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Posts Tagged ‘Francesco Baiano’


La prima volta che ho incontrato Angelo Mariano Molinari, ero a Roma, nell’Archivio Centrale dello Stato e tentavo di ricostruire l’esperienza umana e politica di «sovversive» e «sovversivi» che dal 27 settembre al primo ottobre 1943 avevano chiuso i conti col regime, combattendo contro i nazifascisti nelle «Quattro Giornate di Napoli».
Molinari mi colpì subito, perché, pur essendo vice Brigadiere dei Carabinieri e comandante della Stazione di Soccavo, era inserito tra i membri di una banda formata da tre antifascisti della zona di Soccavo – Francesco Baiano, il fratello Pietro e la sorella Giovanna – ai quali s’erano uniti dodici combattenti, anch’essi più o meno noti antifascisti. Dei Baiano, Francesco era il capo, Pietro passava per un «cospiratore», che non aveva esitato a contrastare gli uomini del regime quando tutti avevano paura del Partito fascista, Giovanna, incinta, era l’elemento più attivo del gruppo.
Non era la prima volta che incontravo carabinieri coinvolti nell’insurrezione, ma non mi era mai capitato di trovarne uno associato a un gruppo di «sovversivi». A rendere più particolare, se non addirittura anomala, la figura di Angelo Mariano Molinari, contribuiva il fatto che il vice brigadiere non era presente nell’elenco dei combattenti – non aveva mai presentato la domanda per essere riconosciuto partigiano – ma aveva certamente avuto un suo ruolo nella Resistenza napoletana. In un vecchio foglio ormai ingiallito, infatti, il Molinari non solo era stato inserito da Francesco Baiano tra coloro che avevano militato nel suo gruppo, ma – ecco un nuovo dettaglio singolare – ne aveva fatto parte sin da quando la banda si era formata. E poiché il gruppo risultava operativo dal 9 settembre al primo ottobre 1943, Molinari era stato attivo nella banda che aveva aperto per prima il fuoco contro i nazifascisti ed era stata l’unica ad averlo fatto appena ventiquattr’ore dopo l’armistizio.
La data d’inizio dell’attività della banda – e di conseguenza dell’attività «partigiana» del vice Brigadiere – mi sembrò subito molto rilevante: essa dimostrava, infatti, che il gruppo Baiano non solo aveva cominciato a combattere i nazifascisti prima dell’insurrezione, ma addirittura prima dell’occupazione. A rendere più affascinante la vicenda c’era un dato di fatto: Molinari era un nome senza storia, uno sconosciuto giunto per vie ignote alle Quattro Giornate dopo venti giorni di un’esperienza incredibile, che ricordava la trama di un film d’avventura, più che un evento realmente accaduto all’alba della guerra di liberazione e della Resistenza.
Poiché la Storia non è semplicemente conoscenza del passato, ma anche – e forse soprattutto – chiave di lettura del presente, per individuare le ragioni profonde di eventi così difficili da spiegare, occorreva porsi domande e poi tornare indietro, sperando di trovare risposte nei documenti disponibili. In questo caso, una domanda sorgeva spontanea: cosa c’era stato tra i fascisti e la famiglia Baiano? Quale ferita profonda aveva trasformato una contrapposizione politica in un’ostilità così irriducibile, da indurre tre giovani a rischiare tra i primi la vita in uno scontro armato che per giorni e giorni poi vedrà una città affrontare senza alcun aiuto esterno i fascisti e i loro spietati alleati nazisti? Come accade assai spesso durante una ricerca, una domanda suscita subito un nuovo interrogativo e occorre dare una risposta: mentre la guerra colpiva la popolazione con inaudita ferocia e la sconfitta militare appariva inevitabile, quali erano i reali rapporti tra nazisti e forze dell’ordine? In altri termini, cosa poteva aver indotto Angelo Mariano Molinari, sottufficiale dell’Arma, a collaborare con «sovversivi» noti come i Baiano? Se, tornando indietro nel tempo, avessi trovato documenti utili, probabilmente sarebbe stato possibile individuare non solo le cause della tempesta che l’armistizio aveva scatenato nei Baiano, ma anche le ragioni di un’intesa apparentemente inspiegabile.
Bisogna provare, mi dissi, e fui fortunato.
Per Molinari, la ricerca diede subito risultati significativi. Senza tornare troppo indietro nel tempo, infatti, scoprii che dal gennaio del 1943 i Carabinieri tentavano coraggiosamente di mettere sull’avviso le Autorità fasciste: il morale della popolazione è depresso – scrivevano –   e non serve illudersi, non sarà certo «alleviato dai commenti con cui, attraverso la radio o la stampa, si cerca credito per un recupero». Molinari e i suoi colleghi più attenti e consapevoli conoscevano quindi da tempo le ragioni per cui la gente, che non tollerava più la propaganda del regime, era diventata invece sensibile a quella «sovversiva»: gli antifascisti chiedevano pace, pane e lavoro e davano concretamente voce alla disperazione di chi soffriva. E non era tutto. Molinari sapeva, come certo sapevano tutti i carabinieri, che almeno dal settembre 1942 tra la città ridotta allo stremo e l’incorruttibile Wermacht, che alimentava il «mercato nero» e ne accresceva la fame, la tensione cresceva di giorno in giorno. Tra silenzi smarriti delle Autorità fasciste e arresti di «pesci piccoli», un’inchiesta aveva infine rivelato che il Gruppo Aeronautico nazista era implicato in traffici di «merce razionata».
Troppo tardi – e troppo debolmente – il governo, timoroso e sconcertato, aveva cercato di intervenire per arginare lo scandalo e mettere un freno all’arroganza tedesca: alle minacce non erano seguiti i fatti, i nazisti avevano continuato nella loro attività, e le precauzioni non erano bastate. La città affamata aveva scoperto infine che i borsari procuravano ai piloti del Reich maiali vivi e carni macellate. A maggio del 1943, al Corso Meridionale, al Vasto e nei pressi della Stazione Centrale, dove alloggiava la Bahnhof Wache, la guardia ferroviaria tedesca, incuranti di ordini e intimazioni del nostro governo, i nazisti avevano smentito la decantata disciplina prussiana, arraffando viveri di ogni genere e facendo man bassa di calzature e biancheria, acquistate al Corso Umberto e in via Bologna. A pochi mesi dalla rivolta, d’intesa con i borsari, la Wermacht continuava ad alimentare un suo mercato nero e i generi razionati venivano poi esportati in Germania mediante militari tedeschi che viaggiano indisturbati con le tradotte che partivano da Napoli Centrale.
Come non bastassero gli affari illeciti con la malavita, ad accrescere la tensione provvedeva la soldataglia, che si comportava ormai da truppa di occupazione. Mussolini era ancora il capo, quando, il 19 giugno 1943, per divertirsi, alcuni soldati picchiarono due adolescenti; di lì a poco, toccò a un operaio, mentre a Fuorigrotta nazisti accampati in una masseria si diedero al saccheggio per tre giorni; a Casoria, poi, i militari addetti alla contraerea, cessato l’allarme, se la spassavano, sparando come folli, mentre la gente, terrorizzata, tornava di corsa nei ricoveri. Nella città, esposta a una terrificante offesa aerea, al Nuovo Rione San Pasquale, la gente si accorse che i nazisti utilizzavano alcuni locali per imbottirli di munizioni. Mentre un esposto giunto all’irresoluto Prefetto, si rivelava del tutto inutile e una “santabarbara” piena di bombe e carburante emergeva al Quadrivio di Arzano, al Vomero, in via Tito Angelini, al palazzo Miramare, veniva fuori una vera polveriera.
Era il 6 luglio, quando tre soldati entrarono in una casa per violentare una ragazza. Il coraggio del fratello salvò la donna, ma in due mesi si contarono altri cinque stupri e fu così superato anche il confine della violenza carnale. Tuttavia, benché le Autorità si mostrassero sempre più inette e servili, i tedeschi non agivano mai in una città disposta a piegarsi. Il 24 luglio, per esempio, mentre il regime crollava, una nuova violenza carnale, stavolta di gruppo, vedeva i tedeschi in fuga e i carabinieri pronti a usare le armi. In questo clima, la gente denunciava inutilmente i nazisti, che come se «il nostro territorio fosse terra di occupazione», puntavano «le armi in risposta alla minima osservazione». Una condizione, scrisse coraggiosamente un ignoto collega del vice Brigadiere Molinari, che metteva «a durissima prova la pazienza». Si riferiva evidentemente a uno stato d’animo che non riguardavo solo la popolazione, ma lo coinvolgeva personalmente, Ed era certamente quanto pensava e sentiva da tempo anche il Molinari.
La tempesta si annunciava ormai in mille modi, ma non s’era mai vista minacciosa e vicina, come il 7 settembre, al Corso Garibaldi, dove il «nemico» assunse un aspetto duplice e terrificante: un Giano Bifronte, col volto degli angloamericani, che scatenavano l’inferno dal cielo, e quello dei nazisti che senza esitare, tra case inermi e pericolanti, indirizzavano il fuoco infernale dei loro carri armati contro i velivoli, suscitando l’ira della gente. Per un po’ la folla indignata e i tedeschi, armati fino ai denti, si fronteggiarono. La gente fremeva, si accalcava, metteva mano ai sassi e sbarrava il passo a carri e soldati furibondi, che urlavano di sgombrare. Chi aveva più paura, i nazisti o i napoletani? Non lo sapremo mai, ma solo quando i mitra puntarono ad altezza d’uomo chi protestava si disperse lentamente. Non fu una fuga, però. Solo due giorni dopo, la banda Baiano scatenò il suo attacco. Perché Molinari giunse ad accordarsi con loro ora appare più chiaro: la disumana ferocia dei nazisti e la viltà dei fascisti avevano colmato la misura oltre la quale non pareva esserci via di salvezza, se non quella di una disperata, ma coraggiosa lotta di popolo.
Per quanto riguarda il passato dei Baiano, occorre tornare al 28 gennaio del 1927, alla data in cui Ruggiero, padre dei tre antifascisti, nonostante le idee politiche, ottenne la gestione della sezione staccata di Pianura del Mercato agricolo di Napoli. Quali furono negli anni successivi i rapporti che l’uomo fu costretto a intrattenere coi fascisti locali è difficile dire, ma certo non fu un idillio; col passare del tempo la situazione peggiorò sensibilmente e nel 1934 divenne ingestibile. Fu Vincenzo Marrone, il fiduciario fascista di Pianura a provocare un incidente che sfociò in aggressione armata ai danni di Ruggiero Baiano. Spalleggiato da un camerata,  il Marrone avrebbe avuto di certo la meglio, se Francesco Baiano, intervenuto coraggiosamente in difesa del padre, non avesse messo in fuga i due fascisti.
Erano tempi in cui il coraggio di opporsi alla prepotenza e all’ingiustizia costava sempre caro. Valutato il caso, i fascisti trovarono subito un accordo: non potevano permettere che uno di loro fosse impunemente umiliato. Scartata l’ipotesi di un’aggressione meglio organizzata, che sarebbe risultata molto impopolare – si trattava di colpire gente onesta e stimata – si scelse un’implacabile rappresaglia: revocata la concessione ed estromessi dal mercatino, ai Baiano si negò ogni possibilità di trovare lavoro. Come ricorderà anni dopo Pietro Baiano, la brutale soppressione del lavoro da parte dei fascisti significò la perdita dell’unica fonte di vita di una famiglia ridotta così alla fame. Il solo patrimonio che il regime non poté sottrarre ai Baiano – la ricchezza della coerenza – divenne però solidarietà e ammirazione della gente. Fu quella ricchezza che l’8 settembre 1943 consenti ai Baiano di radunare e armare alcuni antifascisti, decisi a rendere difficile la vita a nazisti e fascisti.
Probabilmente trovare compagni di lotta fu per i Baiano più facile di quanto immaginassero. Dopo decenni di ingiustizie, soprusi e violenze, mentre la tragedia della guerra si trasformava in una catastrofe senza precedenti, poteva mancare gente autorevole e stimata, in grado di reclutare e motivare persone disposte a combattere, organizzare la lotta e individuare obiettivi; non mancava di certo, invece, chi fosse pronto ad affrontare i nazifascisti. Quanto alle armi, la fuga degli ufficiali superiori e la disgregazione delle forze armate, ne aveva reso disponibili quantità impensabili. Si trattava solo di sapere dove a chi rivolgersi. A queste condizioni di apparente favore si dovette subito aggiungere una convinzione: temendo che l’avanzata degli Alleati verso Napoli e lo sbarco a Salerno potessero costringerli a una sanguinosa guerriglia urbana, i tedeschi avevano deciso di lasciare la città.
A confermare questa ipotesi c’era il continuo passaggio di convogli colmi di prigionieri di guerra fortemente scortati, in transito lungo la via che da Agnano conduce a Miano. Quella convinzione imponeva però una scelta di carattere etico, prima ancora che militare e politico. Se il rapido e inatteso spostamento dei prigionieri di guerra dal Sud verso il Nord del Paese era l’inizio della ritirata – dovettero chiedersi gli antifascisti – qual era il loro compito? Starsene a guardare, o intervenire per aiutare i prigionieri e ostacolare a ogni costo il piano tedesco? I Baiano non ebbero dubbi. Contattati nella notte e convinti ad agire i compagni più fidati, occorreva raccogliere subito armi e munizioni, in modo che la mattina del 9 settembre il gruppo di fuoco strappasse prigionieri ai tedeschi.
Anche Molinari, che conosceva di certo i Baiano e sapeva ciò che stava accadendo, era ormai giunto a un bivio. Le colpe della Corona e il contegno vergognoso dei nazisti interrogavano anche la sua coscienza. Che avrebbe dovuto fare? Fingere d’ignorare ciò che accadeva, o denunciare i Baiano? Fino a che punto un giuramento di fedeltà poteva vincolarlo, se a tradire erano le Istituzioni? Mentre tutto sembrava crollare, qual era il suo dovere? Trincerarsi dietro una legalità che rinnegava la giustizia, o schierarsi con chi si preparava a lottare per restituire alla legalità il valore della giustizia e recuperare la libertà negata?Non possiamo esser certi che, in vista dell’attacco, i Baiano abbiano cercato un’intesa con Molinari, ma è significativo che nelle sue dichiarazioni Francesco Baiano, capo della banda, abbia inserito il sottufficiale tra quelli che operarono con lui dall’inizio e, quindi, sin dal 9 settembre del 1943. A conti fatti, è molto probabile che i Baiano abbiano immediatamente coinvolto Molinari nel loro piano. Che senso avrebbe avuto tacere? I rischiosi contatti avuti per il reclutamento di combattenti, la necessità di preparare un piano e procurasi delle armi, che costrinse i Baiano a una serie di spostamenti notturni, non sarebbero certamente sfuggiti al comandante della Stazione dei Carabinieri. La sua complicità o, per dir meglio, il suo aiuto attivo e il suo coraggio erano necessari più dell’aria. Per non fallire in maniera disastrosa, agli antifascisti occorreva avere le spalle coperte e il nome del sottufficiale era un lasciapassare in grado di aprire porte altrimenti chiuse.
D’altro, canto, non è credibile che, senza poter contare su un intervento del Molinari, la notte dell’8 settembre 1943 Francesco Baiano e Vincenzo Onotri, componente della banda appena nata, si fossero presentati alla caserma di cavalleria di Bagnoli con un carretto e un cavallo, per tornarne poi, senza incontrare ostacoli, con casse di bombe a mano, una mitragliatrice, 40 moschetti e il relativo munizionamento.
Poche ore di un riposo agitato e dopo la notte delle decisioni difficili la mattina del 9 settembre illuminava il giorno del coraggio. I nazisti, ignari, risalivano tranquilli la strada che conduceva a Nord. Nei pressi della masseria Onotri, in una zona coperta da una selva estesa e intricata, chiamata «Sperduto», sul bordo dalla strada, che si allungava pochi metri più in basso, dove la via si prestava a un agguato, assieme ai tre Baiano, appostati, armi in pugno, c’erano Vincenzo, Gennaro, Giovanni, Salvatore, Pietro e  Luigi Onotri, Vittorio Pasini, Nicola Monti, Antonio Cannavacciuolo, Pompeo Pisani e un militare rimasto sconosciuto. L’attacco iniziò al passaggio di una colonna di prigionieri inglesi. Mentre i tedeschi, sorpresi, badavano anzitutto a uscire vivi dalla trappola, Francesco Baiano, con ampi gesti, invitava gli inglesi a correre dalla sua parte, mentre i fratelli Onotri, calavano delle scale facilitando la fuga di venti prigionieri, che fuggirono nella Selva.
Se la convinzione che i tedeschi si ritiravano non fosse risultata infondata, probabilmente tutto sarebbe finito lì. Presto invece fu chiaro che, pur essendo nato dall’impossibilità di continuare la lotta, l’armistizio era stato considerato un tradimento. Fermati da Hitler, i nazisti tornavano indietro per eseguire un ordine feroce: occupare la città e ridurla a un terrificante esempio di vendetta tedesca. Per la banda Baiano – civili che avevano attaccato soldati del Reich – si trattava ormai di gestire una situazione disperata. Organizzata in tutta fretta, nella convinzione di dover agire per poche ore, la banda non sembrava più in grado di proseguire la lotta: non poteva disperdersi, per non tradire gli inglesi liberati e non aveva alcuna speranza di salvarsi, consegnandosi a un nemico inferocito.
Superato l’iniziale sconforto, i Baiano scelsero l’unica via che offriva deboli, ma ragionevoli speranze: nascondersi nella Selva che dai Campi Flegrei al bosco di Capodimonte univa in un unico bosco le Conche dei Pisani, di Soccavo e di Pianura, la Selva di Chiaiano, il Vallone di San Rocco e lo Scudillo; attendere in quel rifugio gli Alleati ormai vicini e, se necessario, lottare, resistere a ogni costo e sperare che il corso degli eventi mutasse la situazione. Come fu subito chiaro, però, quella decisione poteva condurre alla salvezza solo se qualcuno tra i componenti della banda fosse riuscito a svolgere bene compiti difficili e pericolosi. Dopo aver combattuto con grande coraggio durante l’agguato, solo Giovanna Baiano, l’unica donna del gruppo, poteva avventurarsi fuori dalla Selva. lo fece e, nonostante i rischi, dimostrò spirito organizzativo, sangue freddo e una straordinaria capacità di muoversi per le vie sconvolte della città senza dare destare sospetti, evitando di condurre nemici all’accampamento; riuscì così a procurare munizioni, trovare acqua, cibo ormai quasi irreperibile e alimentare per oltre venti giorni ex prigionieri e compagni.
Da sola, tuttavia, Giovanna Baiano, non avrebbe potuto sciogliere i mille nodi che chiudevano in trappola la banda. Era impensabile, infatti, che il nemico rinunciasse a stanare i compagni. Raccogliere perciò ogni possibile notizia sui movimenti del nemico era la maggiore garanzia di sopravvivenza per i combattenti. Decisivo in questo ruolo risultò il lavoro svolto dal vice Brigadiere Molinari. A partire dal 10 settembre, infatti, mentre i nazisti si impadronivano della città, soffocando nel sangue l’eroica resistenza della popolazione e dei militari che non si erano dati alla fuga, i contatti di Giovanna con il sottufficiale dei Carabinieri furono preziosi e frequenti. Rischiando ripetutamente la vita, Molinari, che, per la sua funzione era in contatto con tedeschi e nazisti e riusciva a conoscerne piani e movimenti, informava con cura la donna, agevolando così il compito dei combattenti. Naturalmente non riuscì a evitare tutti gli attacchi e i rastrellamenti, ma seppe sempre a indicare soluzioni o vie di fuga.
Nei giorni successivi all’agguato del 9 settembre, i nazifascisti individuarono talora i nascondigli della banda, che, tuttavia, grazie al Molinari, riuscì a sbaraccare prima di essere attaccata e anche quando non poté evitare il contatto, gli assalitori non giunsero mai del tutto inattesi; sotto il micidiale fuoco delle mitragliatrici, gli uomini della banda e gli ex prigionieri – per lo più fanti indiani – riuscirono a sganciarsi, dopo aver opposto una breve ma coraggiosa ed efficace resistenza.
Le giornate nella selva erano lunghe e snervanti. Inizialmente Molinari, molto preoccupato, informò Giovanna che la selva rischiava di diventare insicura. Dopo l’agguato, infatti, un proclama tedesco affisso per le vie della città invitava a consegnare i prigionieri Alleati o a denunciare chi si ostinava ad aiutarli; in cambio si promettevano viveri e un premio di 2000 lire. Probabilmente molti napoletani sapevano cos’era accaduto il 9 settembre, qualcuno conosceva chi aveva organizzato l’attacco e dov’era nascosto; benché un secondo proclama avesse aumentato le somme promesse, denunce non ce n’erano state. I nazisti passarono allora dai premi alle minacce e un nuovo proclama promise stavolta la pena di morte immediata per i renitenti. Le minacce, però, non ottennero risultati migliori delle lusinghe.
Col passare dei giorni, l’iniziale prudenza cominciò a cedere il passo a scelte pericolose. Per accontentare i militari dell’esercito inglese, che chiedevano insistentemente di capire in quale parte del Paese i loro compagni combattevano con i tedeschi, correndo il rischio di essere fucilato, Francesco Baiano si recò ripetutamente presso compagni antifascisti che ascoltavano clandestinamente Radio Londra, per riferire poi ciò che riusciva a sapere. Per evitare nuove imprudenze, si decise infine che Giovanna comprasse carte geografiche e topografiche della zona in si combatteva, in modo che gli inglesi potessero intuire l’esito degli scontri che il vice Brigadiere si incaricava di comunicare alla Baiano.
La difficile situazione in cui il gruppo versava tornò improvvisamente chiara, quando nuovi attacchi dimostrarono che i tedeschi non avevano smesso di dare la caccia alla banda. Spesso il gruppo sfuggì al nemico perché, esponendosi a rischi gravissimi, Molinari fornì a Giovanna Baiano le informazioni raccolte, alleggerendo la pressione sugli uomini rifugiati nella selva e consentendo che essi si spostassero rapidamente e sfuggissero alla caccia dei nazifascisti. A rendere più grave la situazione e ad esporre la Baiano al rischio crescente di essere catturata, si aggiunse la necessità di acquistare medicinali per curare Mohd Sadia, sergente dell’esercito inglese, nato a Rawalpindi, nel Punjab. Anche in questo caso la donna riuscì nel suo intento, ma non c’erano dubbi: più il tempo passava e più i rischi per lei aumentavano.
Presto i continui fallimenti dei loro piani, spinsero i nazisti a interrogarsi: com’era possibile che gli uomini nascosti nella selva riuscissero ad alimentarsi e – ciò che destava più sospetti – a prevenire sistematicamente le loro mosse? Una breve riflessione e d’un tratto si resero conto di ciò che accadeva: la banda non solo aveva complici all’esterno della selva, ma si trattava di gente in grado di fornire informazioni tempestive e sicure. Nonostante la prudenza con cui si era mosso fino a quel momento, a quel punto i sospetti si addensarono sul Molinari, che fu sottoposto a interrogatori stringenti. Lo scopo dei tedeschi era duplice: capire se l’informatore della banda fosse il vice Brigadiere e accertare se, a sua volta, il sottufficiale poteva fornire informazioni sui ricercati e sull’ubicazione dei loro rifugi. Consapevole del grave rischio che correva, Molinari, al quale non mancavano certamente coraggio ed esperienza, non si lasciò intimidire, superò abilmente la prova e riconquistò la fiducia dei nazisti. Profittando della situazione favorevole, di lì a poco, con la complicità dei militari che erano al suo comando, nascose nella caserma due dei prigionieri alleati, liberati dai Baiano.
Qualora ce ne fosse stato bisogno, l’incidente coi tedeschi dimostrò al vice Brigadiere che la rischiosa situazione nella quale si muoveva assieme a Giovanna Baiano, non poteva durare a lungo. Non a caso, il 21 settembre, toccò alla donna, fermata da tre fascisti sul Ponte di Soccavo, mentre portava rifornimenti ai compagni. Benché duramente picchiata e minacciata di fucilazione, decisa a morire piuttosto che parlare, Giovanna si mostrò eccezionalmente lucida e coraggiosa, negò di essere diretta alla Selva e sostenne ostinatamente che i viveri servivano alla famiglia. Il sangue freddo con cui affrontò il brutale interrogatorio, convinse i fascisti, che la lasciarono libera. Salvò così se stessa e i compagni, ma perse la creatura che portava in grembo.
I due interrogatori erano stati il momento peggiore di quei giorni terribili, ma proprio quando sembrava superato, il 23 settembre, dopo uno scontro mortale, uno dei militari nascosti nella Selva, sorpreso da un tedesco mentre cercava di raggiungere i compagni da cui si era allontanato, fu ucciso sul Ponte di Soccavo.
Mentre nella selva gli scontri continuavano, in città, dove focolai di rivolta si erano accesi a Fuorigrotta e nei pressi della Stazione Centrale, l’avanzata degli Alleati ormai vicini accresceva la tensione. Sottovalutando i rischi di una reazione dei napoletani, i tedeschi li esasperavano con furti, violenze e con la vandalica distruzione delle fabbriche, del porto e di ogni centro di vitale importanza per la metropoli. In questo clima di speranze e timori, una notizia giunta nella Selva grazie al Molinari e alla Baiano, riaccese l’entusiasmo ormai spento: al Vomero, in una masseria situata in località Pagliarone, un gruppo di giovani si preparava a cogliere di sorpresa i tedeschi. L’ora della riscossa stava ormai per suonare, Il gruppo non esitò: la ricerca di un’intesa era naturalmente rischiosa, ma occorreva uscire dall’isolamento, unirsi a quei giovani e prendere parte all’attacco.
Pietro Baiano, incaricato di stabilire contatti, incontrò Vincenzo e Alessando Sacco, Giuseppe Giannini Fortunato ed Enzo Stimolo e concordò un’azione simultanea. La sera del 26 alcuni capi dei gruppi vomeresi riuscirono a prelevare una mitragliatrice nascosta a Soccavo. Di lì a poche ore. la mattina del 27 settembre, Vincenzo Sacco diede ordine di attaccare. La scintilla dell’insurrezione si diffuse così in tutta la città. In appoggio ai combattenti del Vomero, il gruppo Baiano attaccò più volte gli automezzi tedeschi in transito tra il Ponte di Soccavo e via Pigna, finché la sera del 29, riuscendo a congiungersi con chi operava intorno al Campo Sportivo del Vomero, contribuì all’accerchiamento di un forte reparto di tedeschi asserragliati nel campo.
Convinti dell’arrivo di rinforzi, i nazisti assediati si difendevano accanitamente, ma uomini e mezzi giunti in aiuto furono bloccati dagli insorti nella zona della Pigna e mentre si lottava con violenza, il gruppo Baiano, col quale combatteva un capitano inglese, attaccava alle spalle i tedeschi e, pur registrando il ferimento di due combattenti, li costringeva a ripiegare. La sera del 30, cessata ogni resistenza, i nazisti si ritirarono; alle 20,30, alzando bandiera bianca in segno di resa, l’ultimo carro armato attraversava il ponte di Soccavo. Il 2 ottobre infine, al n. 38 di via Tarsia, i Baiano consegnarono i prigionieri alleati liberati al comando inglese.
Subito dopo l’insurrezione, le tracce dei due principali protagonisti dell’impresa si erano già perse. Come capitò a tante altre donne che, armi in pugno, avevano partecipato alla resistenza e alla liberazione della città, Giovanna Baiano, che aveva combattuto con bombe a mano e un vecchio moschetto modello 91, non ottenne la qualifica di partigiana ma quella di «Patriota». Anche il vice Brigadiere Angelo Mariano Molinari si perse nell’ombra. Per ben venticinque giorni aveva rischiato la vita, salvando quella dei combattenti. Senza il suo coraggio e le sue preziose informazioni, gli uomini della banda Baiano non sarebbero usciti vivi dalla Selva di Soccavo.
Col passare del tempo, una lettura minimalista dell’insurrezione, fece delle Quattro Giornate una inesistente rivolta di «scugnizzi», tipica dello stereotipo della «città di plebe». Mentre molte decorazioni andavano a piccoli eroi inconsapevoli, il Molinari, che oggi potrebbe essere uno di quei modelli positivi di cui la nostra gioventù ha un disperato bisogno, non chiese riconoscimenti e sparì dalla storia.
Lo studioso ha provato a consegnare la sua memoria alle pagine di un libro. Questo è il suo compito. Può sperare, però, questo sì, che un gesto di gratitudine per un eroe ritrovato, giunga in ritardo e può aggiungere alla sua speranza una certezza: sarebbe certamente meritato.

Giuseppe Aragno, Notiziario Storico della’Arma dei Carabinieri. La Quattro Giornate Di Napoli, Anno VIII – Speciale 80° Anniversario

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