uva, morto nella caserma in cui era stato portato.
22 ottobre 2009: Stefano Cucchi, ucciso durante la custodia cautelare.
3 marzo 2014: Riccardo Magherini, morto durante l’arresto.
Serra aveva di che riflettere su vittime e innocenti, ma il suo compito, per gli editori, è quello di impedire che riflettano i lettori. Meglio perciò le chiacchiere sulla camorra.
Uscito su Agoravox, IL 22 ottobre 2014