In alcune riflessioni inedite di inizio secolo, inserite poi in un libro uscito per i suoi ottant’anni, con il lucido rigore che Paolo Favilli conosce meglio di me, Gaetano Arfè segnalò un problema ancora aperto: la necessità di «sottoporre a giudizio storico l’operato dei gruppi dirigenti dei maggiori partiti politici» – ai quali non è arbitrario aggiungere quelli sindacali, CGIL in testa – «precipitati tutti in uno stato confusionale, che ha spianato la via all’irrompere di un’ondata torbida», che ci ha travolti. Benché consapevole della necessità di rivedere un sistema degenerato, Arfè colse subito gli elementi potenzialmente eversivi presenti in una richiesta di cambiamento, «percorsa da fermenti ideologici di reazionarismo antico e nuovo che trovavano il loro denominatore comune in una volontà di riscossa di una cosiddetta […] società civile, i cui umori reazionari percorrono tutta la storia dell’Italia unita e che emergono, prepotenti, in ogni fase di crisi».
Negli ultimi anni di vita, Arfè capì che la fase storica aperta dall’insurrezione del 25 aprile si era ormai chiusa e sentì che una grave frattura divideva le generazioni, ma non puntò il dito sui giovani. Partigiano e grande storico del socialismo, sapeva che negli anni della sua giovinezza il dialogo tra generazioni era stato fertile perché, nonostante la diversità di fedi religiose e politiche, uomini e donne della Resistenza avevano avuto caro il valore delle esperienze collettive comuni e difeso l’antifascismo come naturale luogo d’incontro di valori conquistati lottando tutti assieme a costo di indicibili sofferenze: il lavoro posto a fondamento della Repubblica, le libertà civili e politiche, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle vertenze tra i popoli, il ruolo assegnato ai partiti nella vita dello Stato democratico, la pari dignità delle razza e di sesso, l’autonomia della magistratura. Anche quando il dialogo diventò difficile, i giovani non si sentirono traditi e nei momenti più duri e laceranti della vita del Paese si attestarono attorno alla Costituzione. Valgano per tutti il caso della rivolta contro il governo Tambroni e il suo rovesciamento o, nonostante le contraddizioni, la tenuta di fronte alla tragedia del terrorismo.
Per Arfè la Costituente era stata «il prolungamento e il coronamento politico della lotta armata». Figli di quella lotta erano il PCI, «il più forte e il più maturo partito comunista dell’Occidente europeo; […] un partito socialista che aveva […] conservato prestigio e credito presso le classi popolari e che, anche quando assunse responsabilità di governo […] tentò di portare in quella sede, e in qualche misura vi riuscì, la volontà di rinnovamento viva e diffusa in larghi strati del paese, al punto che forze occulte, ma ben identificabili, giunsero a tessere trame contro gli ordinamenti democratici»; da quella lotta provenivano «formazioni minori di democrazia liberale e socialista, di indiscussa lealtà nei confronti delle istituzioni e aperte a1 dialogo culturale e politico», e il partito d’azione che ebbe «una influenza […] diffusa […] su tutta la cultura democratica»; per non dire di quello cattolico, appesantito da «ipoteche clericali, conservatrici e finanche reazionarie, ma caratterizzato anche da presenze antifasciste, democratiche, laiche che in più circostanze avevano concorso a impedirne 1’involuzione e a determinarne le scelte politiche».
I germi della crisi hanno radici troppo lontane, per parlarne in un breve intervento, ma Arfè non sbaglia: il crollo del comunismo e la crisi Tangentopoli aprono un’offensiva ideologica programmata nei tempi lunghi, con respiro largo e dovizia di mezzi. L’attacco, partito non a caso dalla storia, ha poi investito l’intero campo delle scienze umane – filosofia, diritto, economia – e ha avuto effetti devastanti, soprattutto perché i gruppi dirigenti dei partiti o «sono stati travolti senza neanche accorgersi che battaglia c’era stata» o, peggio ancora, si sono illusi di uscirne indenni assecondando gli assalitori. Alle destre si devono il «triangolo della morte», l’antifascismo come maschera del comunismo, l’8 settembre come morte della patria, ma da sinistra è partita la formula dei ragazzi di Salò, che, in nome della legittima revisione della conoscenza storica, ha conseguito il fine politico e non scientifico dell’equiparazione tra fascismo e antifascismo; è stato Sergio Luzzatto, storico di sinistra, a negare agli antifascisti – tutti a suo dire compromessi col gulag – la statura morale per parlare ai giovani. Si è aperta così – e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti – la via per l’attacco alla Costituzione e ai partiti che dalla Resistenza avevano ricavata la loro legittimazione storica.
Quasi vent’anni fa, quando la sinistra sposa le tesi della destra liberista su un ordinamento dello Stato ricavato dal modello dell’azienda, Gaetano Arfè descrive con amarezza una società in cui «l’interesse del padrone coincide con quello generale, i suoi collaboratori possono essere licenziati senza ‘giusta causa’, le leggi sono piegate a suo vantaggio, il lavoro è precario, flessibile, servile, il mercato prende il posto della divina provvidenza e risana per virtù propria le piaghe che produce». Conseguenza diretta di scelte scellerate, la disgregazione sociale «avanza con la degradazione della figura del lavoratore, depauperato di ogni diritto, ridotto all’accattonaggio di un posto di lavoro, messo nella condizione di non poter programmare il proprio futuro, mentre si fomenta il conflitto tra generazioni e si ignora che il peggior crimine che possa esser consumato contro i nostri figli e contro i nostri nipoti è quello di mettere in pericolo la salvaguardia dei beni indispensabili alla sopravvivenza, l’aria e l’acqua, di creare le condizioni per una rivolta catastrofica dei miliardi di affamati contro la minoranza che affoga nella opulenza e nello spreco».
In quanto al sindacato, meno precocemente, con minore efficacia ma con uguale amarezza, dopo il penoso accordo del 28 giugno 2011, in un articolo intitolato Susanna Camusso e il nuovo patto di Palazzo Vidoni, dalle colonne del Manifesto, scrissi sconsolato: «la civiltà fa luogo nuovamente alla barbarie. Sacconi non vale Bottai, ma la lezione l’ha appresa bene: l’interesse nazionale coincide con quello dell’impresa. […] Oggi come ieri, […] si trova modo di vietare lo sciopero, si affida agli imprenditori il compito di certificare le deleghe e si riduce il contratto nazionale a una pantomima messa in scena per oscurare il peso decisivo di una contrattazione aziendale che potrà legittimamente stravolgerne il contenuto a seconda degli interessi delle aziende. Si apre così l’era nuova del sindacato nero. Peggio del peggiore corporativismo». Un’era in cui, come rappresentanza unica dei lavoratori, la Triplice sindacale, «cinghia di trasmissione delle scelte del capitale» non «si è semplicemente piegata alla dottrina Marchionne. Ha accettato senza riserve l’intimo significato del pensiero di Alfredo Rocco che, qui da noi, fu alla base dello Stato totalitario: la proprietà privata e il capitale hanno una funzione insostituibile nella vita sociale e il sindacato esiste solo per disarmare e addormentare i lavoratori».
Per noi è forse possibile imporsi di non ricordare. Per i giovani no. Questa sinistra e questo sindacato conosce Viola Carofalo, precaria della ricerca ed esponente di una generazione a cui sindacati e partiti hanno precarizzato la vita. Perché dovrebbe sentirsi rappresentata da Landini e dalla CGIL, che va in piazza con Calenda e soci?
Ai giovani, traditi da chi doveva tutelarli e ridotti in servitù, che preferiscono andare in piazza da soli, «per dignità e non per odio, come i loro nonni che salirono sulle montagne», Arfè non muove rimproveri. Capisce che «limitarsi a sopravvivere […] non è più possibile: la scelta è tra vivere, e lottare, o sparire» e spera che siano «i pacifici e vittoriosi combattenti di una lotta che ha per posta il rispetto di ogni essere umano e la libertà di tutti». Essi, scrive, «capi della nuova Resistenza, scopriranno la grande figura di Ferruccio Parri e il sacrificio dei fratelli Cervi, così come i loro vecchi scoprirono quella di Giuseppe Mazzini e i martiri di Belfiore». E si schiera: «i vivi e i morti dell’antica Resistenza stanno con loro».

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