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A-dispetto-della-dittatura-fascista_I-copCome tutti i bravi studiosi, Gian Luigi Bettoli non nasconde i suoi ideali, ma utilizza un rigoroso metodo di indagine, che accerta accuratamente l’esistenza e il valore degli eventi che registra, poi, per dirla con Carr, non si lascia condizionare «da un’insostenibile concezione della storia come […] assoluto primato dei fatti sul momento interpretativo». Nel suo lavoro perciò il centro di gravità non è mai nel passato o nel presente, ma trova il suo punto d’equilibrio nel sentito bisogno di rendere i fatti adeguati all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti. E’ naturale perciò che compia le scelte suggerite dalla ricerca senza mai forzarne i termini.

Una prova di questa lodevole impostazione è fornita certamente dal denso volume intitolato A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra, edito da Olmis nel 2019. Il libro, che studia gli anni dal primo al secondo dopoguerra, chiude un lungo e attento lavoro di ricostruzione storica di ciò che è stato il movimento operaio friulano dagli anni ormai lontani dell’Ottocento al boom degli anni ‘60 del secolo scorso, avendo l’occhio particolarmente attento al Friuli, occidentale «antica roccaforte del socialismo»[1].

La mole dei documenti, la ricchezza del materiale iconografico, l’analisi approfondita dei fatti, molti dei quali sconosciuti o dimenticati, la capacità narrativa e il coraggio di ridurre all’essenziale i riferimenti archivistici e bibliografici, inconsueti in un panorama storiografico spesso appesantito da un uso eccessivo del «linguaggio specifico», adatto agli addetti ai lavori, ma del tutto inadeguato al lettore comune che prova ad avvicinarsi al saggio storico, costituiscono i caratteri di fondo di un lavoro che ha anzitutto un grande merito: in un momento storico in cui gli studi sul movimento operaio languono, Bettoli non solo li riprende, ma dimostra l’importanza che essi hanno per la conoscenza della storia generale del nostro Paese.

In questo senso il libro non è certamente un lavoro di storia locale e rappresenta, anzi, un esempio felice di storiografia marxista, che prende immediatamente le distanze dal dilagante revisionismo, riempie un vuoto di conoscenza e restituisce il posto che meritano nella nostra memoria storica fatti e soprattutto persone ingiustamente dimenticate. Il tema della resistenza al potere, diventa così immediatamente quello delle sofferenze subite dalle persone che hanno resistito «sottoposte a discriminazioni, persecuzioni, torture, ed alle relative conseguenze psichiche e fisiche fino alla morte proprio perché antifasciste»[2].

Di fatto, lo storico riporta alla luce ciò che si nasconde dietro il presunto «consenso» riscosso dal regime; un «consenso» apertamente e strumentalmente sopravvaluto da Renzo De Felice. Lo fa, per usare le parole stesse dell’autore, con la delicatezza necessaria alla dolente materia, scegliendo un modello espressivo che si pone la «questione della tutela della riservatezza della persona di cui […] ho appreso dati sensibili relativi a malattie ritenute stigmatizzanti, problemi di salute mentale, omosessualità, esercizio della prostituzione» e decidendo di «utilizzare un sistema misto, rendendo anonimi tutti quei casi dei quali non fossero già note, o in qualsiasi caso non apparissero significative ai fini della ricostruzione delle […] vicende personali dei protagonisti della ricerca»[3].

E’ bene dirlo subito. In questo nostro tempo, letteralmente prigioniero di una realtà politica rozza e culturalmente indigente, che tende sempre più a separare i governati dai governanti, lo storico friulano ha certamente presente quanto ebbe a scrivere sul fascismo come regime politico del capitale finanziario Pietro Grifone, economista e antifascista confinato[4]. Non a caso perciò il suo lavoro, restituendo la parola a chi il potere la tolse, non è solo un ottimo esempio di ricerca storica, ma uno strumento di lotta – un tempo si diceva «battaglia delle idee» – contro il riemergere di pericolose nostalgie strettamente legate a una crisi mondiale della democrazia.

Come giunga a porre al centro della sua ricerca la gente che resiste, è l’autore stesso a raccontarlo, facendo riferimento ai due «estremi caratteristici» del periodo di cui si occupa: «la conservazione del consenso elettorale della sinistra nelle sue roccaforti, a dispetto di un ventennio di regime fascista; la successiva e repentina contrazione di quella forza e l’instaurarsi di una egemonia moderata, imperniata attorno al blocco politico-sociale cattolico»[5]. Estremi caratteristici che pongono domande ineludibili: per quali ragioni si ebbe questo andamento apparentemente contraddittorio? Non vi è un solo modo per rispondere a una domanda come questa, ma l’autore non ha dubbi e sceglie direttamente quello che gli indica più chiaramente il lavoro che va compiendo negli archivi: «volgermi a ritroso, alla ricerca del percorso di almeno tre generazioni di attivisti politici che si sono sovrapposte, per cercare di capire le ragioni di questa egemonia […]. La stessa necessità di comprensione mi hanno spinto ad alcune incursioni nel decennio successivo, in quegli interminabili anni ’50 nei quali maturano cambiamenti sociali epocali»[6].

Da questa necessità per così dire “tecnica”, nasce una delle caratteristiche storiografiche più affascinanti e valide del lavoro: la centralità delle biografie di militanti politici e gente qualunque, che sono, sia pure a livelli diversi di consapevolezza, il cuore pulsante della ricostruzione del fascismo e della lunga resistenza al fascismo. Figure di seconda linea, militanti più o meno anonimi e gente del popolo che Bettoli non a caso ricorda come «persone escluse dal culto degli eroi»[7].

In questo senso il libro coglie con estrema chiarezza il limite del lavoro di Renzo De Felice e degli storici usciti dalla sua scuola, per i quali la connotazione di «storico militante» assume un valore del tutto negativo. Bettoli non utilizza mezze parole: De Felice e i suoi allievi hanno volutamente ignorato o comunque sottovalutato la resistenza opposta al fascismo dai gruppi organizzati e da quell’antifascismo popolare, senza del quale la storia del regime e più in generale quella del Paese, risultano monche e non di rado stravolte. Un’operazione che non solo è diventata lo strumento per una rivalutazione del ventennio fascista – oggi c’è chi giunge a parlarne come di «regime inclusivo» –  ma ha costruito le basi scientifiche per cui quella sua lettura è poi diventata «autorevole corifeo di quel turbocapitalismo che ha globalizzato il pianeta» e di fenomeni più recenti, primi fra tutti i cosiddetti populismi, così apertamente di destra, razzisti e xenofobi, da essere non di rado dichiaratamente fascisti o fascistizzanti[8].

Ciò è potuto accadere, osserva acutamente lo storico friulano, perché il revisionismo non è semplicemente  una «tendenza a passare senza mediazioni dal terreno della ricerca a quello della lotta politica», ma punta a svalutare, quando non a leggere in chiave negativa la storia del proletariato, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del fascismo[9]. Qui, sia dal punto di vista del metodo, che degli argomenti utilizzati, il lavoro di Bettoli costituisce certamente un contributo pregevole offerto alla conoscenza della nostra storia. Un contributo che nasce anzitutto da una scelta: ricostruire la resistenza al regime non attraverso i «grandi fatti della storia», ma mediante i piccoli episodi della vita delle persone, mediante il dolore senza clamore di chi si oppone  e paga. In altre parole, attraverso il «carico di sofferenze patite per idealità superiori» da chi ha messo in campo personalmente, come ha potuto, le più diverse forme di resistenza[10]. Sofferenze e resistenze delle quali il revisionismo storico ha volutamente scelto di non occuparsi.

Com’è naturale, la ricerca mette in evidenza il ruolo consapevole di militanti e dirigenti politici e sindacali, che hanno affrontato la lotta con la piena consapevolezza del rischio e hanno subito le manganellate e l’olio di ricino, la tortura, la prigione, il confino e persino la fucilazione, in nome dei loro ideali anarchici, azionisti, cattolici, comunisti e socialisti; è tuttavia un ulteriore merito di Bettoli quello di avere voluto dedicare pagine e pagine all’antifascismo che definisce «popolare spontaneo»[11].

Bettoli sa che fu costume anarchico quello di lavorare nelle carceri per politicizzare i delinquenti comuni; la sua formazione marxista gli dice che è necessario distinguere tra sottoproletario e proletario, tra comportamento individuale e scelta che nasce dall’esperienza e dall’organizzazione politica; questo però non gli impedisce di rendersi conto che il quadro dell’Italia resistente non sarebbe completo se la sua ricerca non avesse l’occhio attento ai gay, che non sono necessariamente sottoproletari, alle prostitute, ai vagabondi, ai piccolo borghesi delusi, insomma a quei «ceti marginali o sottoproletari» ai quali il regime non risparmia la repressione e che spesso passano per l’internamento e il manicomio, come i “politici”[12].

Di loro il regime farà quel che vuole con una ferocia che non distingue resistenza da resistenza. Siano o no politicamente irrilevanti o addirittura, come scrive con una formula felice, «veri e propri lapsus della psicologia sociale», conta davvero poco[13]. Per quanto il loro modo di resistere si possa ridurre alla bicchierata notturna che turba la quiete, possa manifestarsi con la canzone irridente e la barzelletta, o diventare canto anarchico, rivelando un sottofondo politico, si tratta comunque di una parte del volto di un Paese che a suo modo rifiuta un modello e mette in crisi l’immagine plebiscitaria del regime.

D’altra parte, perché ignorare i «marginali» e dare spazio solo a quei gruppi che in apparenza sembrano avere una più significativa collocazione sociale, se, tuttavia, sia prima che durante il fascismo, essi lottano nell’orizzonte ristretto della fabbrica, ma si tengono lontani dalla vita del sindacato e del partito?[14] Bettoli non si lascia chiudere nella gabbia di considerazioni ideologiche. Evitando di operare distinzioni forti e di alzare muri, coglie contraddizioni dietro le quali vivono anche momenti inattesi ma esaltanti. E’ il caso della capacità di lotta ripetutamente manifestata dalle donne operaie durante il fascismo[15]. Sono momenti e capacità che emergono soprattutto dai fascicoli personali degli antifascisti, dalla miniera in cui Bettoli ha saputo scavare con perizia e lucidità. Ne è venuto fuori non solo un libro da leggere, ma anche un esempio di metodo innovativo della ricerca storica in grado di mettere in crisi uno dei pilastri del revisionismo: il mito del «consenso».

NOTE

[1] Ultimo di una sorta di trilogia questo libro di Gian Luigi Bettoli è stato preceduto da altri due saggi: Una terra amara, (Ifsml, 2003) e Il volto nascosto dello sviluppo, (Olmis 2015).
[2] A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra, Olmis, 2019… p. 18.
[3] Ivi, p. 19.
[4] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi,Torino, 1975, pp. 22-31.
[5] Ivi, p. 25.
[6] Ivi
[7] Ivi, p. 18.
[8] Ivi, p. 23
[9] Ivi, p. 24.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, pp. 196-293.
[12] Ivi, p. 197.
[13] Ivi, pp. 197-98.
[14] Ivi p. 243.
[15] Ivi, p. 196.

Giuseppe Aragno, La Storia Le Storie, 9 luglio 2020

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Tra i cittadini onorari di Napoli, non c’è più Enrico Cialdini, criminale di guerra. Scandalizzato, Francesco Barbagallo, ex dirigente del Pci, è salito in cattedra per ripristinare la memoria precisa di eventi lontani e farci la lezione sulla verità dei fatti, di cui è geloso custode e depositario unico. E poiché alla sua verità occorre inchinarsi, criminali di guerra compresi, ci ha esclusi dalla comunione dei fedeli: “neo-sudisti” e figli una “ideologia scadente”. Questa la sentenza del Sant’Uffizio.
Noi però insistiamo. Le ricostruzioni storiche non sono indiscutibili verità scientifiche; lo riconobbe anni fa lucidamente Le Goff, ricordando le continue “nuove letture del passato”, le “perdite, le resurrezioni, i vuoti di memoria e le revisioni”. Per noi, la “verità della storia” è un’invenzione degli storici legati a questa o quella congrega politica e concordiamo con Carr: i fatti, di per sé “muti”, rispondono alle domande degli storici, sicché, se cambi domande, anche la “verità” spesso cambia. Inutile perciò “scomunicare”. Lo storico ricostruisce eventi, ma è lui che li sceglie e li interpreta, così che, per quante riserve si possano esprimere, non ha torto Hoakeshott: “la storia è l’esperienza dello storico”. Persino i “termini con cui gli storici francesi hanno via via descritto le folle parigine che hanno avuto una parte così importante nella rivoluzione francese – les sens culottes, le peuple, la canaille, les bras-nus – sono, per chi conosce le regole del gioco, manifesti di una particolare posizione politica e di una particolare linea interpretativa”. Così scrive Carr e Croce, non un “neosudista scadente”, sostiene che la “storia dello storico” è spesso più interessante e rivelatrice della storia che egli racconta. E’ incauto perciò Barbagallo, quando distribuisce patenti e incolla etichette su chi non la pensa come lui.
A chi parla di neosudismo e scrive che “non furono i piemontesi a conquistare il Regno delle Due Sicilie, ma i democratici e repubblicani Garibaldi e Mazzini a consegnare il Mezzogiorno ai piemontesi”, come fossero buoni amici da cui Cavour attendeva regali, viene da chiedere com’è che i sacerdoti della memoria, non ricordino il ringraziamento toccato a Mazzini, mentre il Parlamento italiano apriva per la prima volta i suoi battenti. Fu Silvio Spaventa, che il 4 febbraio 1861 sollecitò istruzioni a Cavour sulla sorte di Mazzini di passaggio per Napoli:
“Da persona degna di qualche fede – egli scrisse – sono assicurato che il Mazzini è di nuovo qui; questa notte egli avrebbe dormito in casa del Direttore del Popolo d’Italia e nel momento che scrivo sarebbe in casa dell’Acerbi; andrebbe in Caserta la notte ventura. Se queste cose fossero vere, come avrei da regolarmi?Quando S.M. era qui, e vi si trovava pure il Mazzini, si stimò non conveniente di procedere ad alcun atto contro di lui. Come V.E. sa il Mazzini fu condannato nelle antiche province a morte in contumacia”. Che fare, quindi? Colpirlo? Si sarebbe potuto fare, ma occorreva prudenza, perché, scriveva Spaventa, “Mazzini veste ancora l’abito di tenente colonnello garibaldino, come vestiva l’altra volta che fu in questa città. Mi dicono ancora che degli emissari mazziniani sono spediti presso le nostre truppe regolari nelle diverse province, con qual fine non saprei dire determinatamente. Piaccia all’E.V. rimanere intesa, perché se il crede bene ne avverta anche il Generale Della Rocca.
Il Consigliere S. Spaventa”.
Non se ne fece nulla, ma Cavour non rimosse Spaventa, né decise la prescrizione per la condanna a morte, che giunse nel 1870. Poiché Mazzini però preparava sommosse – era anch’egli un brigante? – fu di nuovo arrestato e morì sotto falso nome, esule in patria e sempre minacciato. In quanto a Garibaldi, Barbagallo lo ignora: giunto a Napoli per nostalgia, semiparalizzato dall’artrosi, a pochi mesi dalla morte, fu tenuto sotto stretto controllo dalla polizia politica, come un volgare malfattore e non mosse un passo senza che un questurino spiasse e riferisse. Brigante anche lui.
In realtà, lo scontro tra repubblicani e monarchici è interno al capitale e la partita giocata in quegli anni nel Sud è lotta di classe. Ci sarebbe piaciuto, perciò, che facendoci la lezione, qualcuno avesse posto l’accento sulla vena di autentico razzismo antimeridionale che emerge dalle lettere di Farini, luogotenente generale delle provincie napoletane. “amico mio, che paesi son mai questi […]. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile!”. E non era il solo a pensarla come Bossi. Per Minghetti, il Napoletano “non ha popoli, ha mandrie […]. Ora con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchiano di numero nei parlamenti se non stiamo bene uniti a settentrione”. Invano Liborio Romano osservò che “le nuove leggi ed i nuovi regolamenti erano di gran lunga inferiori alle leggi e ai regolamenti che vandalicamente e col cipiglio della conquista abolivano”. Ci pensò l’ex cittadino onorario Ciadini, che usò il ferro e il fuoco.
Fu lotta di classe, come a Bronte avevano già dimostrato le fucilazioni di Bixio, e sarebbe stato utile che qualcuno degli storici che fanno la lezione a inesistenti neosudisti, avesse, se non altro, posto ai fatti domande che non si fanno, per evitare che venga poi fuori un’altra verità. La Questione Meridionale si presentò in tutta la sua gravità sin dai moti dei Fasci Siciliani. Quale posizione assunse nello scontro feroce il PSI? Ascoltò i compagni meridionali e affiancò i proletari del Sud o scelse un comportamento da Ponzio Pilato? Turati si scaricò la coscienza di ogni responsabilità, chiedendo lumi a Engels che, com’è noto, conosceva il Sud meglio dei meridionali. Chiarisse lui ai compagni equilibrati e maturi del neonato triangolo industriale qual era il compito del partito nel Sud, dove i lavoratori erano plebei per definizione e l’immancabile ribellismo meridionale era in perenne agguato. Poteva il grande partito dei lavoratori star lì a liquidare residui feudali, per accelerare la rivoluzione democratica? Engels dettò la regola: la guida e il controllo delle masse contadine toccavano a media e piccola borghesia. Sapeva Engels che da quelle terre di barbari giungevano a Roma contributi fiscali più cospicui di quelli provenienti dal Nord e dal Centro e con quelle risorse si pagavano i servizi per l’Italia “civile”, mentre ai cafoni, massacrati da Cialdini, mancava ormai tutto e per prima le scuole? Turati lo sapeva, però, forte del parere di Engels, mollò Garibaldi Bosco, Barbato, Verre, De Felice e i Fasci Siciliani.
Si giunse così all’idillio Turati-Giolitti e per il Sud fu la fine: in attesa che vi sorgessero una “sana borghesia” e un “vero proletariato” – da noi si nasce sanfedisti per vocazione – si deposero le armi. Invano Salvemini – anche lui neosudista? – puntò il dito sull’intesa perniciosa tra i socialisti e il “ministro della malavita”; il partito adottò la formula di Turati. lo sviluppo del Nord avrebbe trainato verso la civiltà la barbarie meridionale. Si consolidarono così le due Italie e il lavoro, in due fabbriche dello stesso padrone, al Sud costava la metà e il risparmio garantiva l’elite proletaria dell’altra fabbrica, quella che operava nelle terre di Salvini. La “grande guerra” e il fascismo fecero la loro parte e all’alba della repubblica la lotta di classe riprese il suo andamento anomalo.
Il PCI reclutò come intellettuale di riferimento Aldo Romano, storico fascista e spia dell’Ovra, che negli anni Trenta, con De Vecchi, direttore della “Rassegna storica del Risorgimento”, aveva letto le vicende dell’unificazione nazionale in chiave fascista. Non bastasse, invece di epurare gerarchi, mise alla porta i sindacalisti napoletani, rei di aver organizzato un sindacato di classe che non voleva essere cinghia di trasmissione dei partiti. In quanto a Nenni, il suo vento del Nord mortificò i partigiani del Sud e quei combattenti delle Quattro Giornate che avevano varcato le linee, per proseguire la lotta al nazifascismo. Giunti al referendum, si spinsero a destra quei protagonisti della resistenza napoletana che non chiedevano assistenza in cambio di voti, ma la «restituzione ai gloriosi Banco di Napoli e Banco di Sicilia delle rispettive loro riserve aure, depredate dal fascismo in pro della Banca d’Italia (nonché la restituzione dell’intero residuo ammontare del ricavato della vendita dei beni demaniali di manomorta dell’ex Regno delle Due Sicilie in £ 4.105.000), in esecuzione della legge Minghetti; lo stanziamento dell’ultimo prestito sottoscritto nel Meridione per la costituzione di un primo fondo destinato alla esclusiva ricostruzione del Mezzogiorno […] per sopperire alle esigenze del solo bilancio meridionale».
C’è voluto un romanzo di Rea per conoscere la sorte del “Gruppo Gramsci”, formato da Arfè, Marotta e Piegari, messo a tacere per aver criticato le scelte elettoralistiche di Amendola, che ci sarebbero costate care. Antonio Labriola avrebbe detto che si voleva “bestiame votante”, ma questa è un’altra storia. Napoli è stanca di mezze verità e ministri della malavita che usano questori e prefetti a fini politici. Chi batte sul tasto del neosudismo, farebbe bene a preoccuparsi del neofascismo al quale la sua parte politica fa da sponda, per creare difficoltà alla Giunta ribelle. Napoli è stanca dello stereotipo della città di plebe. Danni ne ha fatti già troppi. E’ ora di piantarla.

Agoravox, 1 giugno 2017

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tradimento RavennaRitorna Pansa, e tutto è consentito. Non a caso in soli tre anni abbiamo avuto Monti, «educatore» di Parlamenti, uno psicodramma intitolato Letta, con Montecitorio e Palazzo Madama inerti spettatori, il pupo toscano e dio sa quale imminente «democrazia autoritaria», niente fronzoli littori, ma tutta Corporazioni e gerarchia. Ogni tempo ha una storia, ma anzitutto ha i suoi storici e qui da noi c’è chi s’è «fatto le ossa» lavorando ai libri di testo di regime nelle Commissioni nominate da Gelmini. Pansa ritorna e tornano parole usate come schizzi di fango: né vere, né false, solo deformate, come il mondo appare nel sonno alla cattiva coscienza. Tornano traditori santificati, aguzzini spacciati per quei martiri innocenti, che, più la crisi economica crea analfabetismo di valori e nega diritti, più «tirano» sul mercato della disinformazione. Stavolta è il turno di una Resistenza che non sta né in cielo né in terra, come piace da morire alla finanza che tempo fa ci ha mandato il suo «avviso di garanzia»: l’Europa mediterranea è indagata per abuso di Statuti antifascisti. Pansa torna e con lui torna, impunita, l’apologia indiretta di un fascismo tentatore, che nei salotti buoni e nei «pensatoi» che contano diventa «contro storia»: un investimento remunerativo sul «bestiame votante», tirato su con pillole di delega, fiale di rassegnazione, scuola in miseria e ricerca pilotata.
Dietro Pansa c’è il potere che gioca. La storia richiede documenti e onestà intellettuale? Il potere punta su menzogne vestite a festa e Pansa fa l’abito su misura. Il suo «eroe-simbolo» è Riccardo Fedel, uno che, per acquistar credito presso i fascisti, s’inventa un complotto di comunisti a Ravenna, a Lipari fa la spia e spedisce in galera 56 compagni confinati e infine si sistema all’Ovra. Una storia di miserie umane come ne trovi tante; una di quelle che, per raccontarle, dovresti far la guerra a un morto, rinfacciargli nomi soffiati, fatti narrati, cifrari passati sottobanco ai questurini e giungere al tragico azzardo finale: Fedel che sale sui monti partigiani con quel triste passato, si barcamena e finisce fucilato dai compagni, che non si fidano e non hanno scelta. Lo studioso affida alla memoria collettiva il tradimento, le conseguenze delle rivelazioni prezzolate, le vite spezzate, le sofferenze patite, il carcere duro, i violenti interrogatori di giovani colpevoli solo di lottare per un mondo migliore e si porta dentro la figura di un uomo che vacilla, stenta, ma non si piega e lotta, sopporta sofferenze atroci, un’infezione da «manette strette» che lo conduce a un passo dall’amputazione e gli accorcia la vita. Lo studioso si sente interrogato dal ruolo determinante che la natura bivalente dell’uomo svolge nel tracollo delle grandi utopie e lì si ferma, pensa e invita a pensare. Lì, sul limitare tragico di quella sorta di campo di battaglia disseminato di cadaveri, consapevole del peso schiacciante della responsabilità. Non scrive una parola, una sola, che non abbia alle spalle un documento a giustificarla con una lettura intellettualmente onesta. Lo storico ha una filosofia della storia in cui inserire un fatto documentato, il tradimento in questo caso, peccato originale dell’impossibile «eroe» di Pansa. L’avventuriero, levato al rango di storico dalla crisi morale e dagli interessi politici che gli stanno dietro, non si pone questioni etiche. Il suo problema non è il rapporto che vincola la causa all’effetto, il tradimento alla fucilazione. In un processo che ricorda molto da vicino la logica del «neolinguaggio» di Orwell e del suo «1984», Pansa, rimossa la causa, si sente libero di modificare l’effetto. Come per magia, il traditore diventa così un martire e la storia diventa storiella.
Superata l’età dell’innocenza – il «peccato» non conta ormai più niente per nessuno – quel campo di battaglia disseminato di cadaveri, che poneva soprattutto domande, diventa una miniera d’oro, una sorta di Eden in cui, per dirla con Carr, vagare «senza uno straccio di filosofia per coprirsi, ignudi davanti al dio della storia». Dopo Cristicchi, anche Pansa ha il suo posto d’onore alla televisione di Stato, ospite di Conchita De Gregorio, che nel 2010, poco prima di Monti, annunciava l’iscrizione all’Anpi: «credo nei valori della Resistenza», sosteneva, perché «ha permesso e realizzato la Costituzione Italiana e la […] democrazia»; poi per chiarire il suo sostegno, aggiungeva: «voglio che la Resistenza non sia solo Memoria del passato, ma esercizio del presente». I tempi mutano, la De Gregorio si adegua e ora offre a Pansa un salotto televisivo. Questo ormai passa il convento: l’esibizione di due giornalisti, che, fingendo di parlare di storia, direbbe Carr con britannico «self control», proveranno a «ricreare, con l’artificiosa ingenuità dei membri di una colonia nudista, il giardino dell’Eden in un parco di periferia».
La riduzione a fattore unico dell’intera storia nazionale ormai non passa solo per la banalizzazione. E’ il denominatore comune, la «cifra» del presente e si chiama purtroppo malafede.

Uscito su Fuoriregistro il 26 marzo 2014 e su Il pane e le rose e su MicroMega il 27 marzo 2013

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E’ singolare, ma non stupisce. La storia, nel nostro “liceo nuovo“, è una successione cronologica di eventi “correlati secondo il tempo“, in cui – occorre dirlo? – individuare le “radici del presente“. A che serve un astratto percorso botanico tra i semi invisibili del lontano passato e le incomprensibili piante che costituiscono il mondo d’oggi? A capire il presente o giustificarlo? Non è la stessa cosa. L’impressione è che non torniamo a Ranke e alla histoire événementielle. E’ peggio. Siamo di fronte a un corpo amputato, una cesura netta di cui la vittima designata è il pensiero critico. Lo studioso che s’arrovella sul problema drammatico del silenzio del “fatto” qui da noi da noi non ha più patria.
In senso “cronologico” le Idi di marzo del 44 a.C. consegnano alla storia un evento “concluso“: Cesare ucciso a pugnalate da Bruto e Cassio. Messi i fatti uno dietro l’altro, non è facile trovarci la radice del presente e ha ragioni da vendere lo studente: ti obietterà che a distanza di 20 e più secoli, la faccenda non gli interessa. Eppure, non c’è dubbio, il docente che, invece di scovare antiche radici, pone ai fatti domande attuali, ne ha risposte in sintonia con la sensibilità dei suoi studenti e trova facilmente ascolto. Cesare fu un dittatore, o intendeva rinnovare la repubblica? Bruto e Cassio dei volgari assassini o i tragici e nobili difensori della legalità repubblicana? Ci fu una ragione etica nel gesto dei congiurati o si trattò di criminali ambiziosi? E se Bruto fu solo un omicida, tali furono anche Schirru e Sbardellotto, condannati a morte per aver complottato contro Mussolini? Criminali furono anche von Stuffeneberg, Canaris, Von Moltke, e quanti con loro provarono a uccidere Hitler alla “Tana del lupo“? Le Idi di Marzo non sono il passato, ma una riflessione sulla natura del potere su cui si è recentemente fermato Canfora. Ne nasce un dibattito, si richiamano filosofie della vita e della storia, si discute di regole, cadono certezze; il reazionario si interroga, il democratico esita, tutti capiscono che il fatto li riguarda; in quanto al docente, si trova a parlare di etica politica, di Machiavelli, di Giovanni di Salisbury e di Shakespeare, ha davanti a sé, risvegliato, l’intero corso delle cose e, alla fine del percorso, lascia allo studente chiavi che non conducono al passato, ma offrono strumenti per leggere con la propria testa ciò che lo circonda e gli pare indecifrabile. Il fatto è che questo lavoro, proprio questo, tendono a impedire le cosiddette nuove indicazioni.
A sinistra, il meglio che s’è trovato per contrastare questo ennesimo colpo è la sacrosanta, ma miope protesta per la Resistenza taciuta. Com’era prevedibile, gli “scienziati” gelminiani l’hanno inserita prontamente nella “lista della spesa” e la tempesta si acquieta. Silenzio su tutta la linea. La pretesa superiorità della morale vaticana è un articolo di fede: paradossalmente, la storia non fa i conti con la storia e inganna se stessa, violando persino la conclamata “religione del fatto“. Tutto dimenticato, dalla pedestre contraffazione di Costantino, agli Albigesi sterminati, dall’Inquisizione a “Dio lo vuole“, da Bruno a Galilei, dal Sillabo ai complici silenzi sul nazifascismo. Nella “civiltà giudaica“, come in un acido dissolvente, svaniscono la cruciale vicenda del Medio Oriente e il dramma della Palestina; nel “terrorismo” precipita anche solo l’idea di una resistenza popolare alla tirannia, all’aggressione e all’illegalità del potere costituito. Mentre si accenna in maniera ambigua e strumentale al “confronto tra democrazia e comunismo“, sicché nessuno sa dove mettere Gramsci, si cancellano in un sol colpo l’idea di socialismo, i crimini del capitalismo e la natura degenerativa dei sistemi borghesi di fronte alle crisi economiche; nulla da dire se, per fermarsi all’Italia, una repubblica fondata sul lavoro, si tiene in piedi sulla disoccupazione, sul lavoro nero e sullo sfruttamento. Il confronto democrazia-capitalismo è top secret, si fa silenzio sull’etnocidio e, in quanto al razzismo, non è mai esistito. La Lega vuole mano libera per arrestare clandestini e chiuderli nei campi.
Il vecchio Carr direbbe che il fatto storico non esiste – sono gli storici a scegliere tra la muta miriade degli eventi – e il moderato Croce si limiterebbe a ricordare che, prima della storia, occorre conoscere la storia dello storico. La sinistra, inerte, non s’allarma. Ancora una volta, come ripeteva negli ultimi suoi anni Gaetano Arfè, finirà che c’è stata battaglia e nemmeno ce ne siamo accorti.

Uscito su “Fuoriregistro” il 6 aprile 2010

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