Il questionario in rete fino al 24 aprile. Tempo scaduto, quindi, e imbroglio probabilmente riuscito. Lanciamo l’allarme e se si può pariamo il colpo. Sull’abolizione del valore legale del titolo di studio un Paese gravemente ferito dalla parità di bilancio diventata vincolo costituzionale si gioca quanto resta del futuro. Prima di por mano alla tastiera, perciò, meglio esaminare i criteri che lo ispirano e i fini che si propone: la neutralità dello strumento e la banalità dei temi coprono l’ambiguità delle domande e le risposte preconfezionate. Il profilo è basso: in ombra gli aspetti tecnici e ciò che raccomanda l’esperienza, si cercano opinioni generiche per sorprendere la buona fede, indurre a giudizi negativi e giungere a un “no” generalizzato, figlio naturale dell’impostazione dei quesiti.
“Come giudicate la necessità di possedere uno specifico titolo di studio per poter esercitare una determinata professione?”. E’ il primo quesito. Nulla di più asettico, se rispondendo non si dovesse associare la risposta a una spiegazione che è tutta del Ministero. Chi giudica positivamente il valore legale del titolo di studio, infatti, non ha scelta. Lo fa “perché il possesso di un titolo specifico garantisce la qualità della prestazione resa dal professionista, che il cliente potrebbe non essere in grado di verificare da solo“. Tranne il ministro e i suoi collaboratori, nessuno sa perché un malato che si rivolge al servizio sanitario si trasformi fatalmente in un “cliente” e non sia, come pareva un tempo, un paziente, un cittadino bisognoso di aiuto che nella quasi totalità dei casi non ha strumenti utili a valutare il medico. Come dubitarne? In un mondo in cui chi non ha titoli legalmente riconiscuti esercita la professione medica, il cliente rischia di finire in mano a ciarlatani. Ciò, senza badare a questioni di reddito e all’evidente probabilità che in preda a sciamani e stregoni pericolosi ma poco costosi finirebbero i più sventurati; la scienza vera sarebbe sempre più riservata ai grandi patrimoni. Certo, il Ministero offre la risposta alternativa: “Dipende dal tipo di professione“. Una opzione, però, che impedisce il giudizio pienamente positivo e a bene vedere finisce col rafforzare quantitativamente e qualitativamente la risposta negativa. Per dire di no, infatti, ci sono due vie, mentre una sola e molto ambigua è quella riservata ai sì. Non bastasse, è impossibile negare il valore legale del titolo con un giudizio secco; è d’obbligo, infatti, sposare la tesi “suggerita” dal Ministero: “la necessità di possedere uno specifico titolo di studio impedisce che soggetti con competenze acquisite attraverso l’esperienza pratica e/o attraverso studi personali possano esercitare una determinata professione“. Una tesi falsa e tendenziosa che presuppone strumentali e inesistenti conflitti tra chi possiede una laurea e chi non è laureato. Non è vero, infatti, che, per fare un esempio, commercialisti e ingegneri rubino il lavoro a ragionieri e geometri. E’ vero il contrario: definiti i campi d’azione, chi pensa di possedere le competenze, non ha che da laurearsi. Lo farà in men che non si dica e metterà a frutto il riconoscimento. Non fosse così, avremmo in giro più venditori di fumo del solito e correremmo tutti moltiplicati e gravissimi rischi.
Il tentativo di creare confusione caratterizza il secondo quesito, per il quale la necessità del titolo di studio riconosciuto per l’ammissione all’esame di abilitazione è “garanzia di preparazione adeguata e consente di selezionare, fin da subito, gli ammessi all’esame di abilitazione” oppure è un dato negativo, “perché il superamento dell’esame di abilitazione è sufficiente a dimostrare il possesso di adeguate competenze“. In modo persino malaccorto, domanda e risposte sembrano affermare che chi possiede il titolo di studio supera automaticamente l’esame di abilitazione e confonde parole che hanno significato ben diversi tra loro: ammissione e superamento. Anche qui lo scopo è chiaro: sfruttare la confusione e ottenere un no che porti acqua all’abolizione voluta dal Ministero. Su questa via indirizzano spudoratamente i quesiti 3 e 4 che mirano a stabilire se esistono “professioni non regolamentate, per le quali dovrebbe essere richiesto uno specifico titolo di studio, oggi non necessario” e altre, per cui “il titolo di studio richiesto sia eccessivo rispetto al tipo di prestazione che si è chiamati a svolgere“. In realtà i quesiti fanno una gran confusione tra dignità e qualità del lavoro, che dipendono da tutto, meno che dalla loro regolamentazione. Il lavoro di un buon operaio, infatti, appare a tutti più rispettabile di quello di un pessimo chirurgo e nessuno distingue tra lavoratori in ragione della regolamentazione del loro lavoro. I lavori hanno pari dignità – tutti sono, infatti, indispensabili al buon andamento della vita sociale – e ciò che fa la differenza è un codice di comportamento: l’ethos della responsabilità. Certo, la qualità d’un docente e l’esito del suo lavoro emergono in tempi lunghi, mentre esistono mestieri e professioni che consentono giudizi immediati. Indiscutibile rimane, però, il “principio di “garanzia“, vale a dire l’onesta e neutrale certificazione della preparazione, affidata però a un giudice unico, neutrale e uguale per tutti, che non valuta l’operato a valle, ma verifica l’attitudine a monte. Di questo, però, nel questionario del prof. Profumo non si trova traccia, forse perché non se ne trova nel mondo da cui provengono il ministro e buona parte del governo tecnico e “meritocratico“: l’università in cui la parrocchia consacra santi e beati e li regala all’adorazione dei credenti, dopo aver scoperto il gene che rende ereditarie qualità e tendenze, come fosse questione di sangue. Non a caso i “baroni” sono scienziati da generazioni.
Siamo alla postdemocrazia. Lo si sente dire sempre più spesso con accademica improntitudine e nessuno si scandalizza se per il pubblico impiego si fa eccezione alla regola e c’è un quesito a parte: “ritenete necessario il possesso di uno specifico titolo di studio per l’accesso al pubblico impiego?”. Se lo Stato del terzo millennio dovrà essere un feudo della finanza, la domanda ha un senso. In una repubblica parlamentare, la risposta sarebbe certamente una: “sì, perché il possesso di uno specifico titolo di studio garantisce professionalità e competenza da parte di impiegati, funzionari e dirigenti pubblici ed evita un’eccessiva discrezionalità nella loro assunzione“. Le cose però non stanno così. Mentre l’abolizione dell’articolo 18 spiana la via ai licenziamenti nel pubblico impiego, Profumo, che ai proclami dei venditori di tappeti, preferisce il piffero di chi incanta serpenti, suggerisce la sua risposta: “no, perché il titolo di studio può essere poco significativo in rapporto alle funzioni da svolgere e il possesso di adeguate competenze dovrebbe essere accertato esclusivamente in sede di svolgimento delle prove concorsuali“. Occorrono servi da sfruttare e manovalanza da ricattare. Basta con studi seri e i cittadini veri. Per la postdemocrazia un po’ di finto nuovo e tutto il vecchio del mondo: porte aperte al “bestiame votante“.
Postdemocrazia. Il piffero di Profumo
19/04/2012 di giuseppearagno
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