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Posts Tagged ‘Calamandrei’

pistola_fumanteUn filo rosso percorre la Costituzione: uno spirito sociale e antifascista. Come e perché si è giunti alla decisione di cambiare? Non è un’idea nuova, ma quest’ultimo tentativo si inserisce in uno specifico contesto internazionale e diventa progetto operativo dopo un evento anomalo, che ha una data precisa. Cominciamo dal contesto internazionale.
Ormai è storia: dal dicembre del 2001 al luglio del 2003, la Convenzione Europea cerca invano soluzioni ai problemi istituzionali dell’Europa unita. I suoi membri, però, non sono eletti direttamente dai popoli ed è paradossale: l’organismo, nato per dare una mano di vernice democratica al processo di unificazione, non è un modello di democrazia. La Convenzione scrive una Costituzione, ma prima i Federalisti, che non sono certo nazionalisti, poi buona parte dell’opinione pubblica, puntano il dito: non è una Costituzione, si dice, ma un insieme di norme su economia e mercato. L’unica Istituzione eletta dal popolo è il Parlamento europeo, privo però di un vero potere di iniziativa legislativa, che spetta a una Commissione composta di membri di nomina governativa. Presto diventa chiaro che il documento non rispetta le Costituzioni democratiche delle nazioni aderenti, spesso più avanzate, e vincola i cittadini e gli Stati, più che le Istituzioni europee. Tutto sommato, è una discutibile bibbia neoliberista, che dà preminenza assoluta ai temi economici e capitalistici, non fa riferimento al ripudio della guerra e scarse, quando non assenti, sono le garanzie per lavoratori, immigrati e welfare state.
Sottoposta a referendum, la Costituzione riceve uno dietro l’altro i no della Francia e dei Paesi Bassi. Ero a Parigi, al tempo del «Grand debat» sull’identità europea e sul referendum per la Costituzione. Nulla di più lontano dal nazionalismo. Francesi erano Schuman, Monnet, Delors e Mitterrand. Se ora in Francia c’è la Le Pen, è perché l’Unione, invece di mutare registro, ha ripudiato il progetto. Dal punto di vista storico, la Convenzione Europea è l’equivalente di Costituente e la prova del fallimento storico dei tentativi di garantire legittimità democratica all’Unione e renderne le Istituzioni realmente rappresentative dei cittadini degli Stati membri. Ma la storia pesa sul futuro e non a caso l’Europa ha perso il Regno Unito e non ha una Costituzione.
In questo contesto si colloca un evento cruciale. Il 5 agosto 2011 Berlusconi, Presidente del Consiglio in carica, riceve una lettera riservata dal banchiere Jean Claude Trichet, cittadino francese senza ruoli politici riconosciuti dalle nostre leggi; a Trichet fa da spalla Draghi, un italiano di cui si sa solo che ha le mani in pasta nel disastro greco e nessuno l’ha eletto in ruoli politici. Rispettivamente presidente e vice presidente della Banca Centrale Europea, i due si occupano di monete, cambi, regolarità dei sistemi di pagamento e vigilanza sugli enti creditizi negli Stati membri. Nessun titolo per «consigliare» scelte politiche ai capi di Governo.
La lettera contiene una terapia per malati da rianimare; i farmaci sono misure antispeculazione che l’Italia deve attuare «con urgenza», per «rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità del bilancio e alle riforme strutturali». Intrugli miracolosi da medico cerusico: liberalizzazioni; riforma del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva, per adeguare salari e condizioni di lavoro alle pretese delle aziende; revisione delle norme sul licenziamento, tagli per sanità, giustizia e istruzione, riforma delle pensioni, e, se occorre, riduzione degli stipendi. Per ricette come queste è andato in malora ormai mezzo mondo e, ciò che più conta, i farmaci sono inconciliabili con le regole di casa nostra. I rischi d’incostituzionalità sono dietro l’angolo, perché da noi il lavoro è valore fondativo della Costituzione, che lo tutela, fissa principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, riconosce pari diritti a lavoratori e lavoratrici e affida alla repubblica il compito di curarne la formazione e l’elevazione professionale. Né va meglio per le liberalizzazioni, che potrebbero fare i conti con la tutela della salute dell’individuo, dell’interesse collettivo e della salubrità dell’ambiente, minacciati dall’inquinamento che con il «libero mercato» ha molto da spartire. Senza contare la necessità di «stabilire equi rapporti sociali», il trasferimento «allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti di […] imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energie» che «abbiano preminente interesse generale». Certo, la Costituzione non assegna ai lavoratori e alle loro associazioni le terre espropriate, come propone alla Costituente il socialista Jacometti, e non accoglie l’invito a «rompere il sistema» giunto da Di Vittorio; l’on. Taviani, anzi, rassicura l’Assemblea: non c’è un «intervento dello Stato per la socializzazione»; tuttavia, quando il liberale Epicarmo Corbino chiede di riferire l’imposizione di limiti alla proprietà in generale, abolendo la parola «privata», la risposta è rivelatrice: «il pericolo che si smarrisca il senso della funzione sociale riflette […] la proprietà privata».
Per quanto riguarda, poi, l’istruzione, complemento necessario del suffragio universale, essa ha un ruolo vitale e Calamandrei individua in un articolo che la riguarda, il n. 34, il più importante della nostra Costituzione. L’apparente semplicità del testo – «La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» – è un baluardo contro ogni tentazione autoritaria; è la scuola, infatti, solo la scuola che «può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali», sicché la classe dirigente non «sia una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine», ma risulti «aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie». Prima di tutto, quindi, scuola di Stato, perché, recita l’art. 33, è la Repubblica che «detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». La scuola di Stato, però, non è estranea al disegno di una società democratica ed è, anzi, lo strumento principale per la realizzazione di due articoli fondamentali, il n. 3 per il quale, «tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali» e il n. 51, che così recita: «tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». A scuola, nella scuola di Stato, si forma il sentimento di eguaglianza civica e si crea il rispetto di tutte le opinioni e di tutte le fedi. «Quando la scuola pubblica è così forte e sicura», scrive Calamandrei, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, […] può essere un bene».
Trichet e la sua lettera rientrano perfettamente nell’area privata che Calamandrei definisce «pericolosa»; è l’esponente di una scuola economica che abolisce la mediazione e sostiene una concezione classista e autoritaria della società. Per Trichet contano le leggi del mercato e la sua idea di società si fonda su principi che non si discutono e non prevedono conflitto. Per la nostra Costituzione il conflitto è un valore e la mediazione una legge di cambiamento; per Trichet la libertà si misura sul mercato, mentre la Costituzione della Repubblica regola il mercato e lo subordina ai diritti della società nel suo insieme. Trichet è l’equivalente di quello che Calamandrei definisce «partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura». Non a caso Renzi si è inventato la «buona scuola» e ha messo in ginocchio la scuola statale. Formando i giovani al senso critico e all’autonomia di pensiero, educa alla «resistenza» e produce «conflitto».
L’Europa di Trichet non ha una Costituzione, l’Italia ce l’ha, è antifascista ed è pensata per contrastare ogni forma di autoritarismo. Non potendo farne a meno, come si è potuto fare per l’Europa, bisogna se non altro cambiarla. E’ questo l’ultimo, velenoso intruglio che Trichet «consiglia» al nostro Governo. Un veleno che Renzi somministra volentieri al Paese con intenti eversivi: rompere gli equilibri e rafforzare il Governo.

Fuoriregistro, 4 settembre 2016

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1. Costituente e Costituzione: la «cultura dell’antifascismo»

ministri-arrivo-quirinale-140222123943_bigIl primo documento ufficiale sulla Costituzione è un decreto legge firmato il 25 giugno 1944 da Umberto II di Savoia. Dopo la liberazione, si legge, «le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che a tale fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per determinare la nuova Costituzione dello Stato». La guerra insanguina il Paese, ma il governo è guidato dall’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi e su venti ministri, dodici sono antifascisti: l’azionista Alberto Cianca, confinato e fuoruscito, Benedetto Croce, il cattolico De Gasperi, che ha conosciuto la galera fascista, lo storico della filosofia Guido De Ruggiero, arrestato e destituito dall’insegnamento, Giovanni Gronchi, cattolico e uomo della Resistenza, i comunisti Palmiro Togliatti, tornato dall’Unione Sovietica, e Fausto Gullo, ex confinato, il socialista Pietro Mancini, reduce dal confino e dal carcere fascista, Meuccio Ruini, perseguitato politico, il socialdemocratico Saragat, evaso da Regina Coeli, e Carlo Sforza, liberale, ex ministro e fuoruscito. Tutti, tranne De Ruggiero, saranno poi nell’Assemblea Costituente.
Sono giorni terribili nella storia dell’umanità; l’Italia, che paga le sue responsabilità per l’immane tragedia, è un campo di battaglia e sui monti la guerra partigiana è senza quartiere. Iniziata nel settembre del ‘43 a Napoli, insorta contro i nazifascisti, durerà fino al 25 aprile del ‘45. In quei giorni, però, non «muore la patria», come sostengono Galli Della Loggia e una destra che non si è mai riconosciuta nell’Italia della Resistenza. In quei giorni, per dirla con la felice espressione di Gaetano Arfè, «la cultura dell’antifascismo», consegna al Paese l’eredità preziosa che nel suo insieme la Costituzione, non i suoi soli principi fondamentali, tradurrà in norme fondanti. Sono i valori nei quali, a guerra finita, si riconosce buona parte del popolo italiano: ideali di libertà, di pace e solidarietà tra i popoli. Prima ancora che nelle norme, però, essi si sono affermati nelle coscienze, sostituendo la concezione della vita imposta dal fascismo e che purtroppo oggi riemerge: il mito del capo, la scala gerarchica tra caste, classi e razze, la violenza come motore della vicenda storica. I deputati della Costituente, portavoce di questo cambiamento, traducono con sapienza giuridica un dato che è anzitutto storico. Essi potranno scrivere la Costituzione, così com’è, solo perché sono parte di un processo che giunge a compimento e ha radici nel corpo della società. In condizioni diverse, senza quel mutamento, senza quella cultura, essi non avrebbero potuto mai scriverla com’è. Una Costituzione non nasce «a freddo». E’un punto di svolta, il perno attorno al quale un Paese volta pagina e consacra il futuro che ha conquistato. Vico sostiene che la storia è un incessante ripetersi di cicli e raggiunta l’età «civile» torna a quella «primitiva». La Costituzione del ‘47 apre la nostra età «civile», dopo un’esperienza dolorosa, drammatica e collettiva; si può aggiornarla, ma rifarne un articolo. su tre, significa abolirla e questo segnerebbe il punto di caduta verso il basso, il ritorno all’età «primitiva».
Proprio in quei giorni, affrontando il plotone di esecuzione, Giacomo Ulivi, un partigiano di appena vent’anni, rivolge a chi potrà leggere parole che spiegano più di mille discorsi ciò che accade nelle coscienze libere: «Dobbiamo […] abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali», afferma , poi prosegue:

«Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita? […] In questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione […]. Per venti anni […] . tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti. Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica ci siamo stati scaraventati dagli eventi. […] Per questo dobbiamo prepararci. […] Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere».

Quando, nell’autunno 1945, nascono la Consulta Nazionale e il Ministero della Costituzione, due nuovi dati emergono chiari: la maturità di un popolo, consapevole dell’importanza del passo che sta per compiere e la comune volontà di ogni forza politica di giungere all’appuntamento con la necessaria preparazione. La materia prima, tuttavia, è accessibile a tutti, perché ogni elettore, anche i più giovani, ha vissuto e pagato sulla propria pelle il conflitto sociale, la violenza delle passioni ed è stato in qualche misura partecipe di un risveglio. Non si tratta di astratte teorie o semplice propaganda. Dietro le varie bandiere c’è una tragica e sofferta esperienza vita. L’omicidio Matteotti, l’incendio del Parlamento tedesco, la guerra di Spagna, la battaglia nei cieli di Londra, la tragedia di Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima, l’occupazione, la guerra in casa, la Resistenza, sono eventi che hanno scosso nel profondo anche le persone più semplici e meno attrezzate culturalmente. E’ la vita vissuta a produrre esperienze e valori che danno un senso e contenuti a parole che il regime aveva cancellato: libertà, pace, giustizia sociale, democrazia, solidarietà. Questo e tanto altro significano l’antifascismo e quella Resistenza che, scrive Arfè, è il crogiuolo «nel quale tutte queste esperienze si fondono: ne nasce una cultura nella quale tra ideologie diverse e tra loro contrapposte si instaurano nuovi dialettici rapporti e tutti finiscono con l’innestarsi in una trama unitaria intessuta col filo dell’antifascismo e dell’antinazismo».
La Repubblica è nei fatti, così come la prevalenza di antifascisti militanti, di vite intensamente vissute e grandi sogni, tra i deputati della Costituente, che provano a dare risposte durature a una sola domanda: come si costruisce un Paese senza guerra e dittatori, in cui ognuno è un «sovrano»? . La scienza non basta. Ci vuole coscienza storica. ma l’Assemblea non manca e la risposta giunge: occorre il sovrano di un Paese fondato sulla dignità dei cittadini. E poiché il solo possibile sovrano di uno Stato senza ragion di Stato è il popolo, si parte da qui: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…».
Perché funzioni, occorreranno libere discussioni, articoli collegati tra loro, 347 sedute – di cui 22 con prolungamento serale e notturno – 1663 emendamenti, dei quali 292 approvati, 314 respinti, e 1057 ritirati o assorbiti; 275 oratori parleranno in 1090 interventi; ci saranno 15 ordini del giorno e sulle decisioni più controverse 23 votazioni per appello nominale e 43 a scrutinio segreto. Concluso il lavoro, Piero Calamandrei, un grande giurista, pur riconoscendone limiti, carenze, contraddizioni e persino ambiguità, saluterà nella Costituzione, un compromesso di altissimo profilo tra forze politiche e correnti ideali che hanno fatto la storia del Paese, poi interrogando se stesso, le augurerà vita fertile e duratura:

«Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana dove un secolo fa sedeva e paralava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia, e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andare dei secoli la storia si trasfiguri in leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi banchi non siamo stati noi, uomini effimeri i cui nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio da Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni nelle quali l’eroismo è giunto alle soglie della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il lavoro che occorreva per restituire all’Italia la libertà e la dignità».

Nessuno in quei giorni avrebbe mai potuto immaginare Renzi, Boschi, Napolitano e un Parlamento abusivo.

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Rfig166Prima del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, pennivendoli, velinari, servi sciocchi e giullari di corte, hanno provato a fare la lezione agli inglesi, spiegandogli quale grave errore sarebbe stato mollare i ciarlatani golpisti targati Merkell. Sono così stupidi questi strapagati scribacchini, da non sapere che gli inglesi sono orgogliosi e non accettano lezioni non chieste. Ora che il dado è tratto, sono disperati, hanno perso la bussola e navigano a vista. Non so chi gli abbia mandato la geniale velina, ma d’improvviso hanno preso a cantare in coro: il popolo non è abbastanza maturo per decidere su argomenti molto complessi.
La paura fa 90 e ottobre è più vicino di quello che pare. Uno dice, va beh, ma la pianteranno, in fondo la storia è maestra di vita e qualcosa la insegna. E no, cari miei, non insegna un bel nulla, se gli allievi non provano a studiarla o peggio ancora, sono penne prezzolate e stupidi figli di un potere cieco.

Questa cazzata liberticida si potrebbe renderla più chiara, ma non vogliono farlo. Basterebbe fare un uso migliore e più appropriato delle parole . Diciamola meglio e prendiamone atto: il popolo non è più sovrano. De Gasperi, Pertini, Togliatti  e Calamandrei erano dei deficienti. E’ sovrana una minoranza di ladri che nessuno ha eletto. Subito dopo però prepariamoci a subirne le conseguenze. Le ghigliottine e le teste cadute a migliaia non furono colpa del popolo, ma di chi aveva deciso di decidere che il voto di una banda di cialtroni contava più di quello che decide il popolo che non sa decidere.

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Mi fa ridere. Lo dico onestamente, mi fa ridere l’allarme democratico che serpeggia per la vicenda della scuola di Adro. Prendetela come volete, le cose stanno così: io non riesco a credere nell’onestà intellettuale di chi ancora teme l’avvento d’un regime. Se questo fosse ancora un Paese serio, ne avremmo preso atto: il regime esiste ed è patetico protestare. Calamandrei, che tiriamo idealmente per la giacca ogni giorno, sarebbe tornato da tempo sui monti e non ci sono dubbi, è un assioma, una verità di per sé evidente e indiscutibile che non occorre dimostrare: la “Costituzione di fatto“, cui si appellano sfasciacarrozze di ogni colore politico per governare la Repubblica, non esiste. E’ solo una criminale manomissione delle regole fondanti della nostra vita politica.
Ci torno spesso, per non dimenticare, ora che tutto è stato cancellato da una legge elettorale priva di ogni legittimità: “i deputati e i senatori sono eletti a suffragio universale e diretto“. Dettato costituzionale. Il regime c’è. Basta aprire gli occhi per vederlo e non ci sono dubbi: nessuno ha eletto i deputati e i senatori che sono in Parlamento. Questo Parlamento è illegale, come illegale è il governo che si tiene in piedi con la sua fiducia, e Gelmini, cui i preoccupati e sinceri democratici scrivono ridicole lettere di protesta, non è un ministro. Il regime c’è, si sta consolidando e, come sempre accade, quando una tragedia politica di questa portata si profila netta e dolorosa all’orizzonte, ovunque vedi brulicare, fervido di neofiti, il verminaio degli opportunisti, ovunque fanno calcoli e si posizionano la pletora dei voltagabbana, le innumerevoli quinte colonne e tutto il marciume che indusse Gobetti a definire il fascismo una sconsolante “autobiografia degli italiani“.
In questo senso si spiegano le finte accuse al sedicente ministro Gelmini, che offrono alla sua nota arroganza l’argomento polemico per replicare: è vero, l’ineffabile Gelmini non ha dichiarato urbi e orbi che occorre rimuovere i simboli leghisti dalle scuole, ma non è meno vero che esistono gravi precedenti: la marea di bandiere della pace che accompagnò sciagurate avventure militari in un Paese in cui le case, gli uffici e le vie levarono orgogliosamente i segni dalla sacrosanta protesta per la Costituzione violata. E’ così che, in una ideologica torsione dei fatti, la miseria morale della vicenda di Adro si accosta alla pacifica reazione di un popolo – leghisti compresi – che reagì come un sol uomo alla pugnalata inferta all’Italia di Calamandrei. Nessuna meraviglia. Gli anni e il manganello mediatico hanno fatto efficacemente il loro lavoro. Sul “Corriere della Sera”, che va scrivendo da tempo alcune tra le pagine peggiori della sua storia, un docente della dissestata università italiana, nella quale chi non ha peccato tra politici e ordinari dovrebbe scagliare la prima pietra, se la prende coi precari della scuola e nega che i 35 e anche 40 alunni infilati a loro rischio e pericolo in una classe, l’abbattimento del tempo scuola, la cancellazione del tempo pieno, delle attività di laboratorio e dell’insegnamento della musica pesino sulla qualità dell’insegnamento. Il problema, per il portavoce della Gelmini, è “la qualità degli insegnanti“. Questione seria, che si potrà discutere seriamente il giorno in cui, senza parlare di retribuzioni, ordinari e associati saranno obbligati dalla legge a chiarisrsi le idee in tema di metodologia e didattica, trascorrendo decenni sabatici in quelle scuole dell’infanzia, in cui ottime maestre potranno fornire una prima alfabetizzazione alla supponenza dei sedicenti, costosi e impreparati aggiornatori di docenti delle scuole di ogni ordine e grado, assunti per lo più mediante concorsi di cui tutto si può elogiare, tranne la trasparenza.
Lo dico sul serio, ma non posso fare a meno di ridere, quando ascolto la barzelletta dell’allarme dei democratici per la vicenda della scuola di Adro .

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