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Posts Tagged ‘Legge Pica’


Come possono stare assieme i principi costituzionali e una legge che da decenni li calpesta? 
Possono. 
Dalla legge Pica allo stato d’assedio del 1898 e via così, con tutte le leggi scritte per la malavita organizzata e poi applicate sistematicamente ai dissidenti politici, prima lo Statuto Albertino, poi la Costituzione della Repubblica sono stati sempre calpestati. Naturalmente nessuno lo dice e molti dei nostri sedicenti politici probabilmente nemmeno lo sanno. In questo Paese sventurato Pisacane fu solo un bandito, Mazzini è morto sotto falso nome, Garibaldi è stato prima arrestato e poi sorvegliato fino alla morte. Per non parlare dei fratelli Rosselli, uccisi da killer ingaggiati dallo Stato fascista, assolto poi da un tribunale dello Stato diventato repubblicano. 
Non c’è dubbio, per il fascistello Donzelli, come per Letta e Serracchiani i “padri della patria” di Giorgia Meloni oggi sarebbero solo terroristi.

Free Skipper Italia, 2 febbraio 2023

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Non è un caso che la strage di Pietrarsa si verifichi poco meno di un anno dopo i fatti dell’Aspromonte e il ferimento di Garibaldi, che durante la sua breve «dittatura» aveva consentito la nascita delle prime associazioni operaie; un peso in quegli eventi tragici, del resto, ce l’ha anche l’estensione della Legge Casati al neonato Regno d’Italia; nonostante i suoi forti limiti, infatti, essa costituisce un primo e sia pur debole tentativo di alfabetizzazione di massa.
Pietrarsa di fatto è la raggelante risposta a un modello di sviluppo che, per quanto moderato, mostra un minimo di attenzione alla domanda di riscatto sociale dei lavoratori; una domanda che esprime due evidenti bisogni: quello di organizzazione e quello di formazione umana, civile e professionale.
Pietrarsa, quindi, non è un «episodio» accidentale, ma segna il momento di una svolta politica consapevole della classe dirigente minoritaria, miope e reazionaria, che detiene il potere economico e politico e vede nella crescita del movimento operaio un rischio mortale per i suoi privilegi di classe. Sintetizzando in una breve immagine ciò che questa svolta significa per il Paese – e per il Mezzogiorno in particolare – si potrebbe dire che dopo molte incertezze, la soluzione della «questione sociale» è affidata «alla canna del fucile», come dimostreranno di lì a poco la «legge Pica» e la feroce lotta al «brigantaggio». Per anni la risposta a tutti i problemi nati con l’unità, sarà la violenza di Stato, che, tuttavia, non riuscirà a impedire che le lotte dei ceti subalterni e la crescita della coscienza di classe, aprano la via a un tempo nuovo, al quale, con intuizione felice, la testata di un giornale operaio di lì a qualche anno darà un nome destinato a indicare un momento della nostra storia: «Il secolo dei lavoratori».
Com’era prevedibile, dopo Pietrarsa, quando le condizioni lo consentirono, la risposta operaia divenne sempre più efficace e acquistò progressivamente una crescente continuità. Nel 1864, per esempio, la «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», che contava 4.400 iscritti riuscì a far approvare una deliberazione che, togliendo il diritto di parola ai soci onorari, metteva di fatto a tacere i padroni. Era il primo segnale di uno scontro decisivo – la separazione delle organizzazioni operaie da quelle padronali – e vale la pena di ricordare che la struttura della «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», divisa in sezioni, – bisciuttieri, chiodatori, corallari, ebanisti, ferrari di letti, fonditori, indoratori, intagliatori, lavoranti sarti, marmorari, meccanici, muratori, ottonai, pianofortisti, stiratori, tappezzieri, tessitori e tintori di lana e tornieri – rappresentava una parte significativa della vita economica della città.
Di lì a poco, nel 1865, un gruppo socialista anarchico, formatosi attorno a Bakunin, tenta e in parte ottiene, grazie all’abilità di Carlo Gambuzzi, stretto collaboratore del rivoluzionario russo, di stabilire un rapporto organico tra politica e mondo del lavoro. Nasce così la «Sezione Napoletana dell’Internazionale», che diventa un punto di riferimento per artigiani, contadini proletarizzati e operai, costretti dalle scelte economiche dei «governi unitari» a pagare un insostenibile e crescente aumento delle materie prime. Sciolta una prima volta dopo uno sciopero dei conciapelle, che costò la galera a numerosi operai, l’organizzazione fu definitivamente messa al bando nell’agosto del 1871, dopo licenziamenti indiscriminati ai Cantieri di Castellammare.
A un esame superficiale, si direbbe che nei primi anni di vita del neonato Regno d’Italia le classi subalterne furono costrette a subire una ininterrotta successione di sconfitte; ciò è vero solo in parte, perché nel conto va messa anche la formazione dei primi, audaci organizzatori sindacali, figure significative che ritroveremo negli anni successivi come protagonisti di una crescita inarrestabile. Per fare dei nomi, evitando un elenco necessariamente incompleto, sono gli anni in cui si formano e crescono i tipografi Ferdinando Colagrande e Luigi Felicò, il calzolaio Giacomo Rondinella, il ceramista Antonio Giustiniani, il guantaio Gaetano Balsamo e l’ottonaio Tommaso Schettino. Gli stessi anni in cui una «Federazione Operaia Napoletana» riesce a raccogliere più di mille iscritti tra muratori, indoratori, pittori, ottonai, torcitori di cotone e fonditori di bronzo e per la prima volta nelle associazioni operaie si sente parlare di solidarietà, di emancipazione e cooperazione.
Certo, scioperi e proteste sono ancora spontanei, ma la crescita è evidente. Non a caso, nel 1879 nelle società dei lavoratori prende a circolare un «Patto di solidarietà tra gli operai di Napoli» che chiarisce un concetto fondamentale: «gli scioperi non possono mutare la condizione della classe operaia, ma possono lenire i dolori, quando sono praticati con solidarietà perfetta e senza intromissione di membri di altre classi sociali».
E’ il primo, forte segnale di una scelta di classe ormai matura, dietro la quale si intravede un ragionamento compiutamente sindacale.
Da Pietrarsa in poi c’è stata una grande semina. Presto la borghesia scoprirà che è giunto il tempo del raccolto.

Il Blog dei Pazzi, 7 agosto 2020

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Quando l’epidemia “cinese” si è presentata in Lombardia, gli opinionisti esperti di manipolazione delle coscienze hanno posto subito l’accento sul carattere inedito della tremenda esperienza che stiamo affrontando e la popolazione si è lasciata convincere facilmente: dalla nostre parti una condizione così terribile e pericolosa, una minaccia così subdola e devastante non s’era mai vista.
L’insistenza feroce dei media è facile da spiegare: una minaccia più è sconosciuta e più ci fa paura. Avremmo dovuto rispondere con uguale prontezza che le cose non stanno così, che i più vecchi tra noi hanno ascoltato genitori e nonni raccontare le agghiaccianti tragedie vissute per anni e una vita fatta di paura, violenza, fame e disperazione. Avremmo dovuto rispondere subito, perché anche chi non ha ascoltato il racconto in famiglia ha trovato nei libri di storia i milioni di morti della “febbre spagnola”, l’infinita sequela di civili barbaramente uccisi dai bombardamenti e il terrore che ha attanagliato l’Italia negli anni interminabili del secondo conflitto mondiale. In questo senso, il primo insegnamento che ci viene da questa epidemia è chiaro: la memoria dei popoli è corta e la Storia, per quanto maestra si sforzi di essere, solo raramente trova allievi capaci di coglierne il messaggio più profondo, che di fatto riguarda il presente.
Gli opinionisti, che la storia l’hanno imparata e riescono a stravolgerla, sanno bene che nei momenti terribili della vicenda umana la paura non solo può fare più danni della sventura da cui nasce, ma può essere molto utile alle classi dirigenti. Trasformare in rischio mortale i meridionali, insorti per reazione alle contraddizioni del processo di unificazione, consentì alle classi dirigenti del neonato Regno d’Italia di varare la legge Pica, sospendere di fatto le garanzie dello Statuto albertino e non suscitare particolari problemi di coscienza nell’Italia “liberale”.
Si sente dire – e non senza fondati motivi – che quando la pandemia sarà passata, nulla tornerà com’era: l’Europa, che sta dimostrando fino in fondo la sua ferocia, sembra infatti avviata alla bancarotta e qui da noi, più il virus colpisce, più le responsabilità delle classi dirigenti neoliberiste nello sfascio della Sanità diventano evidenti. Tuttavia, i comportamenti della popolazione saranno certamente influenzati dall’andamento e dall’esito della tragedia che attraversiamo. Se la situazione si cristallizzerà e l’epidemia sarà domata in tempi più o meno “cinesi”, è probabile che la gente, più che ricordare le responsabilità del passato, si mostrerà riconoscente verso chi l’ha tirata fuori dalla sciagura e finirà col pagare costi “greci” alla terribile crisi economica che è dietro l’angolo.
In questo caso, molto probabilmente le destre, soprattutto quelle leghiste, chiederanno per il Nord la luna nel pozzo e il problema dell’autonomia indifferenziata si proporrà con forza rabbiosa.
Ben altro scenario nascerebbe da una malaugurata breccia aperta dal virus verso un Sud totalmente indifeso e trasformato ben presto in un inferno. Quanti sventurati si aggiungerebbero ai morti già registrati? Quale situazione di ordine pubblico ne nascerebbe? Non è da augurarselo, ma in questo caso le responsabilità di chi ci ha condotti a questa tragedia avrebbero un peso immane sullo sviluppo degli eventi; non per caso – e certo non per imporre “regole di distanziamento”, da più parti, in particolare al Sud, si sente invocare l’intervento dell’esercito.
Mentre gli eventi scorrono quotidianamente sotto i nostri occhi e l’Italia è in quarantena, una forza piccola come “Potere al Popolo” ha bisogno di analisi attente e di un lavoro di propaganda attivo ed efficace. Certo, il rischio che si sgretoli esiste e va tenuto presente, ma occorre aver chiaro che esistono anche notevoli opportunità di crescita e di radicamento. Dietro la retorica del personale che si batte eroicamente negli ospedali, per esempio, ci sono lavoratori stremati, che rischiano ogni giorno la vita e non hanno gli strumenti necessari per difendersi e difendere gli sventurati che il virus colpisce. I segnali della loro amarezza, della stanchezza e dei timori che li attanagliano, emergono sempre più spesso con forza crescente, così come scioperi spontanei hanno portato alla luce le ansie degli operai, costretti a entrare in fabbrica senza alcuna tutela e i timori di tutti i lavoratori abbandonati a mille incredibili rischi. Pap può e deve essere al loro fianco, organizzando una propaganda capillare, che vada al cuore dei problemi, utilizzando tutti gli strumenti che il mondo dei social mette a disposizione per zittire la retorica sugli “eroi” e dare voce a chi soffre e rischia. Se lo farà, comunque evolva questa terribile esperienza, Potere al Popolo non solo eviterà i rischi determinati dalla quarantena, ma coglierà tutte le possibili opportunità e si troverà accanto quella parte di popolazione che sta pagando sulla propria pelle la ferocia del capitalismo.

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A Genova, nel luglio 2001, Francesco Puglisi non uccise e non torturò. La Cassazione, però, che per Bolzaneto e la Diaz ha evitato la galera ai poliziotti, gli ha dato 14 anni e chi s’è visto s’è visto. Un avviso chiaro: se ti prudono le mani, fa la trafila legale e passa all’incasso. Una «guerra per la pace», un’idea di democrazia da esportazione, tutta ammazzamenti umanitari e bombe intelligenti, che se centrano ospedali e scuole è un caso di fuoco amico o nemico sbagliato, poi la carriera in polizia. Ai modi bruschi lì si bada poco.
Genova, per dirla con Labriola, evoca gli «spettri del ’98» e chi sa di storia ricorda processi politici messi su ad arte contro gli operai e Giovanni Bovio che dava voce alle loro ragioni e ammoniva le classi dirigenti: «Noi chiediamo di rimuovere gli ostacoli che fanno il lavoro impossibile e voi ci rispondete con aspre sentenze e i figli armati contro i padri. Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!». I tribunali li «fecero delinquenti» e Umberto I, che aveva premiato le fucilate sul popolo inerme, pagò con la vita. La violenza del potere genera violenza e il tribunale nazista che volle morti i cospiratori della «Rosa Bianca», quello repubblicano che da noi assolse i responsabili morali del delitto Rosselli, benché legalmente costituiti, non hanno legittimità storica. Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: il tiranno arma la mano dell’uomo libero.
Sul terreno della giustizia siamo fermi a Crispi che, accusato di violare la legge proclamando lo stato d’assedio, antepose la sicurezza alla legalità: «una legge eterna impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto». Un principio eversivo, che fa dell’eccezione la regola, ignora la giustizia sociale, unica garante della sicurezza dello Stato e di fatto ispira ancora i nostri legislatori in materia di ordine pubblico e conflitto sociale. Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che conosce la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte del dissidente politico è peggiorata.
Cultura della crisi, normativa emergenziale, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono da allora i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che non muta nemmeno nel gennaio 1890, col codice Zanardelli. Per il giurista liberale, la sanzione rispetta i diritti dell’uomo. Di qui la libertà condizionale, l’abolizione della pena capitale e la discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo. Zanardelli, però, affida la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale a un “Testo unico” di Polizia, cui offre forti basi teoriche e strumenti efficaci, ma pericolosi: vilipendio delle istituzioni, incitamento all’odio di classe e apologia di reato, crimini imputati a chi esalta «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga del reato offre agili strumenti repressivi e lo Stato, deciso a non dare risposte positive al malessere delle classi subalterne, può criminalizzare le lotte operaie, grazie a norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento è pratica sovversiva. Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante apparati normativi che consentono di tarare gli strumenti repressivi sulle necessità dei ceti dirigenti.
Il fascismo al potere sterilizza molte norme introdotte da Zanardelli, finché nel 1930 si dà un «suo» codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. La repubblica, infatti, sacrifica alla continuità dello Stato l’iniziale intento di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, molto più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno, in attesa di un nuovo codice che non verrà. E’ grazie a quell’attesa delusa, a quella grave scelta, che oggi, in un clima di nuovo autoritarismo, si può tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che segnano trasversalmente le età della nostra storia contemporanea: la criminalizzazione del dissenso, l’indeterminatezza di norme volutamente discrezionali e l’impunità assicurata alla «genetica devianza» di alcuni corpi dello Stato. Una voce libera che domandi perché il codice penale italiano che non prevede il reato di tortura, consente al torturatore di perseguire il torturato che si ribella.
Si fa un gran parlare di democrazia, ma si finge d’ignorare il nodo storico che la soffoca, un nodo che non si è sciolto col mutare della vicenda storica e ha impedito cambiamenti radicali persino nel passaggio dalla monarchia alla repubblica: liberale, fascista o repubblicana, in tema di ordine pubblico, l’Italia ha un’identità che non muta col mutare dei tempi. Da un lato, infatti, l’uso intimidatorio e per certi versi terroristico dell’emergenza legittima la ferocia delle misure repressive presso l’opinione pubblica; dall’altro l’indeterminatezza della norma lascia mano libera alle repressione. E’ una sorta di blando “Cile dormiente”, che si desta appena una contingenza negativa fa sì che, per il capitale, mediazione e regole democratiche siano merci costose e prive di mercato. Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ‘98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Cucchi, Uva, Aldrovandi e i tanti sventurati che nessuno paga.
Non è questione di momenti storici. Se nel 1894, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà – la repubblica cancella la verità col segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la polizia, col fascismo il confino non riguarda i magistrati e il “Daspo” che Maroni e la Cancellieri, avrebbero voluto estendere al dissenso di piazza, è sanzione amministrativa. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali e dissenso emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che la repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di eccezionale da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, mentre una protesta di piazza costa a un giovane dodici anni di galera e un poliziotto che uccide per strada un ragazzo inerme se la cava con nulla, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista?

Uscito su “Report on Line” il 19 giugno 2013 e su “Liberazione.it” il 30 giugno 2013

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funerali_gallinari_fotogramma_8_jpg[2]Qualcuno dovrebbe spiegare al giudice Caselli che per i magistrati dell’Italia appena unita – soprattutto negli interessi padronali – Giuseppe Mazzini fu allo stesso tempo criminale e «cattivo maestro» e morì esule in patria sotto falso nome. I giudici della nuova Italia, infatti, d’accordo col nuovo e liberale potere politico, non annullarono l’antica condanna emessa in contumacia per la sua lotta armata contro il potere savoiardo. Il liberalissimo Silvio Spaventa, responsabile dell’«ordine costituito» nel Mezzogiorno conquistato, pensò addirittura di eseguire la condanna e non se ne fece nulla solo perché Mazzini era stato sorpreso a Napoli, ancora piena di camicie rosse, e vestiva la divisa di colonnello garibaldino. Solo per questa fortuita circostanza il repubblicano “padre della patria” si sottrasse al trionfo dell’ordine sabaudo che, di lì a poco, con la legge Pica, sperimentò sui “briganti” del Sud, leggi speciali, esecuzioni sommarie, deportazioni e carcere a vita.
Qualcuno dovrebbe spiegare a Caselli che esiste un invalicabile confine etico tra verità processuale e ricostruzione storica. Non c’è studioso serio che oggi darebbe credito ai giudici del “terrorista” Mazzini, tuttavia, ogni volta che Caselli sputa sentenze al di fuori dei tribunali non solo diventa il tragicomico storico di se stesso, ma dimostra che un giudice c’è, uno almeno, pronto a condannare di nuovo l’antico rivoluzionario. Qualcuno dovrebbe spiegare a Caselli che quando le sentenze penali sono state emesse ed eseguite e la morte giunge a dire la parola fine sulla vicenda umana del condannato, non è tempo di tribunali: è giunto – ed è sempre in ritardo – il momento della riflessione storica. Il giudice che ignora questo elementare dovere e torna a sputare sentenze commette un’intollerabile violenza, intralcia il lavoro dello storico e copre di ombre atroci il suo ruolo di magistrato.
La storia, Caselli dovrebbe saperlo, è piena di giudici smentiti e di condannati riabilitati. Sulle Idi di marzo del ’44 avanti Cristo il dibattito è aperto; non l’ha chiuso – e certo non lo chiuderà – l’aula di un tribunale. Sono duemila e più anni che storici, pensatori e intelligenze critiche si interrogano sul significato di quell’evento: Bruto e Cassio congiurarono contro il politico illuminato o colpirono l’uomo di potere, il garante di equilibri che avrebbero ucciso la repubblica? Qual è la vera violenza politica, quella d’un potere sordo ai bisogni di un popolo o quella di chi in nome della giustizia sociale sorge in armi contro la presunta legalità? Le Idi di Marzo, la sorte di Mazzini, Gaetano Bresci che uccise Umberto I, dopo la medaglia assegnata a Bava Beccaris per i cannoni sparati a mitraglia sulla popolazione inerme, Fernando De Rosa che nel 1929 tentò di uccidere il principe Umberto in nome dell’antifascismo e morì poi in Spagna combattendo per la libertà, non sono più imputati affidati ai giudici. Ai giudici, piuttosto, quei fatti e quegli uomini ricordano che spesso chi punta il dito sui cattivi maestri o è in malafede o ha bisogno di tornare a scuola.   
La storia non è figlia di verità assolute, non si scrive nelle aule dei tribunali e non è mestiere da giudici. I magistrati, quando sono onesti, si limitano ad affermare le ragioni dell’«ordine costituito», che, piaccia o no, per quanto quasi sempre estranee a quelle della giustizia sociale, sono la bibbia dei magistrati. In quanto alla patologia che dalle colonne del “Fatto Quotidiano” Caselli addebita a “molti italiani”, colpevoli a suo modo di vedere di una “perdita della memoria che sconfina nell’amnesia”, il giudice sbaglia a ritenersi immune. Da buon italiano, infatti, anch’egli soffre di pericolosi vuoti di memoria. Non fosse così, la pianterebbe di tirare in ballo a casaccio i valori della resistenza partigiana e proverebbe a spiegarci chi li ha devastati da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, da Piazza della Loggia alla stazione di Bologna. Proverebbe a spiegarci come scioglie nella sua coscienza di magistrato il nodo della contraddizione tra il “servitore dello Stato” e quel segreto sistematicamente posto sulla strada delle sue indagini. Il «segreto di Stato», naturalmente. Intriso di sangue e venato di fascismo.

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