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Armando Donadio, fu Vincenzo, Napoli 24.4.1912, Castelvolturno 3-2-1995.

Come accade a tanti combattenti, un inspiegabile silenzio circonda la figura del partigiano Armando Donadio, l’ennesimo «senzastoria» in un elenco di combattenti di cui nessuno si è mai seriamente occupato. Sottotenente di artiglieria a cavallo, richiamato alle armi e assegnato al contingente italiano in Libia, il Donadio proviene da una famiglia antifascista, ma approda al PCI solo con la tragedia della guerra, vissuta in prima linea ai confini meridionali dell’effimero Impero fascista, nell’Africa di «faccetta nera», delle deportazioni, dei gas, della pretesa «romanità» e delle prime leggi razziali. Una scelta maturata mentre la retorica fascista affoga nel canale di Sicilia assieme ai soldati in fuga da una guerra persa, aggrappati a natanti di fortuna, fatti a pezzi dai caccia Alleati e preceduti dalla propaganda angloamericana che, assieme alle bombe, lancia su Napoli migliaia di volantini che invitano alla rivolta le donne della città martoriata: «Donne di Napoli! Dove sono i vostri uomini che andarono in Africa? Da quanto tempo non avete loro notizie? Vi svelano che la metà delle navi vengono affondate? Madri di Napoli! […] Le vostre sorelle di Palermo, Genova, Brindisi, agiscono già. Spose di Napoli! Seguite il loro esempio. Fate la guardia alle navi […]. Nascondete l’equipaggiamento dei vostri amati soldati […]. Il mare significa la morte».
Dopo l’armistizio, quando l’esercito italiano si sbanda, Donadio è all’Aquila, dov’è di stanza  il 18° Reggimento di artiglieria, che abbandona solo il 13 settembre 1943, diretto a Napoli in abiti borghesi, dopo che il comandante ha messo in libertà il reparto. Durante il viaggio interminabile e pericoloso, l’ufficiale, attraversa con mezzi di fortuna paesi distrutti dai bombardamenti terroristici degli angloamericani e dagli ex alleati tedeschi, inferociti per l’armistizio. Di fronte al triste spettacolo del Paese in rovina, egli coglie così fino in fondo il significato profondo delle scelte compiute anni prima da Aristide, il fratello maggiore, anarchico e volontario nelle brigate internazionali durante la guerra di Spagna, che ha saputo cogliere subito, sin dall’inizio, con lucida intuizione, la minaccia mortale rappresentata dall’alleanza tra fascismo e nazismo e non ha atteso la guerra per prendere le armi.
Più si avvicina a Napoli, cauto e necessariamente lento, più il giovane sente crescere il disprezzo per i responsabili della tragedia e nonostante le diverse convinzioni politiche che lo dividono dal fratello, si rende conto che Aristide non solo ha visto giusto, ma ha capito che la salvezza ormai non è nella fuga: per tornare alla pace e sperare in un mondo più giusto, occorre combattere e sconfiggere i nazifascisti. Con queste convinzioni prosegue il suo viaggio verso Napoli, dove giunge il 28 settembre 1943. Al quadrivio di Secondigliano, alla periferia Nord della città, la situazione non consente dubbi. Ovunque ci sono soldati tedeschi armati fino ai denti. Per evitare le pattuglie naziste, e raggiungere il Vomero gli occorrono ore. Quando finalmente trova modo di entrare in contatto con Ciro Vasaturo, comandante di un pugno di combattenti, gli fa sapere che è pronto a battersi, poi si nasconde e aspetta che qualcuno venga ad aiutarlo. Attorno al suo nascondiglio i tedeschi hanno scatenato una feroce caccia all’uomo: «vecchi spinti a calci verso i camion in attesa dei ragazzi aggrappati alle madri in un ultimo tentativo di difesa». Raggiunto finalmente da Vasaturo Donadio si unisce ai combattenti di via Pigna, ma ha vissuto momenti così terribili, che dopo decenni, Vasaturo ricordando, pronuncerà ancora parole piene di orrore e disprezzo: «Vivessi mille anni, non potrò dimenticare la figura macilenta di un uomo ammalato che si alzò dal letto con in braccio […] suo figlio […]: quei mostri gli strapparono il piccolo dalle braccia, scaraventandolo di peso verso un angolo della casa, mentre tempestando il padre di colpi coi calci dei fucili lo portarono sanguinante fino al camion in attesa».
Per due giorni, il giovane ufficiale combatte accanitamente, con forte determinazione e senza un momento di esitazione. Le sue lontane discussioni politiche con il fratello Aristide, l’amara esperienza della guerra e una passione civile sempre più consapevole, che gli è cresciuta dentro durante l’interminabile viaggio tra l’Aquila e Napoli, tutto ci parla di una figura du partigiano inconciliabile con la rivolta degli scugnizzi e la città di plebe e tutto sembra condurre a momenti decisivi. L’ufficiale non può saperlo, ma quei due giorni di lotta che danno senso a una vita, diventeranno il momento in cui la sua storia personale prima gira pagina, poi, di fatto, si ferma. Ancora pochi mesi, infatti, ancora alcune scelte lucide e coraggiose, poi nulla tornerà più com’era.
Quando i tedeschi si arrendono e lasciano la città, per Donadio la liberazione di Napoli non è più il traguardo finale della sua lotta. L’ha visto con i suoi occhi e non ignorarlo: a nord di Napoli c’è l’inferno e non può più stare a guardare. Si presenta perciò in Piazza Carità, al Palazzo delle Assicurazioni, dove, grazie al Partito d’Azione e a Pasquale Schiano, sono appena sorti i «Gruppi Combattenti Italia, formazione Pavone». Esperto di esplosivi, è accolto  a braccia aperte e si arruola nei «nuclei sabotatori». Ha il tempo di definire obiettivi, registrare contatti, organizzarsi e il 19 ottobre è pronto ad attraversare le linee. Chi lo vede partire riferisce che mostra un «elevato spirito d’amor patrio» ed è animato da grande entusiasmo.
L’autunno del 1943 trova Armando Donadio impegnato in una lotta strenua, animata dal desiderio insopprimibile di libertà e di giustizia sociale. Le sue Quattro Giornate continuano per tre mesi che lo vedo agire con coraggio e determinazione. Lascia dietro di sé tracce di sabotaggi e rischi mortali, fino ai primi di gennaio del 1944, allorché, catturato dai nazisti e condotto ad Auschwitz, va incontro a un autentico calvario: gli interrogatori, il rifiuto di indicare basi e denunciare compagni, la tortura, il plotone di esecuzione e tre finte fucilazioni. E’ come morire tre volte e tornare tre volte a un orrore senza fine.
L’ufficiale difende il suo equilibrio psichico come e finché può: reagisce, tenta la fuga, è scoperto, ferito a una gamba e mai seriamente curato. Quando giunge, il crollo è inevitabile e terribile. A fine dicembre del 1944, quando è inviato finalmente a Spittal Drau, in Carinzia, allo Stammlager XVIII A/Z, dove un Lager-Lazarett, un piccolo ospedale da campo, accoglie  internati e prigionieri di guerra, è ormai tardi. Come scrive anni dopo Baldo Pirisi, un ufficiale medico internato che lo prende in cura, la sue condizioni di salute sono gravi. Presenta, infatti, «un processo osteomielitico all’arto inferiore destro, grave stato di deperimento organico con oligoemia, quadro neuropsichico contrassegnato da depressione con periodi di apatia e di vera anestesia affettiva alternati a crisi di allarme psicoastenico. La sintomatologia si era costituita nei mesi precedenti a seguito delle sevizie fisiche e morali cui il ten. Donadio era stato sottoposto nei vari campi di deportazione e disciplina (fra cui quello di Reichenau); essa persiste immutata fino al rimpatrio del ten. Donadio, avvenuto il 12 maggio 1945, unitamente ad altri internati ammalati, al centro ospedaliero di Udine».
Invalido a una gamba per il resto della vita e segnato nella psiche in maniera irreversibile, come accade a molti militari, è congedato, perché è stato partigiano. L’esercito italiano, di solito largo di decorazioni, gli riconoscerà il diritto a una magra pensione di guerra e aspetterà fino al 1987 per conferirgli «a titolo onorifico» quel grado di colonnello che gli ha rifiutato cinque anni prima. Inizia così il limbo del dopoguerra, con un licenziamento che costringe Donadio a cercare un lavoro. Da quel momento gli anni se ne vanno uno dietro l’altro, segnati dal disagio mentale, dalla salute sempre più vacillante, dalla precarietà e dalla ricerca di una tranquillità economica che non giungerà mai. La «nuova Italia», per la quale il valoroso partigiano si è battuto oltre il lite delle sue possibilità, non è quella che merita un vincitore e dal momento che fascisti e padroni sono tutti dov’erano, terminata la guerra il partigiano si sarà chiesto mille volte chi l’abbia vinta per davvero.
Lavoro ne troverà: un’esperienza in un’azienda zootecnica, poi la contabilità in una società della grande distribuzione. Donadio però è un comunista impegnato in un’attività sindacale come delegato nazionale e non se ne dimentica mai; nonostante le difficili condizioni di salute fisica e mentale, si dedica al suo compito con coraggio e passione e questo gli costa un nuovo licenziamento. Stavolta non si tratta dell’esercito, ma di un rappresaglia antisindacale. Tira avanti tra stenti e amarezza con dignità ma con una crescente fatica di vivere, fino al 1993, quando il costo dell’affitto diventa insostenibile e va a vivere a Castelvolturno, una periferia tra le più degradate del Casertano.
Quando infine si spegne, il 3 febbraio 1995, l’Italia democratica, per la quale ha rischiato più volte la vita, lo ha completamente dimenticato e sulla via del suo ultimo viaggio non ci sono né compagni, né bandiere. Il PCI si è già sciolto, le associazioni dei combattenti, l’ANPI e gli uomini delle Istituzioni sono assenti e l’on. Luciano Violante, comunista finché  è esistito il partito e Presidente della Camera dei Deputati, in perfetta coerenza con la tradizione della svolta di Salerno, dei Patti del Laterano inseriti nella Costituzione e dell’amnistia ai fascisti, si prepara a proporre una nuova lettura del fascismo repubblichino, esortando gli italiani a «capire i ragazzi di Salò ». Il 16 giugno 2010, quindi anni dopo la sua morte, la Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Napoli rifiuta la richiesta di intitolare una strada della città ad Armando Donadio, perché «ritiene che a tutti i partigiani il Comune di Napoli abbia già tributato onori collettivi con i numerosi monumenti ad essi dedicati ed ubicati nelle diverse aree cittadine».

Per i riferimenti archivistici e bibliografici, Giuseppe Aragno, Le Quattro Giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2017.

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