Ci sono notti in cui è impossibile dormire. Notti in cui al corpo stanco che chiede riposo si oppone un’attività incontrollata della mente: un andirivieni frenetico d’elettricità che percorre nervi e volute celebrali, si materializza sotto le palpebre, negli occhi riluttanti che illuminano il buio profondo dell’inconscio.
Il percorso d’un pensiero diventa così infinito e non serve mandarlo via. Torna di nuovo. Semplicemente, automaticamente, ossessivamente. Se la luce dell’alba non lo respingesse altrove, quel pensiero ostinato, non ci darebbe più scampo.
Per Anna, la notte destinata a non finire giunse d’un tratto e non trovò più l’alba. Fu legittima difesa. Attrice di talento, costretta a rinunciare al teatro e a chiudersi nella gabbia della “normalità”, la donna evase, scegliendosi un nuovo ruolo per l’ultima recita consentita.
Fu una recita a luci spente – e perciò sembrò a molti pazzia – ma Anna mostrò incredibile maestria: ridusse l’intreccio complesso dei dialoghi a una successione logica di monologhi e indossò costumi semplici: per ogni abito bianco, ce n’era uno nero e sul viso le maschere si succedevano in modo che l’una raccontasse il contrario dell’altra. Ogni verità solidissima partoriva il suo opposto e si disponeva alla lotta, ma sul palcoscenico terribilmente buio c’era sempre e solo lei. Bianca e nera, vera e falsa, felice o dolente, raccolta su stessa in un crescendo di amore e odio, di dolci confessioni e furiose auto sconfessioni.
Nelle rare pause in cui se ne stava affannata, muta, quasi invisibile al centro del palcoscenico buio, con un’accorta regia, Anna trasformava in coro le mille verità sconfessate e nel buio si intravedeva il suo viso o, per dir meglio, la maschera che portava sul volto irriconoscibile. Un attimo, poi tornava a recitare e aveva toni sempre più concitati: si disperava per l’immensa fatica, ma recitava con mille voci contemporaneamente i suoi infiniti personaggi e non accettava di metterne a tacere qualcuno…
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