Non è un caso che la strage di Pietrarsa si verifichi poco meno di un anno dopo i fatti dell’Aspromonte e il ferimento di Garibaldi, che durante la sua breve «dittatura» aveva consentito la nascita delle prime associazioni operaie; un peso in quegli eventi tragici, del resto, ce l’ha anche l’estensione della Legge Casati al neonato Regno d’Italia; nonostante i suoi forti limiti, infatti, essa costituisce un primo e sia pur debole tentativo di alfabetizzazione di massa.
Pietrarsa di fatto è la raggelante risposta a un modello di sviluppo che, per quanto moderato, mostra un minimo di attenzione alla domanda di riscatto sociale dei lavoratori; una domanda che esprime due evidenti bisogni: quello di organizzazione e quello di formazione umana, civile e professionale.
Pietrarsa, quindi, non è un «episodio» accidentale, ma segna il momento di una svolta politica consapevole della classe dirigente minoritaria, miope e reazionaria, che detiene il potere economico e politico e vede nella crescita del movimento operaio un rischio mortale per i suoi privilegi di classe. Sintetizzando in una breve immagine ciò che questa svolta significa per il Paese – e per il Mezzogiorno in particolare – si potrebbe dire che dopo molte incertezze, la soluzione della «questione sociale» è affidata «alla canna del fucile», come dimostreranno di lì a poco la «legge Pica» e la feroce lotta al «brigantaggio». Per anni la risposta a tutti i problemi nati con l’unità, sarà la violenza di Stato, che, tuttavia, non riuscirà a impedire che le lotte dei ceti subalterni e la crescita della coscienza di classe, aprano la via a un tempo nuovo, al quale, con intuizione felice, la testata di un giornale operaio di lì a qualche anno darà un nome destinato a indicare un momento della nostra storia: «Il secolo dei lavoratori».
Com’era prevedibile, dopo Pietrarsa, quando le condizioni lo consentirono, la risposta operaia divenne sempre più efficace e acquistò progressivamente una crescente continuità. Nel 1864, per esempio, la «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», che contava 4.400 iscritti riuscì a far approvare una deliberazione che, togliendo il diritto di parola ai soci onorari, metteva di fatto a tacere i padroni. Era il primo segnale di uno scontro decisivo – la separazione delle organizzazioni operaie da quelle padronali – e vale la pena di ricordare che la struttura della «Società generale operaia napoletana delle associazioni di mutuo soccorso», divisa in sezioni, – bisciuttieri, chiodatori, corallari, ebanisti, ferrari di letti, fonditori, indoratori, intagliatori, lavoranti sarti, marmorari, meccanici, muratori, ottonai, pianofortisti, stiratori, tappezzieri, tessitori e tintori di lana e tornieri – rappresentava una parte significativa della vita economica della città.
Di lì a poco, nel 1865, un gruppo socialista anarchico, formatosi attorno a Bakunin, tenta e in parte ottiene, grazie all’abilità di Carlo Gambuzzi, stretto collaboratore del rivoluzionario russo, di stabilire un rapporto organico tra politica e mondo del lavoro. Nasce così la «Sezione Napoletana dell’Internazionale», che diventa un punto di riferimento per artigiani, contadini proletarizzati e operai, costretti dalle scelte economiche dei «governi unitari» a pagare un insostenibile e crescente aumento delle materie prime. Sciolta una prima volta dopo uno sciopero dei conciapelle, che costò la galera a numerosi operai, l’organizzazione fu definitivamente messa al bando nell’agosto del 1871, dopo licenziamenti indiscriminati ai Cantieri di Castellammare.
A un esame superficiale, si direbbe che nei primi anni di vita del neonato Regno d’Italia le classi subalterne furono costrette a subire una ininterrotta successione di sconfitte; ciò è vero solo in parte, perché nel conto va messa anche la formazione dei primi, audaci organizzatori sindacali, figure significative che ritroveremo negli anni successivi come protagonisti di una crescita inarrestabile. Per fare dei nomi, evitando un elenco necessariamente incompleto, sono gli anni in cui si formano e crescono i tipografi Ferdinando Colagrande e Luigi Felicò, il calzolaio Giacomo Rondinella, il ceramista Antonio Giustiniani, il guantaio Gaetano Balsamo e l’ottonaio Tommaso Schettino. Gli stessi anni in cui una «Federazione Operaia Napoletana» riesce a raccogliere più di mille iscritti tra muratori, indoratori, pittori, ottonai, torcitori di cotone e fonditori di bronzo e per la prima volta nelle associazioni operaie si sente parlare di solidarietà, di emancipazione e cooperazione.
Certo, scioperi e proteste sono ancora spontanei, ma la crescita è evidente. Non a caso, nel 1879 nelle società dei lavoratori prende a circolare un «Patto di solidarietà tra gli operai di Napoli» che chiarisce un concetto fondamentale: «gli scioperi non possono mutare la condizione della classe operaia, ma possono lenire i dolori, quando sono praticati con solidarietà perfetta e senza intromissione di membri di altre classi sociali».
E’ il primo, forte segnale di una scelta di classe ormai matura, dietro la quale si intravede un ragionamento compiutamente sindacale.
Da Pietrarsa in poi c’è stata una grande semina. Presto la borghesia scoprirà che è giunto il tempo del raccolto.
Il Blog dei Pazzi, 7 agosto 2020